AVATAR - La progettualità del sé

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AVATAR

La progettualitĂ del sĂŠ Semiotica e Autoritratto

Saggio semiotico

Simone Bernardi Pirini



Sommario Abstract 1

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Premessa 1.1

Volersi mostrare

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1.2

L’invito dei social

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Autoritratto e gioco semiotico

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2.1

Gioco come metaxù

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2.1

Gioco e rappresentazione

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2.3

Tassonomia dell’autoritratto

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Struttura attanziale dell’autoritratto

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Struttura narrativa dell’autoritratto

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Autoritratto e dialogicità

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5.1 6

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Interazione e comprensione

Autoritratto e affordance

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6.1

Autoritratto e atti semiosici

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6.2

Autoritratto e usabilità

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6.3

Autoritratto e interfaccia

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Autoritratto e logica progettuale

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Conclusioni

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Riferimenti iconografici Bibliografia



Abstract Questo approfondimento vuole occuparsi di porre in relazione l’impulso-desiderio di esprimere la propria identità per immagini, l’autoritratto, con l’invito ed i problemi a cui siamo democraticamente chiamati dal social network per eccellenza, Facebook, una vera e propria affordance cognitiva. Lo scopo è quello di descrivere le dinamiche e gli elementi semiotici riscontrabili da un’analisi che riveste il ruolo di riportare quanto riflettere sull’immagine che si dà agli altri sia un ambito degno di una progettualità concreta, ed altresì quanto l‘attenzione verso la fruizione, propria della pratica stessa dell’autoritrarsi, sia l’essenza della condizione di progettualità. Nella fattispecie, un gioco all’interno di un gioco.

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Premessa Nell’epoca della comunicazione istantanea, si fa sempre più forte e palese l’esigenza di fornire informazioni senza ricorrere alle parole, di esprimersi attraverso canali in grado di soddisfare le nostre derivate esigenze di velocità, trascendendo l’importanza del mezzo linguistico. Mai come oggi la comunicazione è stata caratterizzata dall’internazionalità e dall’immediatezza, qualità alle quali la lingua mal si adatta. Abbiamo trascorso l’ultimo secolo inventando forme di intrattenimento alternative alla lettura, meno esigenti e meno onerose in termini di tempo, fino ad arrivare ad oggi, al world wide web - un medium innanzitutto visivo - ed alle sue fortunate evoluzioni interattive. L’ambiente mediale specifico dei social network non è definibile solo come un riflesso amplificato della società attuale; è un ambiente sociale esso stesso, nei suoi contenuti, nelle logiche specifiche e nelle convenzioni che lo sottendono.

1.1

Volersi mostrare Ognuno, per il solo fatto di esistere, lascia tracce. Il rendere l’immagine del volto una traccia, che solitamente non lascia segni se non nei suoi riflessi, coincide col conferire al volto stesso – che è per eccellenza la quintessenza del sé, l’immagine con la quale ci si identifica, ci si riconosce – un’importanza d’eccezione. In generale, quindi, proprio perché nessuno lascia una traccia del proprio volto se non pensando a qualcuno che lo dovrà vedere, osservare, l’autoritratto, prevede una precisa intenzione sociale. Il desiderio di rappresentarsi nasce


quando l’importanza della propria figura psichica e fisica assume una certa importanza per l’individuo, quando nasce il bisogno di affermarsi all’interno della società, quando l’individuo sperimenta la propria identità ed il proprio stile ed ha bisogno di essere riconosciuto all’interno di un gruppo d’appartenenza. Da un punto di vista semiotico, la chiave di volta è l’intenzionalità dell’autoritrarsi: una volontà simbolo di riflessione e di sperimentazione, in entrambi i casi di sforzo, una trasformazione.

1.2

L’invito dei social Contestualizzando la nostra discussione, è quasi automatico pensare con sguardo semiotico ai social networks come a veri e propri mezzi d’espressione di massa e di condivisione sistematica, come ad autentici inviti a rappresentare sé stessi. Considerando la fotografia come prediletta portavoce di questa tendenza autoriflessiva - grazie al risparmio di tempo implicito nel suo processo di posa e realizzazione, che permette di portare in scena il principio del gioco molto più di quanto ogni altra tecnica permetta – viene spontaneo considerare che il principale motivo per cui Facebook è più interessante ai nostri occhi è proprio per il suo carattere di mezzo prettamente fotografico, a differenza di altri social di natura più testuale.

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Autoritratto e gioco semiotico L’elemento del gioco in campo semiotico funge da schema regolatore al quale attingere come un modello di riferimento o metafora per interpretare relazioni e aspetti della comunicazione che normalmente potremmo solo intravedere. Tale modello può a volte sembrare una forzatura, ma nel nostro caso non lo è affatto. Questo perchè, se prendiamo in esame le categorie della classificazione dei giochi secondo Callois (1967) e se consideriamo l’autoritratto come rappresentazione del sé, il nome stesso ci riconduce al tipo ludicità implicata.

2.1

Gioco come metaxù Prima di procedere all’analisi tassonomica dell’argomento, vorrei evidenziare come ho considerato il concetto di gioco e di giocosità. Huizinga nel saggio Homo ludens (1939) lo definisce un’azione o un’occupazione volontaria, compiuta entro certi limiti di tempo e di spazio, secondo una regola volontariamente assunta, e che tuttavia impegna in maniera assoluta, che ha un fine in se stessa; accompagnata da un senso di tensione e di gioia, e dalla coscienza di “essere diversi” dalla “vita ordinaria”. Personalmente trovo più soddisfacente – specialmente in questo caso - la concezione di gioco di Gregory Bateson (1956), secondo cui, quando inteso come rappresentazione, il gioco mostra il suo carattere di metalinguaggio e ci proietta in un altra dimensione esperienziale, nella quale, essendo la performance ludica una messa in scena, il gioco fa agire


come se. Penso si possa meglio intendere la dimensione metasemiotica di gioco attraverso il concetto di metaxù (dal greco – μεταξύ), apparso per la prima volta nel Simposio di Platone, che lo usa per parlare della nascita di Eros, definendolo un intermediario fra mortali e divini, fra ordine e disordine, tra ragione e follia. Con questa allegoria, Platone intende Amore come intermediario, traduttore che permette all’irrazionalità di esprimersi laddove altrimenti non verrebbe compresa. Se s’intende la ragione come un’organizzazione di de-finizioni, di de-terminazioni in cui le cose sono bloccate in un unico significato in maniera tale da acconsentire la prevedibilità dei comportamenti e soprattutto la garanzia di intendersi col linguaggio, con la concezione di gioco come metaxù, osserviamo come avvenga la contaminazione degli opposti e i principi platonici di ragione non funzionino più. Attraverso la sfera o condizione di gioco, ci è permesso liberare la nostra irrazionalità e ci è concesso di trasgredire alle ragionevoli convenzioni comportamentali fintantochè i nostri atteggiamenti sono decodificabili secondo la concezione di gioco, secondo questo frame.

2.2

Gioco e rappresentazione Come detto, siamo particolarmente interessati al carattere di rappresentazione di gioco-play, quando è inteso come performance (suggerito dai vari nomi play-jouer-spielen, anche sinonimi di recitare e suonare nelle rispettive lingue),

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al quale è riconducibile il concetto di Peirce di Musement, puro intrattenimento, libera associazione di idee pura, giocosità senza scopi ultimi. Nel gioco dell’autoritrarsi, cosa si rappresenta? Naturalmente sé stessi: per come ci vediamo ed identifichiamo, per come vorremmo vederci, per come ci aspettiamo che gli altri ci vedano, per sperimentare altri sé. Mentre nella rappresentazione di sé su facebook entra il gioco una più concreta progettualità: come vogliamo essere visti dagli altri, potendo ricorrere al meccanismo dell’illusione, che la fotografia certifica e occulta.

2.3

Tassonomia dell’autoritratto Dalla distinzione di Huizinga abbiamo due modalità di gioco: game e play. Mentre con il game si intende il gioco come sistema organizzato di regole, dove l’azione è finalizzata all’ottenimento di un risultato (cfr. Zingale, 2009), la pratica dell’autoritratto è sicuramente riconducibile al play, ovvero al gioco inteso come libera attività e intrattenimento, senza nulla in palio se non il piacere dell’esecuzione. Fondamentali per la pratica dell’autoritrarsi sono infatti il carattere performativo del mettersi in posa e il carattere di libertà, leggerezza ed immaginazione proprie dell’agire come se. Prendendo ad esempio un’altra categorizzazione dei giochi, quella di Caillois (1967), che suddivide il gioco in AGON (competizione), ALEA (fortuna), MIMICRY (simulacro) e ILINX


(vertigine), possiamo fare qualche considerazione: la pratica dell’autoritratto appartiene sicuramente alla categoria del MIMICRY per la sua caratteristica di performatività e per la vicinanza a pratiche come il travestitismo e l’imitazione (che sia di soggetti o di ideali che costituiscono il proprio sé). Questa attività è una sfida ai limiti delle forme di espressione, alle convenzioni ed ai limiti del gioco stesso in favore della propria irrazionalità; produce conoscenza inferenziale attraverso una comunicazione per metafore. Ma rientra a far parte anche del gioco come vertigine (ILINX) per il carattere di sperimentazione ed il senso di provocazione di cui qualsiasi azione edonistica è carica. Possono essere però presenti altre caratteristiche, come la fortuna attesa affinchè fra gli scatti eseguiti ve ne siano di soddisfacenti (ALEA), sensazioni emotive legate all’attesa dello scatto (ILINX), oppure ancora – questa volta legato alla condivisione della foto - un certo livello di competizione con i membri della community (AGON).

PAIDA (play)

AGON

ALEA

MIMICRY

ILINX

(competizione)

(fortuna)

(simulacro)

(vertigine)

LUDUS img. 1

(game)

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Struttura attanziale dell’autorittratto Si possono scorgere, nelle categorie di Caillois, una tensione verso un oggetto di valore o superamento di un limite, presente anche nella definizione di gioco di Huizinga. Tale tensione, assume nella pratica dell’autoritrarsi la sfida verso un risultato soddisfacente nel quale riconoscersi, o la cui immagine è pertinente con le nostre aspettative (e in quelle che crediamo gli altri abbiano in noi). La struttura narrativa prevede tre punti di snodo: l’identificazione di un compito da portare a termine, il superamento di un limite e la conquista di un oggetto di valore. Nel nostro caso vi è (1) un’auto-destinazione, o sdoppiamento dialogico del soggetto fra io e sé, nel quale un io decide di “iniziare il gioco” e giudica la performance del sé, (2) l’attuazione del desiderio di ritrarsi, cui gli opponenti all’azione sono le difficoltà tecniche dell’autoscatto, la timidezza e la paura del fallimento o della non-accettazione, mentre gli aiutanti sono gli accessori e i costumi che si possono usare per il travestimento, così come la creatività inventiva stessa; infine abbiamo (3) la riuscita dell’autoritratto. Per quanto riguarda la condivisione, abbiamo semplicemente come differenza la presenza di diversi opponenti, come per esempio la paura di critiche pungenti al di fuori del gioco (quindi una brutta figura) ed il dover trovare un nome appropriato per l’opera. Infine, l’ultimo snodo in questo caso è aperto, in quanto non vi è una vera e propria fine del gioco. Potremmo infatti notare e concludere che all’interno del gioco infinito dell’inventarsi e del rappresentarsi, una pratica dialogica-generativa ed inventiva che segue la trasformazione delle nostre identità, si interpreta di volta in volta l’esperienza stessa del gioco finito dell’autoritrarsi.


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Struttura nattativa dell’autorittratto La metafora del gioco può fungere da modello anche nell’interpretazione di un fenomeno di comunicazione, inteso come interazione all’interno di un campo di relazioni dialogiche. Nel 1963, il linguista Roman Jakobson propone uno schema per analizzare i fattori dei processi di comunicazione – ognuno dei quali associato ad una funzione comunicativa -, intesi come aspetti del linguaggio che assieme contribuiscono a determinare la struttura verbale del messaggio. Secondo Jakobson, la diversità dei messaggi non si fonda sul monopolio dell’una o dell’altra funzione, ma sul diverso ordine gerarchico di esse. Nella pratica dell’autoritratto in sè, com’è evidente, particolare importanza è riservata nella funzione ESPRESSIVA esercitata dal mittente, in quanto soggetto stesso del messaggio ed esternatore della propria inventiva e sensibilità, messa a nudo per i fruitori, ai quali però non è richiesta una grande reazione operativa: la funzione CONATIVA richiede normalmente loro solo l’attenzione; la relazione gerarchica tende a mutare e a bilanciarsi invece nel caso della condivisione della fotografia, nel qual gesto è implicita una richiesta – o quantomeno una disponibilità - di giudizio, magari di apprezzamento. Altra funzione determinante è quella POETICA, che risiede nella presenza estetica, nella forma del messaggio stesso. Molta importanza assume anche la funzione METALINGUISTICA, che risiede nel codice: se la fruizione di un autoritratto è caratterizzata soprattutto dalla consapevolezza di sapere che proprio di autoritratto si tratta, il meccanismo fruitivo si differenzia e si qualifica proprio grazie a questa informazione preventiva, che una volta decodificata muta la nostra

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attenzione, il nostro modo di osservare; qualcosa di nuovo si attiva. Ci si comincia a interrogare sui motivi che possono indurre una persona ad auto-rappresentarsi. Cominciamo a chiederci perché proprio in quel momento egli abbia sentito il bisogno di effigiarsi; cosa provava, quali pensieri aveva e che cosa di essi è rimasto stampato sul volto che adesso ci osserva oppure sfugge al nostro sguardo (Ferrari S., 2002).

CONTESTO ---------------funzione referenziale

MITTENTE ---------------funzione espressiva

MESSAGGIO ---------------funzione poetica CANALE/CONTATTO ---------------funzione fàtica CODICE/REGOLA ---------------funzione metalinguistica

img. 2

DESTINATARIO ---------------funzione conativa


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Autoritratto e dialogicità L’esplicito carattere di intermediazione del gioco, inteso come condizione interattiva all’interno di un campo di relazioni dialogiche, evidenzia come il gioco non possa fare a meno del dialogo (cfr. Zingale, 2009). Se un gioco è un fenomeno di comunicazione e tutta la comunicazione è dialogica, è sicuramente vero che ogni gioco è dialogico. Per cominciare, consideriamo il territorio comune che mette in relazione affinchè avvenga il gioco comunicativo: nel caso dell’autoritratto, è tutto in noi, la nostra identità fluida, il nostro desiderio di rappresentarci riveste l’avvio del territorio comune fra io e sé. Nel caso della condivisione invece il territorio comune è semplicemente l’intersoggettività che Facebook ci offre, che diventa possibilità ed invito di mostrarsi agli altri. Procedendo, rileviamo come nell’autoritrarsi il dialogo avvenga fra sé e sé e la pratica dialogica riguardi soprattutto una dimensione esistenziale del soggetto, volto a interrogare sé stesso – e gli altri sé -, a giocare con la propria creatività e a interpretare l’aspettativa dei fruitori (non bisogna dimenticare la dimensione della fruizione, che porterà il soggetto come a guardarsi con occhi degli altri). In questo caso, il dialogo è insieme esplorativo-riflessivo di e su di sé e di-vertente, ovvero volto a condurre altrove il soggetto stesso, dentro di sé, o un po’ più in là, verso l’irrazionale. Il campo dialogico che viene ricoperto nella performance è squisitamente il proprio sé, la propria identità: il soggetto è assieme giudice e performer. Potremmo quasi considerare il formato della fotografia il campo dialogico stesso, quasi che il

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soggetto debba scegliere quale identità mostrare, progettare come venire colto. Nel meccanismo della condivisione invece possiamo intuire quanto sia invece la dimensione intersoggettiva a prendere importanza, essendo quello in analisi un modo per mettersi in mostra, di presentarsi a livello sociale. Il dialogo è propositivo, espositivo di un problema: sé stessi. Nella condivisione vi è un diagolo quasi di competizione edonistica nei confronti degli altri soggetti e dei modi dell’espressione, ci si indirizza al giudizio della comunità, quasi lanciando una sfida, una richiesta di favore (l’apprezzamento) da un pubblico-giudice, ma anche la la dimensione giocosa e di intrattenimento non scompare; d’altra parte ci si mette “in gioco”. Il campo dialogico, in questo caso è la propria community, è lo spazio che otteniamo dal social network, attraverso il quale possiamo giocare.

5.1

Interazione e comprensione Dal momento che la metafora del campo dialogico è volta a mostrarci le interazioni semioticamente intese, è opportuno considerare come alcuni fattori influenzino le situazioni dialogiche. Tali fattori richiamano la classificazione della


Dal momento che la metafora del campo dialogico è volta a mostrarci le interazioni semioticamente intese, è opportuno considerare come alcuni fattori influenzino le situazioni dialogiche. Tali fattori richiamano la classificazione della segnicità di Peirce: l’affinità elettiva fra i soggetti, intesa come comunanza di senso, richiama l’icona (segno che funziona per somiglianza), la loro prossimità fisica richiama l’indice (segno per connessione) e la loro intenzionalità, ovvero la volontà al dialogo, richiama il simbolo (segno per convenzione). Nella condivisione del proprio autoritratto, come prima accennato, poca importanza ha la funzione conativa, quindi l’affinità elettiva; quel che importa non è l’eloquenza – non importa essere chiari e compresi, anzi, si tende a preferire l’ermetismo e a non curarsi di pertinenza e della possibilità di fraintendimento -, ma il provocare una reazione nell’interlocutore per il solo fatto di sapere che proprio di autoritratto si parla. Se è palese che anche la prossimità fisica non può esattamente essere considerata un fattore determinante – ma piuttosto un limite -, possiamo infine ribadire l’importanza dell’intenzionalità stessa, che condensa il desiderio della ricerca, del mettersi in gioco e del senso di progettualità dell’atto dialogico (del prevedere l’espressione in virtù dei fruitori).

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Autoritratto e affordance Analizziamo ora l’autoritratto in quanto oggettualità intenzionale progettata in previsione di un’interazione, per avere un senso per qualcuno, ovvero per condizionarlo, per trasformarne la concezione. Sembra scontato dirlo, ma l’unico senso coinvolto nella percezione dell’immagine è la vista, se non contiamo i rimandi sinestesici collegabili a colore e forma. Ebbene, se guardare con attenzione ed interesse un oggetto significa interrogarlo ed indagare la sua natura ed i motivi per cui è stato creato, possiamo immediatamente capire che è esattamente questo il motivo primario per cui viene effettuato un autoritratto: viene concepito per essere guardato, per essere interrogato. Ad un secondo livello, esso vuole certamente cogliere l’attenzione del fruitore ed indirizzarla al soggetto dell’immagine stessa: vuole coglierne l’interesse. In una logica progettante, il soggetto, compreso l’invito del gioco del social network, ne coglie il meccanismo voyeuristico e – accettando il gioco – ne segue le regole, sfruttando le peculiarità cognitive del medium fotografico e facendo a sua volta il proprio gioco: quello di condizionare il giudizio dei propri amici, cercando di apparire come vorrebbe, influenzandone la considerazione. Naturalmente un soggetto può anche, come detto, condividere le proprie immagini con modalità dialogicità più volta all’intrattenimento, ma sempre indirizzata a condizionare in qualche modo l’idea che gli altri dovrebbero avere di sé.


6.1

Autoritratto e atti semiosici Avendo l’autoritrarsi un’intenzionalità di trasformare, la propria identità fluida come la propria idea di sé, questo concetto di trasformazione sta tutto nella nozione di atto semiosico, definito come “un’azione che produce trasformazione, in noi stessi o su un soggetto esterno, grazie alla mediazione di un artefatto” (Zingale, 2009). Un atto semiosico è composto da tre aspetti: un prodotto di senso (funzione espressiva-poetica), un effetto di senso (funzione fatica-conativa) e un obiettivo di senso (funzione referenziale-metalinguistica). Nell’atto dell’autoritratto il prodotto di senso risiede nell’autoritratto in sé, nell’impressione che si può derivare da esso, dalle sensazioni che trasmette, dal messaggio supponibile. L’effetto di senso che il soggetto vuole ottenere risiede invece nell’attenzione e interesse che si spera colga gli osservatori, così da poterli condizionare con l’immagine che si vuole dare di sé, o nella spinta al giudizio nei confronti dell’immagine. Per ultimo, l’obiettivo di senso invece sta nella strategia metasemiotica del gioco stesso dell’autoritratto: far capire al fruitore la propria intenzione derivante dalla natura volontaria e progettuale dell’immagine, farlo entrar nel gioco.

6.2

Autoritratto e usabilità Se partiamo dal presupposto che gli oggetti comportano interazioni e esistono in ragione di una funzione, prendendo come spunto semiotico la tripartizione segnica degli oggetti (icona, indice e simbolo), possiamo suddividere gli artefatti

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in tre categorie semiotiche: (1) oggetti-oggetto, o oggetti fatti per essere guardati (2) oggetti costrittivo-seduttivi, o oggetti che eterodirigono le nostre azioni per la loro forma e (3) oggetti-strumento, oggetti concepiti per un’azione specifica. Ebbene, per il suo carattere d’invito, il solo farsi guardare, catturare attenzione e condizionare il giudizio unicamente per mezzo dell’estetica (e degli eventuali rimanti metaforici culturali), l’autoritratto è da categorizzarsi, in relazione alla sua funzione dialogica, prettamente come oggetto-oggetto. Fanno parte di questa categoria tutto gli oggetti fatti per farsi contemplare, progettati per dare “stimoli puramente estetici o di pura presenza significante” (Zingale, 2009). L’oggetto-oggetto si presenta in quanto icona, la cui segnicità significa per somiglianza. Semioticamente - ed ergonomicamente – occorre rilevare come l’iconicità sia la dimensione primaria e qualitativa di un oggetto, che “spesso precostituisce ogni possibile relazione fra utente e prodotto” (Zingale, 2009). Significativa osservazione, se pensiamo che la scelta del proprio avatar, un vero e proprio interfaccia fra sé e gli altri utenti, in una cosciente logica progettuale può fungere precisamente a questo: alla precostituzione delle relazioni stesse con gli altri. L’obiettivo di senso degli oggetti-oggetto è generalmente l’emozione: la gradevolezza, se il soggetto mittente vuole piacere ed accattivare, o il disgusto, laddove lo scopo sia provocare e sconvolgere. In chiave ergonomica, non sono artefatti che si possano giudicare secondo i principi di efficienza, efficacia e


soddisfazione, perchè difficilmente è possibile misurarne il livello d’apprezzamento se non – nel nostro caso – attraverso le risposte interattive che Facebook prevede come possibili.

6.3

Autoritratto e interfaccia Se si pensa invece all’autoritratto in quando immagine proposta e condivisa, occorre fare qualche considerazione approfondita, perché in questo caso l’artefatto ha una funzione più ampia, oltre che delle aspettative aggiuntive. In questo caso infatti, l’autoritratto condiviso, entra all’interno dello strumentofacebook e trasla in direzione degli oggetti-strumento, non tanto perchè serva a svolgere un’azione, quanto piuttosto perché ora, letto secondo i codici del social network, prevede delle interazioni che i destinatari del messaggio possono decidere di intraprendere per svolgere un’azione: dimostrare il loro giudizio, interesse e apprezzamento nei confronti del mittente dell’immagine, il quale a sua volta può in qualche modo “misurare” l’apprezzamento ricevuto e l’impatto del proprio sforzo al giudizio altrui.

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Autoritratto e logica progettuale Sebbene l’autoritratto possa essere una pratica svolta come intrattenimento, con giocosità e leggerezza, grazie all’agio che il progresso tecnologico ci offre (faccio riferimento alla possibilità democratica e a basso costo di poter ricorrere al mezzo fotografico e di condividerlo), laddove si desideri affrontare la progettazione della propria immagine estroversa in una logica progettante volta ad un più efficace effetto di senso, è opportuno sfruttare le potenzialità del mezzo fotografico, che – per le sue peculiarità cognitive - può essere usato per condizionare, nel bene e nel male, fino ad arrivare all’inganno. Il soggetto dovrà entrare dapprima in una logica utente, riflettendo sul fatto che chi guarda dovrà giudicare da quella fotografia, considererà da essa quello che siamo e quanto valiamo laddove sia esso consapevole che l’immagine è proprio un autoritratto. É evidente che in queste circostanze il rapporto con l’immagine è carico di forti aspettative, così come anche pieno di possibilità. Viene automatico pensare ad una sostanziale omologia sul piano psicologico tra autobiografia e autoritratto, nel senso che quest’ultimo esprimerebbe a livello figurativo le stesse esigenze e gli stessi percorsi dell’autobiografia, sotto un profilo piuttosto generale. Ci sono infatti differenze sostanziali fra pensiero visivo e pensiero verbale: se il primo è più vicino all’inconscio e dunque, più diretto ed emozionale, il secondo è più articolato, più descrittivo e quindi più simile al pensiero cosciente. L’uomo attraverso autoritratto e autobiografia intende certamente comunicare qualcosa. Certamente la parola è un veicolo privilegiato per esprimere la consapevolezza della


complessità delle cose. C’è però anche una comunicazione di tipo simbolico-emotivo che va direttamente da inconscio a inconscio. Rappresentarsi attraverso le parole o attraverso le immagini non è la stessa cosa, tanto più se il fine di questa autorappresentazione è, come accade spesso, di testimoniare e descrivere la molteplicità, la contradditorietà e il continuo divenire del nostro Io. Il volto, in quanto centro della persona, viene inteso quale rappresentante simbolico-espressivo dei sentimenti. Adottando la propria presenza fisica e giocando con la propria fisionomia, nascono diverse tipologie di autoritratto; un primo caso è quando l’autore non vuole manifestare i propri momentanei stati d’animo o la propria essenza individuale, bensì tematizza su di sé, facendosi mimo, quasi fosse un’enciclopedia dei sentimenti. In un secondo caso, i soggetto sperimenta gli atteggiamenti e i modi convenzionali, al di là dei moti spontanei del corpo. Infine, in un altro esempio, può apparire un terzo elemento della presentazione della propria personalità, ossia la messa in scena di sé per mezzo di particolari costumi o accessori: il calarsi in un ruolo, giocando anche sulla propria posizione sociale.

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Conclusioni Questo viaggio è stato affrontato per riflettere sulle potenzialità di una consapevole logica progettuale in favore della propria rappresentazione estroversa, del riflesso che si può dare di sè attraverso il mezzo fotografico, riflesso che può essere distorto ed abbellito, che può illudere. Sicuramente, condizionante. Questo, per dimostrare come basti poco, raccontando una storia per impressioni, per giocare con la propria identità e con la cognizione altrui, anche facendo solo affidamento alla presenza estetica degli artefatti semiotici, alle loro qualità primarie. Può essere un’estremizzazione vagamente cinica, me ne rendo conto, ma può anche essere un valido contributo a discipline come il personal branding, o laddove sia possibile il solo intervento su stimoli visivi per la trasmissione di un messaggio. Infine, mi piaceva l’idea di dare dignità alla pratica dell’autoritrarsi, spesso ostracizzata e minimizzata, ed invece tanto profonda e rilevante per il suo carattere indagatorio, riflessivo ed insieme ludico e liberatorio.


Riferimenti iconografici img 1. - Uno schema esplicativo per quantificare empiricamente in che parte le modalità e catogirie della categorizzazione di Caillois può essere comporta la pratica dell’autoritratto. Img 2 - Uno schema esplicativo la struttura narrativa della condivisione dell’autoritratto su facebook.

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Bibliografia Testi disciplinari BONFANTINI, Massimo A 2000, Breve corso di semiotica, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, Collana semiosis BONFANTINI, Massimo A; BRAMANTI, Jessica; ZINGALE, Salvatore 2007, Sussidiario di semiotica in dieci lezioni e duecento immagini, Milano, ATì Editore, Collana libriblog ZIJNO, Alessandro 2003, La struttura, il codice e la comunicazione, “Ocula.it” ZINGALE, Salvatore 2009, Gioco, dialogo, design – una ricerca semiotica, Milano, ATì Editore, Collana psòmega

Riferimenti bibliografici BERNARDI PIRINI, Simone 2012, Scegli la tua immagine (Saggio per il corso di storia dell’arte contemporanea), Politecnico di Milano EVAMY, Michael 2003, World withouth words (Dalla parola all’immagine), Modena, Logos Edizioni FERRARI, Stefano 2002, Lo specchio dell’io: autoritratto e psicologia, Roma, Laterza Edizioni LADOGANA, Silvia 2006, Lo specchio delle brame, Milano, FrancoAngeli Edizioni


MASLOW, Abraham H. 1973, Motivation and personality (Motivazione e personalità), Roma, Armando Editore MCLUHAN, Marshall 1997, Understanding media: The extensions of man (Gli strumenti del comunicare), Est Edizioni MUZZARELLI, Federica 2003, Formato tessera, Milano, Bruno Mondadori Editore NALDI, Fabiola 2003, I’ll be your mirror, Roma, Cooper&Castelvecchi PICCINI, Fabio 2008, Ri-vedersi, Milano, Red! Edizioni BONFANTINI, Massimo A 2000, Breve corso di semiotica, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, Collana semiosis BONFANTINI, Massimo A; BRAMANTI, Jessica; ZINGALE, Salvatore 2007, Sussidiario di semiotica in dieci lezioni e duecento immagini, Milano, ATì Editore, Collana libriblog GALIMBERTI, Umberto 2004, Le cose dell’amore, Milano, Feltrinelli Editore ZINGALE, Salvatore 2009, Gioco, dialogo, design – una ricerca semiotica, Milano, ATì Editore, Collana psòmega


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