Questo romanzo è un’opera di fantasia. Personaggi, istituzioni, luoghi ed episodi sono frutto dell’immaginazione dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi, organizzazioni o persone, vive o scomparse, veri o immaginari è del tutto casuale.
Copyright © 2014 Tania Paxia Pubblicato in digitale il 5 maggio 2015 Foto in copertina: stryjek Licenza 2014 bigstockphoto.com Progetto grafico di Tania Paxia
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Prima che arrivassi tu
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Tieni stretti i tuoi sogni e non aver paura di realizzarli. (Unaware - Taylor Jordan)
C’era una volta‌
C’era una volta una ragazza insicura e piena di paure. Si era rinchiusa nel suo invalicabile castello, contornato da rovi di spine, per sfuggire alla realtà che la circondava. Niente nella sua vita era come aveva sperato. I suoi sogni erano irraggiungibili, lontani e, forse, troppo ambiziosi. Aveva fatto l’errore di sopravvalutare le sue capacità e non era riuscita a concludere molto. Così, aveva preso la decisione di sparire, divenendo invisibile. Pian piano perse ogni interesse per le sue passioni e per i suoi sogni, così come per la vita al di fuori del suo rifugio, ma soprattutto perse la fiducia in se stessa. Un giorno, però, un prode cavaliere, armato della sua spada laser, a capo del suo piccolo esercito strampalato, con l’aiuto di un principe, riuscirono a salvarla, infondendole un po’ del loro coraggio.
Occhio, eh! Non prendete alla lettera tutto ciò che ho scritto. Non ho vissuto in nessun castello contornato da rovi di spine. “Il castello, contornato da rovi di spine”, sta ad indicare un luogo figurato nella mente, dove mi piaceva rifugiarmi per sfuggire dalla realtà, a volte troppo opprimente. Non che la mia vita fosse costellata da brutti eventi o episodi tragici, anzi, ma a volte devo ammetterlo, qualche ingiustizia l’ho subita anche io. Fino al giorno della mia rivincita personale. Quello che sto per narrarvi, non è una favola, ma è la pura e semplice verità. È quello che mi è successo davvero e, purtroppo, sono stata io l’artefice di tutto. Se non avessi nascosto la mia identità, questa storia, non sarebbe mai esistita. Ah scusate! Non mi sono ancora presentata. Io sono Meggie Clarke, una cover designer con la passione per la scrittura, timida e impacciata, sognatrice ad occhi aperti, sempre e costantemente con la testa fra le nuvole.
1
La Bella e la Bestia
Sbang! Con un’arma di fortuna, colpii l’assalitore che mi aveva aggredita. In quella battaglia non potevano esserci gentilezze. Dovevo farmi coraggio, perché ero rimasta da sola contro tutti. I miei compagni di avventura mi avevano abbandonata, battendo in ritirata, di fronte a tutta quella carneficina. Difendere l’oggetto che custodivo gelosamente in una mano, era il mio obiettivo ed era l’incarico che avevo ricevuto dalla Regina Azzurra, erede al trono del Mondo di Sopra. No. No. Cancellai l’ultima frase. Avevo l’incarico di custodire gelosamente l’oggetto affidatomi dalla Regina Azzurra del Mondo di Sopra. Si, ma, mancava qualcosa.
Toc. Toc! “Meggie, ti disturbo?” la voce acida e acuta di Tiffany, la mia coinquilina, da me rinominata ‘la Bella’, interruppe la mia seduta di scrittura creativa della domenica. Ogni volta che avevo un po’ di tempo libero, mi esercitavo per qualche minuto, scrivendo dei trafiletti inventando qualcosa sul momento, senza seguire un filo logico.
Sì, che mi disturbi. Avrei voluto dirle. E, invece, da persona gentile, le risposi: “No, niente affatto!” Tiffany aprì la porta con una irruenza unica, degna solo della sua persona, dicendomi: “Non ti dà fastidio se stasera do una festa, vero?” era vestita con un accappatoio rosa shocking, con la crema energizzante spalmata sul viso e l’asciugacapelli attorcigliato sulla testa, a mo’ di turbante. I suoi occhi verdi mi scrutavano con impazienza, in trepida attesa. “La Bestia ha detto che per lui va bene, perché tanto ha un torneo di non-so-cosa con i suoi amici strambi, non-so-dove”. La Bestia era l’altro mio coinquilino: Cooper Rickards, un ingegnere informatico. Gliel’aveva dato Tiffany il soprannome, perché con i capelli lunghi e la barba incolta di quasi un anno, poteva sembrarlo. Per la cronaca, Coop aveva venticinque anni, come me, e da qualche mese era stato assunto come ricercatore e insegnante junior presso il New York Institute of Technology. Era una sorta di giovane genio, o qualcosa che gli si avvicinava molto. Riflettei sulla parola festa. L’ultima festa che aveva organizzato Tiffany, due giorni prima, era perdurata fino all’alba e io non avevo chiuso occhio, neanche ricorrendo alla valeriana. Ne avevo approfittato per terminare una copertina di un libro che avevo in scadenza, ma il giorno dopo ero praticamente una zombie. No. Meggie rifiuta! Mi diceva una vocina nel cervello. “Un’altra festa?” la fissai con le sopracciglia alzate. “È la seconda in una settimana”. Le feci notare. “Oh andiamo, Meggie! Ti preeeego!” intrecciò le mani a mo’ di supplica. Ero indecisa se dare ascolto alla mia vocina interiore oppure, accettare quella richiesta. “Hai già invitato tutti, non è vero?” anche se la conoscevo da soli cinque mesi, non aveva più segreti per me. Era un libro aperto. Tiffany annuì con la testa, mordendosi il labbro inferiore, quasi con una nota di pentimento. “Okay” le dissi sospirando. “Basta che non esageri con il volume della musica, anche perché i vicini ci hanno già dato un avvertimento”. “Sì, sì” sventolò la sua mano esile, dalle unghie rosse, curate dalla manicure. “Non preoccuparti. Non te ne accorgerai neanche!” dopodiché sghignazzò sadica, già pregustando il fracasso infernale che avrebbero fatto lei e i suoi amici.
Mi dondolai sulla sedia della scrivania, scuotendo la testa. Mia madre diceva sempre che ero troppo buona e non riuscivo a imporre il mio volere alle persone. Quando ero partita dall’Arizona e attraversato tutto il Paese per trasferirmi a New York, mi ero ripromessa di ricominciare tutto da capo, di avere una nuova vita e di tirar fuori il vero carattere che nascondevo da anni dentro di me, pronto a esplodere da un momento all’altro. Per il momento, però, non sembrava dar segni di vita. Non conoscevo nessuno a New York e mi ero detta che sarebbe stato facile fingermi una persona diversa. Purtroppo, la Meggie di periferia aveva preso il sopravvento, dopo aver varcato la soglia dell’appartamento in cui avevo trovato una stanza libera e, soprattutto, dopo aver visto la mia nuova coinquilina. La mia autostima andò a farsi benedire proprio in quell’istante. Tiffany era tutto il contrario di me: bionda, con gli occhi verdi, decolleté perfetto e gambe lunghe da top model. E in effetti, quasi lo era. Aveva partecipato ad alcune sfilate di qualche stilista importante. Io, beh…ero – e sono tutt’ora – tutto fuorché una modella, anche perché la mia altezza di un metro e sessantacinque scarsi, non credo che me lo permetterebbe. I miei capelli, di una tonalità rosso mogano, crespi fino all’esaurimento, per via delle continue tinture che donavano vita nuova al mio colore naturale castano chiaro, erano sempre improponibili, qualsiasi cosa io facessi per renderli soffici e pettinabili, con balsami e creme idratanti, ritornavano a vestire i panni della paglia ispida dopo pochi minuti. Io e lo sport non eravamo mai andati molto d’accordo, ma ogni tanto (quasi mai, in realtà) andavo in palestra a sgranchirmi le gambe o a fare jogging con alcune colleghe. Bing! Era il suono prodotto dalla notifica dell’arrivo di una nuova e-mail. Era domenica, quindi poteva significare soltanto una cosa: spam o altra robaccia pubblicitaria. Diedi soltanto uno sguardo, giusto per curiosità. Rimasi sorpresa e basita allo stesso tempo, quando lessi il mittente. Era l’agenzia letteraria che avevo contattato nel vano tentativo di essere accettata tra i pochi illuminati che avrebbero rappresentato alle varie case editrici. Si trattava di Amanda Bennett, della Mas Literary Agency. Era una delle agenti incaricate della casa editrice per la quale lavoravo come disegnatrice di copertine dei libri che pubblicavano. Direte voi…Allora è fatta! La conosci! Tutti riescono in qualcosa se hanno delle conoscenze. Mi dispiace deludervi, ma no. Non era così semplice. La mia morale me lo impediva. Saranno state tutte quelle lezioni di mio padre, sul meritarsi tutto ciò che si vuole nella vita. Quindi avevo trovato uno stratagemma per evitare che il mio nome spuntasse fuori. Non inviavo i manoscritti da sottoporre alle valutazioni degli editor o dei gruppi dei comitati di lettura, a mio nome, ma con lo pseudonimo di ‘Taylor Jordan’ da un
account apposito di posta elettronica, cosicché nessuno potesse risalire a me. Avrebbero valutato con criterio, in base al talento e alla storia. Forse la mia sfortuna, fino ad allora, era stata proprio quella. Ero a un pizzico dalla possibilità di essere presa in considerazione, ma non potevo esserne più lontana. Tutto per il mio stupido modo di pensare. O anche per il mio non-talento, s’intende. Mi apprestai a leggerla senza remore.
Gentile Taylor Jordan, la ringrazio per la sua presentazione e per avermi dato l’opportunità di leggere la sua opera. Mi scuso per la natura impersonale di questa e-mail, ma ogni giorno ricevo molte proposte e ciò fa sì che io non riesca a rispondere di persona a ognuna di esse. Grazie per la sua pazienza. Sfortunatamente, non sento questa opera adatta a me, quindi sono costretta a rifiutare. Solo perché io ho rifiutato, non vuol dire che non ci sia un altro agente al quale potrebbe piacere. La incoraggio a continuare a sottoporre il suo lavoro ad altri. Grazie ancora per aver pensato a me e le auguro il meglio per il futuro. Cordialmente, Amanda Bennett
Rilessi quella mail per due o tre volte, incapace di staccare gli occhi dallo schermo. Okay. Niente panico. Non era la prima e-mail di rifiuto che ricevevo da quando avevo iniziato a proporre i romanzi in giro…E allora? Sarei dovuta essere abituata a leggere rifiuti dagli agenti o dalle case editrici, ma ogni volta era sempre un colpo al cuore. Sbuffai, con una smorfia desolata sul volto. Non erano certo quelle le ingiustizie della vita, ma credetemi, era opprimente per una appassionata di scrittura, leggere che la sua opera ‘non era adatta per qualcuno’. Era soltanto un modo gentile per dirmi: “Non hai talento”, oppure “Il mestiere dello scrittore, non fa per te, cambia idea finché sei in tempo”, o ancora “La storia è carina, ma non abbastanza per essere pubblicata”. E ci sta tutto, per carità. Scrivo storie da quando ho sette anni, da quando ne ho scritta una sul mio gatto, Verne, immaginando che, una volta morto, giungesse nel paradiso dei gatti, sulla Luna. È una passione che mi scorre in corpo, che mi brucia nelle vene, come il veleno. Certo, tra lo scrivere ed essere pubblicata
c’è di mezzo il talento puro (e io ne avevo, e ne ho, di strada da fare!), la dedizione, lo studio approfondito delle tecniche e, consentitemi di aggiungere anche tanta, ma tanta, fortuna. Purtroppo, per venticinque anni della vita la fortuna non mi aveva assistito particolarmente, se non donandomi, ogni tanto, qualche piccola soddisfazione personale e sul campo professionale. Ma, diciamo pure che, non ero tra le persone più fortunate della Terra. Prima cosa, cercavo sempre di spendere il meno possibile, perché il mio stipendio non era come quello di un cover designer senior, dato che avevo iniziato a lavorare da poco, anche se sgobbavo dalla mattina alla sera davanti a uno schermo a disegnare e a inventare sempre copertine nuove e di grande impatto, ma era sufficiente a consentirmi di pagare la mia parte di affitto dell’appartamento dove vivevo e di comprare cibo a sufficienza per il mio fabbisogno “chilocalorico”, soprattutto dolci e la mia inseparabile compagnia di pranzi e cene: la pizza. Riuscivo a mettere da parte qualcosa, per le urgenze future e a fare shopping – limitato – di tanto in tanto. Dovevo pur mantenere un minimo di vita sociale. Proprio un minimo, eh. Giusto qualche birra, qualche aperitivo o cioccolata calda con i colleghi dell’ufficio, gli unici che conoscessi in città, oltre alla Bella, la Bestia e i loro amici. Poi, c’erano tutti quei manoscritti che inviavo alle case editrici o alle agenzie letterarie. Alcune si erano adeguate ai tempi moderni e si erano decise ad accettare manoscritti via e-mail, ma altre avevano mantenuto un rigoroso metodo di ricezione, piuttosto antiquato…e costoso per noi aspiranti scrittori. Alcune fotocopie le rimediavo in ufficio, quando nessuno poteva vedermi. Non era molto corretto, ma a mali estremi, estremi rimedi, purtroppo. Bing! Un’altra mail? Pensai, dopo essere riemersa da tutti i pensieri che mi si erano ammassati nella mente. Alzai un sopracciglio, quando vidi l’icona aperta di Skype. Conteneva un breve messaggio di una mia collega, Bethany Stuart, Beth per gli amici. “S.O.S”. Aveva scritto. Chiusi gli occhi, strizzandoli, per poi scuotere la testa. Già sapevo cosa mi aspettava. Quello era il nostro codice per avvisarci che l’indomani ci avrebbe aspettato una giornataccia, nonché una bella strigliata dal Capo. Ma, Beth, non aveva ancora finito di scrivere. Infatti, dopo pochi istanti, vidi comparire altre frasi minacciose. “Il Capo vuole parlarci, domani. Cover bocciate”.
Pregai in tutte le lingue che non avesse intenzione di licenziarci. “Chi te lo ha detto?” le risposi all’istante. “Sarah, che lo ha sentito da Chris, che lo ha sentito da Walter, che lo ha sentito da George, che lo ha saputo direttamente da Stacy”. Stacy era la segretaria del nostro Capo. Era vincolata al segreto professionale, ovvero non era autorizzata a comunicare nessuna notizia riguardante le decisioni del Capo, ma, come era ovvio, lei spifferava ogni cosa, nel giro di poche ore. “Perfetto. Siamo fottute”. Le risposi alla svelta. Toc, toc, toc Da quei tre sonori Toc, toc, toc, uno più insistente dell’altro, riconobbi lo stile geniale dell’altro mio coinquilino: la Bestia. “Meggie, sono Coop”. Ma va! Mi sarebbe piaciuto rispondergli, ma, invece, rimasi in silenzio. In quel momento non avevo voglia di parlare con nessuno. Forse, l’indomani, non avrei più avuto un lavoro e sarei dovuta tornare a casa, dai miei genitori, nel paesino microscopico in cui ero nata e nel quale si conoscevano tutti da anni. Ma che dico anni! Da generazioni e generazioni. “Posso entrare o non sei presentabile?” la sua voce roca, risuonò attutita, dietro la porta. Aveva abbassato il tono, come a non volersi far sentire da qualcuno. O meglio: da Tiffany. Mi alzai dalla sedia, di mal voglia, ciondolando per qualche metro, fino a raggiungere la porta, bianca, in legno, alla quale era appesa una intera collezione di borse di tela con delle scritte e disegni assurdi, che mi avevano rifilato come gadget, a lavoro. Non feci in tempo ad aprire la porta, che il mio coinquilino si fiondò nella mia camera, con fare circospetto, richiudendosi la porta alle spalle. I suoi capelli ondulati, di un bel rosso scuro, erano più scompigliati del solito. Li doveva aver appena asciugati col phon, perché erano gonfi come la criniera di un leone. Illuminava la stanza, Cooper, soprattutto con quegli occhi azzurri, dal taglio grande, la maggior parte del tempo coperti da un paio di occhiali spessi dalla montatura di metallo. Quel giorno, però, non li indossava, perché Tiffany, una settimana prima, lo aveva convinto a mettersi le lenti a contatto, così da poter migliorare la ‘situazione’. La sua faccia spigolosa, ma non troppo, era ricoperta da una folta coltre di barba rossa, che evidenziava le sue labbra rosee e morbide (non che avessi avuto
l’occasione di appurarlo). Cioè, lo sembravano, da quel che potevo vedere. Era alto un metro e ottanta, molto più di me, e il suo fisico robusto, ereditato dal padre di origini irlandesi, faceva a pugni con la sua spiccata intelligenza. Indossava una camicia mimetica, da soldato, che sarebbe piaciuta molto anche a mio nonno, ex sergente nell’esercito degli Stati Uniti, e un paio di pantaloni imbottiti, sempre mimetici, infilati negli anfibi neri. Sopra la camicia aveva un parka grigio, leggero, con la borsa a tracolla di tela verde. Feci una smorfia con le labbra, “Vai in guerra?” sorrisi di mal voglia. Cooper mi offrì uno dei suoi gran sorrisi, ma si spense poco dopo. “Non esattamente. Con i miei colleghi del dipartimento abbiamo organizzato una battaglia a paintball!” il suo entusiasmo era palpabile. Aggrottai la fronte, osservandolo dalla testa ai piedi. Feci spallucce. Contento lui, contenti tutti. “Quindi? Che ci fai nella mia stanza?” gli feci questa domanda, anche se già sapevo cosa voleva dirmi. È che mi divertiva vedere la sua espressione mentre parlava di Tiffany. Diventava rosso, quasi come la tonalità del suo colore di capelli. Cooper indicò la porta con l’indice della mano destra. “Lo sai che stasera, quella, si darà alla pazza gioia, vero?” Sghignazzai. “Geloso, eh?” Strizzò gli occhi, quasi a farli sembrare due fessure. Si lasciò cadere le braccia sui fianchi. “Quante volte te lo devo dire che lei, non mi piace?” Trattenni un sorriso. “Perché non ci crede nessuno, Coop”. Scossi la testa, deridendolo. Alzò gli occhi al cielo, digrignando i denti. “Non è il mio tipo. Comunque…” agitò una mano, dalle unghie mangiucchiate a sangue, per cambiare argomento. “Non mi preoccupo per la Bella, ma per il casino che lasceranno gli invitati alballo”. Si schiarì la gola, con un colpo di tosse. “L’ultima volta è toccato a me pulire tutto”. Sbuffai. “Guarda che ti ho aiutato anche io”. Nel frattempo il computer aveva incominciato ad emettere tanti Bing! uno sovrapposto all’altro. Il ché mi fece comprendere che Beth mi avesse scritto altri messaggi su Skype, uno dietro l’altro, battendo le lettere sulla tastiera ad un ritmo spasmodico. E voleva dire soltanto una cosa: aveva saputo altre novità dagli altri colleghi.
Cooper se ne accorse e inclinò la testa di lato per sbirciare i messaggi apparsi sullo schermo, ma non fece in tempo a leggerli, perché mi precipitai alla scrivania, non troppo lontana da dove ci trovavamo, per chiudere il notebook, con uno scatto fulmineo. Avevo lasciato aperta la finestra dell’e-mail che avevo ricevuto dalla Mas Literary Agency e nessuno doveva sapere del mio pseudonimo. Anche se di Cooper potevo fidarmi, perché come riusciva a tenere un segreto lui, non ci riusciva nessuno. Non parlava neanche sotto tortura. Sapeva della mia passione per la scrittura, ma non gli avevo fatto leggere i miei libri e non gli avevo detto che avevo iniziato a inviare in valutazione i manoscritti sotto lo pseudonimo di Taylor Jordan. Alzò le mani in segno di resa. “Tranquilla, mica volevo farmi gli affari tuoi”. Serrò ancora gli occhi. “Cos’è che hai tanto da nascondere, comunque?” Feci una smorfia e svolazzai una mano in aria, con fare nervoso. Sospirai. “No, niente. È che io non vengo a curiosare in camera tua o di Tiffany, quindi voglio che tu e lei facciate lo stesso con me”. Non mi rispose, ma si limitò a fissarmi negli occhi, rabbuiato in volto. Fece schioccare le labbra e alzò le mani in segno di resa. “Okay, tanto potrei scoprirlo lo stesso, hackerando il tuo firewall, dal mio computer, per intercettare tutta la tua corrispondenza con un malware, senza che tu te ne accorga”. Rimasi a bocca aperta, scioccata. A volte, l’aspetto trasandato e da uomo delle caverne mi faceva dimenticare che avevo a che fare con un ingegnere informatico. Il suo volto passò da una espressione seria a una felice, tirata in un sorriso a trentadue denti. “Dai, scherzavo!” sghignazzò tra sé, piegandosi in due dalle risate. Rimasi a osservarlo sempre più sconcertata. Poi, cercò di riprendere il controllo e si schiarì la gola, tossicchiando. “Vuoi venire alla battaglia?” “No, davvero” scossi la testa “ho da fare con il lavoro. Domani ho una scadenza”. Inventai sul momento una scusa. Mi soffermai a guardare il suo volto leggermente deluso. “Facciamo un’altra volta?” non volevo che rimanesse male per il mio rifiuto. Era piuttosto sensibile, sotto quella scorza da tagliaboschi. Sospirò. “Allora vado. Ci si vede, Meg”. Si soffermò qualche secondo per guardarsi intorno, giusto per dare un’occhiata alla mia stanza e si avviò verso la porta a passi lenti, per poi uscire. Non che nella mia stanza ci fossero tante cose da guardare. Quando l’avevo presa in affitto era già arredata con i mobili e il letto, e io avevo coperto le pareti con qualche poster di alcune delle cover più belle che avevo
realizzato durante i miei quattro mesi di lavoro. Ci volevano delle settimane per disegnarne una, ma delle volte usavo anche foto modificandole con l’aggiunta di effetti, con Photoshop. Una, però, le batteva tutte. Apparteneva alla categoria fantasy, quella che preferivo, perché riuscivo a sbizzarrirmi di più, con i disegni ad alta risoluzione di mostri, strane creature, atmosfere dark, licantropi, vampiri, angeli, demoni e fantasmi. La migliore che io avessi mai realizzato era quella del libro intitolato “Dragons” di James Lee Williams. Avevo letto la trama e parlato con l’autore, prima di buttare giù qualche idea. Il libro era ambientato in un mondo diverso dal nostro, e vedeva come protagonisti un gruppo di mercenari, i Dragoni, assoldati dal Re, per sondare i territori stranieri, per poi invaderli e conquistarli. L’autore avrebbe voluto una cover simile alla locandina del film “300”. Io mi ero rifiutata altamente. Era troppo scontato e non sarei mai rientrata nelle tre settimane di tempo. Non mi sarebbe bastato neanche un mese per quello che si era immaginato l’autore. Quindi, feci di testa mia, senza avvertire il mio Capo. La sera stessa del colloquio, avevo abbozzato degli schizzi a matita su carta, riguardanti il simbolo rotondo, raffigurante un drago di profilo, che questa “lega di guerrieri” aveva impressa a fuoco sul pettorale sinistro. Più lo coloravo in bianco e nero, più mi piaceva, quindi aggiunsi anche il titolo con un font particolare, gotico, in basso, e il nome dell’autore in alto, così da vedere il risultato finale della bozza. Lo avevo realizzato sfumando il nero nelle ombre proiettate, per infondere un effetto in rilievo, ed era soltanto a un decimo della sua potenzialità. Nonostante ciò, al mio Capo e, soprattutto all’autore, era piaciuto. Quindi scannerizzai il simbolo, trasferendolo sullo schermo portatile touch da ventidue pollici, nella mia postazione in ufficio, per elaborarne una versione digitale con l’utilizzo di un programma di progettazione grafica. Avevo lavorato due settimane su quella copertina, otto ore al giorno in ufficio e il resto del mio tempo libero a casa. Una volta terminato il simbolo del drago – decisi di applicare uno stile grunge, quasi fosse forgiato in una pietra magmatica, con striature infuocate, e non color dell’oro come avevo inizialmente progettato – lo applicai al centro di uno sfondo nero per far risaltare le vene infuocate che decoravano il busto di drago di profilo. Applicai la scritta del titolo e dell’autore, con un font semplice, che riprendesse le fattezze del metallo fuso e, per ultima cosa, quasi al margine in fondo, il contrassegno della casa editrice per la quale lavoravo, la Brandon Publishing. La cover preferita di Coop, invece, era quella con una ragazza aliena in primo piano, in un background buio, tutta illuminata di azzurro e di piume fluorescenti, sgargianti, intorno agli occhi. Era stato scritto da una autrice ormai famosissima in tutto il
mondo. Questa volta aveva dato vita alla serie degli Haragan, una razza aliena, che si era nascosta sulla Terra dopo che il loro pianeta era stato distrutto dagli Arguin. Come poteva rimanere in disparte un libro con una cover del genere? Sì, è l’invidia che parla, lo so. “Ahhhhhh!” il grido acuto di Tiffany mi fece sobbalzare. Sgranai gli occhi per la sorpresa e mi precipitai ad aprire la porta. Mi fermai sulla soglia della sua camera, di fronte alla mia. Mi accostai allo stipite della porta, incrociando le braccia al petto. Era esilarante quando Tiffany si piazzava di fronte al suo armadio ricolmo di vestiti, soprattutto quando riversava ogni singolo indumento che possedeva, sul letto, sul pavimento e sulla scrivania, che lei utilizzava come surrogato di un espositore di scarpe. Teneva quelle più belle in bella mostra, come in un negozio vero e proprio. Devo dire che i suoi gadget lavorativi, erano molto meglio dei miei. A me non davano i vestiti e le scarpe avanzati dalle sfilate, bensì borse, tazze, quaderni, gomme, matite con il logo pubblicitario del libro di turno. Tiffany si voltò verso di me, mordendosi un labbro. Si era tolta la crema dal viso e l’accappatoio. Era rimasta in lingerie, nera di pizzo, probabilmente di Victoria Secret. “Non ho niente da mettermi”. Tipico. Scossi la testa. “Vedrai che qualcosa hai di sicuro, tra tutta quella roba”. Le indicai la montagna di vestiti che aveva sparpagliato sul letto. Tanto non credo che staranno a guardare il tuo vestito. Mi dissi, storcendo la bocca. Feci per andarmene, quando la sua vocina mi implorò di rimanere a darle una mano. “Devi essere disperata, per chiedere aiuto a me”. Le feci notare il mio abbigliamento di quel pomeriggio: una maglietta lilla, con sotto un paio di pantaloni grigi di una tuta di felpa. Indossavo i calzini bianchi, con le ciabatte morbide con il volto di Pluto, della Walt Disney. Mi squadrò dalla testa ai piedi, con un ghigno quasi schifato, storcendo il naso. “Sì, infatti, sono disperata. Viene anche Alex, stasera!” Alexander the Great. Era un modello statuario, abbronzato e tutto muscoli, che lavorava nella stessa agenzia di modelli di Tiffany. Era un tira e molla continuo tra quei due e quella era la fase in cui lei lo voleva riconquistare, dopo averlo tradito con Kurt, un fotografo dal dubbio gusto sessuale. Alex, la mattina, aveva il vizio di girare per casa in mutande, quindi era stato davvero un peccato non averlo più nel circondario.
“Ah, quindi ti ha perdonato?” finsi curiosità. “Sì, perché si è vendicato e ora siamo pari”. Alzai un sopracciglio, indignata. “Okay. Se sta bene a te…” “Allora, che mi consigli questo nero di Calvin Klein o questo rosso di Armani Jeans?” Afferrò due vestiti corti, che sembravano più due top in realtà, appesi alle grucce, tendendole uno nella mano sinistra e l’altro nella destra. Quello nero era senza spalline, mentre l’altro aveva le spalline larghe. “Rosso”. Le dissi. Il rosso era sempre stato il mio colore preferito, quindi non esitai un momento. Poi, tanto sapevo che qualsiasi cosa avessi detto, lei avrebbe scelto il contrario. Tiffany sorrise, lasciando evidenziare la sua dentatura bianca splendente, risultato delle sue sedute intensive dal dentista, mentre gettava sul letto quello rosso. “Quello nero andrà benissimo”. Trattenni a stento un sorriso. Era troppo prevedibile. “Peccato, per quello rosso”. La presi in giro, assumendo una espressione delusa. “Lo metterò un’altra volta!” dopodiché si mise alla ricerca delle scarpe giuste. Solo per quello, avrebbe impiegato una mezzoretta. “Potresti partecipare anche tu alla festa. Non credo che la mia taglia ti entri, quindi dovrai arrangiarti con qualche tuo vestito. Ne hai per questo tipo di occasioni, giusto?” mi guardò storto, come fossi un’aliena. “Ti ringrazio, ma ho da lavorare fino a tardi stasera. A proposito, cercate di fare poca confusione”. Tiffany tornò di nuovo alla scelta delle sue scarpe, ignorando del tutto le mie ultime parole. “Tu non fai altro che lavorare. Dovresti guadagnare un sacco di soldi, per quello che fai”. Per una volta, aveva ragione. Non le risposi, lasciandola al suo dilemma esistenziale, per sbrigarmi ad andare in bagno, perché altrimenti lei lo avrebbe occupato per più di un’ora per il trucco e parrucco. Dopodiché tornai in camera mia e mi rifugiai al suo interno, come un guerriero appena rientrato nel suo fortino. Presi posto alla mia postazione e riaprii il portatile per leggere i messaggi di Beth.
Forse ci saranno tagli nell’organico! OMG Di sicuro quel figlio del Demonio farà fuori me. Me lo sento. Tu, però, sei più a rischio, te lo dico chiaro e tondo. Sei arrivata da poco. Non avercela con me. Sai che ti dico quello che penso. Qualche minuto dopo questi messaggi, me ne aveva scritti degli altri, sempre uno dopo l’altro. Sei morta? Perché non rispondi? Comunque, come può un essere così affascinante, avere una mente così sadica, eh? Me lo spieghi? Forse è il dna predominante della madre. Ora ti saluto, vado a cena con Scott. I bambini li abbiamo lasciati da mia madre! Faremo follie stasera! Almeno mi dimentico di domani. Beth X
Le risposi con un breve messaggio: Sono viva, non preoccuparti. Ci vediamo domani. Chiusi la finestra con l’e-mail di Amanda Bennett e spensi il notebook, per accendere il computer fisso, dallo schermo ampio, che mi aveva regalato mio padre, poco prima della mia partenza. La foto sul desktop era la stessa del simbolo del drago che avevo disegnato per la cover del libro di James Lee Williams. Aprii l’icona della cartella che conteneva i file dei miei lavori e selezionai una cover di un fantasy, da ultimare, per ogni evenienza. Quando avevo tempo mi portavo avanti con il lavoro, anche se probabilmente non le avrei mai utilizzate come copertina di un libro. Comunque faceva sempre comodo averne qualcuna pronta. Era quasi finita, ma aveva bisogno di qualche ritocco sulla tonalità di colore. Anche se mi chiesi se, dopo la notizia che mi aveva dato Beth, avessi avuto l’opportunità di terminarla. Se non altro, mi tenevo in allenamento.
2
Il Principe
Un paio di boxer corti, neri con l’elastico decorato da tante scritte stampate in serie, riportanti la sigla CK grigia, talmente stretti da evidenziare ogni singolo muscolo che componeva quei due perfetti glutei marmorei. Questo è ciò che i miei occhi assonnati avevano avuto lo shock di osservare, dopo essere uscita dalla mia camera per preparare la colazione. Alex the Great, era voltato di spalle, rilassato con una mano poggiata sul pianale della cucina coperto di bottiglie di birra vuote, scatole di cibo da asporto, intento a ingerire una fetta biscottata, rigorosamente senza burro, né marmellata, né cioccolata. La Tristezza più assoluta. Rimasi ad osservare ogni centimetro quadrato del suo corpo, per non so quanto tempo, inebetita, rapita da cotanta prestanza fisica. La sua carnagione ambrata, risultato di decine di lampade abbronzanti, faceva risaltare ancor più i suoi capelli biondi. Li teneva corti ai lati e pettinati all’indietro o, come quella mattina, con la riga in mezzo, che gli faceva ricadere dei ciuffi dorati sulla fronte. Sembrava Ken, il fidanzato di Barbie. “Dovrei farti pagare, per quello che stai guardando”. La sua voce piena e armoniosa, mi fece sobbalzare. Non si voltò, ma si infilò in bocca l’ultimo pezzetto di fetta biscottata per poi prenderne un’altra dalla confezione. Ritornai dal mondo dei sogni, fingendo una espressione per niente interessata. Mi schiarii la voce ancora impastata dal sonno, perché erano le sei del mattino e mi ero
appena svegliata. Avevo dormito come un angioletto, grazie ai tappi insonorizzanti e alla stanchezza. “Scusami, ma, sai com’è…abito qui”. Abbassai lo sguardo, un po’ in imbarazzo. Non mi ero accorta di aver appoggiato i piedi sopra il vestito nero di Tiffany, che doveva essersi tolta dopo la festa – o durante, chi può dirlo? – per fare pace con Alex. Lo scansai, facendolo scivolare sul parquet, il più lontano possibile da me. Mi guardai intorno e strabuzzai gli occhi, più di quanto avessi fatto per i boxer di Alex, alla vista della devastazione che regnava sovrana nell’ampio soggiorno-cucina dalle pareti in stile vintage, con delle parti lasciate con i mattoni rossi a vista. I quattro cuscini del divano in pelle, disposto con le spalle rivolte verso la cucina componibile, erano tutti sparpagliati sul pavimento e sul tavolino giapponese basso, in legno. Il televisore, un LCD a schermo piatto, appeso alla parete di fronte al divano, non lontano dall’uscita del corridoio che conduceva alle camere, era acceso sul canale di MTV, senza volume. Una Katy Perry fiabesca, dai capelli viola, era protagonista di un video musicale, tratto da uno dei suoi singoli più recenti. Rimasi a bocca aperta, quando vidi la mia povera felce caduta sul pavimento dal davanzale della finestra. Il terriccio si era riversato sul parquet, come anche i cocci del vaso infranto in mille pezzi. “Colpa mia” mi disse. La sua voce era vicina. Infatti, quando guardai di fronte a me, me lo ritrovai davanti. “Sono troppo focoso”. Sorrise sornione, mettendosi la fetta biscottata in bocca. “Penso che tu abbia sentito tutto dalla tua camera, a un certo punto”. Scossi la testa. “Avevo i tappi per le orecchie”. Sgranocchiò il boccone e lo buttò giù. “Bene a sapersi. Prossima volta non ci tratterremo, allora”. Mi fece l’occhiolino e si soffermò a osservare il mio abbigliamento, composto da un pigiamone di cotone, dal taglio maschile. I capelli dovevano essere un disastro, come tutto il resto. “E magari puoi unirti a noi, no?” “Meglio per voi se rimanete in modalità trattenuta”. La voce assonnata di Cooper mi salvò da quel momento imbarazzante. “Altrimenti il vicinato potrebbe citarvi per schiamazzi notturni”. Alex fece spallucce, facendo in modo che gli si gonfiasse il petto rassodato da intensi allenamenti in palestra. Poi tornò con il suo sguardo su di me. “Pensa alla mia offerta, mi raccomando”.
Quando mi passò accanto per dirigersi nel corridoio, mi diede una sonora pacca sul di dietro. Mi voltai di scatto, per osservarlo a bocca aperta, perplessa. Ero rimasta di stucco. Cooper aveva indosso il suo adorato pigiama nero con il disegno dei numeri, verdi fluorescenti, criptati di Matrix. “’giorno intelligentone”. Gli diede una pacca sulla spalla, prima di scomparire nel corridoio. “Se lo fa di nuovo, giuro che quelle mani gliele taglio”. I suoi occhi, vagarono in giro per la stanza, increduli. “Che casino”. Si ingobbì, affranto per la disperazione di dover pulire tutto. Sospirò. “Dobbiamo intervenire, prima che invadano anche le nostre stanze. Stanotte, più di una volta hanno tentato di entrare in camera mia, ma avevo chiuso a chiave, come mi hai detto di fare tu. Erano ubriachi e non la finivano di ridere. La musica a tutto volume. Non possiamo andare avanti con i tappi nelle orecchie”. Si rassettò gli occhiali dalla montatura di metallo sul naso e si portò le mani sui fianchi, scuotendo la testa, disgustato. “Se non fosse economico e vicino alla fermata della metropolitana, avrei di certo cambiato appartamento da un po’”. Si incamminò verso il bancone della ‘cucina’ per sfiorare i cartoni unti delle piezze. “Si può comprare del cibo e poi buttarlo quasi tutto?” Sorrisi, strofinandomi gli occhi con i dorsi delle mani, stiracchiandomi la schiena. “Sono modelli, ci tengono alla linea”. Attraversai la stanza e aprii la porta scorrevole dello sgabuzzino per prendere la scopa e la paletta. Scoppiò in un risata secca. “Quindi che lo comprano a fare, se già sanno di non poterlo mangiare tutto?” la sua voce risuonò acuta, quasi in falsetto, talmente era nervoso. “Presumo si accontentino di odorarne il profumo”. Mi avvicinai alla finestra e mi chinai per raccogliere i cocci del vaso e per pulire il pavimento dal terriccio arido. Per fortuna, e per gran sfortuna della pianta, era quasi una settimana che mi ero dimenticata di provvedere al suo sostentamento. Altrimenti l’acqua si sarebbe riversata tutta quanta sul parquet e la macchia sarebbe rimasta per mesi. Le foglie erano tutte rinsecchite e giallognole. Quindi mi feci forza e attraversai la stanza per gettarla, a malincuore, nel secchio della spazzatura. “Oh, smettila Alex, mi fai il solletico”. Seguì un risolino stridulo di Tiffany e un ringhio, degno di un animale della savana, da parte di Alex.
Cooper sbuffò e partì a razzo ad alzare il volume della televisione, in modo da non udire altro della loro conversazione. Perché Alex e Tiffany non avevano altro tipo di conversazioni, a parte quelle. Ci scambiammo molti sguardi rassegnati mentre rassettavamo il bancone della cucina, quando le urla di Tiffany sovrastavano persino la musica a tutto volume. Buttammo tutto nei sacchetti della spazzatura e li ammucchiammo vicino all’entrata. “Vuoi che ti prepari la colazione?” urlai a Cooper, mentre prendevo un filtro nuovo per la macchinetta del caffè. Scosse la testa e mi urlò di rimando. “Mi è passata la fame”. Anche a me. Ma ormai ci avevo fatto l’abitudine. Avevo vissuto in una stanza con due coinquiline, più i loro ragazzi, al college, quindi ne avevo viste e sentite di tutti i colori. Coop, poverino, era andato al college a quindici anni ed era sempre tornato a casa a dormire, dato che abitava a Brooklyn vicino al campus del politecnico dove aveva conseguito la sua laurea in ingegneria. Non aveva vissuto, in tutto e per tutto, la vera vita dello studente universitario. Neanche adesso che, invece, all’università era un insegnante. La mattina non poteva iniziare peggio, ma non era che l’inizio. Per non farsi mancare proprio niente, Alex e Tiffany avevano deciso di continuare la loro conversazione nel bagno in comune. Mi infilai i tappi nelle orecchie, quando tornai in camera mia, perché il bagno si trovava proprio accanto. Attesi fino alle sette e poi andai a bussare alla porta. Uscirono entrambi, dopo qualche minuto di risolini, avvolti con dei microscopici asciugamani. I miei, tra l’altro. Avrei tanto voluto farmi una doccia, ma la cabina era ridotta in condizioni pietose, quindi mi rifiutai di metterci piede. Mi lavai alla meglio e mi diressi in camera per vestirmi in fretta e furia. Era tardissimo. Indossai un paio di leggins, leggeri e un vestito primaverile nero a fiorellini, con degli anfibi. Presi il mio foulard rosso e lo misi nella borsa insieme agli appunti. Ebbi il tempo di passarmi giusto un filo di rossetto rosso sulle labbra, per non sembrare un vero e proprio disastro su tutta la linea. Rassettai la frangia color mogano all’indietro, grazie al sostegno di un fermaglio e, in fretta, mi infilai la valigetta, con il notebook e il tablet, a tracolla. Uscii fuori dalla stanza per correre come una pazza per il corridoio. Con un gesto della mano, salutai Cooper, che nel frattempo aveva messo a posto il divano, sempre accompagnato dalla musica ad alto volume. Strano che i
vicini non avessero suonato il campanello per ordinarci di abbassarla. Magari lo avevano fatto, ma non eravamo riusciti a sentirli. Di sicuro si sarebbero lamentati con il padrone di casa, ovvero il padre di Tiffany, che non avrebbe risparmiato il suo disappunto dando a me e a Coop la colpa del pandemonio. Perché la sua casta e pura figlia non poteva esserne la colpevole. Feci dodici rampe di scale di corsa, perché l’ascensore era occupato e non avevo tempo da perdere, perché avrei fatto tardi alla riunione con il Capo, il quale, secondo il resoconto della mia collega Beth, non aveva buone intenzioni, quel lunedì mattina. Per poco non persi il treno, dopo essere franata al suolo a seguito di uno scontro frontale con un tizio che aveva più fretta di me. “Oh, ce l’hai fatta!” Bethany mi squadrò dalla testa ai piedi, non appena varcai la soglia della Sala Grande, l’ampia stanza destinata ai grafici. Era stata nominata così per via della passione condivisa dei miei colleghi per Harry Potter e perché, oltre ad essere un enorme open-space, aveva al centro un grande tavolo cosparso da tanti fogli e appunti, nonché da libri e gadget pubblicitari. Le scrivanie con i nostri compagni di avventure, ovvero i computer e i tablet aziendali, erano sparpagliate per la stanza – per lasciarci a disposizione il giusto spazio creativo – e sopra il piano rialzato, riservato agli addetti all’impaginazione e alla realizzazione di gadget e locandine. “Spero che quel misero strato di rossetto, ti salvi dalla forca”. Sbatté le sue lunghe ciglia ricoperte da un pesante strato di rimmel e matita nera, che risaltavano i suoi occhi cerulei. Aveva trentasei anni e lavorava come cover designer senior alla Brandon Publishing da qualche anno. Quando io ero entrata nell’organico della squadra dei grafici, lei era rientrata dal periodo di aspettativa per maternità. Aveva avuto due gemelli un anno e mezzo prima e ne portava ancora le conseguenze: dieci chili in più, che non riusciva a smaltire, neanche con le ferree diete alla quale si sottoponeva. Non che fosse troppo in sovrappeso, era solo un po’ in carne. Quel giorno si era messa tutta in ghingheri, lisciandosi addirittura la folta capigliatura riccia e bionda. Portava un tailleur grigio, con la giacca aperta, forse di una o due taglie in meno, e una camicia stretta e aperta sul seno prosperoso. Notò che mi ero soffermata a osservare quel particolare e si spiegò all’istante. “Mio marito mi ha detto di mostrare la mercanzia, nella speranza che il Principe non mi licenzi”. Il Principe era il soprannome che avevo dato al Capo. “A proposito” dissi, mentre mi toglievo la tracolla e la poggiavo sulla scrivania bianca, vicino alla tastiera del computer, “è arrivato?” ero senza fiato per via della folle corsa dalla fermata della
metro, distante qualche centinaio di metri, dagli uffici della Brandon Publishing, in uno dei palazzi che costeggiavano la Broadway, non troppo distante da Central Park. Ero stata fortunata per aver trovato sia un appartamento, che il luogo di lavoro, a pochi passi dalla fermata della metro. Ma le camminate – e lo sport in generale – non erano il mio forte. Scosse la testa. Non era arrivato. Brutto segno. Pensai. “Il tuo principe azzurro è in ritardo”. Alzò un indice della mano destra, per fermare il mio commento sprezzante, perché non aveva ancora finito di parlare. “I suoi paggetti sono tutti in fibrillazione, ai piani alti”. I paggetti, erano i suoi fedelissimi tirapiedi, ereditati dalla gestione della Regina, sua madre, la signora Joan Patrisha Brandon, che aveva deciso di prendersi un periodo di pausa, trasferendosi con il suo ultimo marito, di vent’anni più giovane, alle Cayman, lasciando tutto in mano al suo unico erede, Raymond Julian Harrison Parker. Tre nomi, per ingigantire ancora di più la sua fama. Dal suo arrivo, da quanto avevo sentito dire, aveva cambiato il modo di gestire la casa editrice, rendendola più simile a una ‘famiglia’. Voleva essere informato su tutto ciò che accadeva e, soprattutto, si era autoincoronato responsabile Capo, nuovo ruolo inaugurato proprio da lui, per la sezione grafica. “Oh, basta con questo principe azzurro, vi prego!” George, un ragazzo mingherlino, più giovane di me di un anno, con i capelli sparati in aria in un ciuffo ribelle, con vari piercing alle orecchie, scese le scale che conducevano al piano rialzato. Era su tutte le furie. “È il figlio del Demonio, quell’uomo lì. Non fatevi incantare dai suoi modi e dal suo aspetto. Ha il dna di sua madre che gli scorre in corpo”. Insieme a Walter e Chris si occupava dell’impaginazione delle cover e di curare la grafica all’interno dei libri. “E poi non capisco proprio come possa piacerti un tipo simile”. Tirò un’occhiataccia fulminante nella mia direzione. Era da quando avevo messo piede alla Brandon, che sospettavo che George avesse qualche interesse nei miei confronti. Io non potevo permettermi una storia, in quel momento. Non dopo essere stata mollata dal mio fidanzato, dopo sette anni che stavamo insieme. Era anche per quel motivo che avevo deciso di trasferirmi a New York, a Manhattan per la precisione. Ad ogni modo, però, il Capo, o come lo avevo soprannominato io, il Principe, era l’eccezione. Forse perché era talmente inarrivabile da essere certa che non sarebbe mai potuto succedere niente, o almeno non nel mondo reale. Perché nel mondo dei sogni era già successo, il giorno stesso in cui gli avevo stretto la mano nel suo ufficio,
dopo aver avuto la conferma dell’assunzione come cover designer. In verità mi aveva scelto sua madre, dopo aver fatto un breve colloquio di presentazione, prima che decidesse di partire. Era stata una sorpresa, per me, trovare lui al posto di quella donna temuta per il suo atteggiamento aristocratico e rigido. Avete presente Crudelia De Mon? Ecco, peggio. Bethany mi aveva raccontato che il precedente grafico, che avevo sostituito, aveva osato contraddirla durante una riunione con lo staff. Lo aveva licenziato in tronco. Tutto l’ufficio, alla notizia del suo trasferimento alle Cayman, aveva festeggiato per giorni, fino a quando si erano resi conto che il figlio, l’avrebbe sostituita momentaneamente al comando della casa editrice. Ray, trentenne, erede di un impero, era famoso per le sue comparse sulle riviste, date le sue relazioni con modelle e attrici di spicco, nonché cantanti affermate. Era un vero e proprio playboy, come uno di quei protagonisti dei romanzi rosa, in cui poi alla fine, riesce a trovare una ragazza semplice, ma speciale ai suoi occhi e se ne innamora talmente tanto, da decidere di abbandonare la sua vita mondana e di ritirarsi in un matrimonio felice. Da quando ero arrivata lì, quello di essere quella “ragazza semplice ma speciale ai suoi occhi” era diventato il mio sogno più ricorrente, devo ammetterlo. Chris, la giovanissima apprendista di vent’anni, arguta e persa nel suo fantastico mondo nel Paese delle Meraviglie, e nel suo amore segreto nei confronti di Walter, mi salutò, dal soppalco. “Spero sia stato rapito dagli alieni e condotto su un altro pianeta. Incrocio le dita”. Dopodiché il suo sguardo schizzò verso l’entrata. Sulla soglia erano comparsi Walter e Sarah, i due colleghi che mancavano all’appello. Parlottavano a bassa voce, sghignazzando complici tra di loro. Rimasi ad osservare la povera Chris che si stava struggendo e disperando, con lo sguardo fisso verso di loro. Walter aveva trent’anni ed era davvero un bel soggetto, degno di nota: capelli corvini, ribelli, alto, chitarrista mancato, tatuato e di famiglia benestante. Si era sposato a ventidue anni, ma dopo sei di matrimonio, si era separato dalla moglie per colpa di Sarah, la vamp del nostro gruppo, nonché addetta alle cover dei romanzi rosa e hard. Vivevano insieme da due anni, da quanto avevo sentito dire da Beth. Sarah gli passò una mano tra i capelli e gli schioccò un bacio sulla bocca, per poi rifugiarsi alla sua scrivania, dopo avermi lanciato un sorriso. “Buona fortuna” mi disse, mentre si toglieva la giacchetta microscopica che aveva sopra la camicetta ancora più stretta. “Grazie”. Dopodiché strabuzzai gli occhi, perché sulla soglia della Sala Grande fece capolino Stacy, la segretaria del Capo. Era vestita con una gonna nera a vita alta e
una camicetta leggera, bianca a pois neri, con i tacchi a spillo. Aveva i capelli biondi, tinti, tirati all’indietro, in una coda di cavallo e gli occhiali neri ben piantati sul naso sottile e all’insù. Era arrivato il momento tanto temuto. “Dato che ero nei paraggi mi sono fermata qui, perché” disse, “Meg, Beth” ci chiamò, “il Capo vuole parlare con voi, adesso, nel suo ufficio”. La sua espressione parlava più di mille parole. Sembrava dispiaciuta e nervosa, come già si aspettasse il peggio. Il ché non facilitò il nostro percorso fino all’ultimo piano del palazzo, riservato agli appartamenti del Principe, cioè volevo dire, agli uffici del Capo e del suo staff amministrativo. In ascensore e nel corridoio che ci separava dal suo ufficio con le vetrate oscurate dalle tendine richiudibili, mi sembrò di essere uno dei protagonisti de “Il miglio Verde”. Stacy ci lanciò un ultimo sguardo, scuotendo la testa, quasi a volerci dire addio. “Vi sta aspettando”. Beth mi poggiò una mano sulla spalla e insieme ci avvicinammo alla porta, attraversando, a passo lento, la stanza enorme riservata ai centralinisti, agli smistatori della corrispondenza e allo staff amministrativo della Brandon. Bussai alla porta, dopo aver preso un respiro profondo, perché Beth non si decideva a prendere l’iniziativa. Nessuna risposta. Al posto del classico “Avanti”, il Principe venne direttamente ad aprire la porta, come un comune mortale. “Prego” ci fece segno di entrare, dopo averci riservato un lieve sorriso storto, affascinante, di chi la sapeva lunga e soprattutto di chi sapeva il fatto suo con le donne. In quel momento mi chiesi come una faccia pulita e perbene come la sua, avesse a che fare con la maschera di botulino di sua madre. Suo padre non lo avevo mai visto, neanche in foto, quindi non potevo fare paragoni. Aveva un filo di barba, gli occhi blu, con le sfumature dorate e grigie, dal taglio lungo e affusolato. Sulle guance si erano formate delle rughe di espressione, e il naso, sottile e fine, aveva le narici dilatate, per via del sorriso che ci aveva rivolto. Si passò una mano per ravvivarsi il folto ciuffo di capelli folti e castani, dal taglio giovanile. Indossava un completo leggero color grigio, senza cravatta. Ma ai suoi polsi notai un paio di gemelli, quindi aveva stile, ma non voleva apparire troppo formale. Dopo essersi
soffermato a esaminare il nostro abbigliamento, si voltò per dirigersi verso la sua scrivania di cristallo. Lo aveva arredato in modo più minimalista, dopo che aveva preso il posto di sua madre, donna famosa per i suoi gusti costosi e stravaganti. Aveva mantenuto soltanto la scrivania, le librerie piene di libri e il divanetto sulla parete destra dell’ufficio, aggiungendo dei quadri con le gigantografie delle sue cover preferite, tra le quali una disegnata da Beth, con in primo piano il volto di una elfa guerriera, di profilo. Ci invitò ad accomodarci, dopo essersi tolto la giacca e averla poggiata sul bracciolo del divanetto. Dopodiché prese posto sul suo trono, ovvero sulla sua comodissima poltrona di pelle nera. Sospirò con fare nervoso. “Che vi è successo?” domandò senza staccare gli occhi dalle due bozze che io e Beth avevamo disegnato, disposte sulla scrivania una accanto all’altra. Io e la mia collega ci scambiammo un’occhiata d’intesa, densa di terrore. “No, sul serio” alzò il capo e si rivolse a me, guardandomi negli occhi, con uno sguardo tranquillo, pacato e dal potere ipnotico. “Dove sono finite le idee che avevamo prestabilito durante la scorsa riunione?” mi feci distrarre dalle sue labbra piene e soprattutto dalla forma di quello superiore, leggermente a cuore. “Signorina Clarke? Si sente bene?” Tornai alla realtà appena in tempo, per evitare di sembrargli un vera e propria rimbambita. Mi schiarii la voce e inchiodai lo sguardo sulla mia bozza. Ingoiai a stento e, a bassa voce, riuscii a dire soltanto: “Mi dispiace, pensavo di fare una cosa originale”. Sorrise a bocca chiusa. “Infatti, signorina Clarke”. Alzai il capo e il mio sguardo fu catturato dai suoi occhi magnetici. Ero confusa, e non solo per la risposta che mi aveva dato. “Non capisco”. “Trovo l’idea del titolo ripartito nelle sezioni del nastro a spirale che occupa tutta la pagina, molto originale”. Marcò la pronuncia delle ultime due parole, con più enfasi, quasi ne fosse felice. Quindi potei tirare un sospiro di sollievo, almeno per un decimo di secondo. “Ma, io, in tutta sincerità, un thriller con una copertina basata su questo tipo di colori sgargianti non lo comprerei mai” strinse le labbra e alzò gli occhi al cielo. “Sembra un libro per bambini. E la sua” si rivolse a Beth, “non rispecchia
nessuno” si soffermò a picchiettare l’indice sull’altra immagine, quella che raffigurava la bozza della mia collega, “degli episodi rammentati nel libro o nella trama che le ho sottoposto personalmente”. Ray si sganciò l’ultimo bottone della camicia, con fare esperto, e si lasciò dondolare sulla sua sedia ultra-comoda, con lo sguardo perso chissà dove. “Ho letto e valutato questi libri e vorrei che le copertine fossero al livello della narrazione. Tengo molto a questi due autori, che vi ricordo essere molto quotati”. Tornò alla sua precedente posizione, questa volta congiungendo le mani sulla scrivania. “A loro non sono piaciute. Quindi sono costretto a…” passò il suo sguardo serio da Beth a me, più di una volta, prima di continuare a parlare. Per quanto mi riguarda, smisi di respirare. Beth, invece, pensò bene di prendere in mano la situazione. “Signor Parker, la prego di rivedere bene la sua decisione” si voltò verso di me per un attimo, “non trovo giusto un licenziamento così frettoloso, ecco”. Ray aggrottò la fronte, scuotendo la testa, quasi fosse confuso. “Licenziamento?” le sue labbra si estesero in un sorriso sornione. “Io non ho mai parlato di licenziamento. Credo vi siate fatti tutti una idea sbagliata sul mio conto. Io non sono come mia madre”. Sorrise ancora, questa volta lasciando intravedere la dentatura bianca, non perfetta per colpa di un dente cresciuto storto, che lo rendeva unico e più intrigante che mai. “Volevo soltanto comunicarvi che per la prossima settimana gradirei avere sulla mia scrivania le bozze che avevamo prestabilito in riunione e” si piegò per aprire il primo cassetto della sua scrivania per estrarre un fascicolo nero dal misterioso contenuto, “per parlarvi di un’altra cover di un nuovo libro. Non so a chi di voi due è meglio affidare questo lavoro, quindi ho deciso di invogliarvi a fare del vostro meglio, mettendovi in competizione tra di voi”. Fantastico. Sadico, il ragazzo. “Entro domani, Stacy, vi comunicherà l’orario della riunione con l’autore e il suo staff tecnico”. “Il suo staff tecnico?” mi lasciai sfuggire. “Sì, è un autore di tutto rispetto. Il suo agente ci ha contattati perché hanno sospeso la collaborazione con la casa editrice che in tutti questi anni ha pubblicato i suoi libri. Non posso svelarvi chi è, fino a domani, quando verrà qui per confermare tutto”. Dopodiché ci fornì delle fotocopie spillate in due fascicoletti. “Lì troverete la trama e
la caratterizzazione dei personaggi del libro. Spero che non sia troppo chiedervi di dargli un’occhiata più approfondita del solito”. La mia curiosità rasentava livelli elevatissimi. Avevo avuto l’occasione di incontrare autori giovani e promettenti, che con i loro distopici, fantasy e sci-fi si erano assicurati delle vendite milionarie in tutto il mondo. Ma non quelli con una storia pluripremiata alle spalle. Chissà chi è? Me lo continuai a chiedere durante il percorso fino alla Sala Grande. Ray ci aveva liquidate con un “Tornate a lavoro. E signorina Clarke, questa bozza la metta da parte, non si sa mai. Potrebbe esserci utile in futuro”. Dio, quanto lo adoravo! Non c’era niente da fare. Era un principe in tutto e per tutto.
3
“Luke, io sono tuo padre!”
“Allora?” Chris era accoccolata come un micio, sulla poltrona vicino a uno dei grandi finestroni panoramici della Sala Grande, e appena vide comparire me e Beth sulla soglia dell’ingresso, disciolse la posizione a gambe incrociate e si fiondò dritta verso di noi. Mi chiedevo come riuscisse a mantenere quella linea da grissino, anche se mangiava qualunque cosa con la razione doppia. Io qualche anno prima, alla sua stessa età, mica me lo potevo permettere. Ma neanche ora, né quando ero ancora più giovane. Certa gente ha proprio una fortuna sfacciata, per queste cose.
Al suo “Allora?”, Walter e George si erano sporti dalla balaustra di ferro del soppalco, mentre Sarah, seduta alla scrivania dall’altro lato della stanza, aveva fatto capolino dallo schermo, dietro al quale stava lavorando. “L’abbiamo scampata bella” dissi per tranquillizzare gli animi. “Sul serio?” urlò Walter, in tono stupito. Si era arrotolato le maniche della camicia, facendo intravedere i tatuaggi colorati che gli coprivano per intero le braccia. “Fantastico!” “Dobbiamo festeggiare!” si aggiunse George, offrendomi un gran sorriso. “Ah, gente” a Beth non rimaneva che comunicare loro la novità della lotta tra noi due ‘best cover designer’. “Io aspetterei a festeggiare”. Protrasse le mani avanti, nel tentativo di fermare il fermento che già aleggiava nell’atmosfera. “Ci ha messe entrambe in competizione per una nuova cover”.
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