Questo libro è un’opera di fantasia. Qualsiasi personaggio o luogo citato sono invenzioni dell’autrice per dare veridicità alla storia ed è puramente casuale.
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Note Copyright@2012 Sara Pratesi Copyright ©2015 Sara Pratesi
Autore: Sara Pratesi Data di pubblicazione: 15 Dicembre 2015 Serie: Liars Note: Due libri autoconclusivi, legati solo dalle gemelle Cavendish. Ogni libro può esser letto in autonomia senza per forza aver letto l’altro.
Illustrazione/foto-manipolazione/progetto grafico cover by ©Sara Adanay Blog: http://adanayart.blogspot.it/ Pagina Facebook: https://www.facebook.com/pages/SaraAdanay/548891361908348
Il libro “Lo so, sono una stronza anticonvenzionale che ha venduto Cupido per un Diamante.”
Questa è Gisellé Cavendish, detta Jijì; capelli ramati, occhi lucenti, bellezza e tanta… tanta… superficialità mischiata a un disturbo di ipocondria. Può permettersi tutto, cene lussuose, locali alla moda, shopping selvaggio: Loboutin, Gucci, Prada, Vera Wang. Tutto questo grazie ad Alan; un uomo ricco che non ha problemi ad aprire il portafoglio per un suo sorriso e che le ha fatto la fatidica domanda. Ma se un giorno tutto questo fosse messo a rischio? Si sa, la vita non sempre è come si programma e ci si può ritrovare in posti impensati. Da Los Angeles al polveroso Texas, però, il salto è grande e quando incontra gli abitanti di Montgomery, questi cadono in un grossolano equivoco, le cose si fanno complicate, specie se a complicarle ci si mette un aitante cowboy, Christopher Lane. Tra risate, divertenti equivoci e passione, la nostra Gisellé potrebbe pure perdere tutto, ma sarà davvero una perdita oppure vincerà qualcosa di più importante? Cupido riuscirà a liberarsi dalle catena a cui Jijì lo ha relegato?
Dedicato A chi cerca l’emozione tra le pagine di un libro. A chi s’innamora degli eroi su carta. A chi piange, ride, ama e odia assieme ai protagonisti. A chi ama i libri e la loro intramontabile magia.
Una bugia fa in tempo a viaggiare per mezzo mondo mentre la veritĂ si sta ancora mettendo le scarpe.
(Mark Twain)
1 I soldi fanno la FelicitĂ
Il rumore delle onde che s’infrangono sulla battigia.
Il verso dei gabbiani che svolazzano nel cielo terso alla ricerca di cibo. Il sole che risplende e scalda la pelle. Un cocktail analcolico alla frutta in mano mentre dalla veranda arriva uno squisito profumo di pesce grigliato. Cosa chiedere di più dalla vita? Io, Gisèlle Cavendish, ho tutto. Assolutamente tutto. Me la godo sotto il sole, abbronzo la mia pelle che ha già un bel colorito ambrato. Mi rimiro l’anulare sinistro su cui spicca un magnifico diamante di dieci carati, posizionato su una fascia di purissimo oro bianco, che mi dà l’impressione di brillare più del sole; ne sarei geloso, al posto suo. Quando ripenso al valore mi gira la testa, ovviamente l’ho fatto valutare da un esperto orafo, appena Alan Marshall lo ha messo al mio dito. Lo so, per le persone normali non dovrei pensare a quanto ha pagato – quarantacinque mila dollari sonanti – ma solo alla prospettiva di una vita insieme, finché morte non ci separi. Ma non prendiamoci in giro, qualsiasi donna al mondo, con un sano amore per le belle cose, preferirebbe avere attorno all’anulare un anello da quarantacinque mila dollari piuttosto che una minuscola pietra da duemila. Sono veniale? Materialista? Sì, lo ammetto e non mi vergogno a dirlo; perché fare l’ipocrita? Se sto con Alan, è grazie al suo cospicuo conto corrente. Non so manco cosa faccia di preciso. Cioè, so che lavoro fa il mio fidanzato ma non me ne interesso particolarmente. Magari un giorno mi faranno comodo i suoi servizi di chirurgo plastico ma preferisco non mettere a repentaglio la mia vita per due tette di silicone, che potrebbero persino farmi infezione o scoppiare durante un viaggio in aereo causando un’emorragia fatale. Si sa come vanno certe cose, no? Ti sdrai su un lettino d’ospedale certa di risvegliarti più bella di prima, ma quando mai, e poi magari l’anestesia ti procura una reazione allergica, l’organismo rigetta il corpo estraneo e scatena una setticemia e a quel punto “ciao”. Puoi tranquillamente fare le valigie per andare a incontrare San Pietro. Un incontro che, francamente, non ci tengo ad avere, non in tempi brevi almeno. Mi volto distrattamente cercando il volto abbronzato di Alan, è assorto nella lettura di una rivista medica.
Il fatto che non mi dedichi poi tutte queste attenzioni, non mi infastidisce per niente; mi piace avere i miei spazi e non adoro granché il contatto fisico. Mia madre, per questo motivo, mi ha portato per anni immemori dallo strizzacervelli come se, il non voler essere sprimacciata da chiunque, fosse un sinonimo di follia. Inutile farle notare che le mani sono portatori di germi e batteri ed io non ho alcuna intenzione di ammalarmi. Dice sempre che sono ipocondriaca e che è questa la mia malattia. Tsè, sciocchezze. Io sto benissimo così, senza virus che mi gironzolano attorno alle vie respiratorie. Ricaccio i ricordi dello psicoterapeuta e torno a guardare Alan: ha i capelli biondo scuro, che porta pettinati indietro fermati con il gel, elegante e raffinato persino in spiaggia. Questo adoro di lui: è sempre impeccabile. I suoi occhi sono di un banale nocciola e l’occhio destro è lievemente più piccolo di quello sinistro ma non ci faccio caso, è comunque un bell’uomo di trentaquattro anni, molto piacente e affascinante. Certo, fisicamente non è niente di trascendentale ma ha i muscoli quel tanto che basta. Di fondo mi piace esteticamente Alan Marshall, direi che mi è andata meglio di quanto non sia andata a Brittany Shape che, per avere un uomo dal portafoglio senza fondo, ha dovuto lanciarsi su uno scapolo, con la pancetta e la calvizie, di ormai sessant’anni; considerato che Brittany ha la mia età, ventotto anni, è una grossa differenza anagrafica. Alan invece è attraente, tralasciando che ha sul polso il segno bianco del suo orologio che toglie raramente e si vede! Cerco la cannuccia e tiro una sorsata gustandomi il sapore dolce del frutto della passione e riprendo il libro che stavo leggendo. «Tesoro, ti va di fare un tuffo?» Alan mi ridesta dalla lettura e lo guardo alzando la tesa del cappello che mi copre la visuale. «Un bagno?» Alzo un sopracciglio e lui annuisce ridacchiando. «Sì, un tuffo. Oggi il caldo è afoso e, oltretutto, se non ci godiamo il mare cosa ci siamo venuti a fare a Palm Beach?» Indica la casa di proprietà, in realtà è un’immensa villa dal numero indefinito di stanze e ancora non le ho viste tutte. «Parla per te, io il mare me lo sto godendo in questo modo» rispondo tornando a concentrarmi sulle pagine.
Fare il bagno? Non ho voglia di bagnarmi i capelli e riempirli di salsedine. Sono venuta qua per rilassarmi, andare in ristoranti di lusso la sera e a fare shopping nel tardo pomeriggio, non certo per fare vasche nell’oceano. «Avrai mai voglia di fare qualcosa con me?» Alan appare seccato e allora corro ai ripari: chiudo il libro e lo guardo ammaliante. «Faccio cose con te, per esempio faccio l’amore con te» bisbiglio. In realtà non è che la nostra vita sessuale sia così piena e soddisfacente. O non ne ho voglia io o a lui non viene duro. Sì, ogni tanto ha qualche attacco d’impotenza. La cosa non mi disturba, non amo il sesso: si suda, il cuore accelera e so di alcuni casi di persone che sono morte facendolo, stroncate da un infarto; meglio le più mansuete coccole prima di dormire. Insomma, se lo facciamo una volta ogni quindici giorni, è già grassa. Lui mi guarda storto ma poi si rischiara quando tiro su la coscia spalmata d’olio alle mandorle. «Stanotte allora ho proprio voglia di fare quel qualcosa con te» dice prendendomi le mani e sorridendo. Oddio, mi toccherà stare riversa sul letto a fingere orgasmi e sentirlo andare su e giù come se facesse le flessioni. Noia mortale! Fortuna che di solito non durano più di quindici minuti. Sorrido maliarda, la mia è una promessa… stasera dovrò sottopormi al dannato sesso ma, ora, mi godrò la fine del libro. Soprattutto starò lontana dall’acqua. «Vado a fare un tuffo.» Mi bacia le labbra e lo guardo incamminarsi verso la riva per poi entrare in acqua lentamente, bagnandosi con calma: prima le gambe, poi le braccia, spalle e infine la pancia. Se non altro segue le indicazioni per evitare uno sbalzo di temperatura e naturale congestione. Lascio perdere il libro, ormai ho perso il filo e mi sta venendo persino una discreta sonnolenza. Mentre guardo l’orizzonte, sento il cellulare di Alan squillare. Lo so, non si dovrebbe fare, la fiducia è alla base di un rapporto e bla bla bla… ma io devo pur controllare le mie “proprietà”, giusto? So bene quanto i tipi come Alan siano appetibili per le donne: piacente, potente e ricco sfondato. Lui è troppo impegnato a nuotare verso il pontile per accorgersi di me, così mi allungo verso il tavolinetto in vimini e sbircio il display: Hanna Thompson.
Trovarci il nome di una donna non mi pare un buon segnale. Forse dovrei rispondere, o lasciar fare. In fondo mi importa davvero se Alan si fa un’amante o anche più di una? Il cervello mi suggerisce subito la risposta: “no!”. Okay, un po’ di orgoglio ferito ma niente per cui non poter sopravvivere, alla fine potrebbe quasi farmi un favore, se il sesso glielo dà questa Hanna, Alan non verrà a chiederlo a me. Una vocina nella mia testa mi rammenta che gli uomini ragionano col pene e si sa che una donna disponibile e disinibita sessualmente li attrae come il miele con le api. Ormai il cellulare ha smesso di squillare. Devo correre ai ripari: dovrò fare il miglior sesso del mondo, questa notte! Un sacrificio necessario per un bene più grande. Mi riprometto di tener sotto controllo questa Hanna, non si sa mai che voglia venire a rubarmi il fidanzato. Hanna Thompson: preparati alla guerra fredda! Ormai il sole è quasi del tutto scomparso, stancamente addormentato tra la schiuma delle onde di Palm Beach. Io mi sento cotta come un würstel sulla griglia di un paninaro sull’affollato lungomare. «Tesoro, andiamo in casa?» Guardo Alan appena rientrato dalla sua nuotata che, mentre mi porge la domanda, si sta già rinfilando i pantaloncini di cotone. Cosa me lo chiede a fare se si sta già preparando a rincasare? Arriccio il naso ma poi annuisco infilandomi il grande pareo che annodo dietro al collo. È delizioso, di Prada, a pois bianchi su sfondo turchese. Si abbina perfettamente al mio cappello dalla tesa enorme e i miei occhiali Dior dalle lenti fumé. Mi sento quasi una diva. Il pensiero che Hanna Thompson potrebbe privarmi del frutto delle mie fatiche, mi manda fuori di testa. Continuo a pensarci anche una volta rientrati nella villa che profuma di pulito. In casa c’è solo la governante che trotterella qua e là imbracciando asciugamani e lenzuola stirate. «Magda, può dire ad Antonio che la cena dev’essere pronta tra mezz’ora? Questa sera devo uscire presto» dice Alan alla donna polacca che si è fermata per annuire reverente. «Devi uscire? Dove andiamo?» Non mi è sfuggito che ha usato il singolare, indago; in fondo non mi ha parlato di nessun impegno in solitaria. Cos’è? Vuole sbarazzarsi di me, adesso?
«Sì, perdonami mi ero dimenticato di avvertirti.» «Avvertirmi riguardo cosa?» «Esco da solo questa sera, tesoro. Tanaka è qui a Palm Beach e mi ha chiesto di incontrarci con la scusa di una partita di poker» spiega calmo e lo seguo mentre si dirige in camera. Lo osservo mentre toglie i pantaloncini e il costume a slip, che detesto, e apre la manopola dell’acqua nell’enorme doccia che potrebbe esser scambiata per un salotto. «Tanaka? Non dovevamo andare a vedere il nuovo musical?» «Los Angeles è pieno di musical, non mancheranno certo le occasioni» mi ammansisce, o almeno ci prova, aprendo la porta a vetri del box. «Ma siamo venuti qui per un fine settimana romantico!» grido. «Senti, il lavoro è lavoro. Fine della discussione.» Entra sotto l’acqua e si chiude la porta alle spalle.
2 Guerra Fredda
Con indosso il mio prendisole lungo fino ai piedi, due enormi cerchi d’oro bianco alle orecchie e il mio paio d’occhiali d’eccellenza, resto ferma seduta sul divanetto di paglia della veranda. In mano sorseggio il mio Martini Royale bianco con una spruzzata di lime. A vedermi sembro la pace personificata ma dentro di me ribollo di rabbia, somiglio a Lissa, la Dea della rabbia e del furore cieco. In teoria leggo il libro, in pratica tendo l’orecchio per sentire quando Alan verrà fuori per andare da Tanaka. A cena non ci siamo scambiati neanche una parola e per il nervosismo non ho toccato neanche uno dei gustosi piatti a base di pesce che Antonio, chef italiano personale di Alan, ci ha preparato; un vero peccato.
«Tesoro, io esco.» La voce di Alan mi arriva alle spalle facendomi sobbalzare. Ha il tono calmo e consueto, come se niente fosse accaduto, come se non mi avesse abbaiato che “il lavoro è lavoro”, prima di entrare in doccia e come se a tavola avessimo normalmente conversato. Odio fingere che le cose non siano successe, specie quando sono successe. «Bene» dico indifferente «buona serata.» «E dai Gì!» Odio quando mi chiama Gì, mi ricorda il fantomatico punto G. Il mio diminutivo è sempre stato Jijì. «Lo sai che Tanaka ha un’innovativa protesi per il seno, io devo cercare di limare il prezzo. È importante.» Si inginocchia e mi fissa negli occhi. Lo so quant’è importante? No e francamente non mi interessa. Ciò che mi preme è che io sto saltando il musical che fremevo di vedere. «Sì, certo. Divertiti e fai buoni affari.» Sono acida e anche sbrigativa. Lui sospira esasperato e tenta un bacio stampo, glielo concedo più che altro perché, dopo aver visto il traffico telefonico del mio fidanzato, non vorrei che Hanna Thompson prendesse troppo campo a discapito mio. «Domani ti porto in un ristorante di lusso, va bene?» Mi alza il mento e lo guardo con espressione da cane bastonato. «Aragosta, buon vino, ostriche…» dice per allettarmi. Peccato che trovi le ostriche disgustose ma di certo, le prime due pietanze della lista, mi aggradano assai di più. Alla fine mi arrendo e annuisco mesta tirando un sorriso forzato; lui ricambia, più sincero, e se ne va. Resto immobile a osservarlo e, ora che ci penso, si è vestito fin troppo bene. Un dubbio mi dilania appena la sua macchina sparisce dal viale di ciottoli chiari: e se vedesse quell’Hanna Thompson?! Scatto in piedi e mi dirigo in casa, vado in salotto e afferro il mio portatile; devo indagare. Controllo Facebook, Twitter, tutto pare in ordine. Certo, dovrei guardare dal suo profilo ma non so la password. Cerco di ricordare l’ultima volta che l’ha digitata in mia presenza e, come fosse il gioco “memory”, cerco di ricollegare le lettere che ha premuto.
Ma sì! Ci sono! Non è la password di Facebook ma è quella dell’email, è già qualcosa. Lui usa le email, le ha usate anche all’inizio della relazione con me. Di tanto in tanto mi inviava link di video su qualche stronzata che lui reputava simpatica oppure poesie di poeti famosi. Apro il sito e digito indirizzo email e password. Davanti mi si aprano milioni di email, molte delle quali riguardanti il lavoro. Protesi del seno, bisturi all’avanguardia, nuovi metodi di anestesia totale e locale, macchinari di aspirazione per la liposuzione e nuovi sistemi anti-age. Non ci credo! È abbonato a un sito porno! Quest’indirizzo, denominato @HotChick, gli scrive regolarmente a cadenza di ventiquattr’ore. Ne apro una a caso e mi appare il video di una donna caucasica dai capelli biondo platino e due tette immense che fa balzare e roteare neanche facesse loro ballare il mambo. Sono a occhi sgranati a fissare il monitor, davvero al mio fidanzato piacciono porcherie simili?! Sotto ci sono una decina di foto di maiale che mostrano molto dettagliatamente l’interno della loro vagina; io non ho mai visto nemmeno la mia così da vicino. In quella successiva le cose non migliorano, c’è una donna mulatta che fa un lavoretto di bocca a un cetriolo. Non ne capisco il senso. Nell’ultima che guardo… meglio che non dico che cosa ho visto! Mi è bastato vedere la tizia che teneva in mano una provola gigante e collocarla tra le cosce, per convincermi a chiudere con frenesia. Santo cielo, questo fa eccitare Alan? E se ha tutte queste fantasie sessuali, perché non mi chiede mai di realizzarle?! Non che le esaudirei, io la provola mi limito a mangiarla e da oggi non so se riuscirò mai più a guardarla con gli stessi occhi innocenti. Dovrei preoccuparmi? In fondo se si sollazza con dei video poco m’importa, mi disgusta ma non m’importa. Ciò che conta è che un'altra non miri al suo cuore, finché mira al suo pene (difettoso), mi sta anche bene. La mia attenzione si ridesta come scorgo il nome di Hanna Thompson come mittente di un’email. Non posso ignorarla, devo scoprire il contenuto.
La apro tremante e prego di non trovarci niente di compromettente. Magari è solo una cliente che vuole consulenza per l’insorgere di un disturbo post-operatorio. O forse vuole un preventivo per un paio di labbra nuove.
Da: Hanna Thompson (hannathompson@gmail.com) A: Alan Marshall (alan.doc@clinicahealt.com) Oggetto: Ciao…
Non per fare la paranoica, ma non è troppo confidenziale il saluto “ciao” quando si parla col proprio chirurgo? E quei puntini di sospensione, che stanno a significare? Lo sanno tutti che i puntini sono un modo per celare altri doppi sensi più lascivi e impudichi. Sento che la testa sta per scoppiarmi, ho bisogno di un Martini. «Magda!» chiamo ad alta voce un paio di volte la governante che arriva subito. «Mi dica signorina» si annuncia servizievole. «Può portarmi un Martini Royale bianco, per favore?» L’efficienza è nel dna di questa donna, tempo due minuti e ho già il bicchiere in mano completo di fettina di lime come guarnizione. «Grazie mille» la congedo con gentilezza e lei se ne va in silenzio. Devo tornare a quell’email. Ingurgito quasi metà dell’alcolico e butto gli occhi sullo schermo.
Caro Alan, ti scrivo per quell’incontro che è da tanto che ci promettiamo di fare. Io sarei libera martedì, attorno alle 17:00. Credi di riuscire a sganciarti dai tuoi innumerevoli impegni per me?
Hanna T.
Caro Alan, incontro, impegni? Nella testa si aggirano mille ipotesi e quasi mi sento mancare la terra da sotto i piedi. Chi diavolo è quest’Hanna Thompson? Chiunque sia una cosa è certa: devo prendere provvedimenti e togliere ad Alan qualsiasi stimolo o impulso possa avere verso di lei. Dopo il sesso viene l’amore, si sa, è così che ho conquistato il suo cuore e non posso permettere che ora sia un’altra sgallettata a usare il mio gioco con lui. Spengo tutto e comincio a camminare su e giù per la stanza come un leone in gabbia, in mano il mio Martini che non tardo a terminare. Devo fare qualcosa… ma cosa? Certo! Che scema non averci pensato prima! L’ho conquistato col sesso e ultimamente gliel’ho tolto, ebbene glielo renderò! Sarò una gatta in calore e lo spomperò al punto da non fargli riuscire più ad avere un’erezione. Cosa che comunque gli capita e magari con la stanchezza gli capiterà con più frequenza. Ma sì, ecco il piano: intimo di raso e tanta, tanta, tanta passione.
3 Orsù dunque, mi rifiuti?
In camera c’è un forte odore di colonia. Chi usa più la colonia oramai?! Era un prodotto in voga fino agli anni ’70 o giù di lì. Non conosco nessun uomo che si schiaffi nel viso ettolitri di colonia. Poi Alan sembra che ci faccia il bagno. Guardo l’ora sulla sveglia del comodino che è dalla mia parte: mezzanotte e un quarto. È rientrato da circa venti minuti, diciannove dei quali li ha passati chiuso nel bagno.
Quanto ci sta là dentro? Io sopra questo letto in intimo seducente sto cominciando a non trattenere più gli sbadigli. Dalla porta del bagno lo sento mentre si lava i denti, mi sono tolta i vestiti di tutta fretta e a sapere che ci avrebbe messo tanto, questa sera, avrei fatto con più calma senza rischiare di rimanere impigliata nel prendisole e spezzarmi l’osso del collo sbattendo contro il comodino. «Tesoro, metti il canale sportivo? Voglio sapere com’è andato il torneo di basket.» Sento che biascica, le parole mangiucchiate perché tiene in bocca lo spazzolino. Già immagino gli schizzi di dentifricio misti a saliva, che troverò sullo specchio. Vabbè che ci pensa la cameriera a pulire… ma che schifo! Roteo gli occhi e lo accontento, anche se mi auguro che come metterà piede in camera, lascerà stare il basket per dedicarsi a me. Il mio piano di tenerlo sessualmente impegnato avrà inizio stasera e Hanna Thompson dev’essere eliminata! Oltretutto l’ho promesso nel pomeriggio per scansare il nuoto. Lo sento fare i gargarismi con il collutorio e per un attimo mi viene la voglia di mandare in fumo tutto, buttarmi sotto le coperte e dormire. Quel glu-glu-glumi ha spento ogni ardore ed io non sono nemmeno una donna dalla libido così accesa. Forse è per questo mio disinteresse al sesso se non mi sono mai fatta amanti. Nah, credo sia più dovuto al fatto che sono di indole fedele con qualsiasi relazione: - Fedele alla parrucchiera da cui mi servo da dieci anni. - Fedele alla mia estetista. - Fedele alla mia tintoria. - Fedele al mio supermercato. Sì, se mi trovo bene con qualcuno, non riesco a cambiarlo. Una volta, quand’ero a Washington con Alan per un galà di beneficienza, mi ero vista costretta a ricorrere a una parrucchiera del luogo, certo sarebbe stato scomodo tornare a Los Angeles, e ho provato mordaci sensi di colpa per tutto il giorno, come se avessi tradito Paloma Juanes (la mia parrucchiera). Finalmente vedo la luce del bagno spegnersi e Alan fare il suo ingresso nella camera padronale. Come sbuca dall’uscio, mi sistemo su un fianco, la mano che cade distratta sulla coscia e sguardo languido.
«Tesoro, alza il volume che non si sente niente» dice gettandosi a peso morto sul letto e cercando il telecomando con lo sguardo. Mi prende in giro?! Sono qui in deshabillé e posa plastica… e lui pensa a quella stupida partita?! «Non c’è altro che ti va di fare?» miagolo mentre poso sensuale il palmo sul suo braccio, lo stringo e lo obbligo così a fissarmi negli occhi. Pare che si renda conto solo ora di me, mezza nuda, su questo letto. I suoi occhi vagano sul mio corpo snello, merito delle ore che passo in palestra, e si umetta le labbra. «Però, hai intenzioni serie, eh?» E torna a guardare la dannata partita. «Sì, se qualcuno avesse voglia di collaborare…» mormoro al suo orecchio, un invito più che esplicito, mi pare. Lui mi sorride distratto. «Sì, sì. Dopo la partita, tesoro, okay?» Mi tiro sulla schiena allibita. Non può rifiutarmi per uno stupido pallone marrone! Ma dai, ma dove si è visto che un uomo rifiuti del sesso facile?! All’inizio era un vero porco, voleva farlo a ogni ora del giorno ed io avevo grosse difficoltà per divincolarmi, non avevo certo voglia di passare tutta la giornata in posizione supina. Eppure ora che vorrei farmi stendere su questo dannato materasso, lui dona tutta la sua attenzione al campionato nba. Mi alzo dal letto stizzita e infilo la vestaglia di seta che avevo appoggiato sulla pediera del letto. «Vado a prendere un bicchier d’acqua» avverto, lui neanche mi guarda e annuisce appena col capo mugolando qualche verso di assenso; è totalmente rapito dal basket. Battuta da una stupida partita. Mi guardo allo specchio che è nel corridoio, di fianco alla console invecchiata. Non mi pare di esser da buttare: i capelli lunghi e rossi, mossi in delicate onde contornano gli occhi affusolati di un caldo nocciola, labbra carnose; il labbro superiore è più carnoso di quello inferiore ma trovo mi renda più sensuale. Ho gli zigomi definiti e le fossette sulle guance quando sorrido, per non parlare del fisico che curo con
morbosa attenzione; seno una normale terza ma comunque sodo e piacente, punto vita definito, belle gambe lunghe. Possibile che perda contro un branco di omaccioni sudati e muscolosi?! Non è che ha qualche tendenza strana? Insomma, rifiutare il sesso… non è normale per un maschio! Specialmente se si considera la splendida e pittoresca rubrica virtuale a cui si è iscritto. Inizio a chiedermi se non sia io a non saper fare sesso, eppure tutti i miei ex amanti non si sono mai lamentati. Ammetto che con Alan non ho mai messo molta passione, specialmente non dopo il primo anno, quando mi ha messo l’anello al dito. Prendo il cellulare che avevo messo nella tasca della vestaglia e compongo il numero di mia sorella Miranda, attendo impaziente che risponda, seduta sullo sgabello in cucina. «Jijì, sai che ore sono?» risponde facendomi notare che l’orario delle chiamate appropriate è passato da un pezzo. «Scusa, ho bisogno di te!» piagnucolo mentre faccio roteare un tegame di rame, appeso alla grata che scende dal soffitto. «Che succede?» «Alan ha rifiutato di fare sesso con me» butto fuori in un fiato, indispettita. «E tu mi chiami per questo?!» Sembra sconvolta. «Ti pare una cosa da poco? Oggi lo ha chiamato una tizia, magari è una collega o chissà chi, ma se fosse qualcuna che mira a rubarmi il ruolo di fidanzata?» Lei resta in silenzio così continuo accorata: «Mimì, ci ho messo tanto impegno in questa relazione, non posso farmi portar via tutto dalla prima sciacquetta che arriva.» «Ma che ti frega se si fa un’amante? Non ami Alan, lo so che ami i suoi soldi» mi fa notare e ha ragione; non le ho mai fatto mistero di quanto sia attratta dalla bella vita. Probabilmente perché da bambina ho fatto la fame. «Non intendo tornare in quel monolocale che puzzava di fritto! Non voglio rinunciare ai gioielli, ai bei vestiti e a tutte le cose lussuose che Alan mi offre. Tra sei mesi diventerò la signora Marshall e questo è tutto ciò che mi preme!»
«Jijì, tu guardi troppo al lato materiale. Pensi che un matrimonio senza amore possa renderti felice?!» «Un matrimonio senza amore: no. Un conto corrente in comune a sei zeri: sì.» «Jijì, non puoi pensare solo al conto in banca…» La interrompo. «Ricordi, vero, che nostra madre ha sposato un musicista squattrinato e che noi siamo cresciute a cibo da discount? Che i vestiti per il ballo di fine anno li abbiamo acquistati di seconda mano? Che…» Miranda non mi lascia finire l’elenco che mi sormonta. «Ricordo bene tutte queste cose ma tu ricordi quando papà tornava con un fiore per la mamma? Quando la portava in braccio fuori perché lei si era rotta la caviglia? O quando l’aiutava a pulire perché lei era stanca? Sono queste le cose importanti, Gisèlle.» Quando mi apostrofa col mio nome di battesimo, capisco che parla seriamente. Nonostante tutti i bellissimi e toccanti ricordi su mio padre, resto della mia idea: un fiore non basta, se lo metti contro il cibo scadente. «Okay, papà amava e ama ancora la mamma. Fin qui siamo tutti d’accordo,che bello, evviva. In ogni caso, vuoi aiutarmi o no?» «Non capisco quale sia il problema» stridula. «Il fatto che mi rifiuta sessualmente ti pare poco? Preferisce la partita» spiego ancora animata, possibile che non ci arrivi?! «Metti un po’ di pepe, vai su e fai la maiala.» «È questo il tuo consiglio? Fare la maiala?» domando sbigottita. «Beh, il mio consiglio sarebbe di mollarlo ma poiché questo non vuoi seguirlo…» «No, infatti non è un consiglio degno di nota.» «Magari comincia a darti per scontata. Dovresti fargli tremare la terra sotto ai piedi.» «Questa è un’ottima idea.» Perché non ci ho pensato io?! «Ma come?» domando curiosa.
«Che ne so, fingi uno spasimante, allontanati da lui per un periodo di tempo. Potresti andare via per qualche settimana così lui sentirà la tua mancanza.» «Andare via? È un’idea idiota! Lo lascio in balia delle altre vipere arriviste, pronte ad attorniarlo per i suoi soldi?» «Altre arriviste… come te?» Okay, quest’uscita mi ha irritato abbastanza. «Sei la mia gemella, non dovresti parlarmi così!» «È proprio perché siamo gemelle e ti voglio bene, che ti parlo così.» «Andarmene no, è troppo estremo.» «Allora fai la maiala.»
4 Machiavelliche strategie
Il vento corre tra i fili dei miei capelli mentre la macchina scivola veloce sull’asfalto. Certo, visto in un film è una bellissima scena di libertà e spensieratezza: grandi occhiali da sole Dior, foulard che svolazza attorno al collo e capelli che danzano alla brezza seguendo quasi le note di una romantica e ilare canzone. La dura realtà è un’altra: i capelli sbattono sul viso, sulle spalle nude e sembra che ti sferzino frustate a tradimento; seguirebbero il ritmo di una canzone se fosse un titolo rap; veloce, tagliente e duro. Gli occhiali sono l’unica barriera che ti divide dal contrarre una congiuntivite. Mi domando come mai nei film sembri tutto più bello. Persino l’amore è più magico di quanto non lo sia nella misera quotidianità. Nei film si vede l’amore che consuma, quello che non ti concede nemmeno il lusso di ragionare, ti rapisce letteralmente, ti porta via in lidi lontani accessibili solo dagli innamorati, il mondo delle favole fatte di nuvole di zucchero filato e sole di pan di zenzero. Io,
francamente, dubito della veridicità di queste trame glicemiche, ma quando mai si è visto un uomo votato alla propria donna anima e corpo? Figuriamoci se esiste l’amore eterno o quella passione che fa venir voglia di strapparti i vestiti di dosso. A me non è mai successo e, dalle mie conoscenze, so per certo che l’idea di Amore con la A maiuscola, è un’enorme fandonia. L’amore non è per sempre e nemmeno il matrimonio, su dieci coppie che conosco, otto hanno divorziato; mi pare una media piuttosto alta e allarmante. Da una parte vorrei provare quei sentimenti intensi per l’uomo che guida al mio fianco, ma proprio non ci riesco. Certo, c’è dell’affetto… ma di sicuro non darei la mia vita per lui. Ecco, il suo portafoglio mi fa venire il batticuore, quello sì! Lo so, sono una stronza anticonvenzionale che ha venduto Cupido per un diamante; l’amore non è per sempre… un diamante sì. Mi volto a osservare Alan, è silenzioso e concentrato alla guida. La Florida è ormai lontana quasi 5.000 chilometri e noi, dopo l’aereo privato e una corsa nella Ferrari Italia, siamo ormai nei pressi di casa mia. Appoggio la testa al sedile e canticchio la canzone di Parov Stelar, “All night”, cercando di fermare le vergate dei capelli sulle spalle. «Finalmente arrivati» dice Alan imboccando l’uscita dell’autostrada e immettendosi nelle vie cittadine. Annuisco distratta, alla fine non abbiamo fatto sesso. Quando sono tornata di sopra l’altra sera, il notiziario sportivo era finito e Alan dormiva a bocca aperta come un sasso. Questa sconfitta ancora mi irrita. Il giorno seguente, post cenetta romantica, lui è stato colto da un’intossicazione alimentare per via del pesce crudo. Quando vedo casa mia sono felice; ho voglia di stendermi nel mio letto e tornare a essere me stessa, senza artifizi o la maschera della donna perfetta e di classe che indosso con Alan. È stancante dopo un po’ non poter esser chi si è. Perché non lo sono? Beh, perché Alan vuole accanto un certo tipo di donna e io, per avere un certo tipo di vita, sono disposta a diventarlo. «Eccoci, principessa.» Mi guarda e mi sorride con i suoi denti perfetti che sottopone regolarmente a un trattamento sbiancante. «Grazie per il week-end, pasticcino.» Pasticcino, che nomignolo ridicolo. Lo chiamo così solo perché so che a lui piace e non capisco come possa esser così.
Mi sporgo per poggiare le mie labbra su quelle sottili di lui, mi accarezza il viso e risponde al bacio. «Jijì!» La voce di mia sorella arriva chiara, mi volto a guardarla e la vedo di fronte casa mia con una tuta e un berretto da baseball. Non ci somigliamo per niente. «Mimì, che ci fai qui?» «Mi avevi chiesto di venire a ritirarti la posta ed è quel che ho fatto» spiega avanzando verso di me con un sorriso. «Ciao Alan» saluta il mio fidanzato, il suo tono è educato ma io noto la solita freddezza con cui lei si rapporta a lui. Non che lo odi o che le stia antipatico, ma non approva i motivi per cui io condivido la mia vita con lui; so che quest’astio è rivolto a me e non ad Alan che, ai suoi occhi, non è che un’ignara vittima del mio materialismo. «Buonasera Miranda.» Alan sorride e poi mi bacia di nuovo. «Ti chiamo più tardi, va bene?» Annuisco e scendo dall’auto, prendo i bagagli e li poso a terra. Bel cavaliere del piffero, neanche si degna di aiutarmi a portarli in casa. Evito alterchi, specialmente in presenza di mia sorella. Resto quindi in piedi a salutarlo con la mano. «Andiamo su?» chiede mia sorella prendendo in mano una valigia. Faccio per rispondere ma anziché un “sì”, mi esce un urlo acuto e dolorante. Porca puttana! «Oh mio Dio, Jijì! Stai bene?» Mia sorella si china verso di me ma io la ignoro, troppo presa a tenere il piede dolente tra le mani mentre sono prostrata a terra. «Gisellè, tesoro! Mi dispiace» gracchia Alan fermando la macchina e scendendo di corsa. «Non ci posso credere che mi hai pestato il piede con l’auto!» I miei occhi lo inceneriscono ma devo cessare con la mia espressione d’odio per assumermene una sofferente. Il piede mi pulsa terribilmente, è come se avessi dentro un miliardo di spilli che mi premono contro la carne.
«Sarà meglio portarla al pronto soccorso» dice esagitata mia sorella ancora chinata a lisciarmi la schiena. «Sì, certo! Ma la mia auto è a due posti» puntualizza Alan e io lo mando mentalmente a ‘fanculo. «Chi cazzo se ne frega! Ci stringiamo!» urlo, al diavolo il bon ton e la grazia, il dolore supera le buone maniere e ora vorrei solo strozzarlo. Alan annuisce intimorito e colpevole, mi aiuta a sedermi in macchina e Miranda mi si spalma accanto. «Forza, sali!» lo sprona mia sorella e lui galoppa al posto di guida. La macchina sfreccia veloce per le strade che portano in ospedale mentre io continuo a lamentarmi e mordicchiarmi il labbro. «Anche tu non potevi stare più distante dall’auto?» sbotta Alan all’improvviso. «E io che ne sapevo che avresti fatto retromarcia?» «Avevo un furgone davanti, non è fatta di ectoplasma l’auto ma di metallo e bulloni.» Giuro che lo ammazzo, al diavolo pure i soldi. «Guida invece di bisticciare con lei» lo riprende Miranda e lui si zittisce. Le devo un favore. Arriviamo al pronto soccorso in quindici minuti, mi sorreggo a Miranda e Alan mentre incedo saltellando sul piede sano dentro l’edificio. Alla reception c’è una donna dall’aria slavata, minuta e con la permanente in testa, mastica un chewing-gum in maniera affatto discreta. «Mi scusi, ho bisogno di un medico» dico subito appoggiandomi stancamente al bancone. Lei tira su gli occhiali dal naso e mi guarda con condiscendenza. «Ha problemi cardiaci, respiratori? Ha sbattuto la testa, ha vomito?» domanda come un robot, scuoto il capo. «No, solo l’idiota del mio ragazzo che mi ha pestato un piede con la macchina.» «Ehi» protesta Alan ma lo ignoro.
«Bene, allora può attendere il suo turno seduta lì. Quando il dottore sarà disponibile, verrà chiamata. Il suo nome?» «Come? Devo aspettare? E quanto?» «Dipende, mezz’ora, un’ora, quattro ore. Il tempo che ci vuole.» È terribilmente indolente e lo si sente persino dal tono disattento. «Ma mi fa male!» protesto e la donna fa spallucce come a dire: “e allora?” «Non c’è proprio modo di farla entrare con un po’ di anticipo? Sono Alan Marshall, un noto chirurgo estetico e ho una clinica proprio nel centro di Los…» s’intromette il mio fidanzato che però viene bruscamente interrotto dalla donna: «non posso, mi spiace!» «Neanche un anticipo piccolo piccolo?» pigola mia sorella. «In fondo siamo colleghe, sono anche io chirurgo all’osped…» «Niente fa-vo-ri-tis-mi! Poteva portarla dove lavora» replica stizzita. «Fosse stato più vicino» biascica Miranda leggermente risentita. La donna torna a guardarmi indolente: «il suo nome, prego? Quando sarà il suo turno verrà chiamata.» «Gisèlle Cavendish. Avete almeno del ghiaccio?» chiede Miranda con la sua diplomazia. La donna, senza nemmeno guardarci, si volta e rovista in un cassetto nella stanza accanto per poi tornare con in mano una busta di ghiaccio secco. «Ecco del ghiaccio istantaneo, ci metta questo.» Lo posa rumorosamente sul tavolo e Alan lo afferra al volo. «Grazie» dico sarcastica arrancando verso la sedia. Dio, che male! «Stendi la gamba» suggerisce mia sorella mentre Alan le passa il ghiaccio che lei mi sistema con cura legandolo fermo al mio piede nudo con il foulard. La guardo e sono quasi commossa dalle sue attenzioni fraterne. Lei è sempre stata quella assennata tra le due, quella di cui andare fieri. Io invece, da adolescente, ho dato un sacco di problemi e poi ho preferito il denaro all’amore.
A guardarci siamo identiche, gemelle omozigote. A volte quand’eravamo ragazzine, ci scambiavamo i ruoli a scuola. Anche nostro padre, talvolta, non riusciva a distinguerci. L’unica persona al mondo che ci riconosce a colpo d’occhio è nostra madre. «Chiamo mamma, le dico del tuo piede.» La fermo all’istante gridando: «no» e afferrandola per la felpa. «Non dirle niente, lo sai com’è apprensiva. Tempo dieci minuti e sarà qui con del brodo di pollo, il suo rimedio a tutto.» «Ma è nostra madre e tu sei sua figlia. Ha diritto di sapere» mi fa notare severa. «Ma io non sono in fin di vita, è solo un piede. Non corro il rischio di spirare per questo», insisto, «Glielo dirò quando sarò a casa, ora preferisco non farla preoccupare per questa sciocchezza.» Miranda pare cedere, rimette il cellulare nel marsupio e si siede a fianco a me. Alan in tutto ciò è muto come un pesce, continua a guardare l’ora e ad allentarsi il nodo della cravatta. Sembra agitato, inquieto e io mi domando a cosa sia dovuto tutto questo nervosismo inspiegato. «Che hai?» domando alla fine, vinta dalla curiosità e dall’apprensione. «Come? Niente.» Il tono non è affatto rassicurante, c’è qualcosa che occupa i suoi pensieri e non si tratta del mio piede. Vorrei sapere che problema c’è per cui debba impensierirsi, di più importante della mia salute. «È solo che…» dice poi e lo guardo insistente. Bingo, c’è qualcosa. «È solo che?» Con la mano lo incito a continuare. «Avevo un impegno stasera» mi rivela in un fiato. Sono più che certa che dai miei occhi sia guizzata fuori la delusione. Sì, sono rattristata perché anche se il mio non è l’amore convenzionale, se fosse lui in una sala d’attesa di un pronto soccorso – si trattasse anche solo di una stupida unghia incarnita – io starei al suo fianco senza pensare ad altri impegni. «Che cos’avresti di così importante da dovermi mollare qui?» «Non ti sto mollando, mi pare» puntualizza e io m’innervosisco ancora di più. «Vado a prendere un caffè» dice Miranda cercando una via di fuga, nessuno vuole stare in mezzo a una discussione tra fidanzati.
«Quindi? Che impegno è?» chiedo con più determinazione appena Miranda è lontana. «Una cena di lavoro, dovevo incontrarmi con il fornitore della tossina botulinica.» «Tossina botulinica? Fare il botox a qualche carampana avvizzita è più importante di me, per te?!» «No, certo che no!» Si anima e mi prende il viso tra le mani, «Principessa io ti amo, lo sai. Sei tu la cosa più importante.» Non si direbbe davvero. «Quindi resterai con me?» «Se devo…» si lascia sfuggire e poi, come incontra i miei occhi furenti, corregge il tiro: «certo che sto con te.» Mi bacia a stampo. Nel chinarsi mi picchia sul piede con il ginocchio e grido di nuovo. «Va’ via» ringhio in un misto di rabbia e sofferenza. «Scusami, non volevo farti male.» «Non voglio che stai qui per forza. Va’ alla tua cena e ci sentiamo domani.» «E poi dovrò sopportare il tuo muso per una settimana?» «No, nessun muso. Ora vai» persevero, inutile che stia qui contro il suo volere. In questi trenta minuti mi ha schiacciato il piede con un’auto di una tonnellata e poi, come se non fosse sufficiente, mi ci ha tirato una ginocchiata. «Chiamami appena torni, va bene?» Non ci posso credere… se ne va davvero! Lo guardo allibita cercando di non far uscire le lacrime d’insoddisfazione. Lui mi dà un altro bacio insipido sulla fronte scostandomi i capelli rossi e poi, dopo un mesto sorriso, esce dalle porte automatiche come se niente fosse. Sono delusa e amareggiata, ancora non posso credere che mi abbia mollata così, con un piede che potrebbe essere rotto; per colpa sua tra l’altro! Vedo arrivare Miranda con in mano un caffè e mi guarda confusa. «Dov’è Alan?»
«Se n’è andato» rispondo meccanica senza togliere gli occhi dal mio piede che si è gonfiato come una zampogna. «Stai scherzando?!» Sembra oltraggiata e in effetti come darle torto? Lo sono io per prima, potrebbe essere accusato di vilipendio? Okay, non ha usato insulti verbali, ma l’abbandono nel momento del bisogno, mi pare comunque un insulto grave. «Aveva una cena con un fornitore, è dovuto andare. Prenderemo un taxi al ritorno.» «Che razza di stronzo!» sbotta sedendosi al mio fianco. «Ma perché continui a stare con lui?» Oddio, non di nuovo questa conversazione. Sa già la risposta, perché me lo chiede ancora?! «Per i soldi.» «Allora perché hai gli occhi lucidi?» «Il fatto che il mio primario interesse siano gli zeri nel conto corrente, non significa che non provi una forma di sentimento, ipso facto ci resto male.» Miranda non dice niente, muove le labbra a destra e a sinistra, non sa che dire e quando succede, muove la bocca. «E se invece del fornitore fosse Hanna Thompson?» trillo, colta da un’improvvisa folgorazione. Lei mi guarda e sgrana gli occhi. «Chi è Hanna Thompson?!» «Ma certo,» continuo il mio monologo, «magari Hanna Thompson era a Palm Beach e potrebbe aver visto lei invece di Tanaka e stasera idem, le avrà promesso la notte assieme.» «Ma di che parli?» Miranda mi afferra per le spalle interrompendo il mio farneticamento. «Non abbiamo fatto sesso», rivelo, «Quando siamo tornati lui è stato chino sul cesso per tutta la notte.» «E che c’entra Hanna Thompson?» «Mentre lui faceva il bagno al mare, questa Hanna lo ha chiamato.»
«E allora? Non potrebbe essere semplicemente una cliente? In fondo fa il chirurgo, sarà una a cui serve un lifting.»
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