1113 First published by Bookouture, an imprint of StoryFire Ltd. Titolo originale: Silent Scream Copyright © Angela Marsons 2015 All rights reserved. Angela Marsons has asserted her right to be identified as the author of this work. Traduzione dall’inglese di Angela Ricci Prima edizione ebook: dicembre 2015 © 2015 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214 ISBN 978-88-541-8985-0 www.newtoncompton.com Realizzazione a cura di Il Paragrafo, www.paragrafo.it
Angela Marsons
Urla nel silenzio Newton Compton editori
Questo libro è dedicato alla mia compagna, Julie Forrest, che non ha mai smesso di credere in me e che mi ha impedito di rinunciare al mio sogno.
Prologo Rowley Regis, Black Country 2004 Cinque figure, disposte a pentacolo, erano radunate intorno a una montagnola di terra appena scavata: una tomba, ma lo sapevano soltanto loro. Scavare nella terra gelata, attraverso gli strati di neve e ghiaccio, era stato come tentare di incidere la pietra. Avevano fatto a turno, tutti quanti. Avrebbero impiegato molto di più se avessero scavato una fossa delle dimensioni di un adulto. La vanga era passata di mano in mano. Qualcuno aveva una presa incerta, esitante, qualcun altro più salda, ma nessuno si era tirato indietro. Non avevano pronunciato una sola parola. Erano tutti ben consapevoli di quanto fosse innocente la vita che era andata perduta, ma avevano stretto un patto. E i loro segreti sarebbero stati sepolti. Cinque teste si chinarono sul terriccio smosso: immaginarono il cadavere sottoterra, che cominciava già a ricoprirsi di un sottile strato di ghiaccio scintillante. Quando i primi fiocchi di neve caddero sulla tomba, provarono tutti un brivido. Poi le cinque figure si dispersero, lasciando una serie di impronte a forma di stella sulla neve appena caduta. Tutto era stato compiuto.
Capitolo 1 Black Country Oggi Teresa Wyatt aveva l’inspiegabile sensazione che quella sarebbe stata la sua ultima notte. Spense il televisore e tutto piombò nel silenzio. Non era il normale silenzio che calava ogni sera, quando lei e la sua casa chiudevano dolcemente i battenti e si apprestavano a coricarsi.
Non sapeva bene cosa si sarebbe aspettata di sentire al telegiornale della notte. La notizia era già stata annunciata nel programma serale della tivù locale. Forse sperava in un miracolo, in una smentita dell’ultimo minuto. Fin dalla prima richiesta, avvenuta due anni prima, aveva cominciato a sentirsi come una detenuta nel braccio della morte. Di tanto in tanto arrivavano le guardie, la portavano fino alla sedia elettrica e poi il fato faceva in modo che ritornasse sempre tra le mura sicure della sua cella. Ma questa volta, no. Teresa sapeva che non ci sarebbero state ulteriori obiezioni, né ulteriori ritardi. Si chiese se gli altri avessero visto il telegiornale. Si sentivano così anche loro? Avrebbero mai ammesso con se stessi che il loro primo istinto non era il rimorso, bensì salvarsi la pelle? Se fosse stata una persona migliore, forse Teresa avrebbe scovato un barlume di coscienza al di là della preoccupazione per la propria sorte; invece, non ve n’era traccia. Se non avesse seguito il piano, si sarebbe rovinata con le sue stesse mani, concluse. Il suo nome, Teresa Wyatt, sarebbe stato pronunciato con disprezzo, anziché col rispetto di cui godeva adesso. La denuncia sarebbe stata presa sul serio. Teresa non aveva dubbi. La fonte era ambigua, ma credibile. Ed era stata messa a tacere per sempre. Di questo, non si sarebbe mai pentita. Di tanto in tanto però, negli anni successivi a Crestwood, le capitava ancora di sussultare ogni volta che notava qualcuno con un’andatura simile a quella della vittima, o i capelli del suo stesso colore, o quel modo peculiare di piegare la testa. Teresa si alzò e tentò di scrollarsi di dosso la malinconia che l’avvolgeva. Andò in cucina e mise a lavare il suo piatto e il bicchiere di vino. Non c’era un cane da portare fuori, né un gatto da far rientrare. Doveva solo controllare, come faceva ogni sera, di aver chiuso bene porte e finestre. Provò di nuovo la sensazione travolgente che non servisse a nulla controllare, perché nessuna serratura avrebbe tenuto fuori il passato. Scacciò via quel pensiero. Non c’era nulla da temere: solo loro cinque conoscevano la verità.
Sapeva di essere troppo nervosa per riuscire ad addormentarsi, ma aveva convocato una riunione dello staff per le sette del mattino seguente e non poteva permettersi di arrivare in ritardo. Andò in bagno e cominciò a riempire la vasca, aggiungendo all’acqua calda una dose generosa di sali profumati alla lavanda. In un batter d’occhio, il profumo riempì la stanza. Un bagno caldo, insieme al bicchiere di vino appena bevuto, l’avrebbe aiutata a rilassarsi. La vestaglia e il pigiama di raso erano piegati con cura e appoggiati sul cesto della biancheria quando Teresa entrò nella vasca. Chiuse gli occhi e si abbandonò all’abbraccio dell’acqua. Sorrise tra sé e sé, mentre la tensione si allentava. Aveva reagito in modo un po’ eccessivo, nient’altro. La sua vita era divisa in due parti, così le sembrava. Prima c’erano stati quelli che lei definiva i trentasette anni a.C., ovvero avanti Crestwood. Erano stati anni meravigliosi. Anni da single ambiziosa, padrona di ogni sua decisione. Senza dover dare conto a nessuno. Gli anni successivi erano stati molto diversi. Ogni azione era sempre stata circondata da un alone di paura, che aveva determinato le sue mosse e influenzato le sue decisioni. Da qualche parte aveva letto che la coscienza altro non era che la paura di essere scoperti. Teresa era abbastanza onesta da ammettere che, per quanto la riguardava, era proprio così. Ma il loro segreto era al sicuro. Doveva esserlo. All’improvviso sentì un rumore di vetri infranti. Non veniva da lontano: era la porta della cucina. Teresa rimase immobile, con le orecchie tese per captare altri suoni. Era improbabile che qualcuno tra i vicini si fosse messo in allarme: la casa più prossima distava una sessantina di metri, oltre un muro di cipressi alto sei. Il silenzio della casa si addensò intorno a lei. Dopo quel fracasso la quiete era sinistra, carica di pericolo.
Forse si trattava solo di uno stupido atto di vandalismo. Magari qualche studente del Saint Joseph aveva scoperto dove abitava. Oddio, si augurò che fosse davvero così. Il sangue le pulsava nelle vene, vibrando sulle tempie. Deglutì per liberare i timpani. Fu scossa dai brividi: aveva la netta sensazione di non essere sola. Si mise a sedere. Il fragore dell’acqua che sbatté contro le pareti della vasca le parve assordante. La mano le scivolò sulla porcellana e il fianco destro ricadde nell’acqua. Un rumore ai piedi della scala cancellò ogni residua speranza che si trattasse di un vandalo. Teresa non aveva più tempo e lo sapeva. In un universo parallelo i suoi muscoli avrebbero reagito alla minaccia imminente, ma in questo sia il suo corpo sia la sua mente erano come narcotizzati di fronte all’inevitabile. Sapeva di non avere scampo. Quando udì le scale scricchiolare, chiuse gli occhi per un istante e impose al suo corpo di calmarsi. C’era qualcosa di liberatorio nel trovarsi finalmente di fronte alle paure che l’avevano perseguitata così a lungo. Quando sentì l’aria fredda penetrare nella stanza, riaprì gli occhi. La figura che oltrepassò la soglia era scura e informe come un’ombra. Pantaloni da lavoro, una grossa maglia di lana nera e un lungo soprabito. Il viso era coperto da un passamontagna di lana. “Ma perché io?”, fu il pensiero che si agitò nella mente di Teresa. Non era lei l’anello debole della catena. Scosse la testa. «Non sono stata io a parlare», mormorò in tono appena percettibile. Tutti i sensi cominciarono ad abbandonarla, mentre il corpo si preparava a morire. La figura scura fece due passi verso di lei. Teresa tentò di individuare qualche indizio, ma non ne trovò. Poteva essere uno qualunque degli altri quattro. Teresa sentì l’urina scivolarle tra le gambe nell’acqua profumata, segno che il suo corpo la tradiva. «Lo giuro… io non ho…». Le parole le morirono in gola mentre tentava di rimettersi a sedere. La schiuma dei sali da bagno aveva reso la vasca scivolosa.
Il respiro le si spezzò in piccoli rantoli concitati, mentre pensava al modo migliore di implorare salvezza. No, non voleva morire. Non era quello il suo momento. Non era pronta. Aveva ancora diverse cose da fare. Nella sua mente comparve all’improvviso l’immagine dell’acqua che le invadeva i polmoni, gonfiandoli come palloncini. Sollevò una mano in un gesto di supplica, ritrovando finalmente la voce. «Ti prego… ti prego… no… non voglio morire…». La figura si chinò sulla vasca e le posò le mani guantate sui seni. Teresa si sentì spingere sott’acqua e lottò per restare su. Doveva almeno provare a spiegarsi, ma la spinta era sempre più forte. Tentò di nuovo di tirarsi su da quella posizione inerte, invano. La gravità e la forza bruta dell’aggressore rendevano impossibile qualsiasi resistenza. Quando l’acqua giunse a incorniciarle il viso, aprì la bocca. Dalle labbra le sfuggì un sospiro, mentre tentava di dire un’ultima volta: «Giuro che…». Le parole le rimasero in gola, e Teresa osservò le bollicine d’aria prodotte dal suo naso salire verso la superficie. I capelli le galleggiavano intorno al viso. La sagoma scintillava dall’altra parte della barriera d’acqua. Il corpo di Teresa cominciò a reagire all’assenza di ossigeno, e lei si sforzò di placare il panico che la stava invadendo. Agitò le braccia e, per un istante, una mano guantata si staccò dal suo seno. Teresa riuscì a riemergere dall’acqua, solo con la testa, e guardò da vicino quegli occhi freddi e penetranti. Il suo ultimo respiro fu intriso di consapevolezza. Quel breve istante di confusione fu sufficiente: l’aggressore la spinse di nuovo sott’acqua, senza mollare la presa. Era ormai sul punto di perdere i sensi, ma rimase lucida e incredula. Coloro che condividevano quel segreto con lei non avevano la minima idea di chi fosse la persona che dovevano davvero temere.
Capitolo 2 Kim Stone girò intorno alla Kawasaki Ninja per andare a regolare il volume dell’iPod. All’interno del garage, le casse danzavano alle note argentee dell’Estate di
Vivaldi. Stava per arrivare la sua parte preferita, l’ultimo movimento, detto “Tempesta”. Posò la chiave a bussola sulla panca e si pulì le mani con uno straccio. Poi osservò la Triumph Thunderbird che stava rimettendo a nuovo da circa sette mesi: quella sera non l’attirava come al solito, chissà come mai. Guardò l’orologio. Quasi le undici. In quel momento, il resto della sua squadra stava probabilmente bivaccando davanti al The Dog. Lei non beveva, ma li accompagnava sempre al pub quando sentiva di esserselo meritato. Recuperò la chiave a bussola e si chinò sul poggia ginocchia accanto alla Triumph. Per lei, non c’era niente da festeggiare. Mentre esplorava l’interno della moto, individuando finalmente la parte posteriore dell’albero motore, vide di nuovo fluttuare davanti a sé il volto terrorizzato di Laura Yates. Posizionò la testina sul bullone e ruotò la chiave, avanti e indietro. Con tre verdetti di colpevolezza per il reato di stupro, Terence Hunt sarebbe rimasto fuori dalla circolazione per un bel po’. «Ma non abbastanza», disse Kim ad alta voce. Perché c’era stata una quarta vittima. Ruotò di nuovo la chiave, ma il bullone non voleva saperne di stringersi. Aveva già assemblato cuscinetti, ruota dentata, morsetti e rotore. Kim fissò il bullone in silenzio, quasi sperando che si muovesse da solo. Niente da fare. Concentrò la sua rabbia sul manico della chiave e spinse con tutta la forza che aveva. La filettatura saltò e il bullone girò senza più presa. «Merda», urlò lei lanciando la chiave all’altro capo del garage. Seduta al banco dei testimoni, Laura Yates aveva raccontato senza mai smettere di tremare l’incubo che aveva vissuto: era stata trascinata dietro una chiesa e violentata brutalmente, più volte, per due ore e mezzo. Faceva ancora fatica a sedersi, se ne erano accorti tutti in tribunale. Ed erano passati tre mesi dall’aggressione.
La diciannovenne era rimasta al suo posto in aula durante la lettura dei verdetti di colpevolezza. Poi era arrivato il turno del suo aggressore, ed erano state pronunciate le due parole che le avrebbero cambiato per sempre la vita. Non colpevole. Perché? Perché la ragazza in questione aveva bevuto un paio di drink. Gli undici punti di sutura, la costola rotta e l’occhio nero non contavano niente. Aveva bevuto due drink, quindi probabilmente se l’era cercata. Kim si accorse che le stavano tremando le mani. Di rabbia. Per la sua squadra, tre su quattro non era affatto male. E non lo era. Ma non era comunque abbastanza. Non per Kim. Si chinò per ispezionare il danno provocato alla moto. Ci aveva messo almeno sei settimane per arrivare a quelle dannate viti. Stava riposizionando la testina e cominciava a ruotare di nuovo la chiave, tenendola tra pollice e indice, quando le squillò il cellulare. Kim mollò il bullone e balzò in piedi. Una telefonata poco prima di mezzanotte non portava niente di buono. «Detective Stone». «Signora, abbiamo trovato un cadavere». «Dove?» «Hagley Road, Stourbridge». Kim conosceva la zona. Era giusto al confine con la giurisdizione della West Mercia. «Vuole che avvisiamo il sergente Bryant, signora?». Kim fece una smorfia. Odiava quel “signora”. A trentacinque anni non era ancora pronta a farsi chiamare “signora”. Le balenò in mente l’immagine dei suoi colleghi che barcollavano fino a un taxi davanti al The Dog. «No, ci penso io», rispose prima di mettere giù.
Mentre spegneva l’iPod, Kim si bloccò per un istante. Doveva smettere di pensare all’espressione di accusa negli occhi di Laura Yates. Reale o immaginaria che fosse, lei l’aveva vista. E non riusciva a togliersela dalla testa. Quella stessa giustizia in cui tanto credeva, aveva deluso una persona che invece avrebbe dovuto proteggere: questo Kim non l’avrebbe mai dimenticato. Aveva convinto Laura Yates a fidarsi di lei e del sistema che rappresentava, e ora non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che Laura fosse stata delusa e abbandonata. Dalla giustizia, e anche da lei.
Capitolo 3 Quattro minuti dopo, Kim partì a bordo della Golf GTI vecchia di dieci anni: la usava solo quando le strade erano ghiacciate, o nel caso in cui il rombo della Ninja rischiava di disturbare. I jeans strappati e macchiati di olio, grasso e polvere erano stati sostituiti da pantaloni di tela neri con sopra una semplice maglietta bianca. Ai piedi portava stivaletti di pelle nera con mezzo centimetro di tacco. I capelli, neri e corti, non richiedevano molta cura. Bastava una rapida sistemata con le dita ed era pronta a uscire. E comunque al suo cliente non sarebbe importato. Guidò la macchina fino in fondo alla strada. Le sembrava strano guidare un’auto: era piccola, ma Kim dovette comunque concentrarsi per insinuarsi tra le altre macchine parcheggiate. Avere tutto quel metallo intorno la faceva sentire ingombrante. Era a circa un chilometro e mezzo dall’indirizzo verso cui era diretta, quando l’odore di bruciato cominciò a penetrare nell’auto attraverso i filtri dell’aria. Si fece sempre più intenso man mano che la macchina avanzava. Quando fu più vicina, Kim riuscì a vedere una colonna di fumo che si levava su Clent Hills. Si avvicinò ancora di più e a quel punto realizzò che doveva andare proprio lì. Seconda per dimensioni soltanto alla polizia metropolitana di Londra, The Met, la West Midlands Police copriva un’area in cui abitavano più di due milioni e mezzo di persone. La Black Country, la regione che si estendeva a nord e a ovest di Birmingham, era diventata una delle aree più industrializzate del paese ai tempi della regina Vittoria. E
si chiamava Black Country, ovvero “paese nero”, per la famosa falda carbonifera profonda dieci metri, che ne aveva annerito gran parte del suolo. Era la falda più grossa di tutta la Gran Bretagna. In quella zona, adesso, il tasso di disoccupazione era tra i primi del paese, esattamente il terzo. La piccola criminalità era in crescita, così come i comportamenti antisociali. La scena del crimine era poco distante dalla strada principale che conduceva da Stourbridge a Hagley, un quartiere in cui di norma non si registravano gravi infrazioni alla legge. Gli edifici più vicini alla strada avevano le facciate ornate da colonne romane di un bianco scintillante e grandi finestre con le inglesine nere. Più giù, sempre lungo la stessa strada, le case cominciavano a diradarsi ed erano visibilmente più vecchie. Kim si accostò al cordone di sicurezza e parcheggiò tra due idranti. Senza dire una parola sventolò il tesserino da detective davanti all’agente incaricato di sorvegliare il perimetro. Il poliziotto fece un cenno d’assenso con il capo e sollevò il nastro per permetterle di chinarsi e così passare. «Cosa è successo?», chiese Kim al primo vigile del fuoco che incontrò. Lui indicò i resti di un abete che sorgeva sul limitare della proprietà. «Il fuoco è partito da lì e ha divorato la maggior parte degli alberi prima che arrivassimo noi». Kim notò che dei tredici alberi che delimitavano la tenuta solo i due più vicini alla casa erano rimasti intatti. «Avete trovato voi il cadavere?». L’uomo indicò un altro vigile del fuoco seduto per terra: stava parlando con un commissario. «Praticamente tutto il vicinato è uscito in strada a guardare il disastro. Questa casa era l’unica con le luci spente. I vicini ci hanno informato che la Range Rover nera era della proprietaria e che la donna viveva sola». Kim annuì e si avvicinò al vigile del fuoco seduto per terra. Era pallido, e notò che gli tremava lievemente la mano destra. Trovare un cadavere non era mai piacevole, non importava quanto si fosse abituati. «Ha toccato qualcosa?», gli chiese.
Lui ci pensò per un istante, poi scosse la testa. «La porta del bagno era aperta, ma non sono entrato». Kim si fermò davanti alla porta d’ingresso, infilò la mano nello scatolone appoggiato sulla sinistra e tirò fuori due protezioni di plastica blu per coprirsi le scarpe. Salì le scale due gradini per volta ed entrò nella stanza da bagno. Individuò subito Keats, il medico legale. Era minuto e completamente calvo, con i baffi e la barba che gli arrivava fin sotto il mento. Era stato lui ad avere l’onore di introdurla alla sua prima autopsia, otto anni prima. «Ehi, detective», la salutò guardandosi intorno. «Dov’è Bryant?» «Dio, non siamo mica gemelli siamesi». «Già, ma siete come quella pietanza cinese… il maiale in agrodolce. Senza Bryant però è rimasto solo l’agro». «Keats, pensi che le tue battute mi facciano ridere a quest’ora della notte?» «Be’, non spicchi certo per senso dell’umorismo, e non dipende dall’ora». Quanto avrebbe voluto vendicarsi. Poteva fargli notare che la piega dei suoi pantaloni neri non era perfetta. O che il collo della camicia era un po’ logoro. Poteva persino accennare alla minuscola macchia di sangue sul cappotto. Ma in quel momento c’era un cadavere nudo che richiedeva la sua completa attenzione. Kim si avvicinò alla vasca da bagno, facendo attenzione a non scivolare sugli spruzzi d’acqua che due agenti in tuta bianca stavano spargendo ovunque. Il cadavere della donna era ancora parzialmente sommerso. Aveva gli occhi aperti e i capelli biondi tinti erano sparpagliati sull’acqua a incorniciarle il viso. Il corpo galleggiava e la punta dei capezzoli affiorava in superficie. Kim stimò che avesse quarantacinque-cinquant’anni, ma ben portati. Le braccia apparivano piuttosto toniche, nonostante galleggiassero inerti nell’acqua. Le unghie dei piedi erano smaltate di rosa pallido e sulle gambe non c’era traccia di peluria.
Sul pavimento c’era già un sacco di acqua, oltre a quella che stavano spargendo gli agenti con la tuta bianca, perciò concluse che ci doveva essere stata una colluttazione: la donna aveva lottato per salvarsi la vita. Kim udì dei passi sulle scale. «Detective Stone, che piacevole sorpresa». Kim brontolò quando riconobbe la voce e percepì il sarcasmo che trasudava da quelle parole. «Detective Wharton, il piacere è tutto mio». Nelle poche altre occasioni in cui avevano lavorato insieme, il disprezzo di Kim nei confronti di Wharton era stato palese. Lui era un agente in carriera, il cui unico obiettivo era guadagnare posizioni più in fretta possibile. Non gli interessava risolvere i casi, ma solo fare punti. Quando Kim era stata nominata detective prima di lui, per Wharton era stato un brutto colpo. A causa di quella cocente umiliazione, lui aveva cambiato casa e si era fatto trasferire alla West Mercia, una forza di polizia più piccola e quindi con meno concorrenti. «Che ci fai qui? Concorderai che questo caso ricade sotto la giurisdizione della West Mercia». «E tu concorderai che si trova proprio sul confine e che io ho un diritto di prelazione». Senza rendersene conto, Kim si piazzò davanti alla vasca da bagno. La vittima non aveva certo bisogno di un altro paio di occhi curiosi che ispezionavano il suo corpo nudo. «Questo caso è mio, Stone». Kim scosse la testa e incrociò le braccia. «Non ho intenzione di cambiare idea, Tom». Inclinò la testa. «Ma potremmo anche condurre un’indagine congiunta. Sono arrivata io per prima, quindi la dirigo io». Il viso sottile e perfido di Tom si infiammò per la collera. Pur di non fare rapporto a lei, avrebbe preferito cavarsi gli occhi con un cucchiaino arrugginito.
Kim lo squadrò dalla testa ai piedi. «E la mia prima direttiva sarebbe quella di entrare sulla scena del crimine indossando le dovute precauzioni». Lui abbassò lo sguardo sulle scarpe prive di protezioni. “Più veloce e meno approssimativo, grazie”, pensò Kim tra sé e sé. Poi disse a bassa voce: «Non trasformiamola in una gara a chi piscia più lontano, Tom». Lui le rivolse un’occhiata carica di disprezzo prima di voltarsi e uscire in fretta e furia dal bagno. Kim riportò la propria attenzione sul cadavere. «Avresti vinto tu», osservò Keats a bassa voce. «Eh?». La guardò con aria divertita. «La gara a chi piscia più lontano». Kim annuì. Lo sapeva. «Possiamo tirarla fuori?» «Lasciaci fare un altro paio di fotografie dello sterno». Uno degli agenti della scientifica aveva già puntato verso il seno della vittima una macchina fotografica con l’obiettivo lungo quanto il tubo di scappamento di un’auto. Kim si avvicinò e notò dei segni sui seni. «L’ha spinta in basso?» «Credo di sì. Dall’esame preliminare non risultano altre ferite. Saprò dirti di più dopo l’autopsia». «Sai dirmi più o meno quando è successo?». Niente esame del fegato, concluse Kim, perché non c’era traccia che l’avessero effettuato, perciò Keats doveva aver usato il termometro rettale per le indagini preliminari. La temperatura di un cadavere scendeva di un grado e mezzo nella prima ora. E poi all’incirca di un altro grado, o uno e mezzo, a ogni ora successiva. C’erano però
diversi fattori che potevano influire su questo processo. Non ultimo il fatto che la vittima fosse nuda e immersa nell’acqua ormai fredda. Keats scrollò le spalle. «Devo fare qualche calcolo più preciso, ma direi non più di un paio d’ore fa». «Quando puoi…?» «Ho una vecchietta di novantasei anni morta nel sonno sulla sua poltrona e un tossico ventiseienne con l’ago ancora nel braccio». «Niente di urgente, quindi». Keats diede un’occhiata all’orologio. «Mezzogiorno?» «Le otto», ribatté Kim. «Le dieci, non prima», brontolò lui. «Sono umano e ogni tanto ho bisogno di riposarmi». «Perfetto», concordò. Era esattamente l’orario a cui aveva pensato lei. Così avrebbe avuto modo di informare la sua squadra e mandare qualcuno sulla scena del delitto. Kim udì di nuovo dei passi lungo le scale. E un respiro affannoso che si avvicinava. «Sergente Travis», lo salutò Kim, senza bisogno di voltarsi. «Novità?» «Gli agenti stanno passando la zona al setaccio. Il responsabile sul campo ha interrogato un paio di vicini, ma non hanno notato nulla prima dell’arrivo dei pompieri. Sono stati avvertiti per telefono da un motociclista di passaggio». Kim si voltò e annuì. L’agente responsabile sul campo aveva fatto un buon lavoro: aveva protetto la scena del crimine per il team della scientifica e radunato una serie di potenziali testimoni, ma in quella zona le case erano lontane dalla strada e parecchio distanti l’una dall’altra. Non era certo il quartiere ideale per i vicini indiscreti. «Va’ avanti», lo spronò. «L’ingresso in casa è avvenuto dalla porta sul retro, dove c’è il vetro rotto, anche se i vigili del fuoco sostengono che la porta principale non fosse chiusa a chiave». «Mmm… interessante».
Kim annuì con un cenno di ringraziamento e cominciò a scendere le scale. Uno dei tecnici stava ispezionando il corridoio, mentre un altro tentava di rilevare qualche impronta dalla porta sul retro. Sul bancone della colazione c’era una borsa firmata. Kim non aveva la minima idea di cosa indicasse il fermaglio dorato con il monogramma. Non usava quel tipo di borse, ma le sembrò piuttosto costosa. «Non hanno preso nulla. Carte di credito e contanti sono tutti qui». Kim annuì e uscì. Sulla soglia si tolse le protezioni di plastica dalle scarpe e le lasciò in un altro scatolone. Più tardi, avrebbero esaminato tutte le protezioni usate all’interno per trovare eventuali indizi. Si chinò per passare sotto il nastro. C’era ancora un vigile del fuoco di guardia, per assicurarsi che le braci si fossero estinte del tutto. Il fuoco era un elemento imprevedibile: bastava un solo tizzone dimenticato perché l’intero posto venisse divorato dalle fiamme nel giro di pochi minuti. Kim si fermò accanto alla macchina per osservare la scena di fronte a sé da una prospettiva più ampia. Teresa Wyatt viveva da sola. A quanto pareva, non era stato preso né danneggiato nulla. L’assassino se l’era svignata con la certezza che nessuno avrebbe scoperto il cadavere prima della mattina seguente, eppure qualcuno aveva appiccato il fuoco per attirare l’attenzione della polizia. Kim doveva solo capire perché.
Capitolo 4 Alle sette e mezzo del mattino, Kim parcheggiò la Ninja alla stazione di polizia di Halesowen, poco distante dal raccordo che circondava la cittadina, piccola ma dotata di una zona commerciale e di un college. La stazione di polizia era a un tiro di schioppo dal tribunale, comodo, ma era un po’ una fregatura per il rimborso spese. L’edificio di tre piani era scialbo e poco accogliente, come tutti gli uffici governativi che giustificavano così la propria esistenza di fronte ai cittadini contribuenti. Kim si fece strada fino all’ufficio degli investigatori senza salutare nessuno, e del resto nessuno la salutò. Aveva la fama di essere una persona fredda, inetta alla
socializzazione e incapace di provare emozioni. Ma quella reputazione la dispensava dai normali convenevoli, e a Kim andava bene così. Come al solito era arrivata per prima, perciò toccò a lei accendere la macchinetta del caffè. Nella stanza c’erano quattro scrivanie, disposte una di fronte all’altra, a coppie. Le scrivanie erano tutte uguali: un computer e un raccoglitore con fascicoli impilati alla rinfusa. Tre erano occupate dal personale fisso, la quarta invece era vuota a causa dei tagli ai finanziamenti di qualche mese prima. Di solito Kim si appollaiava là sopra, piuttosto che rintanarsi nel suo “ufficio”. La postazione di Kim, con il suo nome sulla porta, veniva chiamata “la Conca”: era semplicemente un angolino dello stesso locale, in fondo a destra, separato dal resto da pareti di vetro e cartongesso. Kim usava quello spazio esclusivamente per le occasionali “direttive sulle prestazioni individuali”, altresì note come le tradizionali lavate di capo. «Buongiorno, capo», la salutò l’agente Wood mentre prendeva posto alla scrivania. Nonostante fosse per metà inglese e per metà nigeriana, Stacey non aveva mai messo piede fuori dal Regno Unito. Aveva rinunciato alle extension e adesso portava i capelli neri tagliati corti, quasi rasati. Quel taglio metteva in risalto la pelle levigata color caramello. La scrivania di Stacey era sgombra e ben organizzata. Il materiale fuori dai raccoglitori etichettati era meticolosamente impilato lungo il bordo superiore del piano di lavoro. Dietro di lei comparve il sergente Bryant, che lanciò uno sguardo verso la Conca e borbottò un «Buongiorno, capo». Nonostante il metro e ottantadue di altezza, aveva sempre un aspetto immacolato come se fosse stato vestito da sua madre per andare al catechismo. La giacca finì immediatamente sullo schienale della sedia. A fine giornata l’avrebbero trovato con la cravatta allentata, il primo bottone della camicia slacciato e le maniche arrotolate sui gomiti. Kim lo vide lanciare un’occhiata alla sua scrivania, cercando tracce di una tazza di caffè. Dopo essersi accertato che Kim l’avesse già bevuto, riempì la propria tazza con sopra scritto SEI IL TASSISTA MIGLIORE DEL MONDO, regalo della figlia diciannovenne. Bryant archiviava i fascicoli secondo un ordine incomprensibile a chiunque altro, perciò Kim dovette subito chiedergli tutto il materiale su cui non aveva ancora messo
le mani. Sulla sua scrivania c’era una foto di lui e di sua moglie, scattata in occasione del venticinquesimo anniversario di matrimonio. Nel portafogli teneva una foto della figlia. Il sergente Kevin Dawson, il terzo membro della sua squadra, non teneva foto di persone care sulla scrivania. E se proprio avesse voluto esporre l’immagine della persona che più amava al mondo, probabilmente ad accoglierlo al suo arrivo in ufficio ogni mattina ci sarebbe stata una fotografia di se stesso. «Scusa il ritardo, capo», la salutò Dawson prendendo posto di fronte all’agente Wood. Adesso la squadra era al completo. Tecnicamente, Dawson non era in ritardo. Il turno cominciava alle otto, ma a Kim faceva piacere che arrivassero un po’ prima per una breve riunione, specialmente quando c’era un nuovo caso da affrontare. Non gradiva molto doversi adattare agli orari d’ufficio, e chi invece ci teneva a rispettarli non durava molto nella sua squadra. «Ehi, Stacey, stavi andando a prendermi un caffè, vero?», chiese Dawson mentre controllava le chiamate al cellulare. «Ma certo, Kev. Come lo vuoi: latte, due cucchiaini di zucchero e rovesciato sui pantaloni?», rispose lei in tono servizievole, con il suo spiccato accento della Black Country. «Ti va un caffè, Stace?», replicò Kev mentre si alzava, pur sapendo che la collega non ne beveva. «Dopo aver combattuto contro gli stregoni tutta la notte, sarai stanca», la punzecchiò, riferendosi alla passione di Stacey per il videogioco online World of Warcraft. «A dire il vero, Kev, ho ottenuto da un’alta sacerdotessa un potentissimo incantesimo che trasforma gli uomini in teste di cazzo, ma a quanto pare qualcuno deve averlo usato prima di me». Dawson finse di scoppiare a ridere tenendosi lo stomaco. «Capo», chiamò Bryant dalla sua scrivania. «I pupi si sono rimessi a giocare». Si voltò verso Kevin e Stacey e alzò un dito in segno di ammonimento. «Aspettate che torni a casa mamma e vedrete».
Kim alzò gli occhi al cielo e si sedette sulla scrivania vuota, impaziente di cominciare. «Okay, Bryant, le dichiarazioni ufficiali. Kev, la lavagna». Dawson prese un pennarello e si avvicinò alla lavagna bianca che occupava l’intera parete di fondo della stanza. Mentre Bryant preparava i fascicoli, Kim riepilogò brevemente gli eventi della nottata precedente. «La nostra vittima è Teresa Wyatt, quarantasette anni, stimata preside di una scuola privata maschile a Stourbridge. Niente marito né figli. Benestante, ma non straricca, nessun nemico noto». Kev annotò una dopo l’altra tutte le informazioni in un elenco puntato che portava l’intestazione VITTIMA. Il telefono di Bryant squillò. Lui disse qualcosa, poi riattaccò e annuì rivolto verso Kim. «Woody vuole vederti». Lei lo ignorò. «Kev, prossimo elenco, CRIMINE. Niente arma del delitto, niente rapina, per il momento nulla dalla scientifica e nessun indizio. AdessoMOVENTE. Di solito si finisce ammazzati per qualcosa che si è fatto in passato, che si sta facendo, o che si ha intenzione di fare. Per quel che ne sappiamo, la nostra vittima non era implicata in nessuna attività pericolosa». «Ehm… capo, l’ispettore vuole vederla». Kim bevve un altro sorso dalla sua tazza di caffè. «Credimi Bryant, preferisce vedermi dopo che ho preso il caffè. Kev, l’autopsia è alle dieci. Stace, scopri tutto il possibile sulla nostra vittima. Bryant, contatta la scuola e di’ loro che stiamo arrivando». «Capo…». Kim finì di bere. «Tranquilla, mamma, sto andando». Fece le scale che portavano al terzo piano, due gradini alla volta, e bussò piano prima di entrare. L’ispettore Woodward era un uomo massiccio sulla cinquantina. Le sue origini miste gli avevano donato una pelle scura e levigata, e altrettanto liscia era la testa calva. I pantaloni neri e la camicia bianca erano immacolati e con una piega perfetta.
Gli occhiali da lettura sulla punta del naso riuscivano a malapena a dissimulare gli occhi stanchi dietro le lenti. Fece segno a Kim di entrare e le indicò una sedia, da cui aveva una splendida visuale sulla vetrinetta che conteneva la sua collezione di modellini d’auto. Lo scaffale più basso ospitava una selezione di classici modelli inglesi, mentre in quello superiore era in bella mostra la storia dei veicoli usati dalle forze di polizia nel corso dei decenni. Una MG TC degli anni Quaranta, una Ford Anglia, una Black Maria e una Jaguar XJ40 orgogliosamente posizionata al centro. A destra della vetrinetta, appesa alla parete, c’era una fotografia di Woody che stringeva la mano a Tony Blair. Ancora più a destra quella di suo figlio maggiore, Patrick, in uniforme, poco prima di essere inviato in Afghanistan. Indossava quella stessa uniforme quando era stato sepolto, quindici mesi più tardi. Woody chiuse la conversazione al telefono e afferrò la pallina antistress che teneva in un angolo della scrivania. Contrasse e rilassò la mano destra intorno a quell’ammasso di gomma. Kim si era accorta che lo faceva spesso quando lei era nei paraggi. «Cosa abbiamo per il momento?» «Molto poco, signore. Stavo giusto definendo il piano di indagine quando mi ha convocata». Le nocche di Woody si fecero bianche intorno alla pallina, ma lui ignorò la frecciata. Kim spostò lo sguardo alla sua destra e osservò l’ultimo progetto dell’ispettore Woodward sulla mensola della finestra. Una Rolls Royce Phantom. La costruzione del modellino era ferma da giorni. «A quanto mi è stato riferito, hai incontrato il detective Wharton». Le voci correvano in fretta. «Abbiamo avuto uno scambio di cortesie davanti al cadavere». Qualcosa nel modellino non era al posto giusto. La base della ruota le sembrava troppo lunga. Woody strinse ancora di più la pallina. «Mi ha contattato l’ispettore capo di Wharton. Hanno inoltrato un reclamo formale nei tuoi confronti. Reclamano il caso».
Kim alzò gli occhi al cielo. Quel topo di fogna non era capace di combattere da solo le sue battaglie? Lottò contro l’impulso di allungare una mano e correggere l’errore nel modellino di Rolls Royce. Alla fine riuscì a trattenersi. Distolse lo sguardo e incontrò quello del suo ufficiale in comando. «Ma non l’avranno, giusto, signore?». Lui la scrutò per un minuto buono. «No, Stone, non l’avranno, ma un ennesimo reclamo formale non fa una gran figura nel tuo fascicolo, e francamente sono un po’ stufo di riceverne in continuazione». Spostò la pallina nella mano sinistra. «Bene, sono curioso di sapere chi sarà il tuo partner in questa indagine». Kim si sentì come una bambina alla quale era stato chiesto di scegliere un nuovo migliore amico. L’ultimo rapporto sulle sue performance lavorative aveva rilevato un unico ambito che necessitava di miglioramento: intrattenere rapporti cordiali con gli altri. «Posso scegliere io?» «E chi sceglieresti?» «Bryant». Sulle labbra di Woody affiorò l’ombra di un sorriso. «Allora sì, puoi scegliere tu». “Altro che scelta”, pensò Kim. Bryant avrebbe limitato i danni e, con le forze di polizia del distretto vicino che ficcavano il naso, Woody non voleva correre rischi. E perciò voleva che Kim operasse sotto la supervisione di un adulto responsabile. Kim fu quasi sul punto di offrire al suo capo un semplice consiglio che gli avrebbe risparmiato ore e ore di smantellamento dell’asse posteriore della Rolls, ma poi cambiò idea. «C’è altro, signore?». Woody lasciò la pallina antistress e si tolse gli occhiali. «Tenetemi aggiornato». «Certo». «Oh, e Stone…».
Lei si voltò sulla porta. «Magari ogni tanto concedi alla tua squadra un paio d’ore libere per dormire. Non tutti si ricaricano con un cavetto USB, come te». Kim uscì dall’ufficio chiedendosi quanto ci avesse messo Woody per confezionare quella piccola perla.
Capitolo 5 Kim seguì Courtney, la segretaria della scuola, lungo i corridoi del Saint Joseph fino all’ufficio del sostituto preside. Osservandola alle spalle, rimase colpita dalla capacità di quella donna di muoversi in maniera così leggiadra con dieci centimetri di tacco. Bryant sospirò mentre oltrepassavano le porte delle aule. «Non è stato il periodo migliore della tua vita?» «No». Svoltarono in un lungo corridoio al secondo piano e furono guidati fino a un ufficio che presentava un ovale scolorito sulla porta: avevano già provveduto a rimuovere la targhetta con il nome. L’uomo dietro la scrivania si alzò in piedi. Indossava un completo dall’aria costosa e una cravatta di seta azzurro cielo. Il nero uniforme dei capelli suggeriva che li avesse tinti da poco. Porse loro la mano da dietro la scrivania. Kim si voltò e osservò le pareti. Se c’erano stati attestati o ricordi che portavano il nome di Teresa Wyatt, erano già stati rimossi. Bryant nel frattempo accettò la stretta di mano. «Grazie per aver acconsentito alla nostra richiesta, signor Whitehouse». «Lei è il vicepreside, se ho capito bene», disse Kim. Lui annuì e si sedette. «Assumerò la carica di preside ad interim e se posso essere di aiuto nelle indagini…». «Oh, lo sarà certamente», lo interruppe Kim. C’era qualcosa di ipocrita nei suoi modi. Di troppo costruito. E il fatto che si fosse già trasferito nell’ufficio di Teresa Wyatt e avesse cancellato ogni traccia della donna era a dir poco disgustoso: era morta da meno di dodici ore. Kim immaginò che Whitehouse avesse già aggiornato il proprio curriculum vitae.
«Ci farebbe comodo una lista del personale. E per favore, faccia in modo che siano disponibili per fare due chiacchiere con noi, in ordine alfabetico». Whitehouse irrigidì la mascella, segno che non gli piaceva ricevere ordini. Kim si chiese brevemente se reagisse così con tutte le donne, o solo con lei. Poi abbassò lo sguardo. «Certamente. Courtney se ne occuperà subito. Vi ho messo a disposizione una stanza in fondo al corridoio, sarà perfetta per i vostri colloqui». Kim si guardò intorno e scosse la testa. «No, qui dentro va bene». Whitehouse aprì la bocca per protestare, ma poi il buongusto gli impedì di avanzare pretese su quell’ufficio: era ancora troppo presto. Raccolse alcuni oggetti dalla scrivania e si diresse verso la porta. «Courtney sarà subito da voi». Mentre la porta si chiudeva alle spalle del sostituto preside, Bryant sogghignò. «Che c’è?», chiese Kim mentre spostava la sedia dall’altro lato della scrivania e si metteva di nuovo a sedere. «Niente, capo». Anche lui si spostò e si sedette su una delle sedie laterali. Kim sistemò le sedie rimanenti per le persone da interrogare. «Sposta quella un po’ più indietro». Bryant spostò la sedia più vicino alla porta. In mezzo. Senza nulla a cui appoggiarsi né davanti né dietro. In quel modo Kim era libera di osservare il linguaggio del corpo. Qualcuno bussò lievemente alla porta. Tutti e due risposero «Avanti», nello stesso istante. Entrò Courtney, con un foglio di carta in mano e un sorriso che le spuntava agli angoli della bocca. Il signor Whitehouse non doveva essere poi così popolare. «Quando volete, c’è il signor Addlington qui fuori». Kim annuì. «Lo faccia entrare, per favore». «Posso portarvi qualcosa? Caffè, tè?» «Molto volentieri. Caffè per entrambi».
Courtney si voltò e si diresse verso la porta; l’aveva quasi raggiunta quando Kim si ricordò di aggiungere: «Grazie, Courtney». Courtney annuì e aprì la porta per il primo degli interrogati.
Capitolo 6 Erano ormai le quattro e un quarto del pomeriggio: al termine di dodici colloqui assolutamente identici, Kim si accasciò sul tavolo. Sentire il tonfo del proprio cranio contro il legno le diede una certa soddisfazione. «Ti capisco, capo», commentò Bryant. «A quanto pare quella donna all’obitorio era una vera e propria santa». Tirò fuori dalla tasca un pacchetto di caramelle per la tosse, gusto menta ed eucaliptolo. Secondo i calcoli di Kim, era la quinta che prendeva. Due anni prima, a seguito di una brutta infezione ai polmoni, il dottore gli aveva intimato di smetterla con le sue trenta sigarette giornaliere. Per calmare gli accessi di tosse Bryant si era dato alle caramelle. Aveva smesso di fumare, ma la dipendenza dalle caramelle gli era rimasta. «Dovresti smetterla con quelle». «Non in una giornata così, capo». Proprio come un fumatore incallito, indulgeva di più al vizio quando era stressato o annoiato. «Chi è il prossimo?». Bryant consultò la lista. «Joanna Wade, l’insegnante di inglese». Kim alzò gli occhi al cielo mentre la porta si apriva. Entrò una donna che indossava dei pantaloni neri di ottimo taglio e una camicia di seta lilla. I capelli, biondi e lunghi, erano legati in una coda e rivelavano una mascella forte e squadrata e un viso poco truccato. Si sedette senza porgere loro la mano e accavallò le gambe. Teneva le mani ordinatamente in grembo. «Non le porteremo via troppo tempo, signora Wade. Dobbiamo solo farle qualche domanda».
«Signorina». «Mi scusi?» «È “signorina”, detective, non “signora”. Ma mi chiami pure Joanna». La sua voce era bassa e controllata, con un’ombra di accento del Nord. «Grazie, signorina Wade. Da quanto tempo conosceva la preside Wyatt?». L’insegnante sorrise. «Sono stata assunta dalla preside Wyatt circa tre anni fa». «E in che rapporti eravate sul lavoro?». La signorina Wade puntò gli occhi su Kim e inclinò leggermente il capo. «Così diretta, detective, neanche un po’ di preliminari?». Kim ignorò l’allusione e le restituì lo sguardo. «Per favore, risponda alla domanda». «Certo. I nostri rapporti lavorativi erano normali. Non senza alti e bassi, come immagino accada sempre tra donne. Teresa era una preside molto presa dal proprio incarico e molto rigida nelle sue convinzioni». «In che senso?» «I metodi didattici si sono evoluti dai tempi in cui Teresa andava a scuola. Spesso quello che serve per instillare un po’ di conoscenza nelle menti giovani e fertili è un pizzico di creatività. Abbiamo tutti tentato a modo nostro di adattarci ai cambiamenti culturali, Teresa invece credeva che far studiare chini sui libri, in silenzio, fosse l’unico modo possibile di insegnare, e chiunque provasse a fare qualcosa di diverso veniva redarguito di conseguenza». Mentre Joanna Wade parlava, Kim interpretò il suo linguaggio del corpo come onesto e sincero. Notò anche che la donna non aveva degnato Bryant di uno sguardo. «Può farmi qualche esempio?» «Un paio di mesi fa uno dei miei studenti mi consegnò un compito scritto per metà con le abbreviazioni comunemente usate nei messaggi e su Facebook. Chiesi a tutti e ventitré gli allievi della mia classe di andare a prendere i cellulari dagli armadietti e poi li feci messaggiare tra loro per dieci minuti in inglese corretto, con grammatica e
punteggiatura a posto. Per loro fu un’esperienza quasi straniante, direi, ma ne capirono tutti il senso». «Ovvero?» «Che differenti metodi di comunicazione non sono interscambiabili. Da quella volta nessuno ha mai più consegnato compiti del genere». «E Teresa non ha gradito?». La signorina Wade scosse la testa. «Per niente. Secondo lei mettere il ragazzo in punizione sarebbe stato un messaggio ancora più chiaro. Osai contestare questa opinione e Teresa inserì una nota per insubordinazione nel mio fascicolo». «Questo non corrisponde molto all’immagine di lei che abbiamo avuto dagli altri membri dello staff, signorina Wade». La donna scrollò le spalle. «Non posso parlare a nome degli altri, comunque le garantisco che alcuni degli insegnanti ormai hanno gettato la spugna. Con i loro metodi antiquati non riescono più a stimolare le menti dei ragazzi, perciò si limitano a cincischiare in attesa della pensione. Essere privi di ispirazione, e non riuscire a ispirare nessuno, non li disturba. Io però non sono così». Inclinò di nuovo il capo e increspò le labbra in un leggero sorriso. «Insegnare agli adolescenti di oggi ad apprezzare la bellezza e l’eleganza della lingua inglese è davvero una sfida. Ma sono convinta che dalle sfide non ci si debba mai tirare indietro. Non è d’accordo con me, detective?». Bryant tossì. Kim replicò con un sorrisetto. La sicurezza e i modi diretti di quella donna erano una boccata d’aria dopo dodici colloqui in cui aveva sentito le stesse identiche risposte. E quel suo flirtare così sfacciato era divertente. Kim si appoggiò allo schienale della sedia. «Cosa può dirmi di Teresa come donna?» «Vuole che mi aggiunga in coda e le proponga l’epitaffio politicamente corretto che si riserva a chi è appena morto, o preferisce che sia sincera?» «Apprezzerei molto l’onestà». La signorina Wade accavallò di nuovo le gambe. «Come preside Teresa era responsabile e motivata. Come donna, mi ha dato l’impressione di essere piuttosto
egoista. Come avrà modo di vedere, sulla sua scrivania non c’erano fotografie di persone care, né di nient’altro. E non si faceva problemi a chiedere alla gente di fermarsi fino alle otto o alle nove. Inoltre, passava un sacco di tempo nelle spa, a comprare vestiti firmati e a prenotare vacanze esclusive». Bryant prese qualche appunto. «C’è altro che crede possa esserci d’aiuto nell’indagine?». La donna scosse la testa. «Grazie per il suo tempo, signorina Wade». Lei si sporse in avanti. «Se vuol sapere il mio alibi, detective, ero alla Liberty Gym a fare yoga. È fantastico per aumentare la flessibilità muscolare. E nel caso fosse interessata, sono lì ogni giovedì sera». Kim incrociò il suo sguardo. Gli occhi azzurri della donna scintillavano di sfida. Si accostò alla scrivania e tirò fuori un biglietto da visita. Kim non ebbe altra scelta che porgerle a sua volta la mano. La signorina Wade le depose il biglietto nel palmo e trasformò quel contatto in una stretta. La sua presa era salda e tranquilla. Ritirando la mano indugiò con le dita sul palmo di Kim. «Ecco il mio numero. Mi chiami pure se dovesse aver bisogno di altro». «Grazie, signorina Wade, è stata di grande aiuto». «Gesù, capo», esclamò Bryant non appena la porta si richiuse. «Non ti serve certo un dizionario per interpretare quei segnali». Kim scrollò le spalle. «Questione di feeling». Infilò il biglietto da visita nella tasca della giacca. «C’è qualcun altro?» «No, era l’ultima». Entrambi si alzarono. «Per oggi è tutto allora. Va’ a casa a riposarti», lo esortò Kim. Qualcosa le diceva che ne avrebbero avuto bisogno.
Capitolo 7 «Okay gente, spero che vi siate riposati e abbiate salutato per bene i vostri cari».
«Perfetto, niente vita sociale nel prossimo futuro», brontolò Dawson. «Per Stacey non cambia nulla, ma il resto di noi una vita ce l’aveva». Kim lo ignorò. Per ora. «Il TTI vuole che questo caso sia risolto per il fine settimana». Sapevano tutti che l’acronimo stava per Trombone Totalmente Irragionevole. A seconda dell’umore, la prima parola dell’acronimo poteva anche essere sostituita a piacimento. Dawson sospirò. «E se all’assassino non l’hanno detto, capo?», chiese dando un’occhiata al cellulare. «In quel caso venerdì arresterò te e, credimi, farò in modo che risulti una cosa convincente». Dawson scoppiò a ridere. Kim rimase seria. «Continua a rompere, Kev, e a un certo punto ti accorgerai che non sto più scherzando. Novità dall’autopsia?». Dawson tirò fuori il taccuino. «Polmoni pieni d’acqua, senza dubbio morta per annegamento. Due lividi sopra il seno. Nessuna traccia di violenza sessuale, ma è difficile da stabilire con certezza». «Altro?» «A cena aveva mangiato chicken korma». «Be’, questa sì che è una svolta nel caso». Dawson scrollò le spalle. «L’autopsia non ci ha detto granché, capo». «Bryant?». Lui prese a rimestare tra le carte, ma Kim sapeva che aveva già memorizzato tutte le informazioni importanti. «Ieri gli agenti hanno passato al setaccio la zona, ma nessuno dei vicini ha visto o sentito nulla. Un paio di loro la vedevano sempre passare la mattina, ma a quanto pare non era tipo da fermarsi a prendere il caffè in compagnia. Diciamo che non era una vicina molto socievole». «Be’, ecco un movente. Assassinata per mancanza di spirito di comunità».
«C’è gente che è stata ammazzata per molto meno, capo», replicò Bryant. Kim dovette concederglielo. Tre mesi prima avevano investigato sull’omicidio di un infermiere, ucciso per due lattine di birra e i pochi spiccioli che aveva in tasca. «C’è altro?». Bryant cambiò foglio. «Ancora nulla dalla scientifica. Ovviamente non ci sono impronte di piedi e l’analisi delle fibre è appena all’inizio». Kim pensò al Principio di Locard, secondo cui i colpevoli lasciano sempre qualcosa sulla scena del crimine e se ne vanno portandosi via qualcos’altro. Poteva trattarsi di qualsiasi cosa, un capello o una fibra di qualche materiale. Bisognava soltanto riuscire a individuarlo. E quando la scena del crimine consisteva in un bagno allagato dove erano passati otto pompieri, eventuali tracce non si sarebbero di certo fatte vive da sole. «Impronte?». Bryant scosse la testa. «E aggiungerei che difficilmente troveremo l’arma del delitto nascosta in qualche cespuglio nei paraggi, visto che si tratta delle mani dell’assassino». «Be’, capo, le cose non stanno esattamente come in CSI», commentò Stacey. «Anche sul suo telefono non c’è nulla. Tutte le chiamate in entrata e in uscita sono con il Saint Joseph o con ristoranti della zona. Non aveva una rubrica molto lunga». «Niente amici né famiglia?» «Di sicuro nessuno con cui ci tenesse a restare in contatto. Ho fatto richiesta per avere la lista delle chiamate dalla linea fissa, e stanno portando anche il suo computer. Magari lì dentro c’è qualcosa». Kim brontolò. «Quindi, in sostanza, a trentasei ore dall’omicidio non abbiamo assolutamente nulla in mano. Non sappiamo niente di questa donna». Bryant si alzò in piedi. «Dammi un minuto, capo», rispose uscendo dalla stanza. Kim alzò gli occhi al cielo. «Okay, mentre Bryant va a incipriarsi il naso ricapitoliamo tutto quanto». Guardò la lavagna: c’era appena qualche informazione in più rispetto al giorno prima. «Una donna di mezza età ambiziosa e gran lavoratrice. Non particolarmente popolare o incline alla socialità. Viveva da sola, senza animali domestici né relazioni
familiari. Non era coinvolta in nessuna attività illegale e, a quanto pare, non aveva hobby o interessi di alcun genere». «Questo non è del tutto vero», obiettò Bryant tornando a sedersi al suo posto. «Pare che le interessassero parecchio degli scavi archeologici dalle parti di Rowley Regis, autorizzati qualche tempo fa». «E questo come fai a saperlo?» «Me l’ha detto Courtney». «Chi è Courtney?» «Quella che ieri ci ha portato caffè per tutto il giorno. Le ho chiesto se la nostra vittima avesse avuto contatti fuori dall’ordinario nelle ultime settimane. Courtney mi ha detto che le aveva chiesto di procurarle il numero del professor Milton del Worcester College». «Hanno parlato di lui al telegiornale locale», si inserì Stacey. «Erano anni che il professore tentava di ottenere i permessi per scavare in quel sito. È un semplice campo dove non c’è nulla da quando il vecchio orfanotrofio è bruciato in un incendio, ma pare che ci siano delle monete sepolte nel terreno. Il professore ha dovuto lottare per quasi due anni per avere i permessi, poi questa settimana ha ricevuto il via libera. La storia è finita sul telegiornale nazionale per via della lunghissima battaglia in tribunale». Finalmente Kim provava una scintilla di eccitazione. L’interesse per un’attività in corso nel circondario non era esattamente una pista calda, ma era comunque qualcosa, più di quanto avessero dieci minuti prima. «Okay, voi due continuate a scavare, e scusate il gioco di parole. Bryant, vai a mettere in moto la Batmobile». Dawson fece un sospiro plateale. Kim prese la giacca e si fermò davanti alla scrivania di Dawson. «Stace, dovevi andare un attimo in bagno, giusto?» «No, capo, sono a posto…». «Stacey, esci un attimo».
Tatto e diplomazia erano chiaramente l’invenzione di qualcuno che aveva un sacco di tempo libero. «Kev, posa un attimo il telefono e ascolta. So che stai attraversando un brutto momento, ma te la sei cercata. Se fossi stato capace di tenere il pisello nei pantaloni per un altro paio di settimane adesso te ne staresti teneramente abbracciato alla tua fidanzata e a tua figlia neonata, invece di alloggiare nella stanza degli ospiti a casa di tua madre». Non era abitudine di Kim usare particolare sensibilità nei confronti dei membri della propria squadra. Mostrarsi sensibile di fronte al pubblico la impegnava già a sufficienza. «È stato uno stupido errore da ubriaco a un addio al celibato…». «Kev, non ti offendere, ma è un problema tuo. Ma se non la smetti di piagnucolare come una ragazzina ogni volta che le cose non sono come vorresti tu, ci sarà un’altra scrivania vuota in questo ufficio. Ci siamo capiti?». Lo fissò con sguardo severo. Lui deglutì e annuì. Kim uscì senza aggiungere altro e scese le scale. Dawson aveva talento come detective, ma in quel periodo stava davvero camminando sul filo del rasoio.
Capitolo 8 Per la seconda volta in due giorni, Kim si immerse nell’atmosfera piena di ingenue aspettative tipica dei luoghi frequentati da studenti. Aspettò in piedi da una parte mentre Bryant si avvicinava allo sportello della segreteria. Un gruppetto di ragazzi alla sua destra guardava qualcosa su un cellulare e rideva. Uno di loro si voltò a guardarla. La squadrò dall’alto in basso, indugiando sul seno. Poi inclinò il capo e sorrise. Kim replicò il suo gesto esaminando i jeans aderenti, la maglietta con lo scollo a V e i capelli alla Justin Bieber. Poi lo fissò negli occhi e gli restituì il sorriso. «Non succederà mai, tesorino». Il ragazzo si voltò subito verso il resto del gruppo, pregando che nessuno dei suoi amici si fosse accorto dell’accaduto.
«Qui c’è qualcosa che non va», annunciò Bryant. «Quando ho chiesto del professore, la segretaria è rimasta perplessa. Sta arrivando qualcuno, ma non credo sia lui». All’improvviso i gruppetti di ragazzi si aprirono come il mar Rosso per lasciar passare una donna bassetta con i tacchi. Era piccolina, ma avanzava tra la folla come un proiettile, senza mai rallentare. Nel frattempo i suoi occhi scrutavano tutt’intorno, poi finalmente si posarono su Kim e Bryant. «Merda, nasconditi», scherzò lui mentre la donna si dirigeva verso di loro. «Siete gli investigatori?», azzardò la donna, porgendo la mano. Il naso di Kim fu aggredito da una fragranza di mela verde. La chioma della donna era fatta di riccioli compatti e ingrigiti, e il naso era sormontato da un paio di occhiali che avrebbero fatto invidia a Nonna Papera. Bryant le strinse la mano. Kim no. «E lei è?» «La signora Pearson, l’assistente del professor Milton». Okay, evidentemente il professore era troppo occupato per riceverli. Se l’assistente non fosse stata in grado di aiutarli, avrebbero dovuto insistere. «Possiamo farle qualche domanda sul progetto a cui sta lavorando il professor Milton?», chiese Bryant. «Se è una cosa veloce», rispose lei. Non propose di andare da qualche parte per parlare in privato. Era chiaro che non era disposta a perdere tempo con loro. «Il professore è impegnato in uno scavo archeologico, giusto?». La signora Pearson annuì. «Sì, ha ricevuto l’autorizzazione solo pochi giorni fa». «E cosa sta cercando esattamente?», domandò Bryant. «Monete preziose, detective». Kim inarcò un sopracciglio. «In un campo alla periferia di Rowley Regis?». La signora Pearson sospirò come se si stesse rivolgendo a un bambino impertinente. «Mi pare chiaro che ignorate quali ricchezze si nascondano in questa zona. Avete mai sentito parlare del Tesoro dello Staffordshire?».
Kim lanciò un’occhiata a Bryant. Entrambi scossero la testa. ?La signora Pearson non si curò di nascondere il proprio sdegno. I non accademici erano davvero un branco di ignoranti. «È uno dei ritrovamenti più importanti della nostra epoca ed è stato scoperto in un campo dalle parti di Lichfield qualche anno fa. Più di tremilacinquecento monete d’oro, del valore complessivo di più di tre milioni di sterline. E di recente, vicino a Stoke on Trent, è stato trovato un tesoro in denari d’argento risalente al 31 a.C.». Kim era affascinata. «E dove vanno a finire tutti questi soldi?»
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