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Se c’è una cosa che ho imparato facendo questo mestiere, è di non fare mai previsioni. Ho girato cose che sapevano di sfiga lontano un miglio e che poi invece si sono rivelate un successo. E viceversa. Ho capito molto rapidamente che il pubblico è una variabile incontrollata e che tutto ciò che succede al di là dello schermo è imprevedibile, del tutto privo di regole. Se non fosse per questo, mi accingerei a scrivere il Requiem della fiction italiana che, a naso, sembrerebbe crollata, deceduta improvvisamente negli ascolti e soprattutto nella qualità. Dopo le saghe mafiose, il
terrorismo, il falso patriottismo, dopo aver proposto in tutte le salse le scuole e gli adolescenti, dopo aver decretato il declino dello sceneggiato in costume, dopo i papi, i santi, i preti, dopo gli instant movie non riusciti, fino ad arrivare alla satira della fiction stessa, cosa altro ci potrà essere? Sto parlando di fiction perché essa è, in qualche modo, la madre di questa figura ibrida, fuori moda, senza contorni e soprattutto senza futuro che è l’attore non protagonista. Ma è anche e soprattutto il luogo del non protagonista e, paradossalmente, di un non protagonismo generalizzato, anche se inconsapevole. Mi spiego. Anche se la mia vita è il teatro e la mia passione il cinema, in questi ultimi quindici anni o poco più, con un po’ di fortuna, ho partecipato in prima persona e mi sono affezionato a molte fiction. Quindi non solo non voglio fare previsioni, anzi, se devo essere sincero spero che la fiction “risorga” insieme alla televisione che, a sua volta, sembra spegnersi come il focolare di cui lei stessa aveva preso il posto. Lo dico per interesse personale: la fiction è la fonte di reddito principale per qualsiasi attore italiano. Se non ci fosse lei, la figura del non protagonista non esisterebbe, al pari della possibilità di diventare almeno un attore un po’ conosciuto, un po’ famoso e quotato, tanto da poter mantenere una famiglia e fare quelle cose che piacciano tanto ai borghesi come me, anche quando vogliono fare gli intellettuali o gli artisti. In qualsiasi modo vada a finire, devo dire che, guardandolo da questo punto di vista ho scoperto un mondo di cui non avrei mai creduto di far parte, nel bene e nel male. Ho vissuto cose travolgenti, altre tristi, patetiche. Ma, soprattutto, come spesso mi accade nella vita, mi sono fatto delle idee. Di solito mi piace andare controcorrente, ma non mi piace essere inadeguato alle circostanze. Non amo seguire le mode, ma non mi attrae neanche l’idea di essere démodé. Questa volta non l’ho scelto, ma dal momento che tutti vogliono essere protagonisti, essere dichiaratamente non protagonisti finisce per diventare un privilegio. O forse no. Certo che essere protagonisti non è per niente facile, anche se ormai è diventato addirittura un modo di dire, uno slogan, un copyright adatto a qualsiasi prodotto, una meta obbligata. Purtroppo però questo genere di diffusissima aspirazione crea pochissimi ricchi e tantissimi poveri, nello spirito e nel portafoglio. Se aspiri a essere protagonista e non ci riesci puoi solo scomparire. È per questo che, molto banalmente, esistono così pochi protagonisti e così tanti servi di scena, anche nella vita.
Comunque prima di ogni cosa dobbiamo tracciare una linea di confine. E questo confine lo tracciano proprio...
I protagonisti Beppe Fiorello mi disse che avrei dovuto scrivere un libro sui protagonisti perché li conosco troppo bene. L’ha detto lui. I protagonisti, così, al plurale, esistono quasi esclusivamente in Italia. È uno strano fenomeno per cui certi attori, volenti o nolenti, fanno solo e sempre i protagonisti, anche a costo di finire fuori dal mercato. Perché? Me lo sono chiesto molte volte e mi sono dato qualche risposta cercando di non essere troppo polemico, visto che io non ne faccio parte. Perché, dicevo. Per esempio perché certi funzionari di rete, alcuni produttori e anche qualche regista sono troppo indaffarati per occuparsi dei film che fanno e quindi non leggono, non studiano, non vanno al cinema, né a teatro e guardano solo gli ascolti della TV. Così quando c’è una riunione su una sceneggiatura che, con tutta probabilità, loro non hanno letto e si comincia a parlare del cast, fanno sempre i soliti tre nomi, quelli che si ricordano, magari perché li hanno conosciuti a un ricevimento, oppure perché gliene hanno parlato i figli o la moglie o semplicemente perché fanno audience. Il fatto che quel protagonista abbia o no una reale corrispondenza col personaggio, se sia un cane o totalmente fuori parte, viene del tutto ignorato, tanto poi se la vede il regista. Ma questo è solo il motivo peggiore. Di fatto la maggior parte di loro sono bravi, belli, fotogenici e fanno ascolti, appunto. Altri sono miracolati del momento, raccomandati, arrampicatori sociali e roba del genere. In questi dieci anni di fiction ho lavorato con Diego Abatantuono, Claudio Amendola, Massimo Boldi, Alessio Boni, Raoul Bova, Lando Buzzanca, Renato Carpentieri, Simona Cavallari, Simone Corrente, Carolina Crescentini, Geppi Cucciari, Ennio Fantastichini, Sabrina Ferilli, Beppe Fiorello, Nino Frassica, Giancarlo Giannini, Claudio Gioè, Valeria Golino, Corrado Guzzanti, Terence Hill, Luciana Littizzetto, Valentina Lodovini, Neri Marcorè, Giulia Michelini, Giampaolo Morelli, Andrea Osvart, Claudia Pandolfi, Daniele Pecci, Michele Placido, Violante Placido, Micaela Ramazzotti, Andrea Renzi, Michele Riondino, Lunetta Savino, Riccardo Scamarcio, Pietro Sermonti, Emilio Solfrizzi, Giorgio Tirabassi e Giuseppe Zeno. Avrei dovuto citare anche Fausto Maria Sciarappa, ma nessuno sa chi sia. In realtà, non è questo il motivo per il quale non l’ho citato, tanto avrete letto più di un nome di cui ormai non si sa più niente, visto che tanti protagonisti sono scomparsi nel breve tempo in cui
qualcuno di voi è passato da Peppa Pig a Breaking Bad. Faustino è stato “miracolato” per i soli tre anni in cui ha affiancato Luciana Littizzetto inFuoriclasse, quale suo compagno e poi marito. Quindi non si può considerare un vero protagonista, ma in compenso si può dire che è un vero attore e un amico meraviglioso. Per pura vanità aggiungo che al cinema ho lavorato anche con Anna Bonaiuto, Giuseppe Battiston, Luigi Burruano, David Coco, Maria Grazia Cucinotta, Fabio De Luigi, Pierfrancesco Favino, Elio Germano, Luigi Lo Cascio, Tony Sperandeo, Margherita Buy, Valerio Mastandrea, Donatella Finocchiaro, Toni Servillo, Gianmarco Tognazzi, Giulio Scarpati, Vincenzo Salemme, Checco Zalone, Leo Gullotta (in un cortometraggio), Patrick Bauchau e Jessica Forde, mentre in teatro ho diretto Anna Maria Guarnieri, Roberto Citran, Dino Abbrescia, Edy Angelillo, ma anche Claudio Gioè, la Finocchiaro e David Coco, che ho citato sopra, Sergio Friscia e molti altri straordinari attori meno conosciuti tra cui Antonio Alveario, Elena Arvigo, Celeste Brancato, Angelo Campolo, Giampiero Cicciò, Antonello Cossia, Maurizio Marchetti, Francesca Mazza, Giovanni Moschella, Totò Onnis, Maurizio Puglisi, Michele Sinisi, Margherita Smedile, Emmanuele Aita, Celeste Gugliandolo, Maria Sole Mansutti, Francesco Natoli e molti altri. Certamente ne avrò dimenticato qualcuno... Ma per il cinema e il teatro la cosa è molto diversa. I protagonisti nel senso che intendo io sono proprio quelli delle fiction. Intanto vorrei precisare che ho redatto questo lungo elenco perché sono un provinciale. Quelli come me, che non fanno gli attori, sono quelli che con gli attori si fanno fare le foto, soprattutto con i protagonisti! «Scusate se a voi non vi conosciamo...», ci disse una signora siciliana in un albergo di Belgrado mentre si faceva fotografare con Lando Buzzanca. E poi l’ho fatto per sfizio, come dicevo prima, anche perché l’unica vanità che mi concedo, senza sentirmi in colpa, è proprio quella di conoscere tante persone e di farmi voler bene. Sono figlio unico! Volete sapere anche i registi? Spero di sì, perché sto per elencarli tutti: Giovanni Albanese, Christian Bisceglia, Ciarrapico, Torre e Vendruscolo, Silvio Soldini, Stefano Incerti, Daniele Luchetti, Diego Olivares, Sabina Guzzanti, Massimo Venier, Edoardo Leo, Giuseppe Piccioni, Eugenio Cappuccio, Alex Infascelli, Franco Battiato, Maurizio Fiume, Paolo Sorrentino, Marco Tullio Giordana, Lucio Gaudino, Egidio Eronico, Pappi Corsicato, Alessandro Di Robilant, Francesco Crescimone, Enzo Decaro, Donald Ranvaud, Francesco Calogero, Margarethe von Trotta, Alberto Ferrari, Renato De Maria, Graziano Diana, Giulio Base, Riccardo Donna, Tiziana Aristarco, Marco Pontecorvo, Lucio Pellegrini, Beniamino Catena, Davide Marengo, Fernando Muraca,
Stefano Reali, Pier Belloni, Gianluca Maria Tavarelli, Luciano Manuzzi, Marco Risi, Giorgio Capitani, Stefano Sollima, Alfredo Peyretti, Michele Soavi, Carlo Vanzina, Gianluigi Calderone, Pasquale Pozzessere, Ricky Tognazzi, Pierfrancesco Diliberto (detto Pif), Gennaro Nunziante, Enrico Lando e Woody Allen, anche se solo per una posa. Se vogliamo calcolare anche la radio, ci sono Toni Servillo, Valter Malosti e ancora Francesco Pannofino. Ho fatto anche due pose con Nanni Moretti, ma mi ha tagliato, anzi peggio, mi ha sostituito, ha rigirato la scena con un altro attore. Ci sono rimasto malissimo. Torniamo alla fiction. Quindi quelli che ho elencato all’inizio fanno parte dei protagonisti ufficiali, chiamiamoli così, della fiction italiana e sono, come dicevo prima, per lo più bravi attori anche di cinema e di teatro, mentre altri lo sono soltanto temporaneamente. Comunque tutti o quasi tutti sono stressati da interviste, autografi, fotografie, contratti, inviti in TV e nelle radio, servizi di «Vanity Fair» e molte altre cose “orribili” di questo genere... Per fortuna, però, gli regalano un sacco di cose. Un protagonista non va a comprare una giacca in via Condotti (visto che se lo potrebbe anche permettere) perché gliela regala Armani in persona; non compra l’iPhone perché glielo manda la Apple, appena uscito. Insomma sono un po’ come i politici, guadagnano molti soldi ma ne spendono pochi. Ora, io non lo dico perché sono invidioso – anzi sì, sono invidioso perché adoro ricevere regali e vado pazzo per i gadget –, ma siccome non sono un protagonista ed evidentemente non lo sarò mai, non me ne faccio un cruccio. Però mi diverto quando sono con loro perché penso di sapergli leggere dentro, perché tutto ciò che hanno attorno, che gli piaccia o no, molto spesso li rende indifesi. Anche se il lavoro dell’attore è tutt’altra cosa rispetto a quello che ho appena detto, loro sono – a differenza di noi – totalmente immersi nel loroessere attori. Ma non è colpa loro, è colpa della fiction. È colpa dell’improbabilità dei ruoli che gli vengono assegnati. Di solito, il protagonista di una serie poliziesca o di qualsiasi altro genere, fa tutto, sa tutto, scopre tutto, fa innamorare tutti e via dicendo. I copioni sono talmente sbilanciati sul ruolo del protagonista da snaturare il racconto, addossandogli sulle spalle, tra l’altro, uno spropositato carico di responsabilità, sia sul piano artistico che su quello commerciale. Loro lo sanno, lo capiscono, ma non hanno la forza di rinunciarvi, forse perché significherebbe ridistribuire un po’ tutto, dalla presenza in scena alla paga! Sì, se fossi al posto loro me ne starei zitto anch’io. O forse no, almeno perché mi sto rendendo conto che in questo modo la fiction sta morendo: non ha respiro, non porta novità nei linguaggi e non si adegua a un mondo diversissimo da quello in cui è nata, anche se solo poco meno di vent’anni fa.
Ora, se chiedete un’impressione sui protagonisti a certi miei colleghi, a qualche attore secondario, a una comparsa o alle maestranze, sarà più facile che ne sentiate parlare male. Ma il giudizio è impietoso e spesso affrettato, condito da un velo di comprensibile invidia. Io ho avuto modo di osservarli molto da vicino. Se sono tacciati di snobismo o di non essere sempre carini con tutti è perché sono stanchi! Quelli più anziani in particolare. Non sto scherzando e, sinceramente, lo trovo del tutto normale, considerando anche un certo disincanto. Mettetevi al loro posto. Magari avete fatto centocinquanta film, siete sul set, state cercando di riposarvi o vi state concentrando sulla parte o siete avviliti perché il copione è una merda. Vi si avvicina un attore emergente (o anche non emergente) che vi dice che è orgoglioso di lavorare con voi e, nel poco tempo che ha a disposizione, cerca di essere simpatico e possibilmente di farvi capire che lui è un grande attore, ma che ancora nessuno l’ha scoperto veramente. Insomma, sotto sotto – e neanche troppo sotto –, vuole farvi capire che i prescelti per questo onorevole compito siete proprio voi! Che palle! È per questo che io li difendo. Forse io non sarei freddo e distaccato come li accusano di essere, ma avrei di che risentirmi. E poi perché sui set vedi certuni che fanno a gara per diventare amici dei protagonisti? Cosa se ne faranno mai dell’amicizia di un protagonista? Tanto più che un protagonista non può essere amico di nessuno. Avete capito bene: non può! Nel senso che non ne ha il tempo. L’amicizia è una cosa che si coltiva, si lascia fiorire, si trova in un pomeriggio d’inverno o di sole, in una passeggiata in macchina senza dire niente, con la musica al massimo.... Non voglio dire che io non mi senta amico di qualcuno di questi protagonisti, anzi ce ne sono alcuni con cui ho un rapporto veramente affettuoso e pieno di quell’ironia che un’amicizia richiede, ma non ci vediamo mai, e quando succede ridiamo sempre e soltanto dei ricordi dei set vissuti insieme. Perché è solo lì che si riesce a creare un vero contatto con loro. Poi, nella quotidianità, sono travolti dall’enorme mole di lavoro (anche abbastanza inutile) che richiede la celebrità o, più semplicemente, ritornano alla loro vita normale fatta di famiglia (o famiglie) e vecchi amici con cui anche loro si buttano su un divano e rimangono a non fare niente. Chissà perché la gente crede che una persona famosa abbia qualcosa in più. Molti anni fa chiesero a Roberto Benigni se i suoi primi successi avessero cambiato il rapporto con i vecchi amici del suo paese. «Io non sono cambiato», disse lui, «... ma qualcuno di loro sì...». Perché certe volte sono gli altri che attribuiscono alla celebrità un’importanza che non ha e, di conseguenza, la caricano di responsabilità obbligandola a essere sempre disponibile e gentile, se non vuole correre il rischio di essere accusata di superbia!
Tenete conto che quando ci sono sul set attori tipo Raoul Bova, Riccardo Scamarcio o Diego Abatantuono, la produzione organizza delle vere e proprie sessioni di autografi e fotografie. Quando nel quartiere si diffonde la notizia che ci sono attori così famosi, bisogna transennare l’area intorno alle roulotte e creare un percorso sicuro per farli arrivare sul set senza che siano letteralmente aggrediti dai fan. Con Raoul, con cui ho girato gomito a gomito per quasi due mesi, ogni tanto siamo andati a cena o a pranzo al ristorante, da soli. Se non c’era un tavolo appartato era un problema. Se camminavamo a piedi, lui doveva mettersi il cappuccio e gli occhiali da sole. Una volta un ragazzo gli chiese di parlare al telefono con la madre che era in ospedale! E lui lo fece, naturalmente, con grandissimo imbarazzo. Io rimasi basito, mi sembrò una cosa folle, incomprensibile. Cosa passa per la testa di un figlio che fa un gesto del genere? Ho letto in un libro (scritto da un severissimo critico del mondo moderno) che l’interesse spasmodico del pubblico per la vita privata degli artisti famosi deriva dalla vanità del pubblico stesso. Quasi che lo scopo di quest’attenzione sia il desiderio di confrontarsi con le celebrità tirandole giù di forza da quel piedistallo su cui proprio quel pubblico li aveva sistemati. Adesso non voglio dire che questi attori fanno una vita impossibile a causa dei fan, però devo ammettere che c’è una morbosità in certi atteggiamenti che può inquietare. Del resto io sono in una posizione ideale perché il mio grado di popolarità è limitato dal mio ruolo di non protagonista o al massimo di deuteragonista e quindi è sempre piacevole. Anche quando capita qualcuno un po’ invadente, è divertente farsi fotografare o fare qualche autografo. È un piccolo riconoscimento, una conferma della qualità del nostro lavoro. Ma per i protagonisti diventa tutto esagerato. Ho visto una ragazzina gettarsi a terra e piangere perché il servizio d’ordine non la faceva avvicinare a Raoul durante una festa della polizia e Giorgio Tirabassi (grandissimo attore) costretto a uscire dalla finestra della roulotte (che è praticamente impossibile) durante le riprese diPaolo Borsellino, tanto per fare qualche esempio. Ma il fatto eclatante accadde a Palermo con Riccardo Scamarcio. Giravamo su una terrazza in un quartiere popolare. L’entrata del palazzo era in una piazza in cui erano stati parcheggiati i camion con l’attrezzatura e i camerini. Io credevo di essere arrivato prima di Riccardo, ma dopo avrei scoperto che lui era già su. Mi venne incontro un’assistente e mi disse che potevo cambiarmi e andare sul set, perché stava per iniziare la mia scena. Poi aggiunse che c’erano due ragazze (fan di Boris) che mi stavano aspettando per avere un autografo. Mi cambiai e poi, mentre andavo verso l’ascensore, vidi le due giovani palermitane che mi aspettavano. Firmai gli autografi, scambiammo qualche parola e mi avviai sul set.
Arrivato sul terrazzo, vidi Riccardo e Renato De Maria, il regista, un caro amico al di là del lavoro. Così, giusto per cazzeggiare, gli dico: «Hai visto che ho le fan che mi aspettano sul set? Altro che Scamarcio...», e parlando mi avvicino al parapetto della terrazza. Mi affaccio e vedo che la piazza si era completamente riempita, dicocompletamente! Nel tempo in cui avevo firmato gli autografi ed ero salito in ascensore, si era diffusa la notizia che c’era Scamarcio sul set. Riccardo non venne a cena fuori con noi neppure una volta, durante la lavorazione. Anzi una volta sì. Io non c’ero. Ho saputo che si è scatenata una rissa al ristorante! Scamarcio, tra l’altro, è un professionista molto serio e di un’educazione esemplare. La prima volta che l’ho incontrato stava fumando una sigaretta con Elio Germano nella sala trucco del film di Daniele Luchetti (Mio fratello è figliounico). Quando sono entrato, lui ha spento la sigaretta, si è alzato in piedi ed è venuto a stringermi la mano dicendomi qualcosa tipo: «Sono onorato di lavorare con te...». Non è certo per quello che mi ha detto, ma spegnere la sigaretta è un gesto di vera educazione. Io l’ho sempre fatto, fin da quando ho avuto la fortuna di fumare quaranta Marlboro rosse al giorno. Permettetemi se perdono Riccardo anche per qualche intemperanza con i fan, ma a quel livello posso capire che la celebrità diventi un’ossessione oltre a renderti difficile la vita sociale, magari una passeggiata, un gelato. So che c’è gente che ha problemi molto più gravi, però la letteratura cinematografica è piena di queste storie di celebrità adulate dal pubblico, ma impossibilitate ad avere una vita vera. Dal Viale del tramonto di Billy Wilder a Veronika Voss di Fassbinder, da Effetto notte di Truffaut a Sognid’oro di Moretti, fino a La vita che vorrei di Piccioni, senza dimenticare Boris, il dietro le quinte ha sempre incuriosito il pubblico e ha restituito dell’attore famoso un’immagine turbata e turbolenta, molto spesso creata da un azzardato miscuglio di gratificazione e solitudine. Ho osservato molto Giancarlo Giannini, anche perché è tra i più autorevoli che abbia incontrato. È un attore meraviglioso, un collega di lavoro umile e disinibito. Recitare con lui è la cosa più facile del mondo. Ha una tale esperienza che ti dà l’idea di sapere già tutto e sembra che non gli vada di fare nulla, ma proprio nulla, fuorché recitare, quando è il momento. Visto che comincia a capitare qualcosa del genere anche a me, che non ho ancora compiuto trent’anni di cinema, lo capisco. Ma lui è un caso diverso, perché in lui la celebrità si è trasformata in autorità, se mi è consentito dirlo, o meglio la sua autorità si è trasformata in celebrità molti anni or
sono. È difficile incontrarlo sul set di una fiction, com’è capitato a me. È un attore internazionale, un’autorità, appunto. Non mi sono accorto se ha firmato autografi, ma credo di no, sia perché era molto protetto, sia perché immagino che chi lo vede abbia un giusto timore riverenziale ad avvicinarsi. Magari da lontano li senti dire: «Guarda, quello è Giancarlo Giannini...». Giannini è già storia del cinema, è passato dai rotocalchi ai libri e forse per questo la gente lo rispetta di più. Uno di cui mi sento veramente amico, anche se in sette anni non siamo riusciti a organizzare nemmeno una cena con le nostre mogli, è Beppe Fiorello. Può essere che sia una questione geografica. Beppe è nato a Catania, ma faceva le vacanze a Letojanni. La nonna era praticamente di Messina, come me. Cioè, secondo Beppe, io parlo come lei e dico le cose che diceva lei. Evidentemente questo mi rende per lui irresistibile. Siamo stati insieme a Belgrado quasi due mesi e abbiamo riso molto, sentitamente e di cuore. Lavoravamo insieme, mangiavamo insieme, facevamo i turisti. Poi per qualche giorno io sono rimasto chiuso nella mia stanza a piangere, perché il mio amico e poeta Antonio Caldarella era morto improvvisamente, poco dopo avermi scritto una poesia in cui diceva che non sarei potuto andare al suo funerale. Infatti non ci andai, perché ero a Belgrado. Anche nella discrezione di quei giorni ho sentito il suo cuore siciliano. Lo so che il campanilismo dei miei conterranei è spesso esibito e immotivato. Non voglio apparirvi banale, mi riferisco a ciò che noi riconosciamo nella gente della nostra terra, come credo possa capitare a molti altri. Forse più che conoscersi ci si riconosce in un legame antico, in un ricordo, come in alcune canzoni di Franco Battiato. Anche con Franco, per esempio, il rapporto è molto legato alla terra. Io lo considero un punto di riferimento intellettuale e questo non ha niente a che vedere con il suo essere siciliano. Anzi, Franco è proprio un apolide, conosce molte lingue ed è sempre in giro per il mondo. È stato il primo a leggere il mio primo libro e mi ha scritto una prefazione bella come una sua canzone, mi ha voluto come attore in un suo film, viene a vedere i miei spettacoli e io i suoi e, quando è possibile, parliamo di filosofia o dei libri che leggiamo. Ma i ricordi più belli che ho di lui sono due. Il primo incontro a casa sua. C’era una tavola quadrata, la mamma e la zia, lui e Mario Martone, di cui io ero l’aiuto regista. Forse le vetrate da cattedrale che ho in mente, sullo sfondo non c’erano, perché il ricordo si confonde con quello di una sua strofa: I vetri cattedrale del gazebo..., vi ricordate? Ma quello che è storia sono i gamberetti fatti dalla zia. E la mamma che ci parla del fratello di Franco, che fa l’avvocato, con quell’orgoglio tipico di una mamma siciliana che, se fai l’artista e sei
uno dei più grandi musicisti del mondo come Franco, va bene. Ma se fai l’avvocato, ti sposi e fai figli è tutta un’altra cosa... Il secondo risale a pochi anni fa, quando gli ho portato una pignolata sempre nella sua casa a Milo, sotto l’Etna. Mi sono perso nella nebbia. Poi ho riconosciuto il cancello. Lui stava studiando al pianoforte. Ci siamo seduti a prendere un caffè in salotto con qualche pezzettino di pignolata. Piccole cose, sapori e odori che ci tengono uniti e che ci fanno dimenticare tutto ciò che la Sicilia non è o, forse, non riesce a essere. Ma questo è un altro discorso. A proposito di mamme, la mia non si è mai rassegnata. Per lei dovevo fare l’avvocato. Ero portato, perché so parlare bene. Poi mio padre è avvocato, io sono figlio unico, lo studio a chi lo lascia? Ma soprattutto mi dovevo laureare! Ogni volta che vengo invitato all’università per incontrare gli studenti o per tenere una lezione, la chiamo, dalla cattedra, per ricordarle che suo figlio quando entra all’università si siede al posto più importante! Lei sorride, dice di essere contenta, ma non gliene frega niente. Voleva il pezzo di carta! Ogni tanto mi dice anche che sono bravo e aggiunge subito che non sa da chi ho preso... perché nella nostra famiglia erano tutti medici e avvocati! Giusto così, per non farmelo pesare. Però devo ammettere che dopo trent’anni che faccio questo lavoro qualche soddisfazione me l’ha data, anche se sono più le volte che mi rimette con i piedi per terra. Non lo fa apposta, ma ridimensiona, anche solo con un’espressione, tutto quello che faccio. E io, se devo essere sincero, sono contento perché mi aiuta a non prendermi sul serio e mi ricorda che è una grande mamma, una che vede suo figlio dal giusto punto di vista, cioè sempre come un bambino indifeso. Uno che non capisce un cazzo, insomma. Ma la cosa che le piace molto sono proprio i protagonisti! Tiene in soggiorno una mia foto con Luciana Littizzetto. Ha voluto baciare Daniele Pecci, perché aveva fatto Orgoglio. Adora Beppe Fiorello. Quando ci fu la presentazione di un mio libro a Roma diceva a tutti che era venuto anche Beppe. Era la cosa più importante. Il libro non l’ha mai letto, perché dice che io scrivo troppo difficile, che sono troppo intelligente... Poi quando vede Francesco Pannofino in TV mi chiama e mi fa: «C’è il tuo amico in televisione». Non ha voluto imparare il nome, perché Boris non le è mai piaciuto.
Comunque, quando capita di recitare con questi attori che ho citato e con molti altri di cui non ho parlato o parlerò in seguito, il nostro lavoro è il più bello che esista, il resto appartiene ai misteri e alla follia della fiction. Non chiedetemi chi, non lo direi neppure sotto tortura, ma certe volte mi è capitato di recitare con nessuno. Succede, ma sarebbe inutile dirlo, sia in quel momento che adesso. L’unica cosa da fare è recitare bene, essere generosi e salvare il salvabile.
Un gelato a Ponte Milvio Prima di partecipare al mio primo film TV avevo visto solo due serie televisive: Belfagor con Juliette Gréco, ai tempi delle scuole elementari, e l’indimenticabile Twin Peaks, ideata dal genio di David Lynch. Anzi, se non ricordo male ho visto anche una o due puntate di Manon Lescaut che mi sono bastate per innamorarmi perdutamente di Monica Guerritore, che avrei incontrato dopo dieci anni al festival del teatro di Taormina. è stata addirittura mia moglie in un film, venticinque anni dopo.
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