Rujada Atzori
Una sorpresa per te (In ogni mio respiro) romanzo Butterfly Edizioni
Prima edizione marzo 2016 Copyright ©2016 Butterfly Edizioni Grafica: Le muse-Grafica http://autoributterflyedizioni.wordpress.com http://butterflyedizioni.wordpress.com butterflyedizioni@yahoo.it
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Questo libro lo dedico a me stessa, perché mi ha impegnato la mente in un periodo “no”. Perché amare è l’unico modo corretto per vivere. Non esiste un amore sbagliato. Esiste l’amore. Sempre. Anche quando è impossibile. (Vanessa Vescera)
Capitolo 1. Lei La sveglia suona e vorrei schiantarla al muro. Perché la gente deve svegliarsi presto per andare a lavorare? Dovrebbero abolire il lavoro la mattina, alle cinque e mezzo,
precisiamo. Alle cinque e mezzo si sta a letto, al calduccio sotto le coperte, non ci si dovrebbe svegliare a quest’ora. Ecco, un’altra cosa che farei se fossi proprietaria di qualsiasi attività. Niente lavoro la mattina presto, magari a metà mattinata. Sì, ci può stare. Metà mattina è già una via di mezzo, non troppo presto, non troppo tardi… Alle dieci può andar bene. La sveglia continua a suonare, insistente. Allungo una mano e afferro il cellulare per spegnerlo ma questo mi scivola e casca a terra aprendosi in due. Ecco. Quando una giornata inizia male, non può che continuare ad andar peggio. Mi tiro su le coperte, coprendomi fino alla punta dei capelli. Solo cinque minuti. Chiudo gli occhi un attimo. Giusto un attimo. Apro gli occhi, mi sento riposata. Cavoli, sono stati i cinque minuti più belli di tutta la mia vita. Mi siedo e mi stiracchio. Forse non è poi così malvagia questa giornata, e io che pensavo male. Potrei anche mettere la sveglia alle cinque e quaranta, se questo mi farà stare bene come ora. Sbadiglio e scosto le lenzuola, sedendomi sul bordo del letto mentre un brivido di freddo percorre tutto il mio corpo. Mi abbraccio e cerco di riscaldarmi, sfregando le mani sulle braccia. Mi alzo e muovo un passo verso il bagno, ma appoggio il piede su qualcosa di rotondo, che scivola e scivolo anche io insieme all’oggetto del delitto. Volo e casco a terra battendo la testa su qualcosa di unticcio. Chiudo gli occhi e traggo un bel respiro, lungo e profondo. Perché? È Tempesta, la mia gatta. L’ho chiamata così perché è dal primo giorno che l’ho accolta a casa mia che tenta di uccidermi e mette a soqquadro l’intero appartamento. Lo fa in ogni modo possibile, dal rovesciare la vaschetta dell’acqua accanto ai miei piedi mentre ho in mano il ferro da stiro attaccato alla corrente, al tentare di soffocarmi la notte sdraiandosi sul mio viso e facendomi inalare tutti i suoi peli. E lo fa con grazia. Sempre.
«Tempesta!» esclamo a denti stretti. Mi volto a guardarla, mentre sta sdraiata beatamente nella sua cuccetta mentre finge, con nonchalance, di dormire. Ma lo so che non sta dormendo, e l’ho capito perché ha mosso un orecchio. Mi siedo sul pavimento freddo, con una mano mi massaggio la schiena e con l’altra la testa. Sento qualcosa di unto mentre accarezzo i capelli e chiudo gli occhi, rabbrividendo al pensiero di cosa potrebbe essere. Altro respiro profondo per mantenere la calma. Allungo una mano sul comodino e prendo un fazzoletto. Non voglio nemmeno vedere cos’ha fatto sul pavimento, gatta maledetta. Getto il fazzoletto sopra la seconda arma del delitto, senza nemmeno guardare. Lancio un’altra occhiataccia a Tempesta, che continua, beata, la sua farsa. Avrei dovuto chiamarla Falsa, oppure Stronza. Mi alzo facendo attenzione a dove metto i piedi e, devo ricordarmi di non abbassare mai la guardia con lei, mi dirigo in bagno ma prima di chiudermi la porta alle spalle, le punto due dita, indice e medio, sapendo che mi sta ascoltando, esclamo: «Ti tengo d’occhio, sappilo!»
Capitolo 2. Lui Apro un occhio, la testa mi martella insistentemente. Mi passo una mano sul viso cercando di ricordare qualcosa della serata. Niente. Il vuoto totale. Dannazione! Mi alzo, svogliato e vado in cucina a preparare un caffè. Non so nemmeno che ora siano, ma non m’importa. Tanto oggi è il mio giorno libero. Non appena poso lo sguardo sul tavolo della cucina noto un post-it. È sicuramente di Giorgia. Sorrido e lo prendo. Buongiorno amore mio,
Vado a fare un giro con Angela e Patty, ci vediamo prima di cena. Un bacio, ti amo da morire. Tua Giorgia. P.s ti ho lasciato dei cornetti nel microonde, nel caso volessi fare colazione. P.p.s quando rientro parliamo anche di quella cosa che mi hai detto ieri sera :* Il tutto con uno stampo di un bacio. Mi mordo il labbro inferiore, nervoso, cercando di ricordare cosa le ho detto ieri sera. Niente. Il vuoto domina i miei ricordi, e come se avessi del fumo nero. Tutto quello che ricordo è una discoteca, la musica alta, Giorgia che ballava sensuale davanti ai miei occhi e tanti cocktail. Fiumi di alcool. Sospiro e mi siedo a peso morto sulla sedia, passandomi ripetutamente le mani sul viso. Sono nervoso. Sbuffo, mi sistemo meglio sulla sedia. Continuo a mordermi il labbro inferiore. Mi guardo in giro, cercando di trovare un indizio sulla serata di ieri. Siamo rientrati a casa, e questo è sicuro al cento per cento, altrimenti non sarei qui, e sicuramente è qui che abbiamo parlato. È qui, in questa cucina che le ho detto la cosa di ieri sera. Oddio. Mi blocco di colpo mentre un pensiero mi giunge fulmineo. Spero non sia quello che sto pensando. E mentre mi alzo dalla sedia in preda al panico più totale, il campanello suona. Controllo l’ora, le sette e trenta. Bene, non è Giorgia. Per fortuna. Apro la porta e Mathias, Giulio e Simone entrano in casa senza nemmeno salutarmi. Dovevamo incontrarci ma anche questo particolare al momento mi sfugge. «Sei nella merda, amico!» esclama Giulio, dandomi una pacca sulla spalla. Lo guardo e sbianco, perché? Cos’ho fatto? Ripenso al post-it di Giorgia, forse è collegato a quello che le ho detto ieri? Cosa accidenti le ho detto ieri?
«Cosa ti è saltato in testa, idiota?» Mathias esprime il suo disappunto. Su cosa? «Ragazzi, ma perché? Se è quello che vuole lui, che v’importa?» Simone s’intromette, mentre apre il forno a microonde e addenta uno dei miei cornetti. «Come che ci importa? Ma da che parte stai? È nostro amico e noi, in qualità di amici, dobbiamo dirgli la verità.» Mathias ribatte. Il mio sguardo passa dall’uno all’altro, scioccato. Stanno parlando di qualcosa che ho fatto. Di qualcosa di molto, mooolto, grave che ho fatto. «Verità su cosa?» domando. Tre teste si voltano verso di me, sei occhi sbarrati puntati, che mi fissano come se fossi appena sceso dallo spazio. «Non offenderti ma hai fatto una grande, gigantesca cazzata!» Mathias esprime il suo disappunto storcendo anche il naso, Giulio annuisce e gli dà una pacca sulla spalla, Simone si avvicina, mandando giù l’ultimo boccone del miocornetto. «È quello che vuoi?» domanda, posandomi entrambe le mani sulle spalle. Sono spaventato. A morte. «S... Sì?» balbetto incerto su cosa rispondere. «Bene!» esclama sorridendo e battendo le mani. «È quello che vuole! È felice, ragazzi. Dobbiamo essere felici per lui. Punto. La sua felicità è la nostra felicità.» «Simone, smettila, non capisci niente!» lo rimprovera Mathias. «Ale sta facendo una cazzata, come ha detto Mathias!» s’intromette Giulio, «Non può farlo, lui… lui…» allarga le braccia cercando di trovare le parole ma alla fine le fa ricadere lungo i fianchi, scuotendo la testa. «Ragazzi, si può sapere di cosa diavolo state parlando?» urlo. Si bloccano e mi fissano increduli. «Non ti ricordi nulla?» Mathias si avvicina a me e, prendendomi per le spalle, inizia a scuotermi felice. «No! Mollami, scemo!» «Oh mio Dio! Non si ricorda! L’hai detto perché eri ubriaco, quindi non vale!» Giulio salta contento lanciando pugni in aria.
Simone resta in silenzio. «Lo sapevo, lo sapevo che non avresti mai fatto una cazzata del genere!» Mathias mi dà due schiaffetti leggeri sul viso e io continuo a non capirci niente. Che cosa ho detto ieri sera?
Capitolo 3. Lei «Merda!» esclamo in preda al panico. «Merda, merda, merda, merda!» proseguo urlando e correndo per casa cercando di trovare le chiavi dell’appartamento. Sono in un ritardo mostruoso ed è il mio primo giorno di lavoro. Niente ritardi, aveva detto Andrea, il titolare. Odio i ritardatari. Mi odierà e mi licenzierà. Il lavoro più corto della mia vita! Maledetti cinque minuti! Alzo il cuscino e lo scaravento a terra, la mia ricerca delle chiavi continua senza risultati. Levo le lenzuola e butto anch’esse sul pavimento. Niente. Queste chiavi si sono volatilizzate. Sparite. Sto per mettermi a piangere quando mi blocco, travolta da una sensazione ormai familiare. Mi volto, lenta e punto gli occhi su Tempesta che se ne sta beata a pancia insù, continuando a fingere di dormire. Ma io lo so. Eccome se lo so. Lei fa di tutto per rendere la mia vita un inferno. Lo fa di proposito. Penso sia il demonio. Magari è la reincarnazione di mia nonna e ora me la sta facendo pagare per non essere riuscita ad andare al suo funerale, ma è morta tre, e ripeto TRE, volte, non sto scherzando!
Ho pianto la prima volta che la mamma mi ha chiamato per dirmi che la nonna era morta, sono andata all’ospedale, ed era proprio morta, non respirava e dopo qualche minuto il cuore ha ripreso a battere, abbiamo tirato tutti un sospiro di sollievo e, increduli, l’abbiamo abbracciata. La seconda volta ero a letto con il mio ex fidanzato, stavamo facendo una performance da… woooow, meglio non pensarci, e con l’orgasmo mancato sono corsa in ospedale, salutando per l’ultima volta, così pensavamo tutti, la nonna. E invece no, ce l’aveva fatta anche quella volta. La terza volta non ci ho creduto, ho esclamato: “Ma tanto si risveglia come fa sempre!” e sono partita in vacanza. Invece, quella volta, non si è svegliata. Abbasso lo sguardo, sentendomi tremendamente in colpa, se potessi tornare indietro… Scuoto la testa, scacciando via i pensieri negativi e tristi e, a passo felpato, mi avvicino a Tempesta. Lei continua a stare sdraiata con la panza in bella vista e finalmente le vedo. Sono sotto al suo culone, sì, culone, perché questa gatta, oltre al mestiere di gatta-killer, mangia. Mangia tanto e non fa niente. È la gatta più pigra che abbia mai visto in ventisei anni della mia vita. Mi mordo il labbro inferiore mentre allungo una mano per cercare di afferrare le chiavi ma la tocco per sbaglio e lei apre gli occhi di scatto e mi fulmina. Devo ammettere che fa davvero paura con quello sguardo da psycho-cat. Subito scatta e si mette a quattro zampe gonfiando la coda, drizzando i peli, come se avesse preso la scossa, e soffiando. «Smettila!» la sgrido, puntandole un dito contro. «Sei tremenda, e io non ho tempo da perdere! Fammi prendere le chiavi!» Lei in tutta risposta si gonfia tutta e soffia ancora di più, mostrandomi i suoi canini super appuntiti. Sbuffo, non mi faccio intimidire da una palla di peli che soffia e allungo la mano per prendere le mie chiavi, ma la stronza è veloce. Mi grafia e le prende scappando e infilandosi sotto al divano della cucina, ma resta incastrata e continua a muovere le zampine cercando di spingersi per nascondersi meglio.
«Lo brucerò quel divano! Poi voglio vedere dove vai a nasconderti con quel culone che ti ritrovi!» le urlo. E ora? Come faccio? Non posso uscire dalla porta perché è chiusa a chiave, mi volto e guardo la finestra della cucina. Sono al piano terra, posso uscire dalla finestra. Mi fiondo là, la apro e scendo sul marciapiede. Mi volto e... «Ma porc…» Come la chiudo la finestra?
Capitolo 4. Lui Mi passo le mani sul viso, ripetutamente, in preda all’agitazione. «Impossibile.» È assurdo. È impossibile che possa aver fatto e detto una cosa del genere. No, io avevo programmato tutto, pensato a tutto. Tutto. Non era il momento né il luogo adatto per quella cosa! «Oh, cazzo, sì che è possibile. E tu lo hai fatto, amico!» Mathias mi guarda, si accarezza la mandibola con una mano e con lo sguardo sembra dirmi: “Te l’ho detto che hai fatto una cazzata”. «Puoi smetterla di guardarmi così?» sbotto, alzandomi di scatto dalla sedia, rovesciandola a terra. «Così come?» «Mi stai giudicando con lo sguardo!» «Io quello che avevo da dirti te l’ho detto. Non ho bisogno di giudicarti con lo sguardo. E datti una calmata. La cazzata l’hai fatta tu.» Scatto verso di lui e lo afferro per il maglione, lui alza le mani in segno di resa, ma continua a sfidarmi con lo sguardo. Simone e Giulio si mettono in mezzo, tirandomi via.
«Forse è meglio se andiamo a fare colazione, che ne dite? Con la pancia piena si ragiona meglio», propone Giulio e insieme a Simone spostano lo sguardo da me a Mathias, in attesa di una nostra risposta. «Ok!» rispondo in malo modo, voltando le spalle e andando in bagno. È da quando siamo usciti dal mio appartamento che nessuno osa parlare, nemmeno io. Siamo tutti presi da mille pensieri o dalla situazione che ho creato io ieri sera. Come diavolo mi è venuto in mente? Ci avviciniamo al bar e Mathias parcheggia proprio davanti, a pochi passi dall’entrata. Scendiamo dalla macchina, sempre in silenzio fino a quando Giulio non interrompe i nostri pensieri. «Ragazzi, sembra un mortorio. Su, non è successo nulla. Parli con Giorgia, le spieghi che eri ubriaco e che non ti ricordi nulla ed è fatta. Capirà… spero.» Mi fermo e mi volto a guardarlo, ha ragione. Ci stiamo comportando da immaturi. Abbiamo quasi trent’anni, dobbiamo smetterla con questo atteggiamento! «Hai ragione. Scusate ragazzi, è che non mi ricordo nulla…» Mathias mi guarda di sbieco poi sorride, si avvicina e mi scompiglia i capelli. La tensione finalmente è andata via e quel peso sullo stomaco è sparito, per fortuna. «Levatevi!» sento urlare da lontano, volto la testa a destra e sinistra e vedo anche gli altri fare lo stesso. «Spostatevi da lì!» sentiamo ancora, questa volta da più vicino. Ci guardiamo sorpresi e manca poco che non venga investito da una ragazza in bicicletta che sfreccia veloce in mezzo al nostro gruppetto. «Ma chi è quella pazza?» domanda incredulo della scena appena assistita Simone. Queste ragazze... pericolose alla guida e pure in bicicletta! Per non dire anche in discoteca mentre tu sei ubriaco e non sai quello che stai per fare...
Capitolo 5. Lei Io odio questo mondo. Odio chi si sveglia col sorriso, pronto, carico per una nuova e bellissima giornata. La vita dovrebbe iniziare a mezzogiorno. Nemmeno alle dieci. A mezzogiorno. Punto. Mi levo la sciarpa e il giubbotto e lancio tutto nella stanza del personale, sono sudata, i capelli nella nuca mi si appiccicano alla pelle. Prendo l’elastico dalla tasca della camicia e mi faccio una coda alta. Arrivo al bar col fiatone, sembra abbia corso a una maratona, ma non ho vinto né perso. Forse. «Sei in ritardo.» Eleonora mi squadra dall’alto in basso con l’aria da so tutto io che mi urta. «Lo so che sono in ritardo, non c’è bisogno che me lo ricordi tu!» brutta stronza antipatica, vorrei aggiungere, ma mi mordo la lingua ed evito perché lei ègiusto qualche scalino sopra di me. Eleonora dirige il bar di Andrea, lo affianca. È quasi il suo braccio destro, ma non è lei a scegliere il personale, per fortuna. È acida, stronza, cattiva, perfida e tutte le parole brutte di questo mondo e la conosco solo da due settimane, tempo che ho avuto di prova prima di firmare il contratto. Non sono mai arrivata in ritardo, tranne oggi, mio primo vero e proprio giorno di lavoro. Mi sveglio sempre un’ora prima per prepararmi psicologicamente e fisicamente ma non sono abituata a questi ritmi. Sono passata dal non fare niente tutto il giorno a non avere tempo nemmeno per scaccolarmi. Ci sta. Ci sta tutto un esaurimento nervoso. Di quelli potenti. In stile Non aprite quella porta. Già mi vedo mentre rincorro Eleonora con la motosega in mano. «Che hai da guardare? Va’ a prendere le ordinazioni a quel tavolo!» indica con la testa.
Guardavo quanto sei brutta, anche oggi, arpia. Non appena si volta a preparare non so cosa, le faccio una linguaccia, con tanto di pernacchia e poi mi volto subito, andando a passo spedito verso il tavolo dove quattro ragazzi si sono appena seduti. Ho appena iniziato e sono già stanca morta, la corsa, per non arrivare in ulteriore ritardo, mi ha uccisa. Cose da ricordarmi quando diventerò ricca da far schifo: - Autista personale, così, a ogni mio schioccare di dita, mi porterà dove voglio a qualsiasi ora. - Cuoco figo che mi cucini qualsiasi cosa io desideri. - Cameriera delle pulizie. Vecchia o brutta, così non corro il rischio che mi rubi il cuoco. - Ci devo ancora pensare… «Ehm, scusa? Clienti chiamano cameriera sul pianeta terra!» vedo una mano svolazzare davanti al mio viso svegliandomi dal mio torpore fantasy, sì fantasy, perché non diventerò mai ricca da far schifo quindi non avrò mai nessuno dei punti segnati nella mia mente, sospiro. Che mondo triste, il mio. I ragazzi continuano a guardarmi e a guardarsi tra di loro. «Ditemi tutto, ragazzi!» e lancio loro il mio sorriso migliore.
Capitolo 6. Lui La cameriera davanti a noi, con l’aria un po’ assonnata, fa una specie di sorrisoghigno strano, sembra stia… soffrendo? Non riesco a inquadrarla bene, nel mentre, però, ordino un cappuccino d’orzo, il caffè fa male, almeno a me, mi agita troppo, non va bene, e due paste calde vuote. Lei alza un sopracciglio mentre scrive le ordinazioni sul palmare poi sparisce al bar mentre noi restiamo in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri fino a quando Mathias non se ne esce con: «Carina!», fissando il didietro della cameriera.
«Uhm, cosa?» domando cadendo dalle nuvole mentre il mio sguardo segue le mani maldestre della ragazza che afferra il vassoio con la nostra colazione. «Guardate Ale come la fissa! Se la sta mangiando con gli occhi!» Giulio mi dà una gomitata sul fianco e sghignazza. «Mi spiace, amico. Ma tu hai già la tua palla al piede», afferma Mathias serio, come se la battuta di Giulio mi avesse innervosito. «Giorgia non è una palla al piede, perché continuate a dirmi queste cose?» La cameriera arriva e ci serve i nostri cappuccini, osservo Mathias mentre le fa l’occhiolino e i suoi occhi cadono sulla scollatura di lei. Alzo gli occhi al cielo, non cambierà mai. «Perché è la verità.» Mathias torna tra noi. «Ma perché! Cosa c’è che non va tra me e Giorgia? Io vedo che tra noi due va tutto a gonfie e vele!» quasi lo urlo, perché non capisco. È da un po’ che va avanti questa situazione, questo farmi capire che dovrei mollare Giorgia per non so quale motivo e vorrei davvero saperlo, questo motivo importantissimo. «Tu credi?» Non capisco se è una domanda o una provocazione e già ne ho le scatole piene di queste frasi non dette. «Sentite ragazzi, o parlate o parlate perché mi sto stufando e non ci metto molto a mandarvi al diavolo tutti quanti.» Li guardo uno a uno. «Da quanto state insieme tu e Giorgia?» domanda Giulio, e anche qui più che una domanda sembra una provocazione. «Dieci anni.» «Hai la risposta.» Giulio non mi guarda, ha lo sguardo basso verso il suo cappuccino e gira il cucchiaino in un modo che mi innervosisce.
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