Vita di leonardo

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Bruno Nardini Vita di

LEONARDO www.giunti.it ISBN 9788809753105 © 2004 Giunti Editore S.p.A., Firenze - Milano Prima edizione digitale: 2010

Edizione elettronica realizzata da Simplicissimus Book Farm srl

PARTE PRIMA Leggenda e verità

ÈPRIMAVERA, ANCHE in Francia. Intorno a Clos-Lucé, nel territorio di Amboise, le colline sono fiorite all’improvviso dopo l’ultimo e innaturale gelo d’aprile: le prode della Loira sono punteggiate di mughetti arrivati in tempo all’appuntamento di calendimaggio. Alto, nel cielo turchino, un nibbio vola ad ali aperte. In una grande camera dal soffitto dorato un vecchio, immobile e bianco, sta morendo. Lo assistono alcuni familiari; il suo trapasso è lungo e difficile. All’improvviso, per le scale, una voce grida: – Il Re! Il Re! Il vecchio sembra riprendersi dal torpore e tenta di sollevarsi sui cuscini. Qualcuno gli mette sulle spalle una veste di broccato, un altro lo aiuta a tirarsi su. Il Re entra nella camera e subito, premuroso, accorre al capezzale del vecchio.


«... Sopraggiunsegli il Re, che spesso e amorevolmente lo soleva visitare; per il che egli per riverenza, rizzatosi a sedere sul letto, contando il mal suo... mostrava tuttavia quanto avea offeso Dio e gli uomini, non avendo operato nell’arte come si conveniva. Onde gli venne un parossismo, messaggero della morte. Per la qual cosa il Re, presogli la testa per aiutarlo e porgergli favore, acciocché il male lo alleggerisse, lo spirito suo che divinissimo era, conoscendo non potere aver maggiore conforto, spirò in braccio a quel Re, nell’età di anni settantacinque». È il 2 di maggio dell’anno 1519. Un disegno di Ingres illustra il momento cruciale di questa leggenda. Perché la morte di Leonardo da Vinci tra le braccia di Francesco I, re di Francia, come l’ha diligentemente descritta il Vasari, è leggenda. Ma anche per i suoi contemporanei Leonardo fu spesso mistero e leggenda. Poco o nulla si seppe di lui, perché egli non concesse nulla di sé alla curiosità degli altri. Scrisse ininterrottamente e di tutto; eppure non aprì che rari spiragli sulla cronaca della propria esistenza. Era un uomo di mondo, si direbbe oggi; elegante e stravagante, bello e forte – «... torceva un ferro di cavallo come se fussi piombo...» – raffinato nelle parole e nei gesti, ricercato nel vestire, «... e tanto piacevole nella conversazione, che tirava a sé gli animi delle genti...»: eppure era solo, senza un amico, senza un amore. Di fronte alle tragiche vicende del suo tempo s’impose di restare imperturbabile come un filosofo stoico; e davanti alle vicissitudini quotidiane mantenne sempre una calma olimpica, un distacco dalla realtà che lo turbava, per esserne, al tempo stesso, imparziale osservatore. – È un mago – dicevano con ammirazione, ma non senza un oscuro timore, molti suoi contemporanei. Leonardo fu consapevole di questo mito. Fra sé e gli altri eresse volutamente una barriera di mistero, fatta di conoscenze occulte, di sapienza non attinta dai libri ma conquistata, quasi clandestinamente, con l’esperienza; e dietro la maschera del mago nascose a tutti, perfino a se stesso, il suo volto d’uomo bisognoso di presenze umane e di calore di affetti. Leonardo fu una vivente contraddizione. In un secolo ricco d’impulsi innovatori e di altissime testimonianze, egli fu l’uomo che meglio impersonò le istanze dell’Umanesimo e del Rinascimento; ma voltò anche le spalle al suo secolo per


guardare molto più lontano, anticipando un’epoca ancora inesistente: la nostra, il duemila. Tutti i suoi grandi contemporanei, dal Verrocchio al Botticelli al Perugino, hanno per noi una precisa fisionomia, un carattere chiaro e definito. Sappiamo chi era il Bramante, o il Sangallo, o Raffaello. Di Michelangiolo conosciamo tutto: egli scrisse sui muri, nel marmo e sulla carta il suo dramma interiore; la sua solitaria esistenza è tutta una confessione dolorosa, gridata, urlata. Di Leonardo ci sfugge l’essenziale. Non misantropo come il Buonarroti, né sereno come Raffaello, egli si nascose nella stessa dispersione delle proprie energie dietro a quelli che il Vasari chiamò «ghiribizzi e capricci»: la sua segreta tragedia fu di non poter accettare un sentimento – emozione o ispirazione – senza tradurlo in concetto razionale, senza «farne anatomia». Nihil humani a me alienum puto aveva scritto anticamente Terenzio; e anticipando di due secoli Galileo, Leonardo diceva che «la sapienza è figlia dell’esperienza» e «la conoscenza dea tempo preferito e del sito attuale della terra e degli esseri sono il solo ornamento e cibo delle menti non vagabonde». Era un ricercatore di verità, dunque; a qualsiasi prezzo ed a costo di qualunque rinuncia. «Il Re Francesco – scrisse nelle sue memorie il Cellini – pigliava tanto piacere a sentirlo ragionare, che poche giornate dell’anno si spiccava da lui...». Leggenda anche questa? O non, più verosimilmente, una realtà che sembra leggendaria per la sua singolare bellezza? L’amore di Francesco I per Leonardo giustificò, appunto, la versione del Vasari sugli ultimi istanti del grande solitario di Vinci. Se Leonardo non morì fra le braccia del Re fu soltanto perché il sovrano, all’oscuro delle gravi condizioni in cui versava il suo vecchio amico, era con tutta la corte a Saint Germain-en-Laye per festeggiare la nascita del suo secondogenito. Altrimenti sarebbe accorso, come un figlio, al capezzale di Leonardo; e la leggenda sarebbe stata verità.

Buon sangue non mente


COME OGGI, ANCHE nel Quattrocento la dichiarazione dei redditi prevedeva alcune detrazioni; anzi, più giustamente, distingueva in ogni nucleo familiare le «bocche da sfamare», cioè le donne, i vecchi, i figli minori e la servitù. Nel 1457 il notaio ser Antonio da Vinci dichiarò al catasto che in casa sua, tra le bocche da sfamare, c’era anche «Lionardo, figliuolo di ser Piero, non legiptimo, nato di lui et della Chaterina, al presente donna d’Acchattabriga di Piero del Vaccha da Vinci, di anni 5». Ma gli uomini di quel tempo avevano anche la buona abitudine di annotare nel libro di famiglia gli avvenimenti più importanti, e ser Antonio non fece eccezione alla regola: «1452. Nacque un mio nipote, figliuolo di ser Piero mio figliuolo, a dì 15 d’aprile, in sabato, a ore 3 di notte. Ebbe nome Lionardo. Batizollo prete Piero di Bartolomeo da Vinci, Papino di Nanni Banti, Meo di Tonino, Piero di Malvolto, Nanni di Venzo, Arrigo di Giovanni tedesco, monna Lisa di Domenico di Brettone, monna Antonia di Giuliano, monna Niccolosa del Barna, monna Maria, figliuola di Nanni di Venzo, monna Pippa di Previcone». Il battesimo ebbe luogo nella chiesetta di Santa Croce in Vinci la domenica in Albis; cinque uomini e cinque donne, scrupolosamente elencati per nome cognome e patronimico, avallarono il legittimo ingresso in famiglia del figliolo «illegiptimo» di ser Piero da Vinci. E la madre? Chi era questa Caterina che il più antico e autorevole biografo di Leonardo – il cosiddetto Anonimo Gaddiano – definisce «di bon sangue», diventata poi la moglie di un certo Accattabriga da Vinci? «Bon sangue», in Toscana, non significa affatto, come vorrebbero alcuni, «buon lignaggio», ma indica, piuttosto, una certa qualità fisica e soprattutto morale. «Buono» come sano, non soltanto nella salute del corpo, ma anche in quella dell’anima. Caterina, dunque, sarà stata una ragazza del contado, sana, onesta e bella, alla quale il primogenito di ser Antonio, «sere» anche lui e per giunta giovane e bello, avrà fatto molti discorsi e qualche incauta promessa di matrimonio. Nel borgo di Vinci, in quelle poche case raggruppate intorno al Càssero – così era chiamata la vetusta torre del castello – la qualifica di «sere» conferiva una dignità particolare: «sere» era stato, nel Trecento, un Michele da Vinci, e «sere», cioè


notaio, ogni suo discendente diretto fino all’intraprendente e imprudente figlio d’Antonio. Nato nel 1427, ser Piero aveva venticinque anni quando la Caterina mise al mondo Leonardo; e subito il vecchio Antonio, per levare ogni grillo dal capo della ragazza e qualche rimorso dalla propria coscienza, fece sposare al figlio, in quello stesso 1452, una giovanissima fiorentina di nome Albiera, della famiglia degli Amadori, e convinse a suon di scudi il turbolento figliolo di Piero del Vacca, soprannominato Accattabriga, a portarsi in casa come moglie la bella e delusa Caterina. Sistemate così le faccende domestiche – con una nuora che aiutava la suocera e faceva da mamma al piccolo bastardo, e con l’altro figlio Francesco «che sta in villa e non fa nulla» – il vecchio Antonio poté continuare a stendere i contratti ed a giocare a tavola reale coi contadini di Anchiano, mentre l’impaziente ser Piero prendeva in affitto una casa a Firenze, deciso a fare strada e quattrini con l’appoggio dei Medici e dei Servi della Santissima Annunziata.

Il nibbio

«...NE LA PRIMA ricordazione della mia infanzia mi parea che, essendo io in culla, che un nibbio venissi a me, e mi aprissi la bocca colla sua coda, e molte volte mi percotessi con tal coda dentro alle labbra». Questo sogno straordinario, pieno di significazioni simboliche, impressionò non soltanto la memoria, ma l’anima stessa – oggi diremmo, più esattamente l’inconscio – di Leonardo, come un oscuro presagio del proprio destino. Era dunque naturale che Freud, nell’euforia della sua recente scoperta, analizzasse fino all’esasperazione questo sogno, ricorrendo addirittura all’antichissimo mito egizio della dea Muth, la «madre» dalla testa d’avvoltoio, per identificare nel nibbio nientemeno che la povera Caterina. Senonché il nibbio è una cosa e l’avvoltoio un’altra; il nibbio, per Leonardo, era un uccello casalingo, che volava su Vinci e sui castelli limitrofi tra l’Arno e il monte Albano, e che lo zio Francesco gli additava spesso per mostrargli la caratteristica coda biforcuta e il cosiddetto «volo circonvolubile». – Lo vedi? – diceva lo zio, sdraiandosi nell’erba accanto al nipote per meglio osservare il volo del rapace. – Quando il vento, come ora, regna in alto, il nibbio sta in alto; quando il vento regna in basso, il nibbio non ha paura di scendere fin sotto il


Càssero. Perché il nibbio è di quegli uccelli che batton poco le ali e cercano sempre il corso del vento. Il piccolo Leonardo ascoltava ed osservava. La sua scuola erano i campi e i prati intorno al casolare di Anchiano, il bosco che scendeva dal monte fin quasi al borgo di Vinci, e il suo maestro era il giovane zio Francesco che aveva soltanto diciassette anni più di lui. Quello zio filosofo e fannullone trasmetteva al nipote una sua personale teoria sulla natura, fatta di osservazioni, di prove e di verifiche, ma soprattutto di amore per tutte le cose create. «Filosofando delle cose naturali – dice il Vasari – attese ad intendere le proprietà delle erbe». Infatti lo zio Francesco gli svelava ogni giorno la meravigliosa saggezza della natura. Scendeva spesso col nipote fino al fiume e di fronte all’acqua gl’insinuava l’immagine di una realtà che sempre appare e trascorre; camminava nel bosco e gli mostrava le metamorfosi degli insetti; gli faceva toccare con le mani la zolla, quando il grano incominciava a spuntare, chiedendosi quale forza misteriosa aiutasse quel tenero filo d’erba ad aprirsi un varco nella terra indurita dal gelo; quindi, alla stagione calda, seguivano insieme con lo sguardo le formiche che trascinavano chicchi di granaglie più grossi di loro. Lo zio, a volte, gli raccontava una favola, come quella del patto segreto fra una formica e un chicco di grano... – Che patto, zio Francesco? «Tu mi lasci qui – disse allora il chicco di grano alla formica – e mi fai ritornare nella terra che è il mio elemento, e io, fra un anno, ti darò non uno, ma cento chicchi come me». – E la formica? – Era stanca e accettò. Ma non ci credeva molto in quel patto. L’anno dopo, invece... – La spiga, zio Francesco! Il chicco era diventato una spiga! Luminosa infanzia, presto conclusa e mai dimenticata, quella trascorsa tra Anchiano e Vinci nella casa del nonno, in attesa del sabato e del ritorno di ser Piero da Firenze.


Una donna, nel borgo, spiava i suoi passi dall’uscio socchiuso; uno sguardo triste e dolce lo seguiva, indugiava clandestino su di lui... – Babbo – disse una sera il giovane ser Piero – ho preso a pigione una casa da Michele Brandolini, in via della Prestanza dietro al palazzo della Signoria. Col vostro permesso porterei a Firenze l’Albiera e Leonardo. Questo ragazzo deve incominciare a studiare, non può restare nei campi dalla mattina alla sera. Ser Antonio guardò in silenzio il nipote ed annuì. Lo zio Francesco provò a sorridergli per fargli coraggio. L’Albiera domandò: – Quando? – Il mese venturo – rispose ser Piero: e avvicinandosi a Leonardo gli alzò il viso verso di sé, lo guardò negli occhi e gli disse: – Vedrai Firenze, ragazzo mio: il mondo! Fu quella notte, forse, che il fanciullo sognò il nibbio. Gli sembrava d’essere in culla, piccolo, indifeso, e il rapace, col suo volo circonvolubile, gli piombava improvvisamente addosso e con la coda forcuta cercava di aprirgli la bocca.

Firenze

MUSICA E GRAMMATICA, il flauto e il «donatello» furono il pane quotidiano del piccolo Leonardo dopo il suo arrivo in città. L’ultima immagine di Vinci, mentre il cavallo scendeva per la strada tortuosa e sassosa, era stata quella dello zio Francesco, rimasto all’uscio di casa a guardarlo partire. Al silenzio della campagna si era sostituito il frastuono della città. Le botteghe degli artigiani aprivano i battenti all’alba, e fino al tramonto si riversava nella strada il rumore degli attrezzi, dall’ascia al martello, dagli argani ai mantici: era come un immenso respiro, un affanno collettivo, interrotto ogni tanto dal fragore di un crollo, che segnava la distruzione delle vecchie case-torri per far posto ad una nuova architettura «residenziale». Era piccola Firenze. Il Brunelleschi aveva appena incominciato a costruire una dimora per Luca Pitti alle falde del poggio di Boboli, al di là dell’Arno, e Michelozzo aveva terminato da poco il palagio-fortezza per Cosimo de’ Medici in via Larga.


La città stava riprendendo fiato e coraggio, dopo il crollo economico delle sue compagnie mercantili che avevano perso, sui mercati della lana e della seta, un monopolio tenuto da secoli: la nuova produzione straniera aveva paralizzato molte attività e fatto fallire diverse banche. La sfiducia nell’investimento commerciale, o imprenditoriale, stimolava investimenti diversi, apparentemente più stabili, fatti di proprietà immobiliari; e la gente, non appena poteva, trasformava il denaro in terreni agricoli o in case: se queste erano vecchie, la demolizione e la riedificazione costituivano una seconda e più ardita operazione, non solo economica, ma anche artistica e sociale. Tutti gli artefici dello splendore di quel secolo vivevano e operavano in Firenze: Donatello, il Brunelleschi, fra’ Filippo Lippi, Benozzo, il Rossellino, Michelozzo, Paolo Uccello, i due Pollaiuolo, Luca della Robbia, Mino da Fiesole, Luca Signorelli. Erano morti da poco il Ghiberti e Andrea del Castagno. E su tutti, vigile e presente, il vecchio Cosimo governava senza governare, distruggendo i nemici con «le gravezze», ossia con le altissime imposte sul reddito, e scegliendo di persona gli «accoppiatori» che soprintendevano all’«imborsazione» e all’estrazione a sorte dei candidati alle cariche pubbliche. Come un’epidemia era scoppiata all’improvviso quella febbre di studi e di ricerche che si chiamò Umanesimo. Un greco-rumeno, Giorgio Gemisto Pletone, aveva fondato l’Accademia Platonica sull’esempio e nel ricordo dell’antica scuola ateniese. Altri dotti erano accorsi a Firenze, chiamati da Cosimo, per insegnare la lingua greca: si formarono e si affermarono, così, uomini come Marsilio Ficino – che si proponeva di conciliare la dottrina cristiana con quella platonica – Cristoforo Landino, Agnolo Poliziano, Giovanni Pico della Mirandola e Leon Battista Alberti che, per il suo competente amore per l’architettura classica, era chiamato il Vitruvio fiorentino. In questo «clima» Leonardo visse gli anni preziosi della sua fanciullezza, ebbe il primo contatto con una cultura ed un ambiente che certamente influirono, in maniera determinante, sulle sue scelte. «Nell’abbaco – scrisse il Vasari – egli in pochi mesi ch’e’ v’attese, fece tanto acquisto, che movendo di continuo dubbi e difficultà al maestro che gl’insegnava, bene spesso lo confondeva». Ma la vocazione era un’altra. Ser Piero era convinto di farne un notaio, un «sere» come tutti i primogeniti della famiglia, a partire da quel ser Guido di ser Michele da


Vinci che aveva rogato un atto pubblico nel 1339, al tempo del duca d’Atene; e in tale convinzione seguiva poco o punto la formazione culturale del figlio. Leonardo, invece, incominciava a scoprirsi e a riconoscersi. Quasi sempre solo, curiosava nelle botteghe degli artisti e in quelle degli artigiani, ugualmente attratto dalla bellezza di un quadro o dall’ingegnosità di un attrezzo, mentre avvertiva un’avversione sempre più viva per l’abbaco e per le nozioni scolastiche. Incominciava a sollevare obiezioni e a contraddire il maestro, in nome di quel sapere naturale ricevuto dallo zio Francesco, opponendo alla nozione astratta dei libri, fondata soltanto sulle remote affermazioni di Aristotele, i dati concreti e inoppugnabili dell’esperienza. Continuava anche da solo le ricerche nel regno animale e in quello vegetale: negli orti e nei giardini di Firenze, lungo l’Arno e il Mugnone, catturava insetti, pesci, uccelli, raccoglieva piante e fiori, e per non perderne il ricordo e fissarne in modo duraturo certe caratteristiche, incominciò a disegnare. Ecco il segreto. Il distratto e indaffarato genitore sapeva che il figlio studiava matematica, oltre all’abbaco e alla musica, ma non sospettava nemmeno che il suo Leonardo si avventurasse clandestinamente sulla strada dell’arte. L’Albiera, forse, sarà stata la discreta confidente di qualche ammissione, ma non osò dirlo al marito, uomo di spirito pratico e soprattutto collerico. Del resto, in quegli anni, bastava entrare in una chiesa per trovare i pittori al lavoro; non c’era che da voltarsi intorno per vedere gli scultori e gli architetti all’opera. Leonardo aveva soltanto l’imbarazzo della scelta. Da un po’ di tempo, e sempre per iniziativa di Cosimo, in certe botteghe di pittori, e specialmente in quelle di Attavante e di Gherardo, si miniavano libri nuovi d’argomento profano: la Biblioteca dei Medici si arricchiva di documenti preziosi, in concorrenza con quella del potente e colto re d’Ungheria Mattia Corvino. Poi, all’improvviso, nell’estate del 1464, la notizia della morte di Cosimo, nella villa di Careggi. Un vento di fronda investì la città; i notabili del Poggio incominciarono a congiurare contro quelli del Piano. I fiorentini seguivano, con apprensione e paura, il riformarsi delle fazioni.


E morì, nel 1465, anche Albiera degli Amadori, la «mamma» e compagna di Leonardo. L’anno dopo i congiurati – con alla testa Luca Pitti, Agnolo Acciaiuoli, Niccolò Soderini e un certo Diotisalvi Neroni, che era stato il più fidato collaboratore di Cosimo – decisero di passare all’azione contro Piero il Gottoso radunando i loro partigiani armati alla periferia di Firenze, ai quali avrebbe dato manforte un esercito partito da Ferrara al comando del duca Ercole d’Este. Avvertito all’ultimo momento, Piero, benché malato, si fece portare in barella dalla villa di Careggi a Firenze. Ma i suoi avversari, prevedendo questa mossa, gli avevano teso un’imboscata. Se ne accorse in tempo suo figlio Lorenzo, di diciassette anni, che precedeva con pochi armati il piccolo corteo. Senza tornare indietro, per non mettere in sospetto i sicari nascosti dietro ai cespugli, fece avvertire suo padre, che raggiunse il palazzo di via Larga per un’altra strada. E subito, sostenuti dal popolo, quelli del Piano passarono al contrattacco: i capi della congiura furono condannati a morte e poi generosamente graziati da Piero. I fiorentini tirarono un sospiro di sollievo. In quello stesso anno, ser Piero sposò una fanciulla di sedici anni, Francesca Lanfredini, e la portò in casa a far da madre al figlio tredicenne.

A bottega

LA «BOTTEGA» DI un maestro del Rinascimento non aveva nulla in comune con lo studio di un artista dei nostri tempi. La bottega, prima di tutto, era un’officina il cui titolare, molto spesso, faceva il pittore, lo scultore, l’ingegnere, il fabbro e il falegname. Il nome dell’artista figurava come insegna di un’impresa commerciale, a mezza strada fra l’artigianato e l’industria: i garzoni della bottega facevano vita in comune col Maestro, mangiavano e dormivano sotto il suo tetto, costituivano un gruppo, o una scuola, con precise e rigorose gerarchie. Donatello, per esempio «era un uomo liberalissimo – a quanto afferma il Vasari – e per gli amici migliore che per sé medesimo: mai stimò danari, tenendo quegli in una sporta con una fune al palco appiccati, onde ogni suo lavorante ed amico pigliava il suo bisogno, senza dirgli nulla».


Non diversamente dovevano star le cose alla bottega di Andrea di Cione, detto il Verrocchio. Gli allievi si distribuivano i compiti, da quelli più umili come lo spazzare o il correre per commissioni, a quelli più specifici come la preparazione dell’intonaco e la macinatura dei colori, fino alla «dipintura» vera e propria di un particolare della tavola sulla precisa traccia del cartone disegnato dal Maestro. La bottega del Verrocchio comprendeva più locali: uno stanzone dal soffitto altissimo, con la forgia e il mantice da un lato, e l’incudine per lavorare col martello il ferro e il bronzo; e da un altro lato, sotto un lucernario aperto nel soffitto, gli enormi trespoli e le impalcature per modellare statue più grandi del naturale; nelle altre stanze, ancora più vaste, i forni per la fusione, le tavole e i banchi da falegname, un deposito di gessi e di cere, un angolo per i mosaici e per l’intaglio. Andrea era orefice, «prospettivo», scultore, intagliatore, pittore e musico. Inoltre, da giovane, aveva studiato le scienze e particolarmente la geometria, che comprendeva, allora, anche la geologia e l’astronomia. Teneva con sé un gruppo di giovani, fra cui si distinguevano due aiutanti dotati di sicuro talento: Pietro Vannucci da Perugia, detto il Perugino e Sandro Filipepi, detto il Botticelli; fra i ragazzi di bottega si facevano già notare Lorenzo di Credi, Francesco Botticini e Francesco di Simone. Ser Piero da Vinci, notaio della Signoria, aveva avuto più volte a che fare col Verrocchio per la stesura e la firma di vari contratti di allogazione. Possiamo dunque credere che fosse in buoni rapporti con l’artista se un giorno, appunto, si recò da lui per una faccenda privata e personale. – Maestro, per favore, aiutatemi a risolvere un difficile caso di coscienza. – Volentieri, ser Piero; di che si tratta? – Del mio figliolo Leonardo. Guardate questi disegni, sono suoi, e ditemi francamente il vostro parere. Se c’è della stoffa, bene. Se no, farà il notaio come me, lo dovessi costringere con la forza. Il Verrocchio prese i disegni dalle mani di ser Piero e li guardò a lungo, in silenzio. – Chi avrebbe mai immaginato che quel ragazzo covasse questa passione? – seguitò il notaio. – È pieno d’interessi, è vero, si perde dietro a mille quisquilie: ora studia gli animali, ora le piante; mi riempie la casa d’insetti, e intanto trascura il


latino, tradisce «il donatello», discute coi maestri: e ieri, in camera sua, che ti trovo? Un fascio di disegni. Ne ho presi un po’, a caso. – Ser Piero, portatemi il vostro figliolo – disse grave e solenne il Verrocchio. Verrà a vivere qui, con questi altri ragazzi. Portatelo quando volete, anche subito. Ne farò qualcosa di buono. Ser Piero non mise tempo in mezzo. Se doveva rinunciare a farne un notaio, tanto valeva incominciare subito a farne un pittore. Tornò a casa, andò nel suo studio e disse alla giovane moglie di mandargli Leonardo. Poco dopo il ragazzo entrò, salutò il padre ed attese. – Leonardo – lo affrontò subito ser Piero – che cosa intendi fare, il notaio o il pittore? – Il pittore. – Ne sei sicuro? Sei certo di averne la stoffa? Voglio dire, di avere del talento per non essere l’ultimo, ma il primo? Ser Piero squadrò il figlio con occhio inquisitore, e in cuor suo dovette convenire che quel ragazzo non solo era straordinariamente bello ma si distingueva per qualcosa di singolare e di speciale che proveniva, oltre che dallo sguardo, da tutta la persona. – Sì – rispose Leonardo. – Allora prepara la tua roba. Dopo desinare ti accompagnerò da maestro Andrea Verrocchio, vicino al ponte alle Grazie; ti assumerà come apprendista, andrai subito ad abitare in casa sua. Era il 1469. Da pochi mesi, a Vinci, era morto il vecchio ser Antonio. Nella grande casa era rimasta la nonna Lucia con lo zio Francesco e la sua giovane moglie Alessandra. L’ultima volta che aveva visto il nipote, poco prima di sposarsi, lo zio filosofo gli aveva raccomandato di non prendere mai decisioni affrettate, ma di ascoltarsi dentro. – Poi – aveva concluso – non fare ciò che vuoi, ma ciò che senti.

Maestro e discepolo


NON POSSIAMO E non dobbiamo immaginare gli allievi del Verrocchio diversamente da quello che erano e furono: una brigata di ragazzi pieni di vita, vogliosi di divertirsi, pronti alla burla e allo scherzo, lesti di mano e di lingua, uniti tuttavia da un comune interesse, o meglio, da un comune amore per l’arte. Impegnato ciascuno di loro nel compito assegnatogli, sapevan tacere per non disturbarsi a vicenda, si giudicavano e si correggevano reciprocamente senza alterigia, obbedendo, semmai, a una specie di spirito di corpo che si manifestava nel lavoro di gruppo e nell’opera portata a termine col concorso di tutti, che aveva per sigillo non il nome di Andrea Verrocchio, ma quello della sua bottega. «... Essendosi finita di murare la cupola di Santa Maria del Fiore, fu risoluto, dopo molti ragionamenti, che si facesse la palla di rame, che aveva a esser posta in cima a quell’edifizio», riferisce il Vasari; e il lavoro «fu assegnato ad Andrea». Anche, Leonardo, in qualche modo, partecipò all’esecuzione della palla. Come ultimo arrivato si accollò tutti i lavori dei novizi, dalla ramazza al pestello, ma percorse in un tempo notevolmente più breve l’itinerario dell’apprendista. L’amico «più amico» era Lorenzo di Credi. Disegnavano insieme, andavano a studiare in Santa Croce gli affreschi di Giotto, al Carmine quelli di Masaccio; si cimentavano nella costruzione di strumenti e di attrezzi per sollevare e spostare i pesi, in vista della collocazione della palla in cima alla lanterna della cupola; aiutavano volentieri maestro Andrea a ricalcare col gesso il volto dei morti. Il Verrocchio, infatti, aveva scoperto la proprietà di quel gesso speciale che, impastato con l’acqua tiepida, diventava malleabile come la cera, e poi, seccando, induriva come un sasso; e aveva incominciato a prendere il calco del viso dei defunti – la cosiddetta maschera – per memoria e devozione dei vivi. La sua bottega era letteralmente assediata di postulanti, e tutti per un lavoro urgente e non dilazionabile. Leonardo e Lorenzo lo aiutavano con entusiasmo, attenti ad ogni suo gesto, pronti ad ogni suo cenno. «E a dì 27 di maggio 1471, si tirò su la palla di rame dorata in su la lanterna della cupola di Santa Maria del Fiore, in lunedì». La notizia è di Luca Landucci, speziale al canto dei Tornaquinci e testimone oculare. Era venuto dunque il momento, per il Verrocchio, di mostrare ai concittadini la sua


bravura d’ingegnere, issando fino in cima alla cupola del Brunelleschi una sfera di metallo, capace di contenere molte persone, «appoggiandola – come precisa il Vasari – sur un bottone, e incatenandola di maniera da potervi metter sopra sicuramente la croce». Corde di canapa e catene, ruote, leve, cerniere, soppalchi ed argani, insieme ad altri originali e complicati meccanismi, furono messi in moto per sollevare la palla. Leonardo, affascinato dallo spettacolo, tirava spesso fuori dalla tasca un libro d’appunti per disegnare quelle macchine, prender nota di certi ingranaggi, eseguire dei calcoli, controllare certe misure. Con stupore i suoi compagni lo vedevano adoprare la mano mancina, scrivendo le lettere in senso contrario, da destra a sinistra. Anche Lorenzo di Credi restava impressionato di fronte a quei segni misteriosi, vergati con mano veloce e sicura; e Leonardo, senza rispondere alle domande o ai commenti, segretamente si compiaceva di quell’effetto «magico» che all’improvviso, come un diaframma, lo separava da tutti: la scrittura alla rovescia diventava un linguaggio segreto, intelligibile soltanto agli iniziati. Analogamente il disegno, col tratteggio dell’ombra che andava da sinistra a destra, acquistava una caratteristica inconfondibile, inimitabile, più efficace di una firma. Un giorno Leonardo era intento a dipingere la testa di un angiolo sulla pala d’altare commissionata al Verrocchio dai frati di Vallombrosa, raffigurante San Giovanni che battezza Gesù: era l’ora del desinare, e Lorenzo di Credi, invece di mangiare, stava a guardare estasiato l’amico, coi gomiti sul tavolo e il viso tra le mani. Accanto all’angiolo di Leonardo ce n’era un altro già dipinto dal Verrocchio, e il confronto sorgeva spontaneo sulle labbra di Lorenzo. – Ma lo sai, Leonardo, che il tuo angiolo è più bello di quello del Maestro? Leonardo fece finta di non udire. – Te lo dico io, e te lo direbbe anche lui se fosse qui. Gli altri allievi, seduti intorno a una tavola sgomberata degli attrezzi, mangiavano schiamazzando, affacciandosi ogni tanto alla finestra per scambiare qualche lazzo con le comari e le ragazze che sciacquavano panni al lavatoio vicino. Leonardo non riusciva a staccarsi da quella testa. Cercava di rifinire il già finito, di aggiungere perfezione al già perfetto.


– Leonardo, te lo dico io: il tuo angiolo è più bello di quello d’Andrea! – gridò Lorenzo. Leonardo si voltò. Il Verrocchio, a braccia conserte, guardava di sull’uscio il lavoro del giovane allievo: era arrivato in tempo per udire la frase cocente di Lorenzo, e ora ne verificava con gli occhi l’esattezza. Andò vicino alla pala – dicono i biografi – batté affettuosamente la mano sulla spalla di Leonardo, poi prese il pennello che gli era servito l’ultima volta che ci aveva lavorato, e lo spezzò, come a significare la sua definitiva rottura con quell’arte. «Lionardo da Vinci – scrive infatti il Vasari attingendo probabilmente la notizia da un memoriale di Francesco Albertini, stampato in Firenze nel 1510, ossia quando Leonardo era ancora vivo ed avrebbe potuto smentire una notizia non vera – allora giovanetto e suo discepolo, vi colorì un Angelo di sua mano, il quale era molto meglio che l’altre cose. Il che fu cagione che Andrea si risolvette a non voler toccare più pennelli...».

La lezione del Verrocchio

LEGGENDA ANCHE QUESTA, o soltanto fantasia? L’affermazione del Vasari, secondo la quale il Verrocchio rinunciò alla pittura dopo aver visto la testa dell’angiolo dipinta dal suo giovanissimo allievo, probabilmente non corrisponde a verità; e mentre nuoce alla giusta e meritata fama del Verrocchio, non aggiunge nulla al merito di Leonardo. Andrea del Verrocchio non era soltanto un maestro di bottega, ma un caposcuola, un innovatore. Non a caso, ai primi del Cinquecento, il poeta Ugolino Verini affermava, in limpidi esametri, che tutta la pittura toscana era figlia del Verrocchio. D’altronde il Vasari, a proposito di quella pala d’altare, dice che Leonardo «colorì un Angelo di sua mano». Non dice «disegnò», perché il disegno era compito e prerogativa del Maestro. Ma il pregio di quella testa consiste proprio nel disegno. La grazia, la bellezza, la dolcezza di quel volto non dipendono soltanto dal colore, ma anche, e specialmente, dal segno che ne definisce i connotati esteriori e soprattutto interiori. Leonardo era andato a bottega dal Verrocchio proprio nel periodo in cui quell’artista, col «Battesimo di Gesù», imponeva alla pittura toscana una svolta


innovatrice, instaurando un nuovo rapporto tra figura e natura. Non che fosse il Verrocchio a scoprire il paesaggio; Benozzo Gozzoli, nel palazzo di Cosimo in via Larga, ne aveva perfino abusato. Ma i personaggi di Benozzo non facevano parte di quel paesaggio, potevano anche non averlo, o averne un altro assolutamente diverso: erano figure isolate, estranee a tutto ciò che le circondava. Fu il Verrocchio a realizzare, per primo, una fusione armonica tra le persone e l’ambiente, quell’unità ineffabile tra figura e natura che raggiunse ben presto la sua perfezione nella Vergine delle Rocce di Leonardo, con gli alberi e le pietre al posto del trono e per terra un tappeto d’erba fiorita. Molti anni dopo, rivivendo forse quelle giovanili esperienze, Leonardo, nel suo «Trattato della Pittura», ricordò con accenti aspri e severi alcune parole del Botticelli contro lo studio del paesaggio. «... Quello non fia universale, che non ama egualmente tutte le cose che si contengono nella pittura, come se a uno non gli piace li paesi, esso stima quelli esser cosa di brieve e semplice investigazione, come disse il nostro Botticella, che quello studio era vano, perché col solo gettare di una sponga piena di diversi colori in un muro, essa lasciava in esso muro una macchia dove si vedeva un bel paese...». «E questo tal pittore – aggiunse, non più chiamandolo affettuosamentenostro, ma sdegnosamente tale – fece tristissimi paesi». Infine, nel «Codice Atlantico», contestò ancora l’amico scrivendo: «Sandro! tu non di’ perché tali cose seconde paiono più basse che le terze!». Il primo disegno di Leonardo pervenuto fino a noi, più che uno studio, è l’evocazione di un immenso paesaggio. Porta la data del 5 d’agosto 1473 «il dì della Madonna della Neve».

L’aria sua, che bellissima era

DURANTE LA LAVORAZIONE del Battesimo di Gesù non poterono mancare le visite, improvvise e inattese, di Lorenzo de’ Medici. Dal dicembre del ’69, con la morte di Piero il Gottoso, egli era diventato, a vent’anni, il capo della famiglia e della città; sull’esempio del nonno Cosimo, era anche lui disponibile per tutti, e soprattutto per l’arte. Le botteghe degli artisti erano le sue mete preferite; e il suo interesse per quella pala, che prometteva di portare un nuovo e convincente messaggio nel mondo pittorico fiorentino, doveva essere sicuro e sincero. In nessun altro posto,


meglio che nella bottega di Andrea del Verrocchio, poté dunque avvenire l’incontro del giovane Lorenzo col giovane Leonardo. – Leonardo... di chi? – gli avrà chiesto il figlio di Piero de’ Medici, scrutandolo con benevola attenzione. – Di ser Piero da Vinci – avrà risposto Leonardo, con la sicurezza di pronunciare un nome non ignoto. Erano i giorni, quelli, in cui Lorenzo, per disingannare gli occulti avversari e i falsi amici, che gli davano i giorni contati a causa della sua «immaturità», si preparava ad accogliere il duca di Milano Galeazzo Maria Sforza con la consorte Bona di Savoia. Firenze, sotto la sua regìa, si era trasformata a vista d’occhio: in una sola notte la chiesa di Santa Maria del Fiore ebbe una facciata, fatta di pannelli intarsiati e dipinti; le strade si addobbarono d’archi di trionfo istoriati a tutto tondo; ogni finestra ebbe un broccato, ogni porta un festone. E quando il duca di Milano fece il suo solenne ingresso in città «con un corteggio da suscitare stupore e meraviglia financo nei fiorentini», Lorenzo gli fece percorrere un itinerario da fiaba, fino al palazzo di via Larga incantato, per l’occasione, dalla fantasia del Botticelli. Alla politica sorniona e duttile di Cosimo, seguiva ora quella prudente e decisa di Lorenzo; al mercante subentrava il principe; all’occulto potere economico, un volere politico; a una repubblica, una signoria. «I Medici mi feciono e mi disfeciono» annotò, da vecchio, amaramente, Leonardo. Prima di tutto, dunque, Lorenzo «lo fece»; cioè lo seguì nel lavoro, gli fece allogare alcune opere, lo volle come consulente, lo scelse come amico, lo assunse come collaboratore nei giardini di San Marco dove aveva già incominciato a raccogliere i capolavori dell’arte classica e contemporanea. Parlò con lui di musica, di filosofia, di poesia e di pittura; lo ascoltò, forse, parlare di meccanica e di anatomia: ma Leonardo, anche per il futuro «Magnifico», rimase enigmatico come la sua scrittura alla rovescia, una specie di «vaso senza manico», un uomo che voleva e sapeva nascondersi, per difendere la propria libertà interiore. Chi erano, allora, i suoi amici, fuori dalla cerchia dei compagni di bottega? Chi frequentava, e che faceva, nel tempo libero?


Segnati uno accanto all’altro nel «Codice Atlantico», alcuni nomi possono dare un’idea delle relazioni di Leonardo, la sua ricerca di compagnie singolari, con interessi diversi e addirittura estranei alla pittura. «Quadrante di Carlo Marmocchi – Messer Francesco Araldo – ser Benedetto da Cieperello – Benedetto dell’Abbaco – maestro Pagolo medico – Domenico di Michelino – il Calvo degli Alberti – messer Giovanni Argiropulo».

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