Questo libro è opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o utilizzati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con fatti, luoghi o persone reali, vive o defunte, è puramente casuale. Titolo originale dell’opera Bis alle Schuld beglichen Pubblicato da Amazon Publishing, Luxembourg maggio 2014 Edizione italiana pubblicata da Amazon Crossing, Amazon Media EU S.à.r.l. 5 rue Plaetis, L-2338, Luxembourg marzo 2016 Copyright © Edizione originale 2013 di Alexander Hartung Tutti i diritti riservati Copyright © Edizione italiana 2016 Traduzione dal tedesco di Daniele Cianfriglia Realizzazione a cura di Grandi & Associati, Milano Progetto grafico a cura di ushadesign, Milano Impaginazione a cura di PEPEnymi, Milano Prima edizione digitale 2016 ISBN: 9781477817551 www.apub.com
IL LIBRO Quando una domenica mattina Jan Tommen e la sua ragazza Betty vengono buttati giù dal letto da un collega di Jan della sezione omicidi di Berlino, il detective tutto si aspetta tranne che di precipitare in un incubo. Alcune chiare prove gettano forti sospetti su di lui: la sua macchina è stata vista sul luogo di un delitto, sull’arma ci sono le sue impronte digitali e sul cadavere hanno trovato il suo DNA. La vittima è il giudice Georg Holoch, che anni prima aveva
portato in tribunale Jan per lesioni personali durante lo svolgimento del servizio. E quindi c’è anche un movente. Jan non ricorda nulla della sera precedente. Non gli resta altro da fare che fuggire dalla custodia preventiva e nascondersi. Dovrà cavarsela da solo per scoprire cosa sia successo. Lo aiutano Chandu, un amico che si occupa di recupero crediti, Zoe, medico legale, e Max, un giovane hacker. Jan dovrà affrontare una pericolosa corsa contro il tempo per scoprire la verità…
L’AUTORE Alexander Hartung è nato nel 1970 a Mannheim. Ha iniziato a scrivere mentre studiava economia politica e ha scoperto il suo amore per i thriller e i romanzi storici. Nella primavera del 2010 è comparso il suo primo libro, il thriller storicoDie Rache des Inquisitors (“La vendetta dell’Inquisitore”). Il suo nuovo libro, Un debito è per sempre, è ambientato a Berlino. Alexander Hartung torna così nella città che durante il suo periodo di consulente manageriale è stata per un po’ la sua casa. Al momento vive con moglie, figlio e cane nella sua città natale, Mannheim. L’edizione originale è comparsa per la prima volta nel 2013 con il titolo Bis alle Schuld beglichen, come romanzo autopubblicato.
Per Philipp. Non sapevo cosa fosse la fortuna, prima di averti stretto tra le braccia per la prima volta.
Indice Prologo Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6 Capitolo 7 Capitolo 8 Capitolo 9 Capitolo 10 Capitolo 11 Capitolo 12 Capitolo 13 Capitolo 14 Capitolo 15 Capitolo 16 Capitolo 17 Capitolo 18 Capitolo 19 Epilogo
Prologo
Il dolore della gamba spezzata strappò Georg dallo stato di grazia concesso dall’incoscienza. Era disteso vicino al tavolino del suo salotto e fissava l’osso che gli sporgeva da sotto il ginocchio. Il sangue aveva imbevuto i pantaloni lacerati del suo completo. Gemette in silenzio guardando la ferita. Come ogni altra sera era tornato a casa, aveva appeso il cappotto all’attaccapanni ed era entrato in salotto per versarsi uno scotch. Un drink e il programma notturno sul canale dello sport, non desiderava altro. Si ricordò di aver sentito un dolore improvviso alla nuca mentre prendeva il bicchiere. Poi più nulla. Finché non si era risvegliato sul pavimento. Georg girò la testa e guardò l’orologio vicino alla libreria. Mancava poco a mezzanotte. Era rimasto privo di sensi per un’ora. Forse era scivolato sul pavimento ed era stato sfortunato a cadere sulla gamba. O forse la donna delle pulizie aveva di nuovo lasciato lo straccio per terra. In ogni caso aveva bisogno di aiuto. Tastò l’abito in cerca del cellulare, che teneva sempre nella tasca dei pantaloni, ma non riuscì a trovarlo. Forse, cadendo, lo aveva perduto. Chiuse gli occhi e imprecò. Decisamente oggi non era la sua giornata. Poi sentì una musica d’archi, che accompagnava il canto di un baritono, fioca, appena udibile. Georg voltò la testa verso l’impianto stereo. Sugli altoparlanti c’erano dei ceri, e il loro chiarore aveva immerso il salotto in una luce diffusa. Emanavano una delicata fragranza di vaniglia. O un’ex fidanzata aveva voluto fargli uno scherzo di cattivo gusto o era vittima di un’aggressione quantomeno insolita. Il televisore era al suo posto e i suoi preziosi dipinti erano ancora appesi alla parete. Georg sollevò la gamba rotta, tirandola per il pantalone, e riuscì a girarsi sulla schiena. Il dolore gli fece salire le lacrime agli occhi. A parte il soggiorno, la casa era al buio, eppure avrebbe potuto giurare di aver acceso la luce in corridoio quando era entrato. «Ehi?» chiamò rivolto verso l’oscurità. Non accadde nulla. Passò ancora un momento.
Poi sui mattoni riecheggiò il suono di stivali pesanti. Dapprima passi lenti, poi sempre più rapidi. Una sagoma attraversò correndo il cono di luce. Portava pantaloni neri e una giacca di pelle e aveva una calza calata sul viso. «Ma cosa diavolo…» iniziò Georg, quando la sagoma sollevò la mano e lo colpì al braccio con un martello. L’osso si spaccò con un sonoro scricchiolio. Georg urlò. Quasi svenne per il dolore e gli si annebbiò la vista. Si morse il labbro inferiore e sentì il sangue scorrergli in bocca. Maledisse il fatto che la sua casa sorgesse su un terreno tanto esteso. Gli alberi in giardino e i muri non lasciavano trapelare alcun rumore all’esterno. Nessuno lo sentiva gridare. La donna delle pulizie sarebbe arrivata solo l’indomani mattina presto. Di nuovo risuonarono i passi. Georg, impaurito, puntò lo sguardo davanti a sé. Quando vide gli stivali militari illuminati dal chiaro di luna, iniziò a piangere. «Per favore» implorò e spostò il braccio sano sopra la testa, per proteggersi. «Le do tutto quello che ho. Soldi, la mia piccola scorta d’oro, la macchina. Ho un conto numerato in Svizzera. Ci sono centomila euro.» La sagoma non si mosse. Georg continuò a fissare gli stivali. In quel momento capì che sarebbe morto. Il suo aggressore voleva solo vederlo soffrire ancora, prima di sfondargli la testa. Con un braccio fracassato e una gamba spezzata non aveva alcuna possibilità di difendersi. L’unica speranza era il pulsante dell’allarme vicino alla porta d’ingresso. Di solito erano le banche o i negozi ad avere impianti di quel tipo. Da quando qualcuno aveva fatto irruzione a casa di un collega, ne aveva fatto installare uno anche lui. In caso di pericolo, bastava premere un bottone e la polizia veniva avvisata immediatamente. Non c’era bisogno di telefonare né di aspettare che rispondessero, e non si doveva nemmeno dare il proprio indirizzo. C’erano due pulsanti di chiamata in casa: uno era in camera da letto, l’altro nell’ingresso. Georg vide il bottone brillare al chiarore delle candele. Non si faceva notare, sembrava un banale interruttore della luce. Valutò lo spazio da coprire per raggiungerlo. Tre lunghi passi. L’aggressore era in piedi vicino a lui, alla sua destra. La
strada era libera. Se non avesse avuto una gamba rotta, avrebbe potuto farcela, ma provava un dolore insopportabile in tutto il lato destro del corpo. «Che cosa ho fatto?» cercò di attaccare discorso Georg, mentre tentava di alzarsi in piedi. «Se ho emesso un verdetto troppo severo, la aiuterò a uscirne fuori. Ne posso parlare con il procuratore, posso far ridurre la pena. Ho contatti in politica. Posso sistemare le cose.» La sagoma restava immobile. Georg spostò il peso sulla gamba sana. Il suo sguardo andò di nuovo al pulsante dell’allarme. Due saltelli su una gamba sola. Forse tre e poi avrebbe potuto lasciarsi cadere in avanti. Ignorare il dolore. Continuare. Comunque, qualunque cosa fosse accaduta. Un’unica possibilità. Georg si sollevò. Un dolore atroce gli attraversò la parte destra del corpo. Lanciò un urlo di disperazione, ma saltellò in avanti. Agitò il braccio sano per mantenere l’equilibrio. Raccolse tutte le sue forze e avanzò zoppicando. Il secondo passo lo lasciò senza fiato. Poi arrivò un altro colpo alla testa. Il martello si scagliò quindi sulla gamba sana. Scricchiolò forte quando il ginocchio si spezzò. Georg cadde sul pavimento e colpì le piastrelle con la testa. Il suo grido si trasformò in un urlo disumano. La sagoma gli calò addosso, finché i loro volti furono distanti appena un palmo l’uno dall’altro. «Come ci si sente?» iniziò sottovoce. «A stare stesi inermi sul pavimento, a essere pestati? È divertente, eh?» Georg socchiuse gli occhi, sorpreso. Riconosceva quella voce. Per un istante i ricordi si sovrapposero al dolore. Poteva essere? Dopo tutti quegli anni? Aprì la bocca. “Sei davvero tu?”, voleva chiedere, ma il martello gli si schiantò con fragore sulla fronte. Poi scivolò nelle tenebre, per non svegliarsi mai più.
Capitolo 1 Jan si pentì subito di aver aperto gli occhi. La testa gli martellava e aveva le labbra appiccicate. Sentiva la bocca asciutta e la luce intensa del mattino gli faceva male agli occhi. Era steso nudo in un grosso letto e un lenzuolo sottile gli copriva la gamba.
Betty aveva la testa poggiata sul suo petto e teneva un cuscino tra le braccia. Avrebbe proprio voluto non svegliarsi mai. Così non avrebbe dovuto chiedersi da dove venisse quel sapore amaro che aveva in bocca. Mentre lui si sentiva uno schifo, i capelli di lei profumavano in modo inebriante di shampoo alle erbe aromatiche. Guardò i suoi tratti delicati e la curva gentile delle sue labbra. Ne era stato rapito sin dal primo momento, come dalla sua intelligenza e dalla sua risata da bambina. Sorrideva ancora nel sonno. Il suono del campanello alla porta di casa gli scatenò lampi di dolore alla testa. Jan si voltò verso la sveglia che segnava le 9.23. Era sabato. Chi veniva a buttarlo giù dal letto a quell’ora? Betty si rigirò assonnata e afferrò con più forza il cuscino. Jan le spinse con cautela la testa da una parte e rotolò giù dal materasso. Le piastrelle del pavimento erano fredde ed era in difficoltà a tenersi in piedi. La stanza gli girava intorno e dovette appoggiarsi al comodino. «Dannati cocktail» mormorò scuotendo la testa. Suonarono di nuovo e il campanello gli tirò fuori un lamento. «Arrivo, sì, arrivo» gridò. Fino alla porta Jan lottò per infilarsi i pantaloni. Passando si arrischiò a lanciare uno sguardo veloce nello specchio. La sua immagine, con gli occhi assonnati, i capelli che se ne stavano su ribelli e una piccola ciambella intorno alla pancia, non migliorò il suo umore. Spinse il catenaccio da parte e spalancò la porta. Chiunque insistesse tanto, doveva avere una buona ragione. «Pat?» domandò sorpreso. «Che ci fai qui?» Il collega Patrick Stein era in piedi nel corridoio con il suo completo scuro, dietro di lui c’erano due poliziotti in uniforme. Era l’ultima persona che Jan si sarebbe aspettato. Patrick portava i capelli pettinati da una parte con la brillantina e aveva un fazzoletto bianco nel taschino della giacca. Sembrava un omaggio ai Comedian Harmonists. Pat era arrivato alla Polizia criminale un anno dopo Jan. Lavoravano bene insieme, ma non si poteva dire che i due si piacessero. Jan considerava Patrick un idiota borghese e Patrick, di contro, additava Jan come uno spaccone indisciplinato, che sarebbe stato più utile a un commando di forze speciali. A ogni modo non gli piaceva che lo chiamassero Pat. «Abbiamo un nuovo caso di omicidio» rispose il collega.
Jan avrebbe potuto giurare di aver colto un lampo di compiacimento maligno dietro la maschera altrimenti impassibile di Patrick. «Abbiamo nove squadre operative, alla omicidi» borbottò. «Non potevate chiamare chi era di turno? È sabato mattina. Uno non può essere lasciato in pace neanche quando sta dalla sua ragazza?» «È domenica mattina» fece notare Patrick, ridendo. «Forse dovresti stare lontano dall’alcol.» Stavolta non c’erano dubbi che si stesse divertendo. «Che cosa?» gemette Jan. Che cosa aveva fatto allora il giorno prima? Venerdì lui e Betty erano andati al Bar Newton e si erano ubriacati di Piña Colada ai lamponi. Nessuno a Berlino sapeva farla meglio. Si ricordava di aver chiamato un taxi e di aver salito, barcollando, le scale di casa sua. Gli era già capitato, a volte, di avere dei vuoti, ma mai di perdere un giorno intero. «Perché non mi avete chiamato al cellulare?» «È spento.» «E come avete fatto a trovarmi?» «Abbiamo cercato la tua macchina.» «Mi volete prendere in giro?» si arrabbiò Jan. «E che tipo di caso è se dovete addirittura farmi cercare? È una bella presa in giro.» «Ti sembra che io sia in vena di fare scherzi?» «Mhm» mormorò Jan. Patrick aveva ragione. Aveva la stessa faccia contratta e la stessa postura tesa di sempre. Inoltre non riusciva a ricordarsi una sola volta in cui il suo collega avesse fatto uno scherzo. Probabilmente era uno che si stirava anche le mutande. «Mi metto subito qualcosa addosso e vengo in centrale. Quando è prevista la riunione di briefing?» «È stata un’ora fa. Tutto il personale della sezione omicidi è stato assegnato al caso. Io sono qui soltanto perché ieri la tua auto è stata vista sul luogo del delitto.» «La mia macchina?» domandò Jan confuso.
Pat annuì. Jan si massaggiò le tempie. Se avessero consegnato un premio per la peggior mattinata, quella avrebbe vinto in tutte le categorie. «Chi diavolo è stato assassinato? E dove? E che cosa c’entra la mia macchina? Da venerdì mattina è rimasta davanti alla porta di casa mia.» «Non posso parlarne.» «C’è una telecamera nascosta da qualche parte?» «Come hai già notato, non mi presto agli scherzi.» La capacità di comprensione di Jan si stava lentamente svegliando. «Se avete cercato la mia macchina e non puoi dirmi niente, vuol dire che…» «Che sei tra gli indagati.» Jan si poggiò al telaio della porta. Il dolore battente alla testa divenne un tutt’uno con la mano invisibile che gli schiacciava lo stomaco. «I colleghi ti porteranno in centrale. Il dottor Bergman vuole scambiare un paio di parole con te.» Jan alzò le mani. «Ok, gente. Lo so che non dovete perdermi di vista, ma per favore aspettatemi qui. Lascio la porta aperta, prendo il cellulare e mi vesto.» I poliziotti esitarono. Poi Patrick fece un leggero cenno di assenso. «Grazie.» Jan si affrettò a rientrare. Si abbottonò i pantaloni e infilò la camicia. Odorava di fumo e di sudore, ma non aveva nient’altro da mettersi lì. Poi si sedette sul letto e scivolò nelle sue Bikkembergs. Da sotto la criniera bionda di Betty si levò un sospiro. «Jan?» chiamò, stanca. «Che succede? Con chi stai parlando?» «Non è niente, tesoro» la rassicurò lui. «Solo un caso urgente. Devo andare, ma ti chiamo stasera e ti racconto tutto.» «Resta ancora un po’» disse lei poggiandogli la testa sul braccio. Quando sentì il calore delle sue guance, fu tentato di rinfilarsi a letto. Voleva guardarla dormire, osservare come si sollevava il suo seno e godersi la sua bellezza.
Era un dolore fisico resistere a tutto questo, ma doveva scagionarsi dall’accusa e controllare cosa fosse accaduto alla sua macchina. Le accarezzò delicatamente la schiena, le baciò la fronte e si staccò da lei. «A stasera» sussurrò. Poi prese il cellulare e si alzò. Patrick e i due poliziotti aspettavano davanti alla porta. Il mal di testa di Jan non era migliorato, ma il senso di spossatezza era scomparso. Era tra i sospettati di un caso d’omicidio. Di peggio non gli poteva capitare. Jan prese un caffè dal distributore e aggiunse quattro pasticche di dolcificante. Mandò giù un gran sorso e fece una smorfia di disgusto. Cosa c’era di tanto difficile a fare un caffè che non sapesse di metallo o di torba, pensò, e mise la tazza nella lavastoviglie. Non riusciva a ricordare che ci fosse mai stato tanto silenzio negli uffici della Polizia federale. I suoi colleghi della sezione omicidi “Giudice”, appena formata, erano ancora sul luogo del delitto e gli agenti a disposizione trascorrevano il loro tempo in ufficio. Jan aprì il rubinetto vicino alla macchina del caffè e bevve un sorso d’acqua. Un saporaccio continuava a restargli ostinatamente in bocca. Si sentiva ancora sfinito, come se avesse dormito soltanto due ore. I ricordi del giorno prima erano come cancellati. Gli ci sarebbero volute ancora un paio d’ore, poi sarebbe stato di nuovo come prima. La sua pancia emise un rumore di disperazione. Avrebbe pagato il suo intero stipendio mensile per una colazione decente. «Jan.» La voce del suo capo risuonò per tutto il piano. Una parola era sufficiente per capire che la situazione era seria. Si voltò e si ritrovò davanti la faccia imbronciata del capo della sezione omicidi Klaus Bergman, dottore in giurisprudenza. Per lui un’espressione burbera era la norma. Era tanto solenne che avrebbe potuto far tacere persino un gabbiano. La sua faccia rugosa e tesa era più arrabbiata del solito. Come sempre, portava un completo scuro, scarpe con lacci Budapest e una cravatta blu, che aveva un po’ allentato al collo. I suoi capelli neri erano pettinati da un lato in modo sciatto, come se avesse avuto solo poco tempo a disposizione per la sua toeletta mattutina. Era uno spettacolo raro, nel caso del capo di Jan, sempre molto ordinato. «Nella stanza degli interrogatori» gli abbaiò contro Bergman.
Jan trattenne l’impulso di salutare e lo seguì. Odiava la stanza degli interrogatori. Non c’erano finestre, solo un tavolo con quattro sedie che avevano visto tempi migliori. Il climatizzatore cigolava e la luce accecante della lampada gli faceva venire le lacrime agli occhi. Mentre Bergman sbatteva il suo taccuino sul tavolo e sfilava una penna stilografica dorata dalla tasca della giacca, Jan si sedette di fronte a lui. Era una sensazione insolita trovarsi dall’altra parte. Finora era sempre stato lui a fare le domande. «Ora non ho voglia di fare quelle stupidaggini tipo creare un’atmosfera rilassante e stabilire il contatto con il visitatore» attaccò Bergman. «Ho finito di vedere il filmato della videosorveglianza e se non mi racconti tutto…» «Perché diavolo sono qui?» lo interruppe Jan. «Cosa ti ha raccontato Stein?» «Solo che la mia macchina è stata vista sul luogo del delitto e che sono tra gli indagati.» «Dov’eri ieri sera?» «Non lo so.» «Che vuol dire?» «Vuol dire che non lo so» replicò Jan irritato. «Cominciamo benissimo» mormorò Bergman. «Perché è tanto importante?» «Stamattina Georg Holoch è stato trovato morto dalla sua donna delle pulizie.» «Georg Holoch, il giudice?» «Quello stesso giudice che ti ha condannato per lesioni personali e che quindi ha compromesso i tuoi scatti salariali.» «Non lo vedo da due anni.» «E perché la tua macchina è stata identificata davanti a casa sua?»
«La mia macchina?» «Il vicino di Holoch ha telefonato alla polizia perché la tua BMW bloccava il suo passo carrabile e lui era a malapena riuscito a entrare nel garage. Quando, dopo mezzanotte, il carro attrezzi è arrivato sul posto, l’auto non c’era più. E quindi ritorno alla mia prima domanda. Dove sei stato ieri sera?» Jan si strofinò stanco la faccia. «Non lo so. Venerdì sera sono andato in macchina a Charlottenburg con la mia ragazza. Poi siamo andati al Bar Newton e abbiamo festeggiato il superamento del suo esame intermedio a medicina. E so anche che siamo tornati a casa in taxi. Il ricordo successivo risale a stamattina.» «Hai un vuoto di memoria di trentasei ore? Cosa diavolo hai buttato giù?» «Non ho buttato giù un bel niente» rispose Jan. «Alzo un po’ il gomito qualche volta, ma di solito sono pulito.» «Ma ti sei visto allo specchio? Guardati negli occhi e poi torna qui e ripetimi quello che hai detto.» «Maledizione!» Jan colpì il tavolo. «Cosa dovrei fare ora?» «La squadra è ancora a casa di Holoch. Hanno trovato del sangue. Probabilmente dell’assassino. Prenderemo un tuo campione di DNA e lo confronteremo con quello rinvenuto. Così ti tiriamo fuori dal peggio. Quando avranno apposto i sigilli alla scena del crimine, il KT dovrà esaminare la tua auto.» Il KT, il Centro competenze di tecniche criminali, era pieno di persone in gamba, esperti di conservazione delle prove, di analisi del DNA, balistiche e altra robaccia del genere. Se qualcun altro aveva usato l’auto di Jan l’avrebbero scoperto. Bergman si alzò in piedi e aprì la porta. «Richi» sbraitò nel corridoio, risbattendola subito. Annotò qualcosa nel taccuino, senza rimettersi seduto. Un attimo dopo Richard Matiak entrò nella stanza. Faceva appunto parte del KT. I capelli ingrigiti e la barba lo facevano sembrare dieci anni più vecchio di quanto non fosse in realtà. Per qualche oscuro motivo portava sempre un camice bianco, che gli conferiva l’aspetto di uno psichiatra arruffato con un quoziente intellettivo di 150, ma privo di amici al di fuori del suo computer. Come sempre aveva con sé la sua valigetta, che proteggeva come un figlio. Probabilmente non si era mai svegliato senza quella scatola argentata accanto.
«Profilo del DNA e quadro ematologico completo.» «Come mai un quadro completo?» chiese Jan. «Non è sufficiente un…» «Basta discutere» lo interruppe Bergman. «Se non riesci a ricordare altro, dobbiamo sapere cosa hai combinato.» Jan sospirò. Non era un fifone, ma odiava l’idea di avere un ago infilato nel braccio e di dover stare a guardare il sangue che scorreva nelle provette. Gli venivano i brividi a pensarci. Richard sorrise e scartò una siringa. Al momento del prelievo Jan ce la mise tutta per fingere indifferenza e non guardare le provette.
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