Titolo | Sognando una stella Autore | Ellah K. Drake Immagine di copertina a cura dell’Autore ISBN | 9788891114518 Prima edizione digitale 2013
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Sognando una Stella ELLAH K.DRAKE Primo volume della serie: Nei sogni di Angie
Prologo Il fischio del treno l’agitò. Lo sguardo fisso, mentre stringeva quella mano grande e forte. Alzò gli occhi, incontrò i suoi e sorrise. Anche lui. La ragazzina di dieci anni, per la prima volta in stazione, salutò con fiducia i passanti che salivano in carrozza. Chissà se torneranno? Domandò a se stessa, non capendo il significato di un addio. A un tratto, la mano che la teneva stretta mollò la presa. Si voltò. Occhi blu la sondavano sofferenti. Qualcosa non andava, per caso? «Papà?», sussurrò. «Non dimenticarti mai di me, piccina mia, io vi amerò per sempre». «Lo so, papà, ma perché mi dici questo?». No, non poteva capire.
Non capì quando lui la lasciò a un estraneo, dandogli un indirizzo scarabocchiato su un foglio sgualcito. Non capì quando l’abbracciò e sentì il sapore delle sue lacrime salate sul proprio viso. Non capì quando lo vide correre verso il treno in corsa, come se avesse deciso all’improvviso di partire e lasciarla sola. L’unica cosa, che comprese, fu che suo padre l’aveva lasciata senza una ragione plausibile. Questa può sembrare una storia come tutte le altre, ma non lo è. Non lo è proprio per niente.
Libro di ANGELICA Amore fa rima con dolore Primo 1.
Il semaforo diventò verde. Alzai lo sguardo e mossi qualche passo. Ero stanca, dopo una notte insonne e una giornata di lavoro altrettanto devastante. Le membra talmente pesanti da risultarmi difficile mettere un piede dopo l’altro. C’era aria di promozione e stavo dando tutta me stessa per riuscirci. Attraversai la strada sbadatamente, non mi accorsi che il rosso era scattato proprio in quel momento. Una macchina sfrecciò a tutta velocità verso di me. Un braccio mi scostò con forza dal ciglio della strada, per poi depormi con leggerezza sul marciapiede. Quando lo fissai, strabuzzai gli occhi. «Devi stare attenta a dove metti i piedi, bella signorina». Balbettai un timido sì, ha ragione e farfugliai un grazie a denti stretti. Dovevo allontanarmi da quell’uomo il più presto possibile. Invece, mi trattenne per un braccio. Fui costretta a incrociare il suo sguardo.
Occhi azzurri, intensi e luminosi. Mani grandi e forti. Sorriso aperto e contagioso. Non ce la feci e scappai. Mi divincolai dalla presa e corsi a perdifiato lontano da lui. Fuggivo sempre, ogni qual volta uno sconosciuto dagli occhi azzurri mi si avvicinava. Era diventato il mio passatempo preferito. O la mia disgrazia preferita. Scappare da tutto a gambe levate, dalla vita in primis. Mi rovinavo l’esistenza, sprecandola. Il rumore dei ricordi era così assordante per me, disillusa, che trovavo la vita ingiusta e meschina. Essere abbandonata mi aveva ridotto a un ammasso di gelatina. Un’ameba. Un parassita. Una nullità. In poche parole: una cacca. Con il fiato corto e le gambe molli mi fermai, e controllai di aver aggiunto una certa distanza di sicurezza, sì e no qualche metro, da quello sguardo color cobalto. Uno come tanti, certo, ma sempre un potenziale fidanzato, marito, padre che poteva aver abbandonato fidanzata, moglie, figlia al loro destino. Nessuno di quegli uomini era degno di una mia occhiata. A trent’anni la mia vita era piatta. Facevo di tutto per nascondermi, rendendomi insignificante e scialba, incapace di essere protagonista della mia esistenza. Un vero disastro, quindi. Mi appoggiai con la schiena contro un lampione e respirai a fondo. Ero tutta sudata. Il mio regno per un fazzoletto, pensai. In quel momento mi accorsi con orrore che, durante la corsa, il contenuto dello zainetto si era rovesciato. Non solo i fazzoletti, ma anche il portafoglio, i documenti, le chiavi di casa, il cellulare e una scorta di caramelle frizzanti al limone, le mie preferite. «Porca vacca!». Il cuore batteva così forte, che rischiai l’infarto. Ma come potevo essere così stupida? Mi voltai indietro. Gli occhi spalancati. La mente che turbinava. Le chiavi. Non avevo le chiavi per tornare a casa. Uno dei miei incubi più ricorrenti. Battei la testa contro il lampione.
Stupida, stupida, doppiamente stupida! «Signorina? Qualcosa non va?». Sobbalzai a quella voce, e urlai di rimando. Un vecchio ricurvo, che si sorreggeva a malapena su un bastone, mi fissava preoccupato. Tentai un sorriso, uno dei miei, il migliore, quello più educatamente garbato e rassicurante. Una smorfia. «Grazie. Sì, tutto ok». Feci l’ok con le dita e mi sentii una deficiente. Il povero vecchio, tuttavia, indugiò a lungo sul mio sguardo mesto. Le mani mi tremavano, ancora un secondo e me la sarei data a gambe di nuovo, se attendevo, avrei trovato tutti i ladri del mondo in casa mia. «Mi scusi, ma ho fretta». «Non me la racconta giusta lei, sa?». «Come?». «No, no, sono certo che qualcosa non va». «Sì, ma… ». «Vede, sono un esperto in questo campo e dai suoi occhi ho l’impressione che mi voglia dire di cosa si tratta». «Sta scherzando?». «Macché, avrò anche novant’anni, ma la so più lunga di lei». «Oh, senta, davvero, devo andare». Alzò il bastone, senza fare sforzi, e mi bloccò. Ma che era, un guerriero ninja in là con l’età? «Non corra lontano dalla vita, gioia, lei non può lasciare che gli altri decidano al suo posto. Si faccia forza, su!». Un vecchio travestito da santone? Mah.
«Vorrei stare qui ad ascoltarla, ma, purtroppo ho fretta». «Oh, beh, va bene, gioia». Abbassò il bastone e mi salutò, portando con galanteria la tesa del cappello all’ingiù. Mi fece l’occhiolino ed esibì una dentatura quasi inesistente. Deglutii. Non era il momento adatto per essere abbordata da un arzillo novantenne. Non scappai a gambe levate, ma indietreggiai pian piano e, voltandomi, incominciai a camminare spedita. Fui costretta a rifare la strada al contrario. Nel frattempo pregavo che qualcosa di mio fosse rimasto in terra e nessuno lo avesse preso. Speravo, soprattutto, che nessun malvivente ne avesse approfittato. Ah i sogni! Le speranze vane, la vita grama… E il culo che mi avrebbe fatto James, non appena lo avesse saputo. L’incognita James in quel momento mi terrorizzava. Potevo già immaginare quel che mi avrebbe detto. Perfino ciò che mi avrebbe fatto. Non che fosse violento, no, anzi il contrario, James era un gentiluomo, ma in certe circostanze piuttosto sfavorevoli, la rabbia avrebbe potuto sopraffare chiunque. Se pensavo a James in collera, mi venivano i brividi. Avrebbe di certo preso il suo sporran e cercato qualcosa di affilato per tagliarmi la gola. Quando si è scozzesi, e per giunta discendenti di nobili, antichi, sanguinari clan, c’è poco di che stare allegri. James, il mio coinquilino dall’ardente sangue scozzese nelle vene. Era un punto fermo. Il mio alter ego. La spalla su cui piangere, l’avevo affittata tanto tempo prima e ogni qual volta ero triste, lui me la porgeva. Un gentleman. Semplicemente meraviglioso. A parte quando s’incazzava. In quei frangenti era meglio darsela a gambe. Sguardo glaciale, sopracciglio all’insù e il gioco era fatto. Non serviva molta violenza, quando c’era James di mezzo. Era abbastanza intelligente da farti sentire una merda in pochi secondi. Un’occhiata di sbieco, una parolina di rimprovero dall’alto del suo metro e settanta, e anche il più energumeno degli uomini sarebbe uscito sconfitto. Sembrerebbe una balla, ma l’avevo constatato con i miei occhi. Teneva lo sporran per le grandi occasioni; eventi catastrofici, del tipo la perdita delle chiavi di casa. Forse, in fondo, era uno stregone. Un mago. Un
terribile e potente folletto ritornato sulla terra sotto mentite spoglie, quelle del bravo ragazzo. Pensare al giorno in cui c’eravamo conosciuti non mi era molto di conforto, però poteva aiutarmi a trovare il sorriso, laddove James me lo avesse fatto spegnere una volta per tutte. In una sola parola, James fu la manna piovuta dal cielo, sulle mie parche mani, più o meno dieci anni prima. L’unico uomo che non rifiutai. L’unico dagli occhi sorprendentemente azzurri, dal quale non scappai a gambe levate. Un record. Era il mio migliore amico. La persona più importante, per questo e per altri ottimi motivi. A vent’anni la mia vita era una disgrazia. Più o meno come a trenta, insomma. Una vecchia amica di mia madre, che diventò alla sua morte la mia tutrice, mi incitò con accanimento a trasferirmi da lei, a Milano. Accettai, se non altro perché era stata così gentile da trovarmi un lavoro come correttrice di bozze in una grande casa editrice. Agli inizi vivevo da lei, ma poi la convivenza diventò un incubo. La vecchia e grassa signora Orlandi, nominata da me donna Maria, era devota di Padre Pio e, ogni giorno, mi raccomandava al santo, affinché proteggesse me e la mia anima impura (supponeva che a vent’anni non fossi più vergine, non sapendo che la realtà, purtroppo, era ben diversa!). Mi regalò un santino da tenere nel portafogli e ogni mattina, prima di uscire, me lo faceva baciare. La sua casa era un vero e proprio reliquiario. Immaginette, statuine votive e fotografie dei luoghi di pellegrinaggio cristiani tappezzavano ogni centimetro della sua piccola villetta, in periferia di Milano. Il mio sgomento furono i nani in giardino, accanto a una piccola statua di Maria. All’inizio la scambiai per Biancaneve. L’occhiata feroce di donna Maria, come la solevo chiamare, mi rimise a posto. Oh, cara, si vede che non sei devota come me. Ma su, su, non ti preoccupare, avremo tempo per insegnarti. Ho giusto una Bibbia che fa al caso nostro. Starai benissimo da me!
Volevo scappare dopo appena due minuti che ero arrivata. Non si trattava di uomini dagli occhi azzurri, ma di mantenere la mia sanità mentale. Strinsi i denti e feci buon viso a cattivo gioco. In casa di donna Maria mi sentii circondata. Letteralmente. In ogni dove scorgevo qualche santo che mi osservava dubbioso con i suoi occhi da santo. Mortificata, andavo in chiesa ogni domenica. Forse donna Maria aveva ragione. Ero una peccatrice, anche se non sapevo in che cosa peccassi in quel periodo. La mia triste vita aveva bisogno di una svolta. Fu così che l’accontentai, frequentando alcune riunioni di catechismo domenicale. Il primo giorno notai, esterrefatta, che ero l’unica ragazza del gruppo. Volti rugosi di ottantenni invidiose mi fissarono allibiti e costernati, con la puzza sotto il naso, fino a quando trovai una scusa e non ci andai più. Avevano paura di essere surclassate agli occhi del bel giovinotto di Don Francesco, che aveva più o meno sessant’anni suonati. Donna Maria mangiò la foglia quando, con allegria velata, le dissi di avere un’amica, che mi avrebbe accompagnata alla chiesa del suo paese per le lezioni di catechismo. «La tua amica è proprio una brava cristiana» mi disse con un sorriso bonario, mentre i suoi occhi cisposi s’infossavano, formando un tutt’uno con la pappagorgia. Forse era per le bugie raccontate, che avrei dovuto confessarmi da Don Francesco. Le presunte serate di catechismo erano, in realtà, divertenti bevute in alcuni pub, che la mia amica Samantha, così si chiamava, frequentava. Erano i classici pub di stampo Irlandese, trapiantati in Italia e poco originals, nei quali lo spirito dei folletti poco aveva a che farci. Non c’erano grandi e grossi uomini dai capelli rossi intonare antiche canzoni celtiche e danzare la giga sopra i tavoli. Niente di tutto questo. Tipicamente Irlandese era invece la luce soffusa. E i lividi alle mie ginocchia, che, immancabilmente, andavano a sbattere contro i tavoli di legno massiccio. Tuttavia, l’ambiente era pieno di vita, animato e divertente.
La birra scorreva a fiumi, un’altra cosa tipicamente Irish. Scura, rossa, chiara, di ogni sorta. A me non piaceva, preferivo il famoso Irish coffee, una prelibatezza. Mescolavo la birra a quell’intruglio e, puntualmente, mi ubriacavo. Prima di rientrare a casa da donna Maria, Samantha era costretta a tenere i finestrini della macchina aperti. In estate la cosa non m’infastidiva, ma in inverno ci rimettevo anche la salute. «Non reggi l’alcool, Angelica, sei un disastro» mi apostrofava Samantha. Come non darle torto? Decisi di non bere più e mi limitai a osservare gli altri. Uno sport poco simpatico, ma efficace. Avevo un po’ di problemi a cui pensare. Uno tra questi, l’abbordaggio da parte dei coetanei. I ragazzi ventenni erano foruncolosi e piuttosto inclini, più che a fare amicizia, alla botta e via. La maggior parte, dopo essersi presentati, ti domandava: me la dai? La prima volta rimasi impalata come una mummia, a bocca aperta. Fu Samantha a correre in mio aiuto. Ma figurati se la dà proprio a te, devi fare la fila, allora! Imbarazzata oltre ogni dire, sfoderavo sorrisi contriti e negavo con la testa, esibendomi in un accorato: no, grazie. Proprio nell’istante in cui ringraziare Dio mi sembrava cosa fatta e tutti i ragazzi foruncolosi se la davano, ma a gambe, dalla sottoscritta, accadde qualcosa di singolare. Qualcuno bussò timidamente sulla mia spalla. «Potto?» eh? Alzai lo sguardo e incredibili occhi color degli zaffiri mi fissarono, a pochi centimetri di distanza. Un sorriso furbo e fanciullesco spuntò su labbra sensuali. Farfugliai qualcosa d’incomprensibile, attratta come una falena da ciò che reprimevo da tempo. Scappare? Ero incollata col bostik su quella sedia, altroché. Incredibile, ma vero. Non reagii. «Mi scusa, potto sit down, ehm, como dite voi, sittere me?».
Notai, mentre tentava di parlare un orrendo Italiano, che non era tanto alto. Forse un metro e settanta, poco più. I capelli avevano un buffo taglio alla Beatles e la frangia spioveva simpatica sulla fronte alta. Il naso aquilino, con una piccola gobbetta sulla sommità, era singolare. Affascinante. Accattivante. Carismatico. Lo fissai a lungo con la bocca spalancata. Sorrise. Si sedette lo stesso accanto a me. Bevve, alzando il bicchiere e intonando un cantilenante cheers. Aveva un buffo accento, non mi sembrava inglese. Si voltò e mi fissò. Mi sembrò di annegare in quegli occhi, di un azzurro così intenso che mi parve, per un attimo, di volare nel limpido cielo di una giornata estiva. Le labbra erano piene e invitanti, come pesche mature. Una bella metafora. I capelli erano rosso scuro. Una gomitata alle costole mi risvegliò dallo stato catatonico in cui ero caduta, mio malgrado. Mi mancò il respiro. «Cazzo, Samantha, ma vuoi uccidermi?». Lei non badò ai miei insulti. Lo sguardo fisso, come un cane da punta, sul mio vicino straniero. «Chi è?» farfugliò sotto voce e mangiandosi le parole. «Non lo so» risposi piccata. Samantha mi guardò come se avessi tre teste. Così, prese di petto la situazione. Afferrò la mano del povero ragazzo e la stritolò per bene. Lui non fece una piega. Sorrise. «Ciao, sono Samantha. Come ti chiami?». «James, mi nome». «Oh, sei straniero? Di dove sei?». Come se parlare a voce alta potesse aiutarlo a capire meglio la lingua. «I’m Scottish. Scozia! Glascow».
«Ohhh» la bocca di Sam si ampliò in una ola. James non le badò, ma rivolse uno sguardo intenso su di me. «Your name is…». Fortunatamente, conoscevo abbastanza l’inglese di base, un’infarinatura piuttosto superficiale, tale da non farmi sfigurare e rispondergli: «My nome ès Angelica» in inglese alquanto maccheronico. Gli occhi di James fecero una capriola all’indietro con tuffo carpiato sul suo sorriso. «My girlfriend’s name, wow». Già, wow. Samantha non fiatò più. Il potenziale nuovo fidanzato era già stato accalappiato. I contorni delle labbra s’incurvarono all’ingiù. Era così buffa, che mi fece ridere. «Amazing, isn’t it?» replicò James incuriosito dall’omonimia tra me e la sua girlfriend. La situazione era così buffa, che incominciai a ridere come una scema. Samantha, indispettita, fece un gestaccio a James che mi fece torcere le budella. «Lavoro fa tu? Work?». James era in vena di conversare. «Copywriter». «Ohhh» le sue stupende labbra si arricciarono. «Me an actor» aggiunse affabile puntandosi un dito sul petto e regalandomi un sorriso aperto e sincero. Registrai la notizia con qualche secondo di ritardo. Samantha, invece, raddrizzò le orecchie e puntò di nuovo gli occhi a raggi laser, scandagliandolo attentamente. «Un actor? Attore? Really?». James annuì, con scetticismo, voltandosi verso me per capire meglio. Mi convinsi che condividesse la mia stessa opinione su Sam.
Infatti, lei batté le mani tutta contenta e cominciò a elencargli i suoi idoli, una lunga lista di nomi molto noti, supponendo che James fosse un attore famoso e che li conoscesse tutti. Ero così imbarazzata che mi feci piccola, quasi inesistente. Rimasi ad ascoltare gli sproloqui della mia amica e compatire il povero malcapitato. A un certo punto, scoppiò una tremenda diatriba tra i due. Sam era alquanto seccata che lui non conoscesse quel gran figo di George Gordon. James alzò le mani a mo’ di resa e tentò di spiegarle che non era un vero e proprio attore, ma che stava studiando per diventarlo un giorno non molto lontano. Lei invece gli lanciò un’occhiata scettica e, schioccando la lingua, sentenziò che mai e poi mai avrebbe potuto essere famoso come quel ‘granpezzodifigodigeorge’! James abbassò la testa, imbarazzato, mi sentii solidale con lui. Sam se ne andò a testa alta, lasciandoci soli. James sospirò di sollievo. «She è crazy, but a buona girl» sussurrai, tentando una via di fuga dal mio imbarazzo. «Oh, I suppose». Certo, supporlo non era lo stesso che crederci. Supponevo che lui supponesse qualcos’altro, ma che fosse tanto gentile da tenerlo per sé. James mi conquistò all’istante. Fu amicizia a prima vista. Si trovava a Milano per uno stage in drammaturgia. Sarebbe rimasto per pochi mesi, poi sarebbe ritornato a Londra, dove viveva da un paio di anni facendo la spola con l’Italia, che amava particolarmente per pizza e spaghetti. Ovviamente. Gioviale e divertente, riempì le mie lunghe e grigie giornate trascorse a correggere romanzi. Il lavoro impegnativo e faticoso non veniva affatto compensato da un ritorno a casa tranquillo e sereno. Donna Maria mi soffocava con le sue premure e le sue preghiere. A un certo punto dovetti trovare una soluzione al problema e, con i pochi soldi racimolati in cinque anni, riuscii a trovare un modesto appartamento in affitto in periferia di
Milano. Una camera da letto, un salotto, un bagno, un cucinino. Affitto modico: cinquecento euro al mese. Non era male, ma mi costrinsi a una dieta ferrea per entrare nelle spese. Non avrei mai elemosinato da donna Maria. Piccolo era un eufemismo, ma la libertà ottenuta compensava lo squallore nel quale lo trovai, quando l’inquilino precedente mi lasciò le chiavi: uno squinternato, che si faceva canne a gogò delle cui tracce, sia olfattive che visive, la casa era impestata. Non sapevo di cosa vivesse, ma il puzzo e lo sporco mi diedero una vaga idea. Appena entrata in quel tugurio, mi misi le mani nei capelli e urlai disgustata. Occorreva una ditta di pulizie, non le mie uniche mani per compiere un miracolo, così optai per l’aiuto di donna Maria, che si armò di piumino, cif e altre diavolerie e in poco tempo trasformò l’appartamentino in un vero specchio. Quando volle aiutarmi anche ad arredarlo, declinai cortesemente. Immaginai il trasloco delle statuine votive in eccesso e mi venne un piccolo cedimento. «Grazie, ma lo arrederò da me» risposi senza preamboli. Se ne ebbe un po’ a male, ma non fiatò. Ero terrorizzata, perché da tempo voleva disfarsi di Biancaneve, alias la Madonna nel giardino accanto ai nani, per comprarne una più grande. Poiché don Francesco non aveva posto nella sua parrocchia, donna Maria voleva farmi un regalo, che pensava fosse gradito. I miei capelli si erano talmente rizzati, che si convinse avessi messo un dito nella presa della corrente difettosa del mio cucinino. Fortunatamente scampai a quell’incubo, James accorse in mio aiuto. Si prese carico di quella Madonna e la portò in teatro dove studiava recitazione. Disse con accento molto Scottish e poco Italiano, un miscuglio di italiano-maccheronico e scozzese: dont’ worry, Maria, io prendo cura di tua statue! Donna Maria lo guardò con occhi pieni di affetto. Adorava James. Tutti lo adoravamo. Già. La mia amica Samantha, invece, mi tornò molto utile. Mi scarrozzò in lungo e in largo in ogni dove e cioè mercatini dell’antiquariato stracolmi di meraviglie a poco prezzo, e in men che non si dica, casa mia diventò un piccolo regno incantato.
James, invece, mi aiutò a dipingere le pareti. Anzi, fece quasi tutto lui. Per potersi permettere le lezioni di recitazione, aveva lavorato come operaio, panettiere e imbianchino. Un ragazzo d’oro, con la O maiuscola. Più vecchio di me di un paio di anni, sembravamo fratello e sorella. La sintonia tra noi era un miracolo. Eravamo affezionati l’uno all’altra, e quando andava a Londra mi telefonava quasi ogni giorno. Per la prima volta nella mia vita non mi sentivo più sola. Avevo anche relegato in un angolo del mio cuore, piuttosto impervio, il dolore profondo provocato da mio padre. Un altro miracolo. James, al quale avevo raccontato la triste storia della mia infanzia, mi ripeteva fino alla nausea di non sprecare la vita evitando gli uomini solo per paura. Di rimando gli rispondevo che non mi sarei mai innamorata di nessuno, a meno che non fosse meraviglioso come lui. Passavo sopra al fatto che avesse gli occhi azzurri, considerandola una quisquilia di poco conto. Non era una dichiarazione la mia, sia chiaro. Ero davvero convinta. Dopo aver conosciuto James, tutti gli altri mi sembravano insignificanti. Lui ci rideva sopra e, con un sorriso sornione e un occhiolino da farti svenire, faceva la parte dell’uomo sexy e irresistibile. Un vero diavolo. Uno spasso. A dir la verità, dicevo queste cose perché volevo evitare di soffrire. Pensare a James come un possibile pretendente, era come sparare sulla croce rossa. Troppo bello, troppo amico per poter anche solo pensare che tra noi potesse esserci del tenero. Non si sarebbe mai avverata una cosa simile, no? Il mio cuore non poteva essere libero per nessuno. Mi sbagliavo. Fu in uno di quei mercatini che palpitò per la prima volta. M’innamorai perdutamente, ma fuggii anche da quell’amore e spezzai un altro cuore. Non mi faceva troppo bene pensare a quel che avevo combinato all’epoca, quando, al presente, mi sentivo ancora peggio. Le mie fallimentari relazioni amorose andavano di pari passo alle disgrazie, che tormentavano da sempre la mia vita. Pensare ai momenti positivi era come cercare un ago in un pagliaio. Solo leggere mi rilassava, estraniandomi da una realtà deprimente.
E James. Cercavo con tenacia di prendere ad esempio le letture meravigliose e spirituali di uno scrittore che mi piaceva molto il quale, tramite la sofferenza, era riuscito a carpire il vero significato della vita e dell’anima stessa. Ma, se provavo a leggere dentro il mio cuore, m’imbattevo in un muro dipinto di nero; entrare nel mio io era come navigare in un burrascoso mare in tempesta. James mi prendeva spesso in giro, ma alla fine lui era fortunato. Solare, estroverso, a trent’anni aveva già raggiunto l’apice del successo. Sì, perché era riuscito là dove tanti avrebbero voluto, senza fare alcuno sforzo e senza un briciolo di talento. Lui, invece, con l’umiltà, il duro lavoro e una naturale predisposizione alla recitazione, era sulla via giusta. La fama lo stava ricoprendo di gratificazioni meritate e anche di tanto oro. La cosa più bella di James era che, a differenza di altri, rimaneva lo stesso ragazzo di sempre e contribuiva ad aiutare la famiglia in Scozia. Una madre, una nonna e due sorelle alle quali rimpolpava puntualmente il conto in banca. Ci aveva provato anche con me, ma rifiutai. Non volevo nulla da lui, se non la sua grande e profonda amicizia. Samantha, quella del ‘nonsaraimaibravocomegeorge’, alla prima al cinema, si gonfiò d’orgoglio e spifferò ai vicini di poltrona che lei, James Mckinney, lo conosceva benissimo. Ovviamente, ebbe scarsi risultati nel convincimento. Tutti la osservarono con condiscendenza, come se l’unica cosa a mancarle fosse la camicia di forza. Piansi di commozione, nel vederlo in un ruolo mozzafiato e drammatico. Non avrei mai pensato fosse così bravo e anche camaleontico, capace di recitare sia nel dramma che nella commedia. Ero così orgogliosa di lui. Io. Angelica, l’amica Italiana. Che lo conobbe in un pub Irlandese. Che condivise con lui gioie e dolori. Che era un’amica vera. Che divideva con lui, sotto pseudonimo in Italia, un grande appartamento dotato di tutti i comfort.
Che sarebbe stata defenestrata dall’attore famoso, non appena avrebbe saputo che l’amica fidata aveva perso le chiavi del suo rifugio, quello, da sue testuali parole, ‘dovemainessunomitroverà’. Mai nessuno lo troverà? Troncherà la nostra amicizia. Mi denuncerà alla polizia. Chiamerà anche le forze speciali britanniche, l’MI5, come quelli che vedevo in televisione. Gli Spooks. Vivrò per sempre dietro le sbarre. La mia vita avrà il suo the end.
2.
Tornai indietro piano piano. Le lacrime incominciarono a salire vertiginosamente agli occhi e cadere precipitosamente sulle guance. Rivoli simili alle cateratte del diluvio universale. Nel frattempo feci come donna Maria, pregai. Pregai così tanto che, se don Francesco mi avesse vista, mi avrebbe benedetto, con la gioia dipinta negli occhietti neri e vispi. Pensai di ritornare in ufficio e chiamare James per dargli la notizia, ma mi mancò il coraggio. Vigliacca. Vigliacca e codarda. Incominciai a setacciare il marciapiede. Ogni tanto mi fermavo a guardare se qualche cartaccia sporca e bisunta fosse qualcosa di mio. Mi costringevo a prenderla in mano e sezionarla, come una barbona. La gente che mi osservava si allontanava fissandomi con occhi pieni di ribrezzo. A un certo punto, un passante mosso dalla compassione gettò due euro. Volevo morire dalla vergogna, invece che feci? Lo ringraziai. Ero scesa al massimo dei livelli di pena consentiti dalla legge. Niente, non trovai assolutamente nulla. Il portafoglio, il cellulare e le chiavi di casa erano spariti. Il marciapiede se li era ingoiati. Aveva fatto un boccone della mia intera vita, per poi sputarmi chissà dove.
In balia degli eventi pensai che, denunciare il fatto alla Questura per la mia assoluta negligenza, mi avrebbe portato anche a farmi deridere dall’intero corpo di polizia. Se, per puro caso, si fosse venuto a sapere che James viveva con me, in due secondi i giornali avrebbero gettato in pasto a tutti la sua vita. James si sarebbe incazzato, rompendo ogni rapporto, io sarei finita su una strada perché l’appartamento era di sua proprietà e, come ciliegina sulla torta, avrei anche perso il lavoro (e in quei giorni c’era odore di promozione per me). Per concludere in bellezza, avrei finito col fare proprio ciò in cui mi stavo esercitando: la barbona. Dovevo pensare, rimuginare, riflettere. Tanto per prendere dimestichezza con il mio nuovo status, mi sedetti sul marciapiede nel punto in cui ero stata salvata dallo sconosciuto dagli occhi azzurri. Il mio odio s’intensificò. Se mio padre era ancora vivo, allora speravo che tutto ciò che mi aveva fatto si moltiplicasse su di lui per tre volte. Sì, come dicevano le streghe Wicca o chi per loro. «Porca vacca» sibilai. «Qualcosa non va, posso aiutarti?». Di nuovo un urlo. Presa alla sprovvista, non mi aspettavo di essere abbordata di nuovo. Non si poteva stare tranquilli nemmeno sul marciapiede, adesso? Quando alzai gli occhi furenti, m’immobilizzai perdendo il respiro. Uno: era un poliziotto, con pistola alla cintola, manganello e manette, giusto per non farsi mancare nulla. Due: lo conoscevo bene, purtroppo, anche se non sapevo affatto che fosse diventato poliziotto. Deglutii e, lentamente, mi alzai. Non era mia intenzione pensare a lui pochi istanti prima. Forse il mio pensiero aveva preso forma e lui, che si trovava nelle vicinanze, lo aveva captato. Credevo a quelle cose.
Tutto ciò che si pensa alla fine si materializza, forse un tantino new age come filosofia, ma ero incline a quella forma di spiritualità, mi si addiceva. Per la gioia di donna Maria. Tuttavia, non mi aspettavo di vedere quel particolare pensiero dopo tanto tempo, più in forma e splendido che mai. Sorrisi in modo neutro, quasi naturale. James mi aveva insegnato a nascondere le emozioni, sfruttando i suoi infallibili metodi di recitazione. Grazie tesoro, pensai. In quel momento niente rivelava il mio sconvolgimento interiore. A parte il labbro superiore, che tremolava leggermente dall’agitazione. Andrea, così si chiamava il mio pensiero materializzato, si avvicinò per focalizzarmi meglio. Dapprincipio indifferente, poi sorpreso, poi assolutamente indifferente. Forse non mi aveva riconosciuto. Ma come? Mi aveva già dimenticato? Deglutii. Non avevo scordato il primo infuocato incontro, la nostra romantica storia e la sua tragica fine. In pratica ogni momento era impresso nella mia memoria. Soprattutto quando, dopo un anno d’amore, all’improvviso lo lasciai senza alcuna spiegazione. Andrea se la meritava, ma non ne possedevo di valide, così mi dileguai, sparii, mi smaterializzai dalla sua vita per sempre. E lo feci, cambiando appartamento e facendo perdere le mie tracce. Per merito di James, il quale aveva comprato un ampio appartamento di centoventi metri quadri, orribilmente lussuoso, in una zona molto chic di Milano e mi chiese se volessi dividerlo con lui. James non s’intrometteva mai nella vita altrui, il suo motto era vivi e lascia vivere. Mi consigliava solo se chiedevo implorante il suo prezioso aiuto. Quella volta, però, rimasi in silenzio e non ne parlai. Se anche James avesse pensato che stessi sbagliando su tutta la linea, non mi avrebbe mai e poi mai detto che cosa fare. A quei tempi, qualcuno lo aveva scritturato per una parte importante in un film e quel film aveva ottenuto enorme successo. I soldi ricavati furono spesi per comprare il famoso appartamento a Milano e desiderò a tutti i costi che ci abitassi con lui e con le sue ragazze del momento. Angelica già se l’era dimenticata. Dovevo fargliene una colpa? Macché, mi divertivo a vedere quanto duravano le sue conquiste.
Loro s’innamoravano perdutamente, ma lui mai. Non prometteva il matrimonio, né un fidanzamento, solo relazioni libere e senza vincoli. Miracolosamente, queste ragazze accettavano e, dopo aver tratto piacere reciproco, lo lasciavano, soddisfatte di aver vissuto una relazione molto hot (così dichiaravano alla sottoscritta, facendomi l’occhiolino di circostanza) con un attore promettente che sarebbe diventato famoso, per poter infine dire ‘iol’hoconosciutoJames’! Incasellare il mio amico con definizioni del tipo “sei uno sporco maschilista e sfrutti le donne” non mi sembrava giusto. Era giovane, aveva tutta la vita davanti a sé, ed era sempre stato chiaro con tutte. Onesto, forse superficiale, ma con James non si sapeva mai. Era capace di provare una profonda tenerezza per un animale ferito o per il mio caso da psichiatria, oppure essere terribilmente serio e stakanovista nel lavoro. Perdonargli una condotta leggera mi sembrava il minimo. Prima o poi si sarebbe innamorato, l’avrebbe sposata e sarebbe stato con la donna della sua vita per sempre. In realtà, speravo non succedesse così presto. Perderlo sarebbe stato un colpo terribile. Ero tanto legata alla nostra amicizia, di così vitale importanza per me. Qualsiasi ragazza occasionale era, perciò, la benvenuta. Gli fui grata per il trasloco dal mio mini appartamento al suo trilocale elegante. Non mi domandò che mi passasse per la testa, né il motivo per cui Andrea svanì dalla mia vita. Accettò anche quando, colta dalla più cupa disperazione, piansi sulla sua spalla per una notte intera, spiegandogli quel che avevo combinato: «Se sei innamorata di lui, allora fa’ qualcosa» disse con serietà. «Sarà sempre lo stesso, James, finirà male». «No, tu non sai, non puoi sapere, non sei God, Angelica. Devi cercare di lasciar parlare di più il tuo cuore, altrimenti finirai per rovinarti la vita senza averla mai vissuta veramente. Non devi appassire, hai molto da dare alle persone». L’affetto di James poteva compensarmi di un vuoto, che riempiva il mio cuore da troppo tempo? Forse sì. Forse avrei dovuto lasciarmi andare e offrire un’occasione a me stessa, per la prima volta.
I rimorsi ebbero la meglio e tentai in tutti i modi di tornare con Andrea. Ci provai per lo meno. All’inizio ero innamorata, ma a un certo punto mi convinsi che anche Andrea fosse come mio padre. Mi avrebbe abbandonata. Mi avrebbero abbandonato tutti, prima o poi. Così, lo lasciai di nuovo per evitare di soffrire, non pensando che avrei patito molto di più. Un errore madornale che Andrea non perdonò. La vergogna di ciò che avevo fatto, mi fece arrossire. Di fronte ad Andrea vestito da poliziotto, i ricordi fluttuarono come piccoli fantasmi per tormentarmi. Abbassai lo sguardo. Mi aveva perdonato, oppure no? Ci pensai così a fondo, che dimenticai la mia odierna sfortuna. Persino il fatto che potevo diventare una povera squattrinata e vivere sotto un ponte. «Angelica, che ti è successo?». Quella domanda a bruciapelo mi colse impreparata. Lo fissai inebetita. Andrea si avvicinò. Fui costretta ad alzare lo sguardo. Non ricordavo fosse così alto. Un metro e ottanta, forse più. Fisico asciutto, forte. Ciò che più di tutto amavo in lui erano i suoi caldi occhi scuri. Di una sfumatura simile al cioccolato fondente, con qualche sbavatura dorata. Incredibili. E il suo sorriso. Disarmante. Sentirlo pronunciare il mio nome mi provocò una contrazione al petto. La sua mano sfiorò la mia e tremai. Corrugò la fronte, mi accorsi che le rughe degli occhi gli conferivano un aspetto maturo e affascinante. «Angelica? Che cosa ti è successo? Qualcuno ti ha fatto del male?» la sua voce preoccupata mi mise in allerta. Certo, era il suo lavoro, di sicuro lo faceva bene. «N… No» balbettai. Una conversazione surreale, lo ammisi. Saltare i convenevoli non mi dispiacque affatto. Si accorse del mio zainetto aperto e capì. «Ti hanno derubato?» domandò, scrutandomi con attenzione. Forse fu il mio sguardo mesto e addolorato, ma Andrea, da bravo poliziotto, capì e chiamò col suo walkie talkie la centrale. Tutto ciò che seguì da quel momento si trasformò da sogno a incubo. Oppure da tragedia a commedia dell’assurdo.
«Dobbiamo andare alla centrale, devi sporgere denuncia!». A chi, a me stessa? Mi ritrassi, impaurita, ma non volle sentir ragioni. Dovetti arrendermi, se non altro perché, altrimenti, mi avrebbe portato dentro per resistenza a pubblico ufficiale. Salii in macchina e un passante sussurrò sbuffando, ‘sembra talmente una brava ragazza, al giorno d’oggi non ci si può fidare di nessuno’. Mi vergognai tanto, che arrossii. Le lacrime sgorgarono di nuovo. Andrea non badò a quell’uomo, fece l’indifferente. Avrei dovuto imparare da lui. Il silenzio calò su di noi, come un’accettata sulla testa. L’aria si tagliava col coltello. Non era un silenzio sereno, ma carico di perché? come? quando? Ero così assorta nei miei pensieri che, quando Andrea mi parlò, sobbalzai sbattendo la testa sul poggiatesta. «Tutto sommato, ti trovo bene». Tutto sommato? «Già, anche io ti trovo bene in divisa. Come mai hai deciso di fare il poliziotto?». Domanda neutra alla quale poteva seguire solo una risposta neutra. «È stato tre anni fa. Il mondo è pieno di delinquenti». Tre anni prima avevamo rotto. Forse lo aveva fatto per riscattarsi. Pensava fossi una delinquente anch’io. Delinquente e traditrice. Se solo non avessi preso parte alla commedia degli equivoci e gli avessi spiegato, le cose sarebbero andate diversamente. «A proposito» continuò imperterrito «sei ancora fidanzata?». Lo pronunciò come se stesse sputando con rabbia il nocciolo di un’oliva. Lo sapevo. Il male fatto mi stava tornando indietro come un boomerang. Non credevo si ricordasse della mia umiliante sceneggiata in discoteca. Dopo il famigerato trasloco nel nuovo appartamento de-lux, James decise di festeggiare. Voleva portarmi in un locale contro la mia volontà. Era difficile potergli negare qualcosa, la sua forza di convinzione era irresistibile. La testardaggine ferrea. Accettai perché mi stava trascinando in pigiama.
Quel luogo era infernale. Detestavo le fumose e rumorose discoteche. La musica rimbombava nelle orecchie e c’era così tanta gente e fumo, che mi mancava il respiro. Ma fu un ottimo rimedio per dimenticare cosa avevo combinato con Andrea. Dato che James era un gentleman, quella sera decise di farmi da cavaliere e, nonostante le occhiate lascive di migliaia di ragazze, non ne degnò alcuna di interesse. «Ho invitato te, sarai la mia regina, stasera». Più che regina, mi sentivo tanto la strega cattiva. Però mi stavo divertendo, così accettai la sua adorabile compagnia. Quella sera la tristezza sfociò nell’alcolismo e James purtroppo sapeva dell’effetto micidiale di birra e cocktail su di me. «Andiamo, James, tesoro, fammi un regalo, permettimi di ubriacarmi, è da tanto che non lo faccio». James acconsentì, ma inarcando di sbieco il sopracciglio. Mi disapprovava. Chissenefregava, alla fine la vita era mia, no? La mia guardia del corpo non si staccò da me nemmeno per andare al bagno. Anzi, dato che barcollavo vistosamente, mi ci portò più di una volta. L’alcool ingerito mi tolse ogni freno inibitorio e, a un certo punto, mi lanciai in pista a ballare trascinando il povero James. M’incollai a lui come una sanguisuga e ballai con sensualità, abbracciandolo. Sembravo una piovra. In preda a una sbornia colossale, mi accorsi che era irresistibile. Gli occhi blu cobalto brillavano, i capelli gli spiovevano sulla fronte, conferendogli un’aria sexy, e le labbra erano invitanti. Il suo corpo aderiva al mio, come fossero fatti per stare insieme. Il mio sguardo s’annebbiò. Mi fissava con intensità. Soli. In mezzo a una rumorosa discoteca piena di gente. La mia ragione lottò strenuamente con i sensi. Non ero così sbronza da non capire che stava accadendo qualcosa. Non infrangere le regole dell’amicizia tra uomo e donna, quando l’attrattiva sessuale era così forte, bastò per non cedergli.
Mi scostai in preda al panico, ma mi trattenne, forse temendo che cadessi. Come un elastico, rimbalzai sul suo torace e mi trovai a tu per tu con quegli occhi incredibili. James s’impadronì della mia bocca all’improvviso. Quel bacio mi tormentò per molto tempo, soprattutto quando di notte soffrivo d’insonnia. Il bacio più ardente della mia breve vita sentimentale. Anche Andrea baciava bene, ma non così. James era indimenticabile. Le sue labbra calde e invitanti. Irresistibili. Le mani premettero con delicatezza sulla schiena, per poi salire sul mio volto e posarvisi leggere e carezzevoli. Mi accarezzò la guancia col pollice. Rabbrividii. Aveva un buon profumo. D’un tratto non fu più un casto bacio da adolescenti. Il desiderio traboccò come un fiume in piena. Lo lessi nei suoi occhi e lui lo scovò nei miei, seppur cerchiati di stanchezza e profondamente ubriachi. James si staccò da me e mi contemplò inorridito. Colpevolizzato da un desiderio rivelatore, che tutti e due avevamo respinto. Come quando Eva invitò Adamo a mangiare la mela del peccato. Entrambi eravamo coscienti dell’errore, eppure volevamo saziarci di quel frutto proibito. Tuttavia, la sofferenza nel suo sguardo polverizzò l’ultima briciola di ragionevolezza. Mi sentii un vero schifo, soprattutto perché era successo sotto i malefici influssi dell’alcool che avevo ingerito. «Domani te lo sarai già dimenticato, Angelica. Perdonami. Non volevo. Non so che mi è preso…». Non voleva? Ohhh: «Oh». Non fui in grado di aggiungere altro. Non ci riuscii, perché Andrea sbucò alle spalle di James, toccandogli un braccio e, quando questi si voltò, lo colpì sulla mascella con un gancio degno di un boxer, che fece caracollare James in terra KO. «Oh Dio, ma scche hai scfatto?» urlai contro il mio ex, biascicando le parole, la bocca impastata dall’alcool.
Andrea, i pugni stretti per la collera e lo sguardo rivolto verso il mio amico, non rispose. Mi fissò come fossi una sgualdrina. Fu la prima volta nella vita che mi vergognai, dopodiché il cuore si spezzò. «E così te la facevi con lui alle mie spalle. Dimmelo, Angelica» urlò davanti a tutti. Arrossii vistosamente, mentre tentavo di rialzare James da terra. Col labbro sanguinante, il cipiglio assassino e le mani a pugno, degnò Andrea di un’occhiata bieca, una del suo repertorio peggiore. «Lasciala stare, Andrea, non ha nessuna colpa» ringhiò di rimando. «Ah, ma certo. Vi ho visti poco fa, e non mi pareva le facesse schifo baciarti. Siete fatti della stessa pasta voi due. Peggio dei delinquenti». Una frase rivelatrice, un segno del fato. James alzò il braccio, ma lo bloccai in tempo: «No, James. Andrea lasciami scipiegare» tentai tra le lacrime. Andrea sparì in mezzo alla folla. Scomparve e non mi lasciò il tempo di spiegargli. Aveva ragione, ero una stupida. La mano di James mi accarezzò il viso bagnato. Mi scostai da lui e lo fissai. Era angoscia quel che vi leggevo? «Mi dispiace» disse «è tutta colpa mia. Vado e gli spiego tutto, ok?». No. Non volevo. Non potevo umiliare Andrea più di quanto avessi fatto. Andrea non poteva amarmi. Rovinavo ogni cosa. Avrei rovinato anche James, ne ero certa. «Portami a casa, James. Sciono troppo scbronza!». Quella notte, quando James mi coricò sul mio letto, fu illuminante. Avvolta dalle sue confortevoli braccia, in un bozzolo di serenità, capii che tutto ciò che avrei provato per lui, non avrebbe mai avuto ragion d’essere. «Angelica, non pensare male di me, ti prego. L’atmosfera e tutto il resto mi hanno fatto perdere la testa e tu eri beautiful». Alzai una mano. Gli accarezzai il viso, deglutendo rancore e rimorso per ciò che stavo per dirgli: «James, ti voglio bene, per nessuna ragione al mondo vorrei che il nostro rapporto s’incrinasse per uno stupido bacio. Dimentichiamoci di tutto, ti va?».
Chiuse gli occhi e poi li riaprì, sbattendo le ciglia lunghe e setose. Mi fissò per un tempo interminabile, annegai irrimediabilmente nel blu, mentre il mio cuore rullava come un tamburo. Non capii che cosa stesse pensando in quel momento. Ma quando uscì dalla mia camera, qualcosa si frantumò in mille piccoli pezzi. La mia dignità e alcuni frammenti di cuore, nei quali il nome di James era scritto a caratteri cubitali. Forse era inevitabile che provassi qualcosa di profondo per lui, ma lo seppellii dentro di me. Ritornai al presente. Osservai Andrea. Forse era arrivato il momento giusto per fare ammenda. «James non era il mio fidanzato, non lo è e non lo sarà mai». Strinse il volante con forza, lo sguardo duro e astioso. D’un tratto sorrisi. La situazione era così difficile, che sdrammatizzare era il modo migliore per alleviare la pena. Un lato positivo del mio intricato carattere. L’ironia, secondo me, era sottovalutata da tante persone, sorridere dei propri guai è indice d’intelligenza. «Ma non vai mai al cinema, tu?». Quella domanda lo spiazzò. Poi, ritornò serio. «Sì, con mia moglie». La risposta mi lasciò senza fiato. Bene, un punto per lui. Sposato. Bene. Ottimo. Cazzo. Deglutii e quasi mi strozzai. Incominciai a tossire e sputacchiare dappertutto, provocando un accenno di sorriso in Andrea. «So di averti fatto del male, ma ora sei sposato e, presumo felice, quindi va tutto bene! Sei pronto a perdonarmi, no?». Fine dell'estratto Kindle. Ti è piaciuto?
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