Luca Stanchieri
Rinunciatari I RINUNCIATARI Come riorientare gli adolescenti alla deriva Di Luca Stanchieri Edizione Novembre 2014 Autopubblicato con Narcissus.me www.narcissus.me
___________________________________________________ Edizione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl __________________________________________________ UUID: 9786050330755
This ebook was created with BackTypo (http://backtypo.com) by Simplicissimus Book Farm
Table of contents
Introduzione I PARTE - CRITICA DEL RINUNCIANESIMO Capitolo I - I Rinunciatari 1. Determinati, esploratori e rinunciatari 2. NEET, Hikikomori e Rinuncianesimo 3. La rinuncia come scelta fondativa 4. Il primo passo della rinuncia: distaccarsi dai genitori 5. Non è colpa dei genitori 6. Potere e dominio 7. Strategie educative e contropotere adolescenziale 8. La felicità nel campo della rinuncia
Capitolo II - L’apprendistato, ovvero gli allenamenti di base alla rinuncia
Capitolo III - Gli alleati della rinuncia: i premi e le punizioni a scuola
Capitolo IV - Allenamenti mimetici, flow e videogiochi
Capitolo V - Canne, tatuaggi e scialla
Capitolo VI - Effetti collaterali della rinuncia
1. Riti di iniziazione 2. Domande cruciali 3. Eros e Thymos, quando il dialogo non basta. 4. Il gruppo classe e l’individualismo della didattica 5. Il bullismo come degrado culturale 6. Il bullismo narcisistico 7. Rinuncia e disprezzo 1. Malesseri 2. Amore per il sapere 3. Demotivare 4. Una scuola decadente 5. Ma non è una buona scusa… 6. Evitare il fallimento 7. La demotivazione ad apprendere 1. Il Flow, l’arte di costruire se stessi costruendo 2. Rinunciatari competitivi e flow virtuali 3. Lo sfogo di un padre 4. Conseguenze di una vita videogiocata 5. Sottrarre i videogiochi dal monopolio adolescenziale 6. Dipendenza? 1. Ma se non lo fai a 14 anni, allora quando? 2. Scialla 3. Etica e estetica: a 18 anni mi faccio il tatuaggio 4. L’amore ai tempi della rinuncia 5. Il mondo dei furbi e la paura 1. Promesse tradite
2. Umiliazioni continue 3. Tradimenti e tragedie 4. Cattivi maestri e salti di qualità 5. Fra gli estremi
II PARTE - L’ORIENTAMENTO VOCAZIONALE COME PREVENZIONE E RIMEDIO Capitolo I - I genitori come guide e esploratori di potenzialità
1. I genitori, principali alleati 2. Genitori come guide positive 3. Tensioni autorealizzative da liberare 4. Autorealizzazione e forme di felicità 5. Le intelligenze da scovare 6. Le abilità non bastano, ricerchiamo le potenzialità
Capitolo II - Scovare le vocazioni
Capitolo III - Dalla rinuncia alla vocazione: il coaching umanistico (allenamento)
1. La scuola viene per ultima 2. Ristabilire il dialogo, colmare il distacco 3. Accogliere e restituire 4. Abbiate fiducia 5. La vocazione possibile e la ricerca degli indizi 6. Dalla proposta all’allenamento: la fase più delicata 7. E ora la scuola
CONCLUSIONI?
Utopie possibili APPENDICE - GLI ESERCIZI DI COACHING WORKOUT SULLA FELICITA’ WORKOUT SULLE INTELLIGENZE MULTIPLE WORKOUT SULLE POTENZIALITA’ WORKOUT SUI SISTEMI SIMBOLICI Ringraziamenti
1. Psicologia della vocazione 2. La scelta fondativa e gli errori da evitare 3. I sistemi simbolici
1. La legge dell’autorealizzazione 2. Essere pronti al cambiamento 3. Differenziazione e integrazione: le 5 i.
Ci sono tre tipi di adolescenti: i determinati, che hanno le idee chiare sul loro futuro e sono un’infima minoranza, gli esploratori, che cercano una strada e navigano a vista, ed infine i rinunciatari, il settore più omogeneo e coeso. Seppure non superano il 20%, hanno un impatto culturale a tutto campo. Sono accomunati da un’ideologia, il rinuncianesimo, che non ha maestri, ma tanti alleati, anche fra gli adulti. Cominciano il loro apprendistato alla fine delle elementari e raggiungono apici pericolosi dopo i 18 anni, quando fuoriescono in modo deciso da qualunque processo formativo senza nemmeno cercare un lavoro. Alla fine si chiudono in casa. Li caratterizza all’origine un precocissimo atto di secessione dal mondo degli adulti, dai genitori, dagli insegnanti, dagli allenatori. Nella loro fragile e illusoria autonomia, forgiano già dalle medie inferiori un contropotere che getta i genitori e gli insegnanti in una disperata impotenza. Con coerenza crescente, rinunciano prima a studiare, poi ad
allenarsi, e persino ad amare. Si intossicano di canne e/o videogiochi, e vivono di facebook. Investono tutta la loro affettività nei rapporti fra pari, dove diventano o incontrano bulli e narcisi, che producono mille ferite, a volte mortali. Concepiscono la felicità come divertimento immediato o come assenza di impegno, ma si imbattono sempre nella noia. Rendono la rinuncia un’abitudine che gli impedisce anche di immaginare un progetto di vita per il futuro. Se ne parla solo come tasso di disoccupazione (e nulla si fa a riguardo), ma non come condizione culturale e coscienziale che nasce ben prima di porsi sul mercato del lavoro. La rinuncia è scelta fondativa di un preadolescente che incontra numerosi fattori facilitanti: un’infanzia super organizzata, un’educazione incapace di fornire ambizioni e allenare talenti, una scuola decadente, un pessimismo diffuso che prelude a un futuro ancora più oscuro. Il loro programma rinunciatario comporta la repressione delle loro potenzialità, l’arretramento delle competenze. La demotivazione a studiare degenera nella demotivazione ad apprendere dalla vita. La rinuncia è uno dei più infelici programmi di allenamento per un adolescente. Chi può salvare questi adolescenti da loro stessi? I primi che possono contrastare questa deriva sono i genitori, quelli sufficientemente buoni che hanno a cuore le sorti dei propri figli. Questo libro è dedicato a loro, alla loro sofferenza e impotenza, al loro amore incondizionato per questi giovanissimi, che divengono vittime di loro stessi. E offre una tesi di fondo e innovativa: i genitori non sono la causa di questa deriva rinunciataria, ma la possibile soluzione soprattutto se trovano alleati all’altezza della sfida. Questo libro, con i suoi consigli e strumenti pratici, è al loro servizio, perché possano emancipare i figli dalla rinuncia e, scoprendo le loro potenzialità, possano guidarli di nuovo verso una strada di autorealizzazione.
Introduzione L’adolescenza è una fase del ciclo di vita che è esposta a numerose influenze culturali. Per questo si sposta nel tempo, a seconda delle epoche storiche. Oggi comincia già verso i dieci anni mentre può arrivare fino ai ventotto anni, per non parlare delle regressioni nostalgiche alla mezza età. I compiti psicologico-evolutivi che la caratterizzano sono molto complessi. In primo luogo la formazione della propria identità, che concerne il rapporto con se stessi, il proprio corpo, la propria visione del mondo, l’autostima e la coscienza delle proprie capacità e potenzialità, così come dei propri gusti, preferenze e attitudini. Il secondo compito è la realizzazione nelle relazioni e nei contesti di questa identità. L’aspetto intimo si accompagna a quello sociale e investe le relazioni di amicizia, il riconoscimento sociale, l’affermazione nei contesti che richiedono competenze tecniche. Identità e realizzazione sociale possono entrare in contrasto. Succede quando avere coscienza di sé e della propria diversità porta a isolarsi. Oppure quando la necessità di relazionarsi diventa un bisogno di adattarsi agli altri, imitarli per essere accettati, a discapito della propria originalità. Quando invece i compiti procedono in modo armonioso attraverso l’integrità, l’amore nelle sue più svariate forme, l’apprendimento e la creatività, l’adolescenza comincia a estinguersi. L’indicatore della maturazione complessiva sta nell’elaborare un progetto di vita valido per il proprio futuro. In ragione di questi compiti che sono evolutivi e culturali, gli adolescenti possono essere suddivisi in quattro categorie:
1.I determinati: sono un’infima minoranza, una tribù di fortunati, caratterizzata da attitudini e propensioni chiare; sanno quello che vogliono diventare, ricercano maestri competenti e si impegnano; a volte possono essere ansiosi per la paura di fallire, ma perseverano superando errori e ostacoli; non è detto che abbiano vita facile con i propri amici, spesso considerati come secchioni, individualisti, sfigati, trovano modo di rifarsi grazie alle loro performance, e spesso dopo la scuola vanno a formarsi all’estero. 2.Gli esploratori: sono la maggior parte e cercano di capire il loro senso nella vita sperimentandosi a scuola, nello sport, con gli amici e nella relazione con gli adulti; cambiano spesso gusti e preferenze, vedono con curiosità i determinati, ma a fronte di fallimenti possono anche diventare rinunciatari; sono
molto eterogenei, cercano di avere un buon rapporto con gli adulti, difficilmente parlano con gli amici del loro futuro. 3.I rinunciatari: sono una sostanziosa minoranza, coesa e riconoscibile; si allenano attraverso performance caratterizzate da crescente disimpegno e dal distacco dagli adulti; cominciano a rinunciare allo studio e escono molto tardi dall’adolescenza non ritenendo indispensabile elaborare un progetto di vita; per la loro omogeneità sono spesso riconoscibili come gruppi e correnti e rappresentano il settore che ha più impatto culturale. 4.I ribelli: un tempo rappresentanti dell’adolescenza si sono estinti, non solo a causa della fine delle ideologie politiche del novecento, ma a causa dell’incapacità di sviluppare una speranza che ci sia un’alternativa all’attuale situazione socio-economica-culturale.
L’estinzione dei ribelli è un fatto eclatante e non dipende certo dall’accettazione incondizionata dallo status quo. E’ semmai dovuta alla perdita della speranza e al vuoto di idee che caratterizza i maestri. La ribellione infatti non è mai stata solo contestazione, ma un tentativo di elaborare obiettivi trasgressivi e alternativi, che potessero portare a un cambiamento. I giovani ribelli sono stati protagonisti di cambiamenti globali che hanno portato nuovi bisogni sia psicologici che culturali. Hanno conquistato la scuola aperta a tutti, avversato e diminuito la propensione bellica degli stati, avviato processi di autodeterminazione e autorealizzazione sociale e culturale. Oggi non sono presenti, se non come rappresentanti anacronistici e tristi di residuati novecenteschi. Sono invece i rinunciatari ad aver preso in mano la situazione. La rinuncia è una sorta di ideologia dal basso, senza maestri autorevoli o riconoscibili; non è assimilabile né al cinismo né al nichilismo, anche se può vederli con simpatia. La sua filosofia si evince dalla performance che la caratterizza. E’ rifiuto costante e crescente di impegno e di fatica. La sua concezione della felicità è che il bene sia assenza di dolore, di sforzo, di noia. Il divertimento, una forma primitiva e ripetitiva di edonismo, è il faro che illumina decisioni, giornate, atteggiamenti, relazioni. Per il rinunciatario è decisivo rimuovere, risolvere, espellere tutto ciò che è infantile e non pensare mai al futuro. Per difendere le sue azioni disimpegnate e disancorate da un senso di maturazione e crescita, l’adolescente divertito deve preservare un’autonomia che è fragile e limitata. La rinuncia non lo porta all’indipendenza del pensiero, troppo faticoso e impegnativo, e meno che mai all’indipendenza economica, che necessita l’acquisizione di competenze che la vita edonistica non offre. La sua è un autonomia falsa perché mentre determina il distacco affettivo dal mondo degli adulti che non accettano questa vita deprivata, alimenta la dipendenza verso il mondo dei pari, di cui non si può fare a meno pena una solitudine disperata. L’ideologia della rinuncia si avvale di un contropotere che punta a rendere impotenti i genitori e gli insegnanti, ovvero lo zoccolo duro degli adulti che puntano a presidiare la vita di un adolescente. Il contropotere serve a rimandare i doveri più elementari, a rendersi indifferenti di fronte alle sollecitazioni, a forgiare maschere spavalde di fronte alle critiche e alle punizioni. La rinuncia è una scelta fondativa operata da adolescenti che vogliono divertirsi per evitare la noia e la fatica di corrispondere ai programmi di fitness educativi, culturali, sociali imposti o proposti dagli adulti. Usa la legge di autorealizzazione che è stata affermata dalle generazioni precedenti, per evitare i costi che comporta la realizzazione di potenzialità e attitudini. E’ una scelta individuale che trova immediati alleati e amici e un programma di allenamento che promette il piacere immediato. Comincia dal disimpegno nello studio e nell’arte e diventa rinuncia a pensarsi come soggetti attivi e protagonisti del proprio futuro. Nel corso del suo cammino verso l’inevitabile disagio, la rinuncia trova numerosi alleati: ipotesi educative fragili e parziali, scuole decadenti, discariche digitali presentate come nuovi paesi dei balocchi, additivi chimici preconfezionati e a buon mercato, adulti pessimisti e killer di ogni speranza. Sono alleati, fattori facilitanti, elementi che agevolano la performance alla rinuncia che comunque rimane una scelta individuale reiterata nel tempo. I rinunciatari hanno la capacità di mettere i genitori in condizioni esasperate di straordinaria impotenza. A causa del loro distacco affettivo (che non è sentimentale), rendono vano tutto l’armamentario degli strumenti educativi: manipolazioni, punizioni, premi, promesse, contratti, prediche non sembrano toccarli, smuoverli o influenzarli. Per questo nel libro proponiamo un nuovo approccio educativo che punta sulle loro possibili attitudini e potenzialità che abbiamo definito metodo di orientamento vocazionale. Consiste nell’individuare un profilo di quei punti di
forza del giovane che possono renderlo felice nella vita, di quelle potenzialità che gli conferiscono benessere e soddisfazione, di quelle intelligenze che gli permettono una via facile all’acquisizione di competenze, di quelle attitudini, gusti e preferenze che fanno nascere la motivazione e la coltivano nel tempo. E’ un metodo che forgia in modo nuovo la relazione affettiva e offre ai genitori la possibilità di riconquistare il loro potere di guide positive e amorevoli in grado di allenare i figli a un processo di autorealizzazione efficace e appagante. Il punto di forza del nostro metodo sta nel punto di debolezza del programma di vita del rinunciatario. Come vedremo la rinuncia è il peggior programma di allenamento che un adolescente può offrire a se stesso. Nel tempo, il divertimento si trasforma in noia, l’amicizia in apatia, la vita in una fucina di delusioni inaspettate. Cercare di riconoscere i segnali del malessere e valorizzarli in un processo di cambiamento è un compito possibile, a condizione che l’immagine ideale del giovane venga sostituita con quella reale e potenziale, che può anche essere migliore e densa di sorprese. Questo libro vuole schierarsi dunque con i genitori, quelli sufficientemente buoni, che con tutti i loro errori e imperfezioni hanno a cuore la felicità dei propri figli. Sono loro i ribelli di un tempo, quelli che non possono accettare una vita deprivata di ogni talento e bellezza. E sono sempre loro che possono trovare e valorizzare alleati adulti come gli insegnanti che amano il loro lavoro, i maestri di competenze e eccellenze relazionali, gli allenatori illuminati dalla filosofia oltre che dall’agonismo. Le fonti primarie di questo libro sono stati i genitori che si sono rivolti a me, come psicologo e coach, per trovare nuove soluzioni educative. Ma sono stati anche i tanti ragazzi e ragazze che ho conosciuto nel mio studio, nei campus, nelle scuole e nei teatri dove abbiamo parlato di vocazione e potenzialità. I rinunciatari mi hanno sempre sfidato con la loro spavalderia e apatia. Mi hanno obbligato a cambiare, cercare nuove strade, comprendere meglio, inventare nuove soluzioni. Il loro disimpegno è stato per me causa della più grande fatica e sfida professionale.
I PARTE - CRITICA DEL RINUNCIANESIMO Capitolo I - I Rinunciatari 1. Determinati, esploratori e rinunciatari L’adolescenza può essere un inferno o un paradiso. Per definizione non appartiene al regno della temperanza, difficilmente aderisce a vie di mezzo, ed è sempre eccessiva. Anche un adolescente “normale” è eccezionale. E’ una delle fasi più delicate della vita e certamente è la più esposta alle influenze culturali e sociali che la caratterizzano. In teoria il suo termine dovrebbe essere intorno ai venti anni, ma, più che dall’età, dipende dalla maturazione. Una persona fuoriesce dall’adolescenza quando ha chiaro un progetto di vita da realizzare che riguarda la sua identità, le sue relazioni e la sua competenza professionale. Una persona matura sa amare e sa quale lavoro vorrebbe fare. Ha sviluppato una concezione del mondo, delle relazioni, della vita e della sua felicità possibile. Per questo l’adolescenza è una laboratorio esistenziale complesso dove la scoperta, l’invenzione e la sperimentazione si alternano incessantemente, combinando insieme momenti di straordinaria felicità a tragedie che sembrano irreparabili. A differenza del bambino, l’adolescente non ha ancora una chiara identità né fisica né culturale; tutto è sottoposto a continua revisione: il suo corpo, i suoi pensieri, i suoi atteggiamenti, la sua comunicazione, le sue imprese, i suoi affetti e amori. E’ in questa fase, dove si alternano velocità supersoniche a stasi inammissibili, che si può scegliere il proprio futuro e si elabora un metodo di gestione della propria esistenza. Fra i 35 e i 40 anni, questo metodo verrà sottoposto a un bilancio avendo costruito un passato. Potrà comprendere come raddrizzare la rotta che ha preso o cambiarla radicalmente. Un’infanzia felice è caratterizzata dal presente. Un’adolescenza felice è caratterizzata da un futuro di speranza. La prima verifica nella quotidianità la bellezza della vita, la seconda la proietta, la progetta, la prefigura, la vede come possibile soluzione di tutti i problemi del presente. Un’adolescenza felice si riconosce dalla ricerca e dal ritrovamento di un progetto di vita soddisfacente e appagante che motiva la formazione e determina la qualità del presente e la forza per costruirlo. Il compito evolutivo più importante per una adolescente è crescere, ovvero elaborare un progetto di vita che sia armonico alle proprie potenzialità e che riguardi non solo il suo mestiere ma anche la sua identità. Dall’adolescenza, dalle sue inquietudini, dai suoi trionfi e dalle sue inevitabili sconfitte, nasce il desiderio di chi vogliamo essere nella vita. In funzione di questo possiamo distinguere tre fasce degli adolescenti:
1.coloro che hanno un progetto chiaro di vita che sviluppano sin dalla preadolescenza e che li motiva a scuola, nello sport, nella relazioni con gli amici e con gli adulti di riferimento; sono un settore minoritario, che studia molto ed è motivato dall’eccellenza in tutto quello che fa; sono i determinati; 2.coloro che non hanno un progetto chiaro di vita, ma lo ricercano alternando momenti di riflessione a momenti di sperimentazione e scoperta di sé e delle proprie facoltà; il loro rendimento scolastico è contraddittorio, passano momenti di alta concentrazione, con momenti di assoluta distrazione; spesso sbandano, perdono tempo ma hanno una forte tensione a cercare di essere felici e a sperimentarsi nello studio, nello sport, nell’arte, nelle relazioni; sono un settore molto vasto, ma anche molto differenziato al proprio interno; sono gli esploratori; 3.coloro che sin dalla preadolescenza a non si mettono nelle condizioni idonee a cercare un progetto di vita soddisfacente; hanno difficoltà a scuola, non hanno adulti di riferimento nella propria formazione, cercano di divertirsi ma non sempre ci riescono; sono ragazzi e ragazze che non vogliono pensare al proprio futuro, detestano il loro passato infantile, e cercano una strada di felicità che è caratterizzata da assenza di dolore, di impegno e di fatica; sono i rinunciatari e rappresentano un gruppo omogeneo che si aggira intorno al 30% degli adolescenti di oggi.
I rinunciatari sono riconoscibili in tutte le statistiche e sono lo zoccolo duro del popolo dei NEET. Il termine NEET è un acronimo inglese che significa “Not (engaged) in education, employment or training”, ovvero “Non (occupati) nell’istruzione, nella formazione o in un lavoro”. Fu usato per la prima volta in Inghilterra nel 1999 e denotava una fascia di popolazione, di età variabile fra i 15 e i 29 anni, caratterizzata da esclusione sociale. Tra i paesi Ocse, se si eccettua il Messico, l’Italia ha il maggior numero di NEET, con una percentuale che raggiunge il 22%, corrispondente a circa 2 milioni e 100mila persone (dati del 2011, fonte Istat). Nella fascia di età fra i 25 e i 30 anni, la percentuale di NEET arriva a toccare quasi il 30% della popolazione. L’Italia ha anche un altro primato. Gli adolescenti fra i 14 e i 18 anni che abbandonano la scuola sono il 17,6%. Questo significa che entrano nella fascia degli esclusi molto precocemente, decidendo di evitare qualunque processo formativo, ben prima di affacciarsi nel mondo del lavoro. Questo fenomeno di massa coinvolge milioni di genitori. Ed è solo parzialmente rilevabile, non prendendo in considerazione tutti coloro che sono “parcheggiati” nella scuola, e che, pur cercando di ottenere il minimo sindacale nei voti, si sentono esclusi dal processo formativo, in quando totalmente disorientati sulle scelte di vita.
2. NEET, Hikikomori e Rinuncianesimo L’ipotesi alla base di questo libro è che molti rinunciatari, diventati NEET “maturi” non hanno subito sconfitte, fallimenti, rifiuti, emarginazioni. Ma si sono formati in un lungo apprendistato alla rinuncia. Ho potuto riscontrare che il rinuncianesimo, come scelta di vita, ideologia e contropotere, non è una realtà immediata, derivante dalle condizioni di declino culturale e sociale, ma un processo graduale, una sorta di programma di allenamento che culmina con la rinuncia a cercare, elaborare, pensare, creare un qualunque progetto di vita soddisfacente. Me ne sono accorto quando ho fatto una domanda elementare a molti ventenni: “Se vivessi in un paese ricco di possibilità e senza disoccupazione, avendo a disposizione ogni competenza necessaria, quale lavoro potrebbe renderti felice?”. Le risposte variavano da “non ho idea” a “quello con più tempo libero” a “quello dove faccio tanti soldi”. In breve non avevano il minimo sentore di quale lavoro fosse il più adatto ai loro gusti, alle loro attitudini, alle loro potenzialità. Avevano rinunciato persino a immaginarlo, prima ancora di fallire nel realizzarlo. Lavorando con loro, mi sono accorto che il fenomeno dei NEET è più vicino a quello giapponese dell’Hikikomori che alla disoccupazione strutturale degli economisti classici. L’Hikikomori è un fenomeno sociale in cui i giovani giapponesi si ritirano dalla vita sociale in una sorta di volontario isolamento. Non si formano, non studiano, non cercano lavoro e hanno persino abbandonato gli amici. In breve hanno rinunciato a qualunque processo di realizzazione nella vita, anche senza crisi economica, per chiudersi nella loro stanza, connessa a internet. Seguendo gli adolescenti da oltre trent’anni anni, prima come insegnante, poi come psicologo e coach, mi sono accorto che questo fenomeno della rinuncia è cresciuto in modo esponenziale, è diventato una piaga sociale che colpisce tutti , ma di cui non parla nessuno.
3. La rinuncia come scelta fondativa Il processo di allenamento alla rinuncia comincia fra il 10 e i 13 anni e arriva all’apice prima dei 18 anni. Vediamo la sua dinamica, attenendoci per ora alla superficie dei fatti. La prima cosa che salta è lo studio. Il rinunciatario fa il suo apprendistato alla scuola media inferiore e, da bambino che non aveva problemi, comincia a vivere la sofferenza della performance scolastica. Per contrastare la fatica, comincia a evitare di scrivere i compiti e a studiare il meno possibile. Il secondo step è abbandonare lo sport che ama o che era stato portato a fare da piccolo. Il terzo step è rinunciare a qualunque impegno sul piano dell’amore (se per sua fortuna riesce, userà la coppia come nicchia ripiegata su sé stessa per escludere altri impegni affettivi). Il quarto step, quello più drammatico, è la rinuncia agli amici e l’autoreclusione nella propria stanza, come gli Hikikomori.
E’ un allenamento in negativo, che dunque attraversa varie fasi. Il processo finale è rendere la rinuncia un’abitudine. Eppure a fronte di queste migliaia di rinunciatari, ce ne sono molte di più che riescono bene o male a passare il tunnel dell’adolescenza e a sviluppare progetti di vita, come i determinati e gli esploratori. Se le cause fossero esclusivamente sociali, il fenomeno dei NEET dovrebbe riguardare tutti. E invece abbiamo ragazzi che continuano a studiare, fanno sport ad alto livello, giocano, ridono e si divertono senza additivi chimici, cercano di affrontare i propri limiti, trovano maestri sia a scuola che fuori, si innamorano, vengono respinti e si innamorano di nuovo, molti si laureano cercando di accedere alle migliori università e molti altri vanno a lavorare fuori dall’Italia. Se le cause fossero psicopatologiche (da disturbi di sviluppo a depressioni), saremmo di fronte a un’epidemia. Ma qui stiamo parlando di ragazzi le cui facoltà sono assolutamente funzionanti. Il senso comune darebbe la colpa ai genitori. La mia ipotesi invece è che il fenomeno di allenamento alla rinuncia sia dovuto a fattori sociali, economici, politici e psicologici, ovvero a una molteplicità complessa di cause che vanno dal microcosmo della famiglia a quello del sistema Italia. Sono fattori che agevolano la scelta della rinuncia. Ma queste “agevolazioni” o “complicità” non determinano meccanicamente il disimpegno. Alla base della rinuncia, c’è sempre una scelta autonoma dell’adolescente. L’insieme dei fattori sociali e psicologici che ne è alla base genera infatti un fenomeno, che è al tempo stesso un insieme di comportamenti e di concezioni culturali, che dà vita a visioni del mondo, a strategie comportamentali, a concezioni dell’amicizia e del rapporto con i genitori di cui l’adolescente è responsabile perché lo sceglie.Il fenomeno del rinuncianesimo sorge molto prima della necessità di inserirsi nel mercato del lavoro ed è una delle possibili scelte fondative di un adolescente in formazione. Il rinuncianesimo, che nasce dalla preadolescenza e si afferma definitivamente fra i 20 e i 30 anni, si costituisce all’inizio come ideologia etica e come contropotere sociale, prima ancora che come impossibilità a cercare un posto nella società. Elabora idee, concezioni, stili di vita, ricerca strumenti, alleati, si afferma scontrandosi. Per arrivare a rinunciare alla propria vita come opera di formazione e creazione artistica, un adolescente deve decostruire un insieme di facoltà umane che vanno in tutt’altro verso. Rinunciare non è naturale, è una costruzione culturale che si deve sedimentare e allenare nel tempo. L’adolescente che rinuncia a formarsi, che si disimpegna dal guardare al proprio futuro, opera una scelta che può essere agevolata dai contesti, ma che non può essere determinata al di fuori della sfera della sua volontà. Rinunciare è una scelta fondativa e una responsabilità personale.
4. Il primo passo della rinuncia: distaccarsi dai genitori Il primo passo dell’allenamento alla rinuncia è operare un distacco affettivo con i propri genitori. Gli adolescenti rinunciatari cominciano la loro gavetta alle scuole medie inferiori. In questa dimensione che è istituzionale e intima, sistemica e individuale, sperimentano una certa indipendenza. Il distacco affettivo esclude i genitori dal governo della propria vita. Non è un problema di sentimenti. In molti di questi ragazzi, in modo paradossale, una delle forme di felicità più importanti è l’affetto, l’amore, la serenità che hanno nella propria famiglia. Almeno l’80% dei giovani rinunciatari considera la famiglia affettiva uno degli ambiti più importanti della felicità individuale. Il giovane ama i genitori ma comincia a sottrarsi al loro potere educativo, a neutralizzarlo, ad annacquarlo, mentre contemporaneamente investe le sue energie affettive e relazionali nel rapporto con i propri pari. In breve l’attaccamento ai genitori viene sostituito con l’attaccamento ai coetanei. Questa scelta all’inizio può essere sottovalutata dai genitori o addirittura fraintesa. Potrebbe infatti apparire come una sana inquietudine adolescenziale, una sorta di fuoriuscita dall’infanzia verso la strada tortuosa e impervia dell’indipendenza. Assumerebbe quindi la forma stereotipata del ribellismo tipico del giovane che vuole realizzare la propria originalità. Niente di più lontano dalla realtà. Il giovane, sottraendosi al potere genitoriale prima dello sviluppo della sua maturità complessiva, sta conferendo il potere da cui dipende ad altri soggetti, in particolare ai suoi coetanei, che diventano genitori, maestri e allenatori di vita, pur essendo più confusi di lui. La sua scelta si connota come una secessione dal mondo degli adulti, non come una protesta, una ribellione o una contestazione. Ho definito questa scelta come un’entrata in clandestinità. Questa clandestinità non ha nulla di illegale (almeno all’origine), non riguarda traffici illeciti né processi di autoorganizzazione segreta miranti a sovvertire il potere costituito. Il giovane entra in clandestinità per evitare il potere genitoriale, che diventa un problema quando si pone come ostacolo alla sua libertà di azione.
Il distacco fisiologico tipico dell’età, attraverso la scelta fondativa dell’autonomia affettiva dai genitori, assume un connotato specifico, peculiare. E’ l’inizio di quel programma di allenamento e formazione che porta alla rinuncia. Qualunque adolescente assapora la libertà del mondo clandestino a cui può accedere dopo l’infanzia. Qui ha la possibilità di sperimentare il suo corpo che cambia, verificarne le capacità di attrazione estetica e la forza atletica. Attraverso l’amicizia può analizzarne le potenzialità relazionali. Ciò che caratterizza e distingue un adepto del rinuncianesimo è la specifica relazione con il potere genitoriale che instaura sin dall’inizio. Il processo di sottrazione e l’entrata in clandestinità, infatti, diventa un elemento contraddittorio rispetto alla volontà educativa e affettiva dei genitori e alla volontà formativa degli insegnanti. Ciò che per la stragrande maggioranza dei ragazzi determinati o esploratori è armonico, (si può essere liberi e al contempo adempiere ai propri doveri), per il giovane rinunciatario è ferocemente incompatibile. Adempimenti, prescrizioni, indicazioni, regole non vengono contestati in quanto tali, ma nella loro funzione di impedire, rallentare, ostacolare, rinviare, ritardare e diradare ciò che il giovane vuole fare, divertirsi con gli amici. E’ il divertimento lo scopo principe della sottrazione del potere, della secessione dagli adulti, del distacco con l’infanzia di un tempo. Nel perseguirlo, il giovane nel rapporto con i genitori si scontra con il problema del potere e cerca di risolverlo a suo modo.
5. Non è colpa dei genitori Quando siamo di fronte ad un giovane rinunciatario, siamo portati immediatamente a dare la colpa ai suoi genitori. Se ci pensate, succede anche alle elementari. Un bambino aggressivo o vivace viene subito visto come un prodotto conseguente dell’educazione dei genitori. Questa sorta di psicologia popolare è fondata su un meccanicismo che non ha base di realtà. La tesi è “tale padre, tale figlio”(alcuni lo dicono anche dei cani). A questo punto, di fronte a un giovane che non vuole né studiare né impegnarsi, dovremmo trovare genitori simili. Al contrario, troviamo scienziati, manager, imprenditori, maestre di danza classica, giornalisti, restauratori, professori universitari e insegnanti, lavoratori e lavoratrici onesti che lottano tutti i giorni per fornire ai ragazzi sostegno economico, formazione alla convivenza, affetto, riconoscimento, dialogo; madri e padri che si sono impegnati per realizzarsi nella vita e per cercare di educare al meglio i propri figli e che sono seriamente terrorizzati per il loro futuro. Certamente ci sono eccezioni. Ma quando troviamo genitori che si disinteressano dei figli, non troviamo necessariamente giovani che rinunciano. Nelle condizioni di emarginazione e violenza, di disinteresse e incomprensione, troviamo giovani che soffrono, ma non necessariamente che si disimpegnano. Molti ragazzi, quando lasciano la scuola perché i genitori si sono disinteressati di loro, trovano lavoro come commessi, camerieri, baristi, muratori e lavorano duramente e seriamente. Ma soprattutto sono sempre alla ricerca di adulti con cui sfogarsi, parlare, trovare conforto e aiuto. Un rinunciatario non cerca alleati nel mondo degli adulti, perché vuole vivere la sua vita evitando impegno e fatica. Il fenomeno dunque dei rinunciatari è interclassista, interculturale e relativamente indipendente dagli atteggiamenti genitoriali. E’ certo che come genitori possiamo migliorare. Ma qualunque miglioramento è destinato al fallimento se da parte del giovane è maturata e radicata la scelta di non farsi educare, dirigere, formare e allenare da un adulto. Dare al giovane adolescente la responsabilità della rinuncia senza giustificarlo, significa considerarlo come artefice principale della sua esistenza, significa rispettarne il potere di autodeterminazione senza dannosi paternalismi, e significa individuare i suoi alleati nel contesto della società attuale. Significa stargli vicino come persona, prendendo le distanze dalle sue scelte e dalla sua ideologia.
6. Potere e dominio Il potere è soprattutto un fenomeno relazionale, che consiste nella capacità di influenzare una persona o le sue relazioni, allo scopo di indurre qualcuno a una certa cosa o di mutare una condizione data, come un certo modo di pensare. Foucault ha distinto le relazioni di potere da quelle di dominio. Le condizioni di dominio sono fisse, unilaterali e caratterizzate dalla violenza. Le relazioni di potere sono caratterizzate dal riconoscimento e dal consenso. Esempi di condizioni di dominio vanno dalla schiavitù all’imposizione fiscale; esempi del potere vanno dalla relazione maestro/allievo a quella genitore/figli. Certamente possiamo distinguere un potere incompetente da una competente, un potere generativo e affermativo da un potere autoriferito, negativo e distruttivo. Ad ogni modo il dominio si fonda sulla sottomissione e sulla repressione, il potere si fonda su un patto relazionale. Nel campo dell’istruzione, della formazione e dell’educazione, siamo in presenza di una decadenza delle forme di dominio. Un processo lungo che è scaturito da un paradosso. L’Italia è stata uno dei pochi paesi al mondo ad aver affidato l’educazione primaria alle donne sin dal 1800. Certamente lo ha fatto perché riteneva questo insegnamento poco prestigioso per gli uomini. Ma lo Stato patriarcale post unitario non pensava certo che questa scelta avrebbe inciso così profondamente nell’educazione dei bambini. Maria Montessori fu il prodotto di questa impostazione che al contempo impediva a una donna di esercitare la professione del medico. E fu lei a porre la questione dell’educazione del potenziale umano presente in ogni bambino. Da allora di cose ne sono successe. In particolare la generazione dei genitori nata negli anni cinquanta e sessanta è stata protagonista della decostruzione dei sistemi di dominio presenti nella scuola, avendone subito i residui di violenza e costrizione. Quando erano bambini e preadolescenti, l’utilizzo della violenza per educarli era la norma. I maestri ricorrevano alla bacchetta sulle mani o ai ceci su cui essere inginocchiati; i padri alla cinta o alla frusta sul sedere o ai ceffoni di mani ingrossate dal lavoro nei campi o nei cantieri; le madri e le nonne inseguivano i marmocchi con la scopa. Come adolescenti prima, come giovani adulti poi e infine come genitori, questa generazione nata nel dopoguerra ha decostruito pezzo per pezzo queste forme di dominio violento, favorita da quella lunga e lenta corrente di civilizzazione partita dai galatei, proseguita con i romanzi e culminata nella elaborazione dei diritti dell’uomo. E’ una generazione che ha studiato le vicende di Rosso Malpelo, ma che, soprattutto, è stata colpita, frastornata e si è commossa con lo straordinario romanzo di Gavino Ledda, Padre Padrone. In molti hanno cercato di lottare contro la legge dei padri, ma anche contro quella delle madri che erano complici o che non permettevano alle loro figlie altro futuro o formazione che non fosse quella per il matrimonio. E’ questa generazione che ha permesso la scuola aperta a tutti, come primaria conquista di civiltà. Il romanzo del professor Ledda ha segnato un punto di non ritorno e oggi nessun padre toglierebbe il figlio dalla scuola elementare per mandarlo a pascolare le pecore, ad arare la terra o a lavorare in un cantiere. All’interno delle famiglie, la violenza era uno dei possibili strumenti educativi. Era legittimata socialmente. Il padre violento era considerato presente e rafforzato dalla madre. Oggi un padre che picchia il figlio in un bar, può essere denunciato e arrestato. Se una maestra picchia un bambino, può perdere il posto di lavoro. I giovani che subiscono violenze sanno reagire: non hanno paura di difendersi e contrattaccare. Anche i giovani di un tempo avrebbero potuto farlo, ma erano convinti che quella violenza fosse giustificata, normale, inevitabile. La legittimavano chiamando rispetto ciò che faceva paura. Questa generazione ha compreso che per formare le personalità dei giovani la paura non era giusta, non era normale, non era funzionale, non era bene. Ha demolito le relazioni di dominio espellendo la paura dalla scuole.
Il processo è stato così radicale e veloce, che alla struttura di dominio si è sostituita quella di un potere che sta cercando di sperimentare la sua efficacia, facendo leva sul dialogo, il convincimento, l’autorevolezza. E’ una generazione dunque che dovrebbe essere consapevole di aver fatto una rivoluzione nel settore dell’educazione, una rivoluzione culturale di carattere umanistico. Certamente imperfetta, piena di buchi e di carenze, fragile e innovativa. Ma la conquista di aver espulso violenza e paura dalle classi è qualcosa di cui andare fieri ed orgogliosi. Se non si parte da questa coscienza fiera, non si può migliorare. Alcuni hanno nostalgia. Ma il partito del “si stava meglio, quando si stava peggio”, non ha memoria e soprattutto non ha futuro. Questo cambiamento repentino e radicale ha aperto una stagione nuova in cui ogni processo educativo è fondato sulla creatività e sull’esplorazione e non sull’imitazione di modelli già prestabiliti. Per questo è fondamentale allenare il potere genitoriale in termini positivi e generativi, invece di accanirsi ad affibbiare colpe che non hanno alcuna funzione costruttiva.
7. Strategie educative e contropotere adolescenziale Il nostro potere educativo/affettivo è efficace se è accettato e riconosciuto dai nostri figli come un beneficio rispetto alla propria felicità e alla propria vita. Il grado superiore dell’accettazione e del riconoscimento è la sua costruzione affermativa, ovvero quando il giovane interviene nella relazione e ci offre la possibilità di migliorare, cambiare, crescere come genitori, partecipando attivamente al dialogo. Uno degli indicatori positivi è la richiesta di aiuto, supporto e sostegno in caso di difficoltà, ovvero sapere che c’è sempre un porto sicuro in cui rifugiarsi e riprendere le forze. Accettazione e costruzione affermativa dipendono dal tipo di relazione che i genitori costruiscono, ma anche dalle scelte che fa l’adolescente.
Fine dell'estratto Kindle. Ti è piaciuto?
Scarica la versione completa di questo libri