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DESIGN+ RIVISTA DELL’ORDINE DEGLI ARCHITETTI, PIANIFICATORI, PAESAGGISTI E CONSERVATORI DI BOLOGNA

Il centenario della nascita di Ernesto Nathan Rogers Frank O. Gehry compie 80 anni. Il New Acropolis Museum di Atene Il Knut Hamsun Center. Alessandro Mendini, designer e architetto Giuliano Gresleri e l’architettura italiana d’Oltremare

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CONTENUTI

DESIGN +

54 Il nuovo Museo dell’Acropoli A giugno è stato inaugurato il New Acropolis Museum di Atene ideato da Bernard Tschumi

36 Celebrare il Bauhaus Quest’anno si festeggia il 90° anniversario della scuola di architettura Bauhaus

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Carrara, Torart e l’arte del marmo

Nel ricordo di Rogers

Un gruppo di architetti e designer formano un laboratorio d’arte a Carrara, città del marmo

Ricorre quest’anno il centenario della nascita di Ernesto Nathan Rogers

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Artigianato versus Arte

A scuola di sostenibilità

Bertozzi & Casoni realizzano opere d’arte in ceramica indagando la società

La scuola L. Orsini di Imola è un valido esempio d’impiantistica sostenibile

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Bologna premia il verde

Una finestra sull’Europa

In occasione della fiera ExpoGreen si è tenuto il concorso “Giardini in Corso”

Santiago Calatrava ha firmato la nuova stazione di Liegi, capoluogo della Vallonia



CONTENUTI

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Una casa per Knut Hamsun

Il creatore dei sogni

Il Knut Hamsun Center è un edificio progettato da Steven Holl nel 1994

Frank O. Gehry, maestro del Decostruttivismo compie 80 anni

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Materiali compositi

Asmara a Bologna Gresleri e Massaretti firmano un’utile guida dedicata agli edifici italiani d’oltremare

Acciaio, vetro, cemento armato, materie plastiche e le loro prestazioni

83 Anteprima Numerosi sono gli appuntamenti in tutta Italia dedicati all’arte e all’architettura

64 Il tempio della danza

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Il Nuovo Palazzo della Danza di San Pietroburgo progettato da UnStudio sarà in grado di ospitare più di mille spettatori

Progettare oltre confine Una mosra itinerante dedicata ad architetti e ingegneri emiliano romagnoli nel mondo

DESIGN + Iscritta con l’autorizzazione del Tribunale di Bologna al numero 7947 del 17 aprile 2009 Direttore Editoriale Alessandro Marata

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Direttore Responsabile Maurizio Costanzo Caporedattore Iole Costanzo

Mario Bellini

Coordinamento di Redazione Cristiana Zappoli

Più volte premiato con il Compasso d’Oro, è presente al MoMa di New York

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Art Director Laura Lebro Responsabili Marketing Francesco Toschi, Mario Pompilio Redazione Emiliano Barbieri, Nullo Bellodi, Federica Benatti, Silvia Di Persio, Manuela Garbarino, Antonio Gentili, Piergiorgio Giannelli, Giulia Manfredini, Stefano Pantaleoni, Luca Parmeggiani, Alberto Piancastelli, Duccio Pierazzi, Claudia Rossi, Clorinda Tafuri, Valeria Tancredi, Luciano Tellarini, Gianfranco Virardi, Gabriele Zanarini, Marco Zappia Stampa Cantelli Rotoweb - Castel Maggiore (Bo) - www.cantelli.net

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EDITORIALE

L’OPERA DI ARCHITETTURA NELL’EPOCA DELLA SUA RIPRODUCIBILITÀ DIGITALE … la riproducibilità tecnica delle opere modifica il rapporto delle masse con l’arte… (Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. 1936)

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l genere umano sta attualmente vivendo, da protagonista, in modo attivo, la terza delle grandi rivoluzioni che hanno sconvolto e modificato, con grande velocità, il mondo, dal punto di vista della qualità della vita, del benessere e del lavoro. Ciascuna di queste tre rivoluzioni ha fortemente influenzato l’architettura e lo sviluppo della città. Questo sintetico schema è stato elaborato da William J. Mitchell, ex preside del MIT nel suo famoso, almeno per gli architetti, saggio intitolato Digital Design Media. Prima di lui, un altro guru della comunicazione, Nicholas Negroponte aveva tracciato il quadro teorico entro il quale si sono poi delineate varie costruzioni intellettuali sulle modalità di modificazione della percezione architettonica del mondo contemporaneo. Dopo di loro il sociologo Marc Augé, inventore dei non luoghi, ed il filosofo Paul Virilio ideatore della dromologia come percezione dinamica del mondo attuale, hanno dato preziosi ed originali contributi allo studio ed alla comprensione dello spazio e della cultura architettonica contemporanea. La prima delle rivoluzioni indicata da Mitchell fu quella agricola dell’era neolitica: con lo sviluppo della produzione sistematica delle risorse alimentari, le popolazioni, prima dedite solamente alla caccia, cominciarono a raggrupparsi in paesi e città. In quel momento nasceva l’architettura intesa come l’intendiamo oggi: lo spazio urbano e di relazione. Questa, naturalmente, fu una rivoluzione lenta e progressiva. La rivoluzione successiva, quella industriale del diciannovesimo secolo, molto più veloce, sviluppò un’economia basata sull’energia. Come questa rivoluzione abbia sconvolto in bene ed in male le città ed il mondo delle costruzioni è evidente. Con questa rivoluzione si può dire che nasce la figura dell’architetto professionista così come la intendiamo oggi: rapporti contrattuali, regole professionali precise, attribuzione di responsabilità professionali. La terza delle grandi rivoluzioni, e arriviamo ai giorni nostri, è quella digitale. Ebbe inizio dopo la seconda guerra mondiale, prendendo il via dagli studi di grandi teorici quali Alan Turing e John Von Neumann. Per usare le parole di Mitchell: “Questa rivoluzione si è diffusa in tutto il

mondo nell’arco di pochi decenni: è stata di un ordine di grandezza più veloce di quella industriale e di due ordini di grandezza più veloce di quella agricola”. Così come, durante la rivoluzione industriale, l’energia meccanica delle macchine aveva sostituito quella muscolare dell’uomo, la rivoluzione digitale sta sostituendo la forza del cervello umano. Quindi, ripercorrendo la storia dal neolitico: agricoltura/energia muscolare /nasce l’architettura; industria/energia meccanica/nasce l’architetto come professionista; chip di silicio/energia digitale/comunicazione/si evolve la figura dell’architetto, oltre che come progettista, anche e soprattutto come operatore della conoscenza. Si parla di rivoluzione, e non di evoluzione, per i tempi, come già detto, molto rapidi dei cambiamenti. Il mondo dell’architettura, disciplina scientifica ed umanistica allo stesso tempo, attività del fare, del pensare, del creare, del comunicare è sicuramente tra quelli che maggiormente risentono degli effetti di questa rivoluzione. Effetti positivi, ma con, anche, conseguenze negative. Gli effetti positivi si palesano con evidenza nel mondo della rappresentazione. Con grande facilità, attraverso le tecniche digitali, si possono rendere comprensibili le architetture anche ai non addetti ai lavori. Si possono rendere credibili, nel senso di reali, architetture del tutto improbabili. Come nel cinema si possono far recitare attori che non esistono in luoghi ricreati in set reali o digitali, nelle riviste si può vedere di tutto e, dato che non è più possibile distinguere un rendering da una fotografia, non siamo più in grado di riconoscere il mondo reale da quello immaginato dagli architetti. Con il risultato che tutte le cose diventano credibili e, dopo un po’, mediante la proliferazione mediatica delle immagini sulla carta stampata, iniziano ad essere reali, a vivere, ad essere scontate e a fare parte del nostro immaginario collettivo. In questo modo può paradossalmente accadere che un’opera di architettura, un edificio, diventi vecchia ed obsoleta prima di essere realmente costruita. Il paradosso diventa ancora più singolare se si immagina che la stessa opera di architettura potrà essere demolita ancor prima di essere costruita. Se si tratti di follia formale, scarso comportamento etico, malafede commerciale o altro è materia di valutazione personale, ma, in ogni caso, che risparmio in termini di manutenzione! Alessandro Marata

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PENSIERI.GLOBALI

Massimo Gallione

«Tutela del paesaggio, sicurezza, contenimento dei consumi energetici, utilizzo di materiali a basso impatto ambientale. Questi gli obiettivi del CNAPPC» L

L’architettura di qualità, intesa come qualità non solo abitativa ma anche ambientale e pertanto urbana, dovrebbe essere un diritto del cittadino. Perché in Italia si legittimano strumenti come i condoni degli abusi edilizi?

La risposta dovrebbe essere data principalmente dalla politica, ma in generale si può ritenere che nel nostro Paese, al contrario di molte altre positive esperienze europee, il rispetto dell’art. 9 della Costituzione circa la tutela del paesaggio sia stato culturalmente assente dai programmi politici, economici e industriali per molti decenni nel dopoguerra. Anche per la nostra categoria però è necessaria una riflessione etica su questo tema. Il CNAPPC ha già evidenziato pubblicamente la propria contrarietà sia allo strumento del condono, che alla pratica della poca o nulla attenzione alle regole urbanistico - edilizie, molto diffusa in ampie aree del nostro territorio.

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La crisi mondiale è frutto di un’economia fondata sugli sprechi e le speculazioni. Quali suggerimenti ha il CNAPPC per affrontare il problema in Italia? Ricordiamo che a Trevi, la Terza edizione della Biennale Diffusa, ha aperto, giovedì 24 settembre con il tema: l’architettura come risposta alla crisi.

Il riferimento non può che continuare ad essere quello europeo; in molte altre realtà continentali un armonico sviluppo del paesaggio e una architettura di qualità non sono solo diritti già acquisiti dai cittadini, ma si sono, da molti anni, dimostrati come un eccezionale motore dell’economia e non solo in tempi di crisi. Credo che invece nel nostro paese l’industria edilizia si sia basata negli ultimi cinquant’anni sullo schema del cosiddetto palazzo a “condominio” con scheletro in CA e tamponamenti in laterocemento leggero; uscire da questo schema, adatto prevalentemente ad un uso cementificatorio o peggio legato ad ampi fenomeni di speculazione a basso costo ed alti ricavi, è stato quasi impossibile. Si tenga presente che questo stato di cose, oltre ad offendere il paesaggio, ci ha posto in fondo alla graduatoria della competitività qualitativa europea e ha causato una profonda incapacità generale di progettare lo sviluppo urbano secondo altre tipologie più adeguate.

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L’Abruzzo ha evidenziato tutta una serie di problematiche inquietanti. Il CNAPPC riuscirà nel tempo a farsi promotore di un cambiamento fondamentale: la sicurezza dei nostri edifici?

La tutela attiva del paesaggio, la sicurezza dell’abitare, il contenimento dei consumi energetici, l’utilizzo di tipologie costruttive e di materiali a basso impatto ambientale, legati ad un netto incremento della qualità della progettazione e della realizzazione, devono essere il primo impegno etico del CNAPPC e degli Ordini locali per i prossimi anni. La promozione e l’applicazione concreta di questi principi deve essere attuata a 360 gradi e quindi deve essere rivolta sia ai nostri iscritti, sia alla politica, sia alle imprese di costruzione, sia all’industria edilizia. Occorre, a questo proposito, chiedere un impegno particolare anche alle nostre università, affinché anche l’Accademia sia in prima linea su questi temi.

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Quanto l’atteggiamento perpetrato dal Governo, giustificato dall’emergenza di assegnare gli appalti pubblici abruzzesi attraverso l’appalto integrato su progetto preliminare, rafforzerà il sistema clientelare e la scarsa qualità architettonica?

Esistono, storicamente, nel nostro Paese esempi sia positivi che negativi nell’affrontare l’emergenza del dopo terremoto; peraltro la tipologia della procedura dell’appalto integrato trova una sua possibile applicazione proprio in casi di emergenza, così come insegna l’esperienza europea. Al contrario l’appalto integrato risulta assolutamente inadeguato nella normalità di quasi tutte le altre casistiche di appalto pubblico.

Massimo Gallione, 58 anni, è il nuovo presidente del CNAPPC, il Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori. Ha svolto la professione di architetto a Novara nel campo dei lavori pubblici e in quello privato, principalmente nel settore dell'architettura civile e industriale. È stato per tre mandati, Presidente dell'Ordine degli Architetti della Provincia di Novara e, per un mandato, Presidente della Federazione degli Ordini degli Architetti del Piemonte e della Valle d'Aosta.

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I criteri di classificazione delle zone a rischio sismico sono state più volte ritoccate, compresi quelli dell’Aquila. Le conseguenze sono evidenti. Esiste un terreno di incontro con il mondo dei costruttori?

Le esigenze dell’interesse e della incolumità pubblica impongono non solo momenti di incontro, ma norme applicative cogenti adeguate. Il tema della sicurezza sismica delle costruzioni, oltre ad una sua rilevantissima dimensione economica, sconta ancora una certa insufficienza di normativa a riguardo del patrimonio architettonico e artistico; su questo sarebbe bene che la ricerca e gli organismi tecnici preposti avanzassero proposte di modelli più concreti ed efficaci.

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L’annunciata nuova legge sulla qualità architettonica, che sarà dedicata alla memoria del Presidente del CNAPPC Raffaele Sirica, cosa promulgherà principalmente?

Con qualche implementazione il testo presentato potrebbe essere fondamentale per l’applicazione di molti dei principi sin qui elencati. Oltre ad una svolta normativa, ci aspettiamo che essa possa contribuire anche ad una svolta culturale in materia avvicinandoci così ai migliori modelli europei.

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Come pensa possa essere incentivata una maggiore sensibilità verso l’ecocompatibilità, la qualità progettuale e la progettazione antisismica?

Questo tema non può essere considerato solo soggetto a una possibile migliore normativa statale o regionale; è fondamentale un diverso approccio etico innanzitutto da parte della nostra professione. Se gli architetti italiani vogliono tornare a essere classe dirigente del paese, se vogliono non solo essere complementari ad altre professioni similari, devono assumersi la responsabilità etica di nuovi modelli di ricerca di nuovi mercati e nuovi rapporti più trasparenti con i cittadini (clienti – consumatori). Con l’insieme delle proposte anticrisi, le nuove norme di deontologia, i protocolli prestazionali, il CNAPPC e gli Ordini si stanno dotano di molti nuovi strumenti adeguati a questi scopi.

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È auspicabile una riforma che produca oltre a una semplificazione delle procedure della committenza pubblica, una trasparenza delle procedure stesse?

Non solo semplificazione delle procedure, assurdamente burocratizzate, ma una reale e maggiore concorrenza qualitativa sono alla base delle nostre proposte avanzate sia al Ministero delle infrastrutture che all’ANCI. La Direttiva CEE 18/2004 è una delle migliori possibili in questa materia, ma in Italia il Codice non ne ha recepito gli standard qualitativi, trasformando la nostra legge in un esempio legislativo non certo qualificante sia dal punto di vista della qualità, che della semplificazione; inoltre la programmazione dei LLPP, fonte di risparmi consistenti di tempo e denaro, nonché promotrice di migliore qualità degli appalti e dei rapporti tra la politica e i cittadini, non solo non viene quasi mai applicata, ma spesso viene vista come un ostacolo dalla pubblica amministrazione.

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Il Piano Casa e le sue contraddizioni. Cosa ne pensa?

Le diverse proposte sin qui avanzate su questo tema, sia dallo Stato che dalle Regioni, spesso sono inefficaci per due sostanziali motivi. Il primo è dovuto alla infelice riforma della Costituzione del 2001 che crea troppo di frequente attriti tra diversi istituti pubblici a causa della sua intrinseca indeterminatezza. Il secondo è che il vero problema delle città italiane è quasi sempre dovuto al caotico sviluppo urbano del dopoguerra che ha creato 60 milioni di vani in edifici di quasi impossibile manutenzione, inadeguati alla norma sismica, privi di qualsiasi capacità di contenimento dei consumi energetici e inoltre quasi sempre privi di una minima dignità architettonica: un vero piano casa dovrebbe, a nostro avviso, affrontare quindi il tema della “rottamazione delle periferie urbane”. Le nostre proposte al riguardo prevedono una riforma del piano casa in questo senso e cioè di un piano pluridecennale economicamente incentivante e che affronti i temi prima identificati. Questi sono i veri nuovi mercati verso i quali la nostra categoria eticamente, scientificamente e professionalmente deve rapidamente attrezzarsi.

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La pianificazione del territorio e il fallimento delle periferie italiane e la crisi del linguaggio urbanistico. In un momento così difficile per la pianificazione, quali sono le premesse per il futuro?

Oltre al tema del piano casa, già accennato, vi è un altro nostro problema; l’Italia per due millenni è stata maestra di architettura e di urbanistica nel mondo, negli ultimi cinquant’anni siamo invece la cenerentola. Manca una vera nuova “Scuola” architettonica e sia gli Ordini che l’Accademia sino ad oggi non se ne sono più occupati: è ora di cambiare registro. L’Italia, la nostra storia, si meritano architetti non solo di nome, ma anche di fatto. Etica professionale, dignità e fierezza del nostro mestiere devono tornare ad essere le nostre priorità.

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Quali nuove idee, suggerimenti e progetti pensa di proporre nei prossimi anni in qualità di Presidente del Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori?

Non voglio riassumere quanto sin qui detto; mi preme aggiungere solo che, al nostro interno, solo una grande e convinta unità di intenti ci farà superare questo momento di crisi. Sono convinto che ne saremo capaci e che saremo all’altezza di queste sfide. (di Iole Costanzo)

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PENSIERI.GLOBALI

Achille Bonito Oliva

«Il valore dell’arte è la comunicazione. Occorre creare degli spazi adatti per l’arte contemporanea ma esteticamente capaci di richiamare pubblico»

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Nell’arte quale ruolo occupa oggi la città?

Esiste un’arte urbana i cui esempi si possono riscontrare nel corso di tutto il XX secolo in alcuni movimenti di avanguardia. Il futurismo sviluppa un’idea di arte urbana perché mette al centro dei propri interessi la macchina, la velocità. Dunque, fiducia nel futuro e nello sviluppo della tecnica grazie all’idea che la tecnica è una protesi che può riscattare l’uomo dalla fatica e produrre in qualche modo degli effetti al limite dell’euforia e della felicità.

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Arte urbana è però anche quella dadaista.

Duchamp prende un oggetto bello e fatto, lo sposta dal luogo naturale della sua funzione e lo propone come oggetto di contemplazione estetica: la ruota di bicicletta, l’orinatoio che intitola “Fontana”. L’oggetto quotidiano prodotto dall’industria, l’oggetto che non viene elaborato dall’artista ma viene indicato e scelto tra gli oggetti prodotti può essere un’opera d’arte proprio in virtù del gesto che l’artista compie di selezione e di spostamento in un luogo come la galleria o il museo.

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Nel tempo gli spazi museali destinati all’arte contemporanea hanno subito e al contempo assunto molti cambiamenti. Quali sono le ragioni di questa trasformazione?

L’arte contemporanea costringe anche l’architettura ad adeguarsi. Nasce così l’idea secondo cui occorre creare degli spazi adatti, funzionali per l’arte contemporanea ma anche esteticamente capaci di richiamare il pubblico. Un esempio tipico è il Guggenheim Museum, che viene realizzato in una città moderna per eccellenza come New York con una forma assolutamente accattivante, nuova, inedita, ovoidale proprio per uscire fuori dallo spazio tradizionale ottocentesco di museo.

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Quanto è difficile per uno spazio espositivo non scadere nella creazione di eventi sterili che finiscono poi per offuscare le opere esposte?

I musei sono oramai un “mostrificio”, dove per mostre intendiamo non solo gli oggetti esposti ma anche gli atti performativi capaci di intrattenere lo spettatore. Il valore centrale che muove il sistema dell’arte è la comunicazione, un valore che permea però non solo l’arte ma anche il sistema della moda. Dunque, ciò che è importante è l’efficacia dell’intrattenimento e l’estetizzazione del quotidiano, che parte dal museo e si irradia in tutta la città.

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Smaterializzazione dell’opera, velocità di comunicazione, sguardo fugace. Quanto questi elementi spingono lo spettatore a essere sempre più provvisorio e casuale?

Non esiste più stabilità per lo sguardo, esiste una precarietà che viene anche utilizzata dall’autore della performance o dell’opera. C’è una smaterializzazione dell’opera che arriva fino al silenzio di Duchamp, a quello di Cage, che si spinge fino allo spazio smaterializzato di Klein.

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L’arte digitale. A questo proposito ha più volte impiegato termini come assottigliamento e anoressia. Perché?

L’arte digitale mette a disposizione di tutti l’uso di tecniche riproduttive. Senza dimenticare il fatto che questa facilità tende a moltiplicare anche l’immagine, a codificare la sensibilità del produttore e del consumatore. È una anoressia che porta sempre di più a superare il valore dell’unicum e a giocare invece non più sull’artisticità ma sulla esteticità della forma.

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In Italia gli sprechi non mancano. Quale sarebbe una corretta politica di gestione per evitare che si trasformino in luoghi dimenticati?

Occorre rifunzionalizzare i grandi spazi del passato di cui l’Italia è piena. È dal Settanta che realizzo mostre in contenitori che appartengono alla storia dell’arte, in grandi e piccoli centri. L’ho fatto a Roma con le Mura Aureliane, ho utilizzato anche luoghi decentrati come Montepulciano, Acireale, Erice. È un modo per rifunzionalizzare e rivitalizzare gli spazi e al contempo evitare sprechi di nuove costruzioni inutili. (di Alessio Aymone)

È uno dei più noti critici d’arte italiani. Nato a Caggiano (Salerno) nel 1939 ha scritto saggi sul Manierismo, le Avanguardie storiche e le Neoavanguardie. È fondatore del movimento artistico Transavanguardia. Ha rivoluzionato stile e funzione della critica d'arte. Attualmente vive a Roma, dove insegna Storia dell'Arte Contemporanea presso l'Università "La Sapienza". Ha curato mostre tematiche e interdisciplinari sia in Italia che all'estero. È stato insignito di numerosi premi e riconoscimenti, tra cui nel 1991 il Valentino d'Oro, premio internazionale per la critica d'arte.

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Franco La Cecla

«L’architettura perde la sua concretezza volumetrica. Il packaging diventa più importante del prodotto. Non si considera più la città nella sua complessità» L

Da cosa nasce il suo libro “Contro l’architettura”?

L’architettura è di moda, se ne parla sui giornali, in televisione e per radio molto di più rispetto a qualche anno fa. Eppure mai come adesso è lontana dall’interesse pubblico, anzi, spesso incide in maniera negativa sulla vita delle persone. La colpa è delle cosiddette archistar: i grandi nomi dell’architettura per i quali il lavoro è diventato un gioco autoreferenziale, incentrato sulla firma. Tutto ruota intorno alla genialità del singolo architetto, considerata alla stregua di qualunque brand del mercato della moda. Le archistar sono artisti al servizio di chi ha il potere. Stabiliscono il trend e il loro scopo è quello di stupire per attirare l’attenzione del grande pubblico. Non fanno moda, diventano loro stessi moda, brand, logo. Il che gli dà la garanzia di poter firmare un pezzo di città esattamente come si firma una maglietta.

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Se l’architettura griffata modifica l’anima stessa della città, com’è la qualità della vita dei cittadini di queste città brand?

L’architettura influenza enormemente le condizioni dell’abitare le città. Le archistar, però, si rifugiano dietro la scusa della portata artistica dei loro lavori per non assumersi responsabilità. Il loro alibi negli ultimi vent’anni è quello che loro non si occupano di combattere le ingiustizie, questo lo devono fare i politici. I politici devono affrontare le emergenze in cui viviamo. Gli architetti invece si occupano di abbellimento formale, di cose carine e di decoro. Tutto questo implica anche che l’involucro, la forma, diventa più importante della sostanza. L’architettura perde la sua concretezza volumetrica, il packaging diventa più importante del prodotto. I loro sono progetti d’intervento compiuti, il più delle volte, in maniera inadeguata e superficiale. Basati sulla convinzione che sia sufficiente puntare su pure valenze iconiche, senza considerare la città nella sua complessità.

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Già Guy Debord, affronta la tematica della trasformazione dei lavoratori in consumatori. Non crede allora che più che l’architettura debba cambiare la società e il mercato?

Non credo sia necessario aspettare la rivoluzione per migliorare le cose. La professione dell’architetto non è una professione innocente, non si può fingere il contrario. Sarebbe come dire che se i medici si comportano male con i malati, allora bisogna cambiare la società. Invece è una cosa che si può risolvere: se i medici sono incapaci di gestire il rapporto con i pazienti, allora bisogna cambiare i medici. Per gli architetti vale la stessa cosa.

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Periferia e città. I problemi che oggi viviamo non sono causa dell’inadeguatezza urbanistica?

Le periferie in realtà non devono esserci. Sono state create per una precisa scelta. Storicamente il circondario non era una posto brutto da vivere: Borges, per esempio, ha parlato molto dei borghi intorno a Buenos Aires. Le periferie nascono a causa di una precisa idea degli architetti. Così sono nati i grands ensembles in Francia o i quartieri satellite di case popolari. La periferia è un’invenzione. Gli architetti hanno avuto un ruolo fondamentale dagli anni Cinquanta fino alla fine degli anni Ottanta nel diffondere l’idea che le periferie potessero risolvere i problemi dell’abitare, realizzando grandi costruzioni condominiali concentrate in aree vuote della città. C’è un collegamento tra il modo in cui le periferie sono costruite e la bassa qualità della vita sociale che offrono. I progettisti fanno orecchie da mercante e danno la colpa alla politica.

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Con la crisi economica che imperversa, cosa crede possa succedere alle archistar?

Non lo so. So che la crisi tocca moltissimo gli studi di architettura, anche i più grandi. Sicuramente porterà alla morte di parecchi piccoli studi. Non credo, però, che la crisi in sé porterà a una maggiore qualità. A meno che non si tratti anche di una crisi di risorse e costringa a realizzare i progetti con materiali sostenibili. Allora porterebbe con sé aspetti positivi. (di Cristiana Zappoli)

Ha insegnato Antropologia Culturale alle Università di Venezia, Verona e Palermo. È docente all’Università Vita e Salute San Raffaele di Milano e al Politecnico di Barcellona. È stato professore invitato all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi e consulente antropologo per il Comune di Barcellona e per Renzo Piano Building Workshop. Ha fondato A.S.I.A. Architecture Social Impact Assessment, un’agenzia per valutare l’impatto sociale delle opere di architettura. Ha pubblicato per Mondadori, Laterza e altri.

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E G N A L I Scultura “Petrolio” di Filippo Tincolini, esposta alla Biennale di Carrara nel 2008. Un insieme di barili di petrolio in marmo realizzati a grandezza naturale

CARRARA, TORART E L’ARTE DEL MARMO Ad accomunare i diversi tipi di marmo presenti in natura è la particolare capacità materica di riflettere la luce e di restituirla, sulla base delle impurità presenti, nelle diverse realizzazioni cromatiche. È grazie alle suggestioni estetiche delle diverse sfumature così come alle proprietà strutturali di durezza e compattezza che da secoli il mar-

mo viene utilizzato per pavimentazioni e rivestimenti di interni, in realizzazioni monumentali o luoghi di culto oltre che per spazi privati. Sarà però il marmo bianco di Carrara, quello prediletto da Michelangelo Buonarroti per via della particolare luminosità, ad affermarsi nella scultura a partire dall’epoca rinascimentale. È questa va-

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ART.TECHNOLOGY

Dall’alto: digitalizzazione dei barili, dell’opera “Petrolio”, con scanner 3D. Ottenuta l'immagine su computer segue il posizionamento del blocco di marmo sulla base del robot antropomorfo e successivamente la lavorazione. In alto a destra: “Trash and bottle” 2009, marmo bianco di Carrara, opera di Filippo Tincolini

rietà di marmo pregiata ed estratta, nel cuore delle Alpi Apuane fin dalla preistoria, che continua ad affascinare artisti e architetti contemporanei. Oggi, il rapporto secolare tra il marmo e i settori artistico e architettonico viene riconfigurato da nuove condizioni di lavorazione che, sottraendo l’attività dai tradizionali limiti, ha consentito l’emersione di una flessibilità inedita, capace da una parte di consolidare gli utilizzi più classici, dall’altra di moltiplicare gli spazi creativi e stabilire possibilità dialogiche con realtà come il design e l'arte contemporanea. Promotore di questo cambiamento è TorArt, l’unico laboratorio d'arte contemporanea situato nel bacino marmifero di Carrara, nella cava nota come “Fantiscritti”, e laboratorio di arte, architettura, design e restauro. È in questo ambiente ricco di storia che TorArt, senza mai abbandonare le tecniche di lavorazione tradizionali, utilizza tecnologie all’avanguardia come scanner 3D, robot antropomorfi e software CAD/CAM, in grado di influenzare e plasmare i materiali marmorei e granitici. Esempio delle nuove convergenze di cui TorArt, con la propria selezione di artisti, architetti e designer di fama internazionale quali Denis Santachiara, Emmanuel Babled, Zaha Hadid, Amanda Levete, Barber Osgerby, Satyendra Pakhalé e molti altri, si fa promotore della scultura Petrolio di Filippo Tincolini in mostra alla Biennale di Carrara del 2008. L’opera è composta da un insieme di barili di petrolio a grandezza naturale realizzati serialmente in marmo di Carrara. Per raggiungere il risultato finale di questa composizione che sfuma dalla leggerezza dell'ironia critica dell’artista alle incongruenze dell’attualità. La realizzazione è partita dall’oggetto reale, da veri e propri barili esauriti che lo scultore ha rimaneggiato e deformato per accentuarne l’effetto di già utilizzato e vissuto. A questa fase preparatoria è seguita la digitalizzazione dei barili attraverso una scansione punto per punto realizzata con lo scanner 3D, strumento che permette la digitalizzazione tridimensionale di qualsiasi oggetto o forma vivente, come nel caso della scannerizzazione di un guru per la realizzazione della sua statua marmorea. Una volta ottenuta l'immagine su com-

puter il marmo è stato lavorato dal robot antropomorfo che simulando la funzionalità del braccio umano con in più la precisione e la forza di applicazione della macchina è in grado di lavorare il materiale in modo tale da annullare ogni scarto tra arte e realtà. È così allora che, oltre al settore artistico, la precisione e la rapidità di realizzazione garantite da questi strumenti, accanto alla possibilità di replicare un oggetto all’infinito, divengono punto di partenza per un nuovo utilizzo del marmo anche nel campo del design, con la creazione di tavoli, panche e sedute oggi scolpite prevalentemente in uno stile organico per suggestione e approccio, ma potenzialmente realizzabili in ogni stile. Organico è il tavolo Animable realizzato dall’artista Emiliano Moretti come pezzo unico ricavato da un singolo blocco di marmo di nove tonnellate, scavato invece a mano. Animable insegue il movimento e cerca di “divenire”, cioè di vivere una propria vita non solo da oggetto ma anche da opera attraverso la fusione di scultura tradizionale e design. E se le nuove possibilità vengono esplorate, ciò che è già storico, il patrimoniale, viene consolidato e conservato. Anche la riproduzione del classico e gli interventi di restauro vengono infatti potenziati dall’utilizzo dei nuovi strumenti. È in particolare il software CAD/CAM che insieme allo scanner 3D permette di riprodurre nei minimi dettagli gli oggetti reali in forma digitale, permettendo così la catalogazione, il restauro e la riproduzione di opere scultoree classiche. È il caso della Danza delle tre grazie del Canova, riprodotta da TorArt per la copertina in marmo del libro donato dall’Italia ai grandi del G8, di cui lo stesso autore si stupirebbe. (di Silvia Di Persio)


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Pavimento in seminato alla veneziana classico


ART.PERFORMANCE

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A destra: “Gorilla con libri”. Opera che vede un gorilla comodamente seduto su una pila di vecchie valigie, intento alla lettura di “L’Origine delle Specie” di Darwin. A fianco: Intervallo 2008. Opera della serie intitolata “Sparecchiature - Avanzi”

A sinistra: Vassoio con i resti dei gusci d’uovo, opera appartenete alla serie i “Vassoi”. La diversa pigmentazione è capace di segnalare anche in questi scarti i segni della bellezza

ARTIGIANATO VERSUS ARTE

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Dalla maiolica alla ceramica. Dal virtuosismo al surrealismo. Bertozzi & Casoni indagano la società e ne irridono i costumi. Le loro sculture sono diventate icone della condizione egocentrica e fagocitatrice dell’uomo e del suo disfacimento

issacrare e criticare le vanità del mondo contemporaneo attraverso un materiale che per secoli ha cullato le innocenti illusioni naif di un piccolo mondo perfetto nella sua semplicità, tra damine con il cagnolino, pastorelli spensierati e nature morte? Oppure venire meno al principio dominante di sobria eleganza e al legame con la tradizione che altrettanto bene identificano l’arte della ceramica? In entrambi i casi la risposta è assolutamente sì, se parliamo delle realizzazioni in ceramica policroma di Ber-

tozzi&Casoni, società a nome collettivo fondata dai due artisti decoratori romagnoli Giampaolo Bertozzi e Stefano Dal Monte Casoni i quali, pur nella riproduzione di schemi compositivi analoghi ai più classici oggetti decorativi in maiolica, attraverso le proprie opere affermano di realizzazione in realizzazione un’estetica della ceramica del tutto innovativa. Perché ognuno degli oggetti realizzati dal gruppo è un microcosmo trash del presente arricchito di volta in volta da elementi simbolici. Stoviglie e graziosi piatti sporchi malamente impilati e me-

scolati a scarti alimentari tra i quali emergono diversi elementi dissonanti, simbolo dell’universo sociale quotidiano come giornali, scontrini o scarponi, costituiscono ognuna delle composizioni "vassoi" della serie “avanzi”. Una scatola di detersivo Brillo, citazione dell’iconografia consumistica warholiana, è riempita di rifiuti nell’opera Brillo box. Il pannello Cassettiera, composto di tante cassette del pronto soccorso dai cui sportelli semiaperti è possibile intravedere la presenza di teschi, elementi demoniaci, divinità, maschere di volti noti della ciDESIGN + 31


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ART.PERFORMANCE viltà umana ma anche immagini o realizzazioni plastiche di parti anatomiche, così come pennelli e braccia elevate ai diversi saluti politici nella storia. Degrado, scarti, rifiuti e ironica dissacrazione della civiltà. La studiata perizia iperrealista dei dettagli cromatici e formali degli oggetti realizzati dal gruppo è tipica di un’arte ceramica policroma più tradizionale, ma la realtà riprodotta è quella normalmente al di fuori di qualsiasi assemblaggio canonico in quanto realtà di scarto, appunto. «Anche se la ceramica ha nelle sue caratteristiche materiche e anche nella sua storia una elevatissima potenzialità mimetica, precisano gli stessi Bertozzi e Dal Monte Casoni confrontandosi sulle peculiarità della propria arte - è la necessità di costruire un linguaggio che arrivi con chiarezza senza compromessi allo spettatore che ci ha condotto a questo realismo nella raffigurazione delle nostre opere». Nel complesso è proprio la volontà di piegare il mezzo tradizionale alla rivisitazione ironica realizzata per mezzo di una imagerie del nostro tempo, che nel 1979 Bertozzi e Dal Monte Casoni fondano una collaborazione artistica denominata

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Sopra: “Brillo box”, opera che riprende dalla Pop Art un’icona culturale e la colma di rifiuti. Sotto: un’opera della serie “Vassoi”, avanzi di tavole da pranzo, con pile di piatti da lavare e resti di cibi. Nella pagina accanto: “Cassettiera, Composizione n. 13”, cassette pronto soccorso con alveare. Sopra: particolare floreale del vassoio con testa di cervo

“arte del già nato”, diventata poi nel 1980 la società in nome collettivo Bertozzi&Casoni e destinata ad affermare negli anni con successo i propri presupposti. Punto di partenza del percorso imprenditoriale è Imola, mentre è Faenza, nota per la sua secolare tradizione di arte ceramica e sede del Museo internazionale delle ceramiche, il luogo di formazione artistica. «La scelta della ceramica come materiale privilegiato è stata una casualità», affermano i due artisti. «Nessuno di noi aveva scelto la Scuola d’arte per la ceramica di Faenza per la specificità ceramica ma bensì perché era per noi una scuola d’arte che portava all’idea di preparare al mestiere dell’artista al quale da sempre aspiravamo. Comunque, avendo avuto questa preparazione e avendo necessità di iniziare a lavorare in qualche modo, è stato molto pratico continuare con questo materiale avendo comunque coscienza di quello che significava e cioè una forte discriminazione nel campo della cultura in particolare di quegli anni, dove una forte specializzazione tecnica portava a considerare un impoverimento concettuale». Fin dai primi anni di attività, la tensione veniva quindi indirizzata verso una nuova ceramica che oltre a mostrare la sapienza del manufatto realizzato a regola d’arte fosse anche


Mendini. In questo percorso di crescita anche il materiale diviene oggetto di riflessione con la scelta di arricchire la ceramica di nuove suggestioni materiche attraverso l’inserimento di altri materiali ceramici o di altri impasti e smalti, al fine di potenziarne le già spiccate capacità mimetiche. «Nelle opere Riflessione sulla morte e Scheletro con tagliaerba precisano -, gli scheletri sono in argento. In questo ultimo periodo invece stiamo progettando e realizzando un’opera in marmo». Ciò che permane però, al di là delle diverse sperimentazioni materiche, è il filo conduttore del linguaggio ricreato, veicolo di un messaggio critico e ironico che con lo humour catastrofico che contraddistingue ognuno dei diversi

in grado di offrire una ricchezza di pensiero. «Sin dalle prime battute la nostra ricerca era tesa all’arte o almeno quella era la nostra tensione principale. Chiaramente il nostro intento fin dall’inizio fu quello di strutturarci per produrre e questo ci portò molto giovani ad acquisire un capannone industriale e a corredarlo di tutto quello che serviva per produrre, forni ecc… ». È in questo modo che dopo aver lavorato per diversi anni al di fuori e ai margini del sistema dell’arte e attraverso dei diversi momenti espositivi degli anni ’80 come “Il Lavoro felice”, “Faenza ‘82. Il primato dell’artista” e “La nuova ceramica”, Bertozzi e Dal Monte Casoni ottengono il riconoscimento della critica d’arte e del mondo del design, giungendo a produrre opere per artisti noti come Arman e Alessandro

oggetti irride le vanità dell’uomo e il suo prendersi troppo sul serio. Perché è proprio l’ironia dell’intera produzione a ricordare che, lo si voglia o meno, l'universale punto di arrivo è sempre il disfacimento e che, come dimostra beffarda l’opera Gorilla con libri in cui un primate seduto su libri di varia importanza è intento nella lettura dell’Origine delle Specie di Darwin, nonostante i bagagli culturali e la presunzione di superiorità dell’uomo, la vera natura resta sempre quella animale. Del resto gli stessi Bertozzi e Dal Monte Casoni sono i primi a non prendersi troppo sul serio giungendo a stabilire una distanza ironica nei confronti del loro stesso prodotto artistico e del lavoro di arricchimento concettuale che lo eleva da manufatto artigianale a oggetto d’arte.

IL LAVORO DI BERTOZZI & CASONI SI INDIRIZZA VERSO UNA NUOVA CERAMICA CHE OLTRE A MOSTRARSI COME MANUFATTO REALIZZATO A REGOLA D’ARTE È IN GRADO DI OFFRIRE UNA RICCHEZZA DI PENSIERO Ciò è dimostrato dal fatto che la catalogazione di ogni oggetto d'arte e di design realizzato nello studio – laboratorio della società sia effettuata con un numero d'inventario e con l’etichetta di "gadget pubblicitario". «Noi pensiamo che un numero d’inventario possa essere un

buon modo per tenere con ordine una produzione che durerà tutta la nostra vita», affermano. «L’arte comunque da sempre è anche un genere merceologico e non crediamo che ci sia da vergognarsene. La vendita è secondo noi anche il primo giudizio critico su un’opera». Insomma, se tutto è vanità anche l'arte lo è quando perde la consapevolezza del proprio legame con ciò che la circonda, quando in qualche modo racconta delle bugie, per citare il titolo della grande opera del gruppo Le bugie dell’arte. Perché, come ribadiscono, «L’artista porta nel suo lavoro la traccia dell’epoca in cui vive, l’uomo ha bisogno di far parte della sua grande storia e l’arte secondo noi ha lo scopo di raccontare questa storia». Con il sorriso dell’ironia e l’accuratezza dell’arte ceramica. (di Silvia Di Persio) DESIGN + 33


CM Legno La cucina, realizzata interamente in listellare rivestito in teak, è posizionata in un ampio salone. La zona lavoro con piano cottura e lavello è nascosta dal tavolo scorrevole; la zona frigo (dispensa e pensili) ha un unica profondità. L’effetto finale è quello di un mobile da soggiorno

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CONTESTI.VERDI

BOLOGNA PREMIA IL VERDE

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Con ExpoGreen il capoluogo emiliano si è fatto interprete delle ultime novità nel settore dell’outdoor. Sei i vincitori del concorso dedicato ai giardini più innovativi

i è chiusa il 13 settembre scorso a Bologna la seconda edizione della rassegna internazionale dell’outdoor “Expogreen”, che ha registrato, nonostante i venti di crisi, un bilancio nettamente positivo. Rispetto alla precedente edizione, il numero complessivo dei visitatori è risultato in crescita (+24%), anche se è calato il numero di quelli esteri (-13%), visitatori che hanno potuto muoversi in una superficie complessiva di 60 mila metri quadrati lordi (+50% rispetto all’edizione precedente), parte dei quali nei padiglioni coperti e parte all’esterno nell’area allestita con prati e giardini. Trecento le aziende espositrici che hanno coperto un ampio range merceologico, da quello delle macchine e delle attrezzature a quello degli arredi, dell’impiantistica sportiva, delle attrezzature per il tempo libero, del vivaismo e dell’agricol-

tura multifunzionale. Un’offerta completa, dunque, che declina il verde in tante sfumature diverse ed è perciò indicata per un pubblico variegato che va dagli operatori professionali, i rivenditori, i gestori di parchi pubblici e di impianti sportivi, agli hobbisti, coloro che hanno un giardino, un terrazzo o una passione sportiva da coltivare. Prati, aiuole, specchi d’acqua e strutture in legno e materiali naturali, ma anche un “biolago” e un angolo di foresta, hanno fatto da sfondo ideale alla manifestazione che, con lungimiranza, punta i riflettori LA QUIETE Il giardino vincitore del 1° Premio del pubblico. Uno spazio nel quale l’occhio riposa, un’impressione generale di calma, non solo bello da vedere ma anche da sentire. Progetto di Colombini e Magnani. Realizzato dalla Società Agricola Colombini Ulisse

su quello che si delinea come un business in crescita dato che è sempre più evidente, agli addetti ai lavori ma anche ai semplici cittadini, lo stretto legame che unisce natura sana e rigogliosa e qualità della vita. “Miracolo” che, come è stato dimostrato nel corso di ExpoGreen, si può realizzare anche in città. Oltre ad essere una manifestazione promozionale, di comunicazione e di business, ExpoGreen è un evento anche culturale, che ha compreso un calendario di convegni e incontri di notevole spessore e una scia di iniziative che si sono riversate anche in città, culminate nella Notte Verde del 12 settembre nel corso della Green Week che ha accompagnato l’evento fieristico. Il “cuore” storico di Bologna è stato al centro di un susseguirsi di appuntamenti con l'arte, la musica, l'intrattenimento e lo shopping per un’intera nottata contraddistinta da un

1° PREMIO DEL PUBBLICO

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CONTESTI.VERDI

1° PREMIO GIURIA STAMPA

NOT ONLY WHITE Il giardino vincitore del 1° Premio Giuria Stampa. Giardino realizzabile anche come soluzione per verde pensile o terrazzo. Progettato dallo “Studio Paesaggistico Roberto Malagoli” e “Studio Paesaggistico Silvia Madama”. Realizzato da “Non Solo Verde sas”

1° PREMIO GIURIA TECNICA

STATI D’ANIMO Quattro punti di vista diversi, tre elementi che dividono il giardino e il resto. Colori dirompenti che si mescolano a forme svariate e il tutto si intreccia con un elemento essenziale: la natura. Progettato dallo “Studio Architettura & Progetto Verde”. Realizzato da Giovanna Ciracì

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particolare allestimento di verde urbano. Tra i convegni più partecipati c’è stato l’High Green Tech Symposium, dedicato alle più avanzate tecnologie per la costruzione del verde che ha evidenziato, tramite gli interventi di prestigiosi relatori quali ad esempio Manfred Koeler presidente del “World Green Roof Infrastructure Network”, come le piante debbano essere considerate una componente fondamentale della progettazione architettonica e urbanistica, nella prospettiva di trasformare ecologicamente le città del futuro. Nel convegno sul tema “Il verde urbano: tradizione e innovazione nella realizzazione e gestione” è stata portata l’esperienza in atto in alcune città italiane e straniere unitamente alla gestione dei mitici giardini giapponesi praticata dai maestri giardinieri al servizio del verde e, nel caso del Giappone, interpreti di una cultura antichissima ed estremamente raffinata. Si è anche ragionato su come ridurre l’impatto delle lavorazioni su parchi e giardini che talvolta danneggiano l’ecosistema. «Le motivazioni che hanno portato a questo tipo di gestione - ha affermato il professor Pietro Piccarolo, dell’Università di Torino - non sono solo economiche, ma vanno ricercate nel fatto che si è preso coscienza che il progressivo impoverimento biologico nelle città, è in parte dovuto a interventi manutentivi errati e, a volte, anche troppo intensivi, che hanno prodotto una


ESSENZA Una scomposizione del giardino in elementi che si distillano secondo l’ordine dello spazio a sua volta scomposto in griglia regolare. Progettato da “Il Campo dei Fiori”. Realizzato da “Parchi e impianti sportivi Megip srl”

sorta di selezione biologica con la scomparsa di determinate specie». Non è inoltre passato inosservato un importante evento collaterale alla manifestazione “Ispirazione Naturale” che si svolge all’interno di ExpoGreen: la terza edizione del Concorso nazionale “Giardini in Corso - ExpoGreen”, al quale hanno partecipato prestigiosi progettisti e designer del verde realizzando fisicamente spazi verdi tematici che hanno suscitato la curiosità e l’ammirazione del pubblico. Quest’originale iniziativa ha previsto che l’intera realizzazione di un vero e proprio giardino di circa 400 mq avvenisse sotto gli occhi del pubblico durante i tre giorni della manifestazione. Quindi, giardinieri più o meno provetti hanno potuto migliorare il loro “pollice verde” tramite l’osservazione diretta di professionisti alle prese con i mezzi e le tecniche per la movimentazione del terreno, la piantumazione di alberi in vegetazione e arbusti, la posa del prato, la sistemazione degli arredi e degli impianti irrigui. I quindici progetti in gara sono stati giudicati da 3 distinte giurie: la prima composta da esperti e professionisti del settore; la seconda da giornalisti delle più importanti testate nazionali di giardinaggio e florovivaismo; la terza giuria è stata rappresentata dal pubblico della manifestazione. Il primo premio della Giuria tecnica è andato al progetto “Stati d’animo”, realizzato dallo Studio “Architettura & Progetto verde” di Quirino De Luca e Giovanna Ciracì e caratterizzato da colori ora dirompenti ora rilassanti che si mescolano alla natura. Il secondo premio è stato aggiudicato dal progetto “Essenza”, realizzato dallo studio “Il Campo dei fiori”, che ha creato un giardino dove acqua, fiori, sedute e spazi erbosi si succedono alla ricerca dell’armonia della regolarità. Terzo premio per il progetto “Moto intimo”, di Margherita Cittadino e Cecilia Rossi che hanno voluto celebrare la bellezza dell’esistenza umana a contatto con la natura realizzando un giardino ispirato alla vita nelle sue forme e nei suoi misteri, un “moto intimo” e impercettibile che spinge all’evolu-

2° PREMIO GIURIA TECNICA

3° PREMIO GIURIA TECNICA

zione qualsiasi specie vivente. In modo diverso si è pronunciata la Giuria dei giornalisti, che ha premiato il progetto intitolato “Not only white”, proposto dallo Studio Paesaggistico Roberto Malagoli, mentre il premio del pubblico è andato al progetto “La quiete”, realizzato dalla Società Agricola Colombini. E dopo un’intensa giornata a spasso tra gli stand del quartiere fieristico, anche se in questo caso assomigliava a una passeggiata fuori porta nella natura, i visitatori non possono cercare che quiete e magari una comoda poltrona che li accolga. (di Valeria Tancredi)

MOTO INTIMO Giardino ispirato alla vita nelle sue forme e nei suoi misteri, come moto intimo che spinge all’evoluzione ogni insospettabile forma di vita. Progettato da Margherita Cittadino e Cecilia Rossi. Realizzato da “Punto Verde”

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RETROSPETTIVA.STORY

CELEBRARE IL BAUHAUS

Il 2009 celebra il 90° anniversario del Bauhaus, la scuola d'architettura, d’arte e design fondata da Walter Gropius a Weimar nel 1919. Geometria e rigore, ricerca e fantasia sono tutte peculiarità dialogiche della scuola

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saltazione della geometria e della nitidezza dei segni. Una spazialità spesso segnata dal bianco e dal nero o richiamata da una linea di colore. Acciaio e vetro per la leggerezza dei contorni. Luce e trasparenze per il confronto dialogico continuo tra esterno e interno. La modernità e l’eleganza dell’abitare nascevano novanta anni fa, nel 1919, con la scuola tedesca di arte, architettura e design Bauhaus, attraverso la forza dirompente della sua utopia: dare forma e materia a un ideale estetico che declinato in funzionalità, creasse la forma a partire dalle necessità del vivere quotidiano per un’architettura e un design che fossero al servizio del benessere sociale e del progresso civile. Per realizzare questa utopia la scuola, che fu anche un grande movimento, rivoluzionò i confini allora netti

tra arte e artigianato, arte e riproducibilità tecnica, ricerca progettuale e gerarchia sociale fino a porre le basi per la produzione di un design ricercato e accessibile a tutti al tempo stesso. È per questa concomitanza di intenti che, come afferma Flaminio Gualdoni, docente presso l'Accademia di Belle Arti di Brera e autore del volume Bauhaus edito da Skira: «tutta l’architettura e il design fanno quotidianamente i conti con Bauhaus, scuola e pensiero che ancora oggi costituiscono il segmento decisivo del codice geneA sinistra: sedia pieghevole, 1928 ca. Progetto di Alfred Arndt. Foto: Kelly Kellerhoff, Berlin. Sopra: Wilhelm Wagenfeld, Lampada da tavolo MT 8 / ME 2, versione in metallo, 1924. Pagina seguente, in alto: Marianne Brandt, lampada da soffitto con sfera in vetro a due zone ME 94, 1926. Foto: Kelly Kellerhoff, Berlin. A destra: “UmBau-Installation“ sul luogo in cui sorgeva l’ex casa del direttore Gropius. Foto: Stefan Fischer 2004

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tico di queste discipline. Come il classico per un pittore o uno scultore. Progenitore o, nel caso di molto postmoderno, fantasma polemico, ma sempre punto di partenza imprescindibile». Walter Gropius, Josef Albers, Marcel Breuer, Ludwig Mies van der Rohe, Wassily Kandinsky e tutti gli altri artisti-docenti della scuola Bauhaus utilizzarono le diverse suggestioni dell’approccio interdisciplinare comunitario tra arte, pratiche artigianali del costruire, nuove tecnologie e nuovi materiali. E lo fecero rifiutando in modo netto ogni ornamento superfluo. «All’architettura ridotta a ornamento - spiega Gualdoni - la Scuola contrappose l’idea medievale della Bauhütte, la comunità di artefici dotati di sapienza alto-artigianale, e giunge infine a prospettare la figura dell’architetto moderno, uomo d’intelletto e metodo, di conoscenza e non di sapienza. Nei laboratori del Bauhaus si parte dal recupero di pratiche antiche come il legno, e si finisce a fare della sperimentazione intelligente in materiali come l’acciaio: è sperimentazione intelligente perché non affetta dal morbo del nuovismo, ma retta su un fondamento concettuale nitidissimo». Proprio dalla ricerca sull’uso dell’acciaio per l’esaltazione della funzione primaria dell’oggetto nascono le diverse creazioni di design in acciaio tubolare come la sedia cantilever sostenuta da due montanti ripiegati al livello del pavimento e della seduta disegnata per la prima volta da Mart Stam nel 1926 e poi riprodotta


in diverse varianti fino ai nostri giorni. Dello stesso anno è la sedia Wassily che Marcel Breuer dedica al pittore costruttivista e collega presso la scuola Wassily Kandinsky, ancora oggi in produzione tra i classici del design moderno. Breuer intendeva creare una sedia che fosse solida, confortevole e leggera al tempo stesso. Per questa ragione scelse di utilizzare un materiale teso e resistente come il cuoio in sostituzione della tradizionale imbottitura e l'acciaio tubolare per l’intelaiatura leggera e resistente. E se essenziale può dirsi il concetto Bauhaus, si tratterà sempre di un'essenzialità che conserva ed esalta la propria ambivalenza semantica configurandosi sia come operazione progettuale di sottrazione, sia come estrema valorizzazione di ogni elemento dello spazio e della forma. Nel rispetto di quest’ultima concezione, l’edificio Bauhaus a Dessau si fa testimone del rifiuto della gerarchizzazione simbolica e viene progettato deliberatamente senza alcuna facciata principale che prevalga sulle restanti parti. Perché nell’edificio, ogni singolo elemento del progetto assume il proprio valore estetico in base all’esaltazione della propria funzione e come parte di un tutto che si configura come luogo ideale per le più alte attività umane. Essenzialità del principio può invece dirsi la scelta progettuale della poltrona Red and blue armchair dell’olandese Gerrit Rietveld ancora oggi in produzione. Progettata nel 1918, il valore estetico-funzionale sempre attuale di questa sedia nasce a partire dalla semplicità di assi e riquadri di legno, quasi un lego di

grandi dimensioni per elementarità compositiva, e dall’utilizzo dei colori primari, in una rilettura tridimensionale del pittore Mondrian suo connazionale. Ma oltre all’acciaio e al legno, tante le creazioni Bauhaus che nascono dalla sperimentazione sulla luce, attraverso la composizione delle trasparenze e delle opacità del vetro. È così che prende forma la perfezione tutta essenziale del “lampadario da soffitto con sfera di vetro a due zone” progettato da Marianne Brandt, unica donna a lavorare

ziale, abitato dalla luce e dall’aria, più che corpo materiato». La creatività del Bauhaus durò quel tanto da poter fissare le basi per una rivoluzione duratura nel campo del design e dell'architettura. Troppo sospetti agli occhi del nazismo l’apertura di pensiero e il principio democratico che si respiravano nella scuola; la chiusura forzata arrivò inevitabile nel 1933. Ma l'innovazione Bauhaus si sarebbe diffusa rapidamente in tutta Europa, trovando nell’industria italiana il medium ideale per l’esaltazione delle

nel metallwerkstatt del Bauhaus, secondo gli insegnamenti dei maestri e ancora una volta con l’assimilazione di una sapienza del fare più antica. «Gropius - spiega Flaminio Gualdoni - scrive di “forma esatta e non casuale; contrasti chiari, ordine nelle parti, sequenze di elementi simili nonché unità di forme e colore”. Alle sue spalle però ci sono Itten, grande teorico del colore/luce ma anche adepto neozoroastriano, e spunti di teosofia e spiritualismo. Trasparenza e luce sono valori in odore di misticismo, che si trasformano in modi geniali e tutti razionali di pensare la forma. E la forma è disegno essen-

proprie caratteristiche. «È notevole aggiunge Gualdoni - che siano state certe aziende italiane, mix perfetto di cultura artigianale e industriale, le prime a comprendere questa realtà, e a far grande il nostro design». Nella Milano degli anni ’50 il “Movimento di arte concreta” incentra il dibattito artistico sui temi del design e della produzione industriale e introduce il Bauhaus nel paese che lega al Razionalismo lo sviluppo del proprio design. «Il Bauhaus, non meno di Le Corbusier, è alla radice del Razionalismo – precisa Gualdoni - anche a prescindere da portati diretti. Ma non dimentichiamo che quella Mi-

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RETROSPETTIVA.STORY lano era frequentata da artisti come Kandinskij, amico del Carlo Belli estensore di Kn, da Vordemberge-Gildewart e da altri, che esponevano alla galleria del Milione. Nel secondo dopoguerra, poi, la grande mostra Arte astratta e concreta del 1947 a Milano è curata da autori come Lanfranco Bombelli Tiravanti, Max Bill e Max Huber, e porta il dibattito italiano verso modi che sono poi quelli incarnati dalla scuola neobauhausiana di Ulm». Ma la più importante rilettura

Sopra: il famoso edificio progettato da Gropius a Dessau, sede della scuola Bauhaus. L’edificio divenne il manifesto del nuovo clima razionalista. A destra: Sedia per bambini ti 3a, 1923. Progetto di Marcel Breuer. Falegnameria del Bauhaus Weimar. Fondazione Bauhaus Dessau. Foto: Kelly Kellerhoff, Berlin

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A destra: il volume “Bauhaus” a cura di Flaminio Gualdoni, pubblicato da Skira. Suddiviso in 2 parti, nella prima illustra la storia del Bauhaus, nella seconda espone una rassegna fotografica delle opere realizzate

del movimento tedesco rimane quella statunitense, perché è proprio in America che gli esponenti del Bauhaus sfuggiti alla persecuzione nazista si sarebbero stabiliti per portare avanti le proprie attività didattiche e di progettazione. «La grande migrazione degli autori Bauhaus negli Stati Uniti provocata dal nazismo ha fecondato l’architettura statunitense in modo netto. Con una componente estetizzante e di tecnocrazia in più, e con una parte di engagement sociale in meno rispetto alla vicenda europea, ma da Philip Johnson in poi Bauhaus è la materia problematica dell’architettura statunitense». Segno tangibile di questa fecondazione a lungo termine e rappresentazione esemplare del Bauhaus statunitense definito non senza polemiche International style, è la casa che Walter Gropius progettò e realizzò a Lincoln per sé e per la sua famiglia. “Modesta” agli occhi degli abitanti del posto abituati ai decori tradizionali dello stile coloniale, la casa di Gropius conserva la sobrietà dello spirito Bauhaus. I colori neutri, le linee nette, le grandi vetrate che esternamente ritagliano la superficie liscia dell’edificio e internamente dilatano lo spazio proiettando nuove sezioni attraverso le ombre nette degli infissi. E anche in questo caso oltre all’innovazione è sempre presente l’attenzione al passato e alla tradizione. Walter Gropius visitò infatti l’intera regione del New England per raccogliere informazioni sull’architettura e sui materiali locali. Il risultato fu una combinazione tra materiali tradizionali e moderni blocchi di vetro, pannelli fonoassorbenti in gesso, ringhiere cromate e infissi di ultima concezione. All’interno la casa avrebbe mantenuto lo stesso concetto Bauhaus con la scrivania in legno

d'acero e impellicciatura di noce a due postazioni di lavoro progettata da Breuer, con lo studio concepito come passaggio verso il soggiorno in favore di una flessibilità degli spazi abitativi e con il soggiorno dominato a sua volta dal camino che Ise Gropius, moglie dell'architetto, aveva voluto per le funzionalità pratiche e per l'effetto psicologico positivo del fuoco aperto, e dalle librerie e i ripostigli lungo tutta la parete nord a tracciare lo spazio rendendolo funzionale. Nelle stanze, i mobili portati dalla Germania, come i tavoli con struttura in acciaio tubolare progettati da Breuer a partire dai manubri della sua bicicletta. Lo spirito del movimento vive in questa casa così come in tutte le altre Meisterhäuser, le case-atelier dei maestri del Bauhaus in Germania che insieme all'edificio della scuola sono state inserite nel patrimonio dell’UNESCO. Oggi più che mai, con l’affermarsi di un’estetica della funzionalità, queste case incarnano il fascino di una lucida modernità. «Erano case esemplari – conclude Gualdoni - esercitazioni intorno a un’idea criticamente lucida del vivere e dell’abitare. Non dimentichiamoci che ancora pochi anni fa lo scrittore Tom Wolfe ironizzava sul fatto che i ricchi americani amano abitare come operai olandesi e tedeschi per colpa di Gropius… Era il lusso dell’intelligenza contro quello dell’apparenza e della quantità. Una lezione difficile, anche oggi». (di Silvia Di Persio)


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RETROSPETTIVA.STORY

NEL RICORDO DI ROGERS

Architetto leader del gruppo di progettisti BBPR, Ernesto Nathan Rogers divulgò una coscienza etica ed estetica. Ricorre quest’anno il centenario della nascita

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icorre quest’anno il centenario della nascita di Ernesto Nathan Rogers, e molte università italiane si sono impegnate a organizzare seminari e giornate studi per celebrarne la figura. Inevitabilmente viene in mente il famoso trinomio, Ernesto Nathan Rogers, gruppo BBPR e Torre Velasca. Ma la storia che vi sta dietro, forse meno nota, è anche triste. È la

Foto tratte dal testo “Ernesto Nathan Rogers e la costruzione dell’architettura” a cura di De Poli A. e Visentin C.

Milano degli anni 30-40, e Gian Luigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers, laureati al Politecnico di Milano nel 1932, formarono il gruppo BBPR, il cui spessore culturale ben presto emerse. Collaborarono da subito con riviste come Quadrante e già nel 1934 fecero ingresso nel CIAM (Congrès Internationaux d'Architecture Moderne). Il periodo storico

non era dei più felici, e il gruppo arrivò inevitabilmente a confrontarsi con le istanze fasciste che coinvolgevano l’arte e l’ideologia. In un primo momento anche loro, come altri in quel tempo, si fecero abbagliare da ciò che sembrava un sillogismo interessante: se il fascismo è rivoluzionario allora l’architettura moderna è l’arte fascista. Ben presto queste aspettative vennero disilluse e il gruppo dovette fare i conti con il dramma della guerra, della resistenza e delle persecuzioni razziali. Il lavoro del gruppo, fino alla seconda guerra mondiale, verte in gran parte sui piani urbanistici: il Piano regolatore di Pavia, (1932), il piano regolatore della Valle d'Aosta (1936), il Piano turistico dell'Isola d'Elba (1939) ma nello stesso anno realizzarono anche la Colonia elioterapica di Legnano, ponendo particolare attenzione a ciò che rappresenta la memoria o che è legato alle condizioni contestuali, temi cari a Rogers e che ebbe modo Di fianco e in alto a sinistra: la Torre Velasca di Milano costruita nel 1956-1958. Sopra: l’architetto E. N. Rogers nel suo studio. Nella pagina accanto in alto: “la casa del sabato per sposi” alla V Triennale, 1933. In basso: plastico del Palazzo delle Poste per l’Esposizione Universale Roma - E42

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insieme al gruppo di affrontare e sviluppare più volte fino alla progettazione della Torre Velasca nel 1958, espressione concreta e matura delle loro teorizzazioni. In precedenza questi temi furono affrontati, anche se in modo diverso, nel progetto per il Palazzo delle Poste all'EUR di Roma (1942), dove prevale uno schietto funzionalismo atto a contraddire la retorica monumentale degli edifici circostanti. Nei primi anni ‘30 i quattro architetti del BBPR si convinsero di poter sostenere lo scontro per il trionfo dell'architettura moderna all'interno del fascismo ma già nel 1937 si verificò nei loro confronti la prima prova di discriminazione. A farne le spese fu il Piano Regolatore della Valle d’Aosta che non fu ammesso alla Mostra Nazionale dei Piani Regolatori che si tenne a Roma in concomitanza con il Primo Congresso Nazionale di Urbanistica. E quando nel novembre del 1938, venne pubblicato sulla "Gazzetta Ufficiale" il decreto legge intitolato "Provvedimenti per la difesa della razza italiana" Ernesto Nathan Rogers, ebreo e architetto razionalista, nonché teorico del gruppo, cominciò a scrivere Lettere di Ernesto a Ernesto e viceversa, una sequenza di lettere che l'auto-

re scrisse a se stesso per indagare la nuova condizione di uomo anonimo. Nel periodo in cui il silenzio era prudenza e in Italia non arrivavano né libri, né giornali, né film, lo studio BBPR divenne punto di riferimento della Resistenza milanese. A causa del loro impegno, Banfi divenne membro della Resistenza Italiana insieme a Peressutti, Belgiojoso fu deportato durante gli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale nel campo di concentramento di Mauthausen-Gusen. Rogers, invece, fu costretto a trasferirsi in Svizzera come esule politico e qui ebbe modo di approfondire il tema delle “preesistenze ambientali” e il dialogo che il linguaggio moderno avrebbe dovuto instau-

rare con la cultura contemporanea. Per lui era importante, infatti, rintracciare quei segni della tradizione estetica che avrebbero potuto accompagnare il linguaggio architettonico all’inevitabile modernità. Negli anni che seguirono il dopoguerra, per il gruppo BBPR vi furono importanti occasioni catartiche. La prima fu il “Monumento ai caduti nei campi nazisti” al Cimitero Monumentale di Milano del 1945, progetto in cui la poetica razionalista del gruppo BBPR si carica di altre valenze emozionali, riuscendo così a coniu-


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RETROSPETTIVA.STORY Il gruppo di architetti BBPR: Gian Luigi Banfi (1910 - 1945 ), Lodovico Barbiano Di Belgiojoso (1909 - 2004 ), Enrico Peressutti (1908 - 1976 ) Ernesto Nathan Rogers (1909 - 1969 )

gare le speranze dei primi anni di attività al pesante bagaglio di vita vissuto. Successivamente nel 1973, esattamente quattro anni dopo la morte di Rogers, Belgiojoso e Peressutti firmarono il Museo-monumento al deportato nel Castello dei Pio di Carpi. E nel 1979, Lodovico Belgiojoso, unico superstite del gruppo BBPR, progettò il Memorial italiano ad Auschwitz per ricordare i deportati italiani nei campi di sterminio nazisti. Nell’arco della sua vita Ernesto Nathan

Rogers rivolse la sua attenzioni a particolari aspetti dell’architettura. Si affermò anche come una delle principali personalità teoriche e critiche della scena architettonica italiana. La sua figura di architetto si completò ulteriormente con quella di

Professore Belgiojoso, com’era l’uomo Ernesto Nathan Rogers? «Rogers era dei quattro del gruppo BBPR il più “teorico”; al liceo già scriveva su riviste culturali; divenne poi per diversi anni direttore di riviste importanti come “Domus” e “Casabella”, e scrisse alcuni libri. Una persona di grande valore, rigore morale e onestà intellettuale. Ho da lui imparato molto, non solo nel mestiere di architetto, ma anche nei comportamenti e nel giudizio su tanti temi». Quali insegnamenti ha lasciato come architetto? «L’insegnamento di organizzare una procedura mentale di grande attenzione ai temi per cui si progetta, alle richieste del Committente, contribuendo criticamente al loro chiarimento, per capire le esigenze, di cui alcune senza dubbio esplicite, ma molte anche da individuare insieme; e l’insegnamento di curare i rapporti umani e culturali con riferimenti ampi. E una concezione dell’architettura come “costruzione” e non solo come linguaggio, come invece di recente si verifica in alcune tendenze; di fronte alla nuova complessità dei temi una abdicazione a quel compito per una limitazione ai problemi di immagine. La liaison intellettuale - architetto quanto è legata a E.N. Rogers? «Sua era una visione del mondo e dei “mestieri” di tipo “umanistico”, per cui l’uomo per il quale si costruisce non può che essere visto nella sua totalità, e perciò l’interesse del progettista, anche il più imbevuto di teoria, e di letteratura, va ai modi di uso, al tipo di vita, alle “funzioni”, alle necessità dell’uomo, con lo stesso impegno con cui va al mondo delle forme». L’architettura, la storia, e il genius loci. Come l’architetto Rogers ha sviluppato questo tema? «Fondamentale per Rogers è stato il tema delle “preesistenze ambientali”, che ha aperto l’intero capitolo del rapporto fra l’architettura e le caratteristiche del luogo. Ho imparato in particolare in questo campo da lui il culto e l’interesse per il passato, e specialmente l’utilità di studiare le realizzazioni “storiche” per trovare soluzioni architettoniche nel presente; e l’atteggiamento culturale, e mentale, per saper “leggere” le realizzazioni dei nostri predecessori; e naturalmente il rapporto fra l’antico e l’inserimento del nuovo, e la possibilità della compresenza di essi in un rapporto efficace».

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docente e in questa veste era amato e rispettato dai suoi studenti e collaboratori proprio per i temi che amava affrontare, tra i quali c’era l’importantissima identificazione tra etica ed estetica. Cercava in tutti i modi di far arrivare alle nuove generazioni di architetti l’importanza del rigore culturale e morale più che della poetica. Suggeriva una selezione dei maestri da seguire, basata non sui loro intenti espressivi bensì sulle loro doti umane e culturali. Oggi a 100 anni dalla nascita, l’interesse per Rogers è rinato, e il suo apporto all’interno del gruppo BBPR, le sue lezioni al Politecnico di Milano, la direzione della rivista “Domus”, nel 1946-47, e di “Casabella-Continuità”, tra il 1954 e il 1964, e i numerosi suoi scritti costituiscono un importante patrimonio sul quale riflettere. Nel suo studio di architetto, di via dei Chiostri, era possibile incontrare architetti del calibro di Alvar Aalto, Gropius, Le Corbusier, ma anche artisti come Steinberg o Fontana e nella sua casa vi erano spesso ospiti esponenti della cultura italiana ed europea come Adriano Olivetti, Eugenio Montale o lo storico Sigfried Giedion, ma c’è chi ricorda con nostalgia anche quando la libreria Einaudi di Milano, disegnata dai BBPR, è stata negli anni ‘60 luogo di ritrovo della migliore letteratura italiana. Comunque non è solo con la direzione di importanti riviste come “Domus” e “Casabella-Continuità”, con i sui famosi editoriali e i suoi scritti, che Rogers diede un’impostazione teorica all'architettura italiana. In queste redazioni e durante i corsi all’università, creò un folto gruppo di giovani architetti motivati, idealisti e rigorosi: Aldo Rossi, Giorgio Grassi, Gae Aulenti, Giotto Stoppino, Vittorio Gregotti, Guido Canella e Giancarlo De Carlo. Tutti assorbirono e rielaborarono gli insegnamenti che lui ebbe modo di passargli e che negli anni a venire influenzarono la cultura architettonica.


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BIOCLIMATICA

A SCUOLA DI SOSTENIBILITÀ

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Costruita a Imola la nuova scuola secondaria di primo grado “L.Orsini”. Un valido esempio di impiantistica sostenibile realizzata da Cefla Impianti

a scuola è un edificio pubblico, un luogo di riferimento per i cittadini. La centralità dell’immagine dell’edificio scolastico per la collettività ne fa un dispositivo deputato alla riqualificazione ed alla rigenerazione del luogo in cui si colloca. L’architettura sostenibile pone naturalmente al centro del progetto l’essere umano e le sue più sottili esigenze, rivaluta e rielabora il rapporto tra la persona e l’ambiente sia a livello locale (il giardino, il quartiere, la città) che a livello globale (il territorio, l’aria, l’acqua, l’energia, le risorse). L’architettura e lo sviluppo sostenibile sono protagonisti nel momento in cui una collettività avvia la realizzazione di una nuova scuola. Il valore comunicativo di un edificio scolastico è chiaro a chiunque. Questo tema è ormai assolutamente praticato in tutta Europa ed in particolare nelle sue aree più avanzate. In Italia si registrano sempre più segnali di attenzione da parte delle amministrazioni pubbliche alla possibilità di individuare nelle scuole le migliori occasioni per realizzare progetti dimostrativi di architettura sostenibile. La nuova scuola secondaria di primo grado “L. Orsini” di Imola sorge all’interno del quartiere denominato Pedagna, prima espansione residenziale degli anni ’70, dove attualmente risiedono circa 20.000 abitanti. Il nuovo edificio, volto a soddisfare le esigenze di una popolazione scolastica stimata di 450 alunni si inserisce nella tipologia delle costruzioni ecosostenibili sia dal punto di vista architettonico che impiantistico. I principi della sostenibilità ambientale trovano qui applicazione nello sfruttamento di fonti rinnovabili di energia e nell’applicazione dei principi base di un edificio “passivo”. Secondo i canoni dell’ar-

chitettura bioclimatica, l’orientamento dell’edificio alla radiazione solare determina l’organizzazione planimetrica nell’ambito del lotto e la distribuzione funzionale degli ambienti interni. La captazione della radiazione solare risulta essere il principale strumento per la distribuzione di parti opache e parti vetrate e per la gestione dell’integrazione tra l’organismo edilizio e le diverse tecnologie adottate. Un’estetica pacata, sobria, minimalista pervade il nuovo fabbricato, quasi austero ma tecnologicamente avanzato. In pianta l’edificio è generato dallo sfalsamento longitudinale di due “stecche” rettangolari, a loro volta ruotate rispetto all’asse baricentrico. I due corpi sono uniti da un ampio disimpegno sviluppato su tre piani che contiene gli elementi di distribuzione verticale. Questa parte centrale è completamente vetrata in copertura, in continuità con le facciate est ed ovest, in cui sono posti i due ingressi principali. Il taglio trasparente al centro della scuola di fatto gestisce l’illuminazione zenitale e il sistema di ventilazione naturale, tramite lucernai appositamente studiati. Al piano terra la nuova scuola è collegata, mediante un corridoio (tunnel), all’adiacente scuola elementare, già presente sull’area e risalente a metà degli anni ’80. Le aule per la didattica ordinaria si affacciano a sud, verso la zona collinare e un’ampia area verde. La volontà di realizzare un edificio a basso consumo energetico, ha portato all’adozione di una serie di soluzioni innovative dal punto di vista architettonico ed impiantistico: - tamponamenti esterni a secco con extra isolamento termico delle pareti disperdenti, al fine di ottenere un’elevata resistenza termica; A destra: pianta piano terra 1. ingresso; 2. atrio; 3. biblioteca; 4. mensa; 5. cucina; 6. aula; 7. collegamento; 8. scuola primaria esistente; 9. campi geotermici

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SCHEDA

Facciata Sud Ovest della scuola secondaria di primo grado “L. Orsini” di Imola

- componenti vetrati ad elevate prestazioni termiche; - elementi strutturali di partizione orizzontale e verticali ad elevata inerzia termica; - riscaldamento a bassa temperatura (pannelli radianti a pavimento); - raffrescamento ventilativo strutturale (RVS). La morfologia dell'edificio è stata studiata per sfruttare la ventilazione naturale notturna nei periodi estivi; - schermatura solare della facciata sud: doghe orizzontali orientabili stagionalmente e tende a rullo esterne ad abbassamento automatico o manuale; - collettori solari ad aria, applicati in facciata sud (270 m2), per il preriscaldamento invernale dell’aria primaria di ventilazione di tutte le aule, dei laboratori e degli spazi connettivi dell’edificio. Durante la stagione estiva il sistema funziona come “facciata ventilata” per proteggere l’edifico da “entrate di calore” sulle strutture murarie esterne; - sistema geotermico indiretto per il preriscaldamento o il raffrescamento naturale dell’aria di ventilazione. L’impianto è costituito da tre batterie di condotti interrati di 70 m di lunghezza, attraverso le quali l’aria di ventilazione scambia calore con il terreno a circa 2 m di profondità, dove la temperatura si mantiene più o meno costante (12÷15 °C) tutto l’anno; - collettori solari termici sottovuoto, posti in copertura (70 m2) ed utilizzati per molteplici scopi a seconda della stagione di riferimento: riscaldamento dell’acqua calda sanitaria (tutto l’anno); integrazione dell’impianto a pannelli radianti a pavimento (inverno); produzione dell’acqua refrigerata per il raffrescamento degli ambienti (solar cooling estivo); - predisposizione per impianto fotovoltaico a parziale copertura del fabbisogno elettrico dell'edificio;

Committente Amministrazione Comunale di Imola (BO) - Luogo Quartiere Pedagna Data 2007-2008 - Progetto Andrea Dal Fiume, Responsabile Settore Opere Pubbliche di Imola - Superficie mq 8.600 Costo 12.700.000 euro - Consulente ambientale Mario Grosso, Politecnico Torino - Consulente bioedile Loris Fantini, Cesena - Impianti progetto Metec&Saggese - Torino - Impianti realizzazione Cefla s.c. - Imola

- solar cooling: raffrescamento dei locali amministrativi attraverso tecnologia ad assorbimento alimentata dai pannelli solari termici; - sistemi di illuminazione ad alta efficienza con variazione del flusso luminoso in relazione all’illuminamento naturale; - rilevatori di presenza per il controllo delle accensioni dei corpi illuminanti nei soli locali occupati; - recupero dell’acqua piovana per l’alimentazione delle cassette di scarico dei WC e per l’irrigazione esterna; - suddivisione dei circuiti in modo che il funzionamento degli impianti sia consono all’effettivo utilizzo degli ambienti; - sistema di regolazione, controllo e supervisione di tutta l’impiantistica a servizio dell’edificio. Al sistema di supervisione e controllo sono demandate, oltre alle normali attività di regolazione e gestione degli impianti tecnologici, le funzioni di monitoraggio e comando di tutte le apparecchiature destinate ad attivare le soluzioni di risparmio energetico adottate. DESIGN + 49


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LUOGHI.URBANI

UNA FINESTRA SULL’EUROPA Liegi ha inaugurato la nuova stazione di Santiago Calatrava. La luce pervade tutta la struttura costruita in acciaio e cemento armato bianco

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Liegi, il capoluogo della regione della Vallonia, in Belgio, si è inaugurata la stazione dimensionalmente più grande d’Europa. A firmarla è l’architetto-ingegnere Santiago Calatrava autore anche delle stazioni di Zurigo e Lisbona, la stazione TGV di Lione Saint-Exupery e del World Trade Center Transportation Hub nel centro di Manhattan, ancora in costruzione. Liegi-Guillemins Station è un’immensa “cattedrale” di cristallo, acciaio che sorge sulle basi della precedente stazione, interamente demolita per questo progetto costato circa 435 milioni di euro e la cui costruzione è durata più di 10 anni, senza interrompere il servizio dei treni o disturbare le 36mila persone che frequentano giornalmente l'impianto. La nuova stazione si sviluppa per 200 metri di lunghezza, 73 metri di larghezza e 40 metri d’altezza e gravita su un’area di 29mila metri quadrati. Il piano e il design è semplice. È un’unica volta accompagnata da cinque piattaforme fatte da 39 arcate in acciaio e utilizza il piano ipogeo per le sale d'attesa, i negozi, un grande parcheggio e altri servizi. Il concept che l’architettoingegnere segue in quasi tutte le sue opere è il movimento e in questo caso è espresso dalla morbida curva pensata anche per riprendere la linea ondulata delle colline del Cointe, che si trovano nei pressi della stazione. Si tratta di una struttura senza facciate, caratterizzata invece da una volta centrale trasparente, di acciaio e vetro, che suggerisce la suggestiva immagine di una cattedrale di luce. L’intento era, infatti, proprio quello di sottolineare la perfetta interazione tra interno ed esterno e l’assenza di filtri perché secondo il progettista rafforza l'impressione d’immediatezza e di Alta Velocità nei viaggiatori. A prescindere dalle sensazioni ricevute, grazie all’Alta Velocità si accorceranno le distanze tra la città belga e le altre grandi città europee come Aquisgrana, Colonia, Bruxelles, e ancora Francoforte, Parigi, Londra e la parte meridionale d'Europa. Anche l’aspetto urbanistico dei dintorni è stato curato dallo stesso Calatrava, che ha introdotto grandi specchi d’acqua sulla piazza, un viale alberato, 50 DESIGN +


Photo www.palladium.de, Barbara Burg/Oliver Schuh

In questa foto: il piano ipogeo che ospita i negozi, le sale d'attesa e il parcheggio. Ăˆ caratterizzato dalle arcate portanti le banchine dei binari. Nella pagina a fianco, dall’alto in basso: elementi portanti le pensiline; vista della copertura voltata; altro ambiente ipogeo

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LUOGHI.URBANI

Photo by Nathan Beck

e un accesso diretto all’autostrada. La funzionalità del progetto è fondata sulla facilità di accesso alla struttura, sul collegamento diretto con la rete viaria ma anche sul miglioramento dei servizi annessi alla stazione. A questo scopo l'asse della nuova stazione è stato spostato di 150 metri al di là del fiume ottenendo così più spazio per le banchine e una

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In alto: pensilina di raccordo tra i binari e la stazione. A destra: la volta a campata unica che copre e caratterizza la Liegi-Guillemins Station, realizzata completamente in acciaio e vetro. La scelta progettuale è stata quella di non costruire i fronti per dare ai viaggiatori della TGV una maggiore sensazione di velocità. In basso, l’architetto spagnolo Santiago Calatrava

migliore accessibilità alla struttura. Per il fiume Meuse, elemento vitale della città, a cui i cittadini di Liegi sono fortemente legati, il progetto prevede un canale di circa 450 metri di collegamento con la stazione, che consentirà di dotare la città di uno spazio pubblico nel quale l’interscambio tra i treni e i servizi di trasporto fluviale avviene grazie all’utilizzo di imbarcazioni leggere. La nuova stazione quindi, con questo escamotage progettuale, collega una ex zona industriale a un quartiere residenziale, il quartiere cosiddetto "dei Guglielmini", l'area su cui nel XIII secolo l'Ordine di Guillaume de Malavale costruì un convento. L'abilità del progettista anche questa volta, come in altre sue opere, è stata quella di riuscire a imprimere del movimento a tutto il complesso non solo con la fluidità del disegno delle arcate, ma soprattutto per la luce che per-

vade tutta la struttura data dalla combinazione di acciaio e cemento armato bianco. Antoin Picon scriveva in Casabella 615 del 1994: “Calatrava possiede un repertorio, del quale esplora sistematicamente le possibilità, dalla piegatura delle lamiere e delle vele alla decomposizione degli sforzi e al trattamento delle tensioni e delle compressioni spesso ispirato all’ossatura animale o umana”. E ricorda anche che l’architettura di Santiago Calatrava ha una concezione


dello spazio più tettonico che architettonico, uno spazio in cui le pensiline e le tettoie diventano un “vocabolario formale”. Anche in questo progetto il linguaggio usato è riconoscibile, verifica ne è la casquette, la "visiera", l'ormai celeberrima copertura metallica della stazione agli estremi del complesso. È una forma tipica ricorrente nelle sue monumentali architetture, frutto di complicati modelli matematici ritrovati anche nelle tipiche forme plastiche delle strut-

ture portanti. Ancora un’altra caratteristica lega questa architettura ad altre opere: la differenziazione dei materiali in funzione del compito da assolvere. Il calcestruzzo è usato ovviamente per le parti compresse, l’acciaio per quelle in tensione, per le strutture leggere è il vetro il più adatto ad ampliare la luminosità dell’edificio. A chi visita la LiegiGuillemins Station potrebbe venire in mente l’opera dell'architetto George Gilbert Scott e dell’ingegnere William

Barlow, la “St Pancras railway station” di Londra - stazione in cui transitano da novembre 2007 i TGV Eurostar per Bruxelles e Parigi - collegata da settembre 2009 alla nuova stazione di Calatrava. Forse varrebbe la pena fare un viaggio solo per percorrere la tratta St Pancras-Liegi-Guillemins e passare da un’architettura romantica in acciaio e vetro a una contemporanea realizzata con gli stessi materiali ma ovviamente usati con logiche diverse. DESIGN + 53


Costruire in modo ecocompatibile Il costruire in modo ecocompatibile non è determinato esclusivamente dalla scelta dei materiali, ma da un esame più approfondito dell’insieme della costruzione. Costruire in modo ecocompatibile significa utilizzare materiali caratterizzati da: • Limitato fabbisogno energetico del ciclo produttivo e ridotto impatto ambientale nella fase di estrazione della materia prima • Emissioni in atmosfera ridotte nella produzione e durante il trasporto • Materiale durevole e possibilmente riciclabile

Da non dimenticare nella progettazione • Edificio al riparo dei venti ma non in zone d’ombra • Un involucro semplice e compatto riduce le dispersioni di calore • Balconi, abbaini, sporgenze aumentano il fabbisogno energetico • Ampie superfici finestrate orientate verso sud aumentano i guadagni termici solari • Locali secondari dovrebbero essere posizionati sul lato nord.

Isolamento termico La nostra casa si comporta esattamente come l’uomo e gli animali: quando è freddo abbiamo bisogno di un maglione pesante, o di una buona pelliccia nel caso degli animali, per far sí che il freddo pungente non raggiunga la nostra pelle. Un buon isolamento termico garantisce ambienti caldi anche senza l’uso del riscaldamento; un isolamento di scarsa qualità ci costringe a riscaldare maggiormente gli ambienti a scapito del comfort termico. “Il Centro Molini si staglia sullo skyline di Imola”. Il centro direzionale di nove piani realizzato da Catallo Costruzioni è un’opera a basso consumo energetico destinato ad attività commerciali e uffici, più alcuni miniappartamenti al piano attico

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IL NUOVO MUSEO DELL’ACROPOLI Progetto / 1

Una struttura dallo sviluppo orizzontale e dall’aspetto non-monumentale, tipico delle istanze matematico-concettuali dell’antica Grecia. È il New Acropolis Museum, ideato da Bernard Tschumi per poter esporre una suggestiva collezione, unica al mondo 56 DESIGN +

di Iole Costanzo


SCHEDA

Gruppo di progetto Bernard Tschumi Architects Direttore per la costruzione Dimitrios Pandermalis Area totale progetto 21mila mq Area verde 7mila mq Costo totale dell’opera 130 milioni di euro Ingegneria strutturale ADK e Arup, New York

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Progetto / 1 In questa pagina: gli scavi archeologici presenti all’entrata del Museo. A fianco in alto: il portichetto delle cariatidi dell'Eretteo accoglie i visitatori all’entrata del foyer. Sotto: schizzo assonometrico esplicativo della sequenza dei tre blocchi di cui è composta la costruzione. In basso: esposizione delle metope nella Galleria del Partenone

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C

i sono architetture che apportano, alle città ospitanti, sostanziali cambiamenti nell’andamento della vita cittadina. Per Atene, fino a qualche tempo fa, l’incrocio tra via Makriyianni e via Dionysiou Areopagitou, era un luogo privo di significato storico pur se inserito in una delle zone storiche della città. Era considerato solo e unicamente un parcheggio per le numerosissime automobili. Oggi, dopo solo qualche mese dall’apertura del New Acropolis Museum, avvenuta lo scorso giugno, questa parte di città è cambiata. È un continuo andirivieni di turisti che vagano dai caffé ai bookshop, dai negozi alle nuove gallerie che i giovani artisti hanno aperto in questa zona. Tutto dipende dal riverbero del nuovo edificio che, dopo diverse avventure, ostacoli e critiche, è stato costruito in questa zona e che è destinato, nonostante tutto, a diventare il simbolo della Grecia moderna. Progettato dall'architetto franco-svizzero Bernard Tschumi in collaborazione con l’archeologo Dimitrios Pandemalis, il New Acropolis Museum è un edificio avveniristico, dalla geometria essenziale sostenuta da una struttura portante alquanto rigida e dalle numerose superfici vetrate. È posto a solo 300 metri dal Partenone, e si articola su tre livelli. Ha una superficie totale di 21mila metri quadrati, di cui 15mila sono dedicati unicamente agli spazi espositivi. Ha un’altezza totale di 23 metri e potrà ospitare 10mila visitatori al giorno. Il massiccio ba-

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Progetto / 1

Vista sulle collezioni permanenti della Grecia classica. Lo spazio è a doppia altezza ed è sostenuto da solenni colonne. Il percorso lungo gli spazi espositivi è stato concepito per essere molto chiaro e per accogliere il gran numero di visitatori previsto. L'ampio uso del vetro consente un'illuminazione naturale delle gallerie e crea condizioni di esposizione simili a quelle originali sull’Acropoli 60 DESIGN +


Sopra: una delle gallerie espositive del volume centrale. Sotto: 1. Nuovo Museo dell’Acropoli: volume centrale a doppia altezza; 2. ultimo piano del Museo contenente i reperti storici del Partenone; 3. entrataterrazzo del Museo; 4. Edificio in Art Déco dei primi del’900 dell’architetto Vassilis Kouremenos; 5. Temenos di Dionisio; 6. Teatro di Dionisio; 7. Odeon di Pericle; 8. Tempio di Asclepio; 9. Stoà di Eumene e Asclepio; 10. Odeon di Erode Attico; 11. Propilei - Tempio di Atena Nike; 12. Edificio dell'Arrephoreion; 13. Statua di Atena Promachos; 14. Tempio di Atena - Eretteo; 15. Altare di Atena; 16. Tempio di Zeus; 17. Tempio del re Pandion; 18. Partenone; 19. Tempio di Demetra - Calcoteca

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Progetto / 1 samento, costruito sugli scavi archeologici, si appoggia su circa cento sottili pilastri in cemento armato, posizionati nel tessuto storico degli scavi uno alla volta per non danneggiare i fragili reperti. Questo piano ospita l’atrio d’ingresso, le aree di servizio, gli spazi per le esposizioni temporanee, l’auditorium e la lunga rampa vetrata che porta al doppio volume nella sezione centrale dove sono conservate le collezioni permanenti rappresentative di un’epoca compresa tra il Periodo Arcaico e quello Tardo-Romano, e a un mezzanino contenente i locali di ristorazione che a loro volta si affacciano su una terrazza. Ciò che maggiormente caratterizza il basamento è una pavimentazione in vetro che permette di ammirare gli scavi sottostanti. L’edificio termina con la Galleria del Partenone, un ampio spazio rettangolare ruotato di 23 gradi rispetto all’edificio sottostante per risultare così direttamente orientato verso l'Acropoli. È un ambiente dotato di pareti di vetro, dalle luci calibrate e dalle temperature adeguate ai reperti e che offre ai visitatori una veduta completa di tutta la città e dei suoi templi antichi. Al centro della Galleria è collocato il Fregio del Partenone ed è supportato da un basamento di calcestruzzo rettangolare posto nella medesima posizione e con lo stesso orientamento che gli era proprio nell’Acropolis. Quello del New Acropolis Museum è un progetto, insomma, che va dall'interno verso l’esterno. È un oggetto osmotico che fa dialogare il reperto con i luoghi di provenienza, e ciò che più lo caratterizza è un prevalente sviluppo orizzontale. Tutto gravita intorno all'enorme sala pensata per accogliere le sculture del Partenone, comprese quelle note come i marmi di Elgin, che, sottratti nel 1801 da Lord Elgin, ambasciatore inglese presso l’Impero Ottomano, si trovano ancora al British Museum di Londra. Per adesso, intanto, in questa sala si alternano agli originali marmi superstiti gli accuratissimi calchi di quanto oggi si trovi altrove. E la visibile diversità di colore dei calchi testimonia la condizione di attesa che il Museo di Atene nutre nei confronti dei capolavori originali. Tra i pezzi più importanti che Elgin fece asportare vi sono le metope, la decorazione dell'architrave del Partenone che raffiguravano la presa di Troia, la Gigantomachia, l'Amazzonomachia e la Centauromachia, nonché la narrazione della nascita di Atena. Gli operai purtroppo, nella foga dello smontaggio, danneggiarono gravemente le strutture degli edifici, ferite ancora oggi evidenti e vive sia nei marmi che nell’orgoglio greco. Nel 1801 Elgin cominciò a trasportare in Inghilterra i reperti sottratti all'Acropoli che fino al 1816 rimasero alloggiate in un padiglione temporaneo all’interno della sua residenza, fino a quando divenuti proprietà statale, i 56 pannelli del fregio, le 15 metope, 62 DESIGN +

PIANTA GALLERIA DEL PARTENONE

PIANTA PRIMO PIANO

SEZIONE TRASVERSALE


Esterno del museo al crepuscolo. Da questo punto è possibile godere della vista anche sul piano ipogeo destinato ai resti dell'antica Atene

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Progetto / 1

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A sinistra: vista dall’alto del complesso museale all’interno del quartiere Makryjannis. Nella pagina a fianco, in alto: ingresso per il pubblico sulla Dionysiou Areopagitou. Al piano superiore la copertura dell’atrio fa da terrazza al ristorante. In basso: prospetto esterno visto da via Mitsaion

IL MUSEO HA UNA GEOMETRIA ESSENZIALE, SOSTENUTA DALLE NUMEROSE SUPERFICI VETRATE E DA UNA STRUTTURA PORTANTE ALQUANTO RIGIDA le 17 statue dai frontoni, una Cariatide e una colonna dell’Eretteo furono trasferiti al British Museum dove ancora risiedono. Nel nuovo museo di Atene, invece, il Fregio del Partenone è ricostruito affiancando ai pezzi originali dello scultore Fidia le riproduzioni in gesso dei frammenti che appunto non si trovano più in patria. Si sa, si tratta di una non velata polemica tra Atene e Londra che influenza il percorso di visita, calcolato in modo da sottolineare ed enfatizzare la mancanza dei capolavori originali, così da non allentare la tensione, e far sì che il visitatore sappia a quale altezza il fregio era collocato. È la luce che suggerisce e crea il movimento delle forme ed esalta la sistemazione degli spazi che sono stati comunque pensati in funzione delle opere esposte. È la luce che modella lo spazio. Ma è l'architettura a raggiungere il suo massimo vigore cedendo alle sculture il ruolo da protagonista. In solitaria esistenza e ciascuna sul proprio basamento, queste ultime dialogano con lo spazio e invitano il visitatore a girarvi intorno, sia per apprezzare meglio quella morbida plasticità e quella fine esecuzione che gli antichi Greci chiamavano akribeia, sia per accompagnare il visitatore nei diversi spazi dediti all’arte e alla storia, dandogli così modo di apprezzare l’ambiente, la sua trasparenza e la sua luce. Tschumi ha giocato le sue carte soprattutto su un aspetto particolare: la riproposizione di quella stessa luce, sotto i cui auspici le sculture furono pensate ed eseguite. Tutto l’intervento è costato 130 milioni di euro. Si è trattato dunque di un vasto investimento economico, realizzato con le sovvenzioni della Comunità Europea e con i fondi della Fondazione Melina Mercouri, ministro della Cultura nel 1982, impegnatasi nella battaglia per il ritorno delle opere trafugate. In queBERNARD TSCHUMI

Nasce a Losanna nel 1944. Studia a Parigi e al Federal Institute of Technology di Zurigo. Tra il 1970 e il 1980 insegna all'Architectural Association di Londra, all'Institute for Architecture and Urban Studies a New York e alla Princeton University. Nel 1982 vince il concorso per il Parc de la Villette di Parigi e apre lo studio Bernard Tschumi Architects a Parigi e nel 1988 a New York. In quello stesso anno diventa editore di "D" (Columbia Documents of Architecture and Theory) e diventa membro del Collège International de Phylosophie. È stato nominato nel 2004 Direttore Generale per l'Esposizione Internazionale a Dugny in Francia. Ha vinto diversi premi e riconoscimenti ed è impegnato in più parti del mondo.

sti spazi espositivi troveranno collocazione oltre quattromila reperti recuperati dagli scavi dell’Acropoli e alcuni manufatti originali come le Cariatidi. La scelta, del turista frettoloso o dell’attento studioso, di trascorrere qualche ora tra il paesaggio e la storia sarà sicuramente premiata. Mentre le motivazioni che portarono la giuria a scegliere il progetto di Bernard Tschumi trovano giustificazione nella semplicità ed essenzialità non egocentrica dell’architetto svizzero - americano, e nella consapevolezza di volere un’architettura capace di non sottrarre attenzione ai millenari siti storici (2500 anni), di cui Atene va tanto fiera. Mentre la scelta del luogo, argomento più volte criticato, è il risultato di una decisione che risale invece alle direttive del bando del concorso, così come la necessità di collegare il nuovo edificio ai percorsi lastricati, progettati da Dimitrios Pikionis e vincitori nel 2003 del premio Carlo Scarpa. Il nuovo museo ospita anche grandi spazi di relazione e il ristorante, posto nella sala a vetri al primo piano offre una suggestiva vista mozzafiato sull’Acropoli. Ad offuscare questa vista concorrono due edifici dei primi del Novecento, uno in stile Neoclassico, e l’altro, un monumento nazionale, in stile Art Déco degli anni ’30. Le polemiche ovviamente non mancano neanche su questa situazione. Atene è divisa in due, c’è chi difende le due palazzine storiche e c’è chi vorrebbe demolirle per far sì che si possa godere una vista libera e senza impedimenti anche nell’area ristoro. Comunque vada, l’apertura del NMA è un sogno materializzatosi dopo trent'anni di idee e progetti e nove di lavori, ed è sicuramente una battaglia vinta per Atene, accusata in passato di non possedere una sede adeguata per ospitare i marmi. I festeggiamenti per l’inaugurazione sono durati dieci giorni. Al taglio del nastro erano presenti molte autorità locali: il direttore generale dell’Unesco, diversi capi di Stato e ministri e commissari europei. Ovviamente gli assenti erano gli inglesi. DESIGN + 65


Progetto / 2

Una plasticità scultorea caratterizza il Nuovo Palazzo della Danza di San Pietroburgo progettato da UNStudio. Un edificio accogliente che grazie ai suoi due auditorium sarà in grado di ospitare più di mille spettatori di Mercedes Caleffi

IL TEMPIO

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SCHEDA

Photo UNStudio

Gruppo di progetto UNStudio, Ben Van Berkel Luogo San Pietroburgo, Russia Data 1994 - 2009 Area totale progetto 21mila metri quadri Altezza totale dell’opera 28 m Costo totale dell’opera 16 milioni di euro Ingegneria strutturale Arup Russia

Sopra: quattro viste diverse sviluppate dai rendering di progetto che evidenziano la pelle osmotica scelta per le facciate dell’edificio. L’intenzione del progettista è creare un luogo dell’osservare e dell’essere osservati tra le pieghe di un volume che si torce e si doppia creando un vuoto di luce nel suo interno DESIGN + 67


S

Progetto / 2 an Pietroburgo. Una città ricca di storia. Uno dei principali centri artistici e culturali d'Europa. Dal 1990 è inclusa nella lista dell'UNESCO proprio per la presenza di diverse architetture, celebri in tutto il mondo: il Museo dell'Ermitage, la Colonna di Alessandro, la Chiesa del Salvatore, la Prospettiva Nevskij, il Teatro Mariinsky e altro ancora. Ma quando si nomina San Pietroburgo l’immaginario collettivo rievoca i suoni, le movenze e i gesti della grazia plastica del balletto moderno che proprio in questa città si è evoluto. L’Eifman Ballet Company è un famoso corpo di ballo di San Pietroburgo fondato, nel 1977, dal coreografo Boris Eifman, che negli anni ha sviluppato un suo stile riconosciuto dagli amanti della danza e che lo ha reso famoso in tutto il mondo. Si sa quanto nella cultura russa il balletto sia importante. Difatti è proprio per questo corpo di ballo che la città di San Pietroburgo ha indetto un concorso per la costruzione di un nuovo “Palazzo della Danza”. Concorso che è stato vinto dallo studio olandese UNStudio di Ben Van Berkel. La struttura sorgerà nel nuovo quartiere European Embankment, in pieno centro storico, su un ex sito industriale, secondo le direttive del masterplan curato dall’atelier russo Yevgeny Gerasimov and Partners. Il teatro si affaccerà su una nuova piazza pubblica così da consentirne la piena visibilità dalla vicina Cattedrale del Principe Vladimir e dalla Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo, nonché da altri importanti edifici della città. È un progetto che tiene conto del contesto cittadino, e ne rispetta vari canoni, tra cui quello di non superare l’altezza dei 28 metri tipica degli edifici del centro cittadino. Il nuovo teatro, Sopra: prefigurazione dei palchi e delle platee. In alto: rendering sotto la luce diurna. In basso: schema rappresentativo dei vettori deformanti, torcenti, impiegati per lo sviluppo volumetrico dell’edificio e vettori di fluidità per i movimenti interni

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A sinistra: sezione trasversale. È chiaro lo studio fatto per ottenere da qualsiasi punto la vista dei piedi dei ballerini. In basso: prefigurazione del foyer, il luogo dove gli spettatori hanno la possibilità di intrattenersi prima, dopo e durante le pause dello spettacolo

dall’aspetto scultoreo, proprio come un muscolo al massimo della sua plasticità, è immaginato come un edificio accogliente, in grado di ospitare 1300 spettatori. L’elemento caratterizzante è lo spazioso foyer che si relaziona con la piazza circostante e la città attraverso un sistema in pannelli triangolari in vetro in parte opachi e in parte incolore che, proprio perché perforati, creano un gioco di trasparenze tra il nuovo contenitore culturale e l’esterno. Il foyer diventa il luogo dell’osservare e dell’essere osservati, complice tutta una serie di balconate che avvolgono il salone centrale e offrono la vista sugli spettatori presenti e su quelli che gravitano ancora nella piazza intorno al teatro stesso. Il complesso sarà dotato di due auditorium, quello principale che ospiterà mille spettatori, caratterizzato pricipalmente da un andamento a ferro di cavallo, forma che garantirà alla struttura un’ottima ed efficace performance acustica, e quello più piccolo in grado di contenerne solo 300. Il pubblico si ritroverà molto vicino al palco a garanzia di un’atmosfera intima e sarà protagonista di un’esperienza singolare e collettiva. Tutto l’auditorium è stato

pensato così da rendere possibile la vista dei piedi dei ballerini da ogni posto in sala, in qualsiasi momento e qualsiasi posizione l’artista abbia sul palco. Tutto ciò ovviamente sarà apprezzato dai veri cultori della danza, che di certo non mancano a San Pietroburgo. Una San Pietroburgo oramai nuova. La vecchia signora, come la chiamano gli intellettuali russi, avrà nuovi punti focali per i suoi cittadini e per i suoi turisti. La Prospekt Nevskij, il cuore della città, un cuore paradossalmente lungo quattro chilometri, meta dello shopping griffato, è storicamente famosa per la moltitudine di monumenti che vi si possono apprezzare, come la cattedrale di Kazan o quella di San Isacco. Conduce, inforcando la piccola deviazione di via Teatralnaja, al teatro famoso Mariinkij, tempio della danza dove hanno mosso i primi passi Anna Pavlova e Rudolph Nureyev. Altrettanto facilmente sarà possibile arrivare anche al nuovo teatro, il Dance Palace, un palazzo che sarà fonte di orgoglio per i cittadini e un motivo in più per non sentirsi dire dai moscoviti che la città è stata costruita prima dalla superbia e poi dai russi.

LA STRUTTURA SORGERÀ NEL NUOVO QUARTIERE EUROPEAN EMBANKMENT, IN PIENO CENTRO STORICO, SU UN EX SITO INDUSTRIALE

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UNA CASA PER KNUT HAMSUN Progetto / 3

Un edificio nero si staglia tra i fiordi norvegesi. È la torre del Knut Hamsun Center progettata da Steven Holl. Ripropone cromatismi tipici della storia norvegese. Una casa per i “vagabondi” amanti dello scrittore Knut Hamsun di Iole Costanzo 70 DESIGN +

L

a Norvegia. Il Nord Europa. È più di qualche anno che l’interesse turistico per queste terre è in forte aumento. C’è tanta voglia di distese di neve da solcare con le slitte, di aurore boreali, di silenzi e paesaggi intatti. Ha avuto un gran successo infatti l’ice bar corredato di poltrone e bicchieri di ghiaccio. E ciò che questi viaggi propongono sembra alquanto interessante. Oltre a sciare si possono trascorrere romantiche notti spartane nei fari e negli storici b&b che si trovano lungo i fiordi o imbarcarsi sui pescherecci per una giornata e navigare sulla rotta delle orche. Dal 4 di agosto sarà ancora più interessante andare in Norvegia, a Hamarøy per l’esattezza, sopra il Circolo Polare Artico. È qui che è stato inaugurato, infatti, il Knut Hamsun Center. Duemila e settecento metri quadri comprendenti area espositiva, biblioteca, sala di lettura, caffé e auditorium, contenuti in un volume caratterizzato da rivestimento esterno in legno catramato, ascensore in ottone, pareti interne in cemento bianco e tanta luce. L'edificio è stato progettato da Steven Holl nel 1994, con al fianco, dal 2005, lo studio LY Arkitekter di Oslo. L’opera è giunta a compimento dopo 15 anni, e diverse sono state le campagne medianiche avverse, per varie ragioni, tra cui la controversa figura del grande scrittore Knut Hamsun (1859-1952), Premio Nobel nel 1920 per la letteratura. Pur avendo ispirato scrittori come E. Hemingway, T. Mann, F. Kafka, Knut Hamsun è rimasto per lungo tempo uno scrittore sconosciuto ai norvegesi e la ragione è l’accusa di collaborazionismo con il governo nazista ai tempi dell’occupazione tedesca della Norvegia, situazione che gli costò, a guerra finita, la confisca dei beni e l’internamento temporaneo in un ospedale psichiatrico per alcuni anni. Dopo 150 anni dalla sua nascita la Norvegia ha deciso di riabilitare la memoria dello scrittore e la sua città, Hamaroey, gli ha dedicato sei giorni di seminari e mostre. Nonostante i festeggiamenti e l’inaugurazione del museo presenziata dalla principessa Mette - Marit e dal ministro della cultura Trond Giske, le autorità hanno comunque tenuto a sottolineare che "le celebrazioni non cancellano le condanne contro un uomo che collaborò con il regime nazista". È chiaro che ciò che si è deciso di riabilitare è la memoria dello scrittore e non quella dell’uomo che ha spedito al ministro della propaganda nazista Joseph Goebbels la medaglia del premio Nobel e ha compilato un necrologio per Hitler, definendolo ”un guerriero dell'umanità“. Sono tante, insomma, le emo-


Courtesy Steven Holl Architects

SCHEDA

Gruppo di progetto Steven Holl Architects Luogo Hamarøy, Norvegia Data 1994-2009 Area progetto 2.700 metri quadri Costo totale 16 milioni di euro Ingegneria strutturale Guy Nordeson and Associates

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Progetto / 3

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LA TORRE È CONSIDERATA UN PUNTO DI FORTE ATTRATTIVA PER I DIVERSI ITINERARI PANORAMICI CHE IL GOVERNO STA FINANZIANDO

A sinistra: prospetti Est e Ovest dell’edificio. Il corpo in basso, l’auditorium, è un elemento architettonico inserito nel progetto in un secondo momento, completando ulteriormente tutto l’impianto

A sinistra: fotografia del plastico dell’interno. In questa pagina: fotografie della scala interna e del volume degli ascensori rivestito da una rete d’ottone. Nella scala si trovano dei pianerottoli intermedi che creano ulteriori punti di vista da cui ammirare il paesaggio tanto amato da Knut Hamsun

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Progetto / 3

In questa pagina: Presteid, un villaggio nella regione di Hamarøy, 300 chilometri oltre il circolo polare artico, che ha dato i natali allo scrittore Knut Hamsun, ha un nuovo skyline. Ma la torre, che qui vediamo ripresa dal Mare del Nord, sembra appartenere a questo luogo già da tempo

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PIANTA SECONDO PIANO PIANTA PIANO TERRA

STEVEN HOLL

È nato a Bremerton, Washington, nel 1947. Si è laureato presso l'Università di Washington ma ha proseguito gli studi di architettura a Roma e alla Architectural Association di Londra. Nel 1976 si stabilisce a New York dove fonda lo studio Steven Holl Architects. È docente della Graduate School of Architecture della Columbia University e ha tenuto corsi presso vari altri istituti, fra cui l'Università di Washington a Seattle, il Pratt institute di New York e l'Università della Pennsylvania. I suoi lavori sono stati esposti al MoMa e al Walker Art Center di Minneapolis. Pratica la professione di architetto dal 1974 negli Stati Uniti, Francia, Australia, Italia, Germania, Giappone, Austria e nei Paesi scandinavi. Tanto pittore quanto architetto, è famoso per i suoi acquarelli e i suoi schizzi concettuali.

zioni contrastanti che hanno accompagnato la realizzazione di questo progetto. Non è un caso, infatti, che il principio che ha ispirato il progetto, il così tanto citato concept, è “come un corpo umano, campo di battaglia tra forze invisibili”. La struttura è pensata e costruita come un archetipo dello spirito e per ottenere questo effetto si fa uso di suggestioni letterarie e di tradizioni costruttive tipiche norvegesi come il rivestimento esterno in legno catramato che richiama le travi di legno delle tipiche chiese medievali, e il giardino sul tetto, connotato da lunghe canne di bambù. Un giardino inteso come rivisitazione del caratteristico tetto erboso di questa terra, ovviamente, in chiave contemporanea. Gli spazi interni si avvolgono intorno all’ascensore che, rivestito d’ottone, fa da perno alla luce proveniente dall’alto e responsabile dei tanti giochi di riflessione, fonte d’ispirazioni per la mostra. L’edificio è stato costruito nelle terre che sono state fonte d’ispirazione per lo scrittore, negli stessi luoghi dove lui e sua moglie costruirono la fattoria. Luoghi tranquilli, dalle tenui tinte, destinati a diventare meta turistico culturale e paesaggistica. La torre di Holl è costituita da cinque piani, tutti diversi tra loro, sfalsati e bucati, mentre piccoli piani aggettanti creano verso l’esterno delle piccole postazioni da belvedere. Nella sua semplicità sembra essere destinata a creare emozioni sia per gli sguardi che offre verso l’esterno, sia per la luce che vi penetra all’interno, nonché per le mostre e le proiezioni dei film, ispirati alle opere di Hamsun, che vi verranno organizzate. Sembra che la torre, con la sua armonica dimensione, che avvolge e coinvolge anche il nero corpo orizzontale dell’auditorium a cui è collegato con una passerella, possa diventare un punto nevralgico di forte attrattiva per i diversi itinerari panoramici che il governo norvegese sta finanziando. E se di panorama si parla, la sensibilità di Steven Holl sembra abbia voluto coglierne i migliori aspetti, creando delle aperture che offrono scorci suggestivi e sensibili alle diverse tinte stagionali. Quelle tinte smorzate che l’architetto stesso ha usato nei suoi schizzi preparatori, caratterizzati da un segno caldo e preciso. Schizzi che hanno poi portato alla stesura del progetto insignito nel 1997 del Progressive Architecture Award e alla costruzione del plastico che è stato acquisito nella prestigiosa collezione del MoMA. DESIGN + 75


MATERIALI COMPLESSI di Ernesto Antonini

Nonostante le preoccupazioni per il degrado del pianeta e l’incombente crisi energetica, oggi appare tuttavia poco credibile immaginare di poter fare a meno di acciaio, vetro, cemento armato, materie plastiche e delle loro formidabili prestazioni, sviluppate tramite una progressiva artificializzazione. Ancora meno facile è immaginare che le costruzioni di domani potranno soddisfare le esigenze di un pianeta con dieci e più miliardi di abitanti e rispondere a requisiti energetici, ambientali, funzionali, espressivi sempre più severi, interrompendo o addirittura percorrendo a ritroso quel processo di manipolazione delle risorse naturali, di complessificazione della materia che ci accompagna fin dalla “rivoluzione del Neolitico”. Un percorso spesso confuso, forse inefficiente e certo non lineare, che tuttavia ha sviluppato una straordinaria abilità di modificare l’habitat e di renderlo più adatto alla sopravvivenza. La Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni (che è il sottotitolo provocatorio dello stimolante Armi acciaio e malattie di Jared Diamond, 1997) mostra che, malgrado tutto, l’homo sapiens ha potuto sopravvivere e successivamente affermarsi proprio perché è riuscito a rubare il fuoco agli dèi e ha imparato a usarlo. Anche se forse non abbastanza per evitare di scottarsi. EVOLUZIONE IN QUATTRO TAPPE

Le tecnologie edilizie sono parte integrante di questa vicenda millenaria. Mangiare,

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vestirsi, abitare costituiscono il nucleo delle esigenze fondamentali per soddisfare le quali si sono applicate e sviluppate le capacità tecniche, con un processo che alla natura si è largamente ispirato, cercando prima di comprenderne i meccanismi e poi di riprodurne negli artefatti gli esiti e le logiche funzionali. Una chiave efficace per leggere il progresso fondamentale delle tecniche e osservarne la dinamica è la classificazione proposta da Carla Langella (Nuovi paesaggi materici, 2003), che identifica una successione, la cui linea di evoluzione conduce dai materiali grezzi primari (“bulk”), fino a quelli ottenuti grazie alla manipolazione della struttura più intima della materia, che imita artificialmente i meccanismi biochimici e riesce a ottenere raffinate forme di dinamismo quasi-biologico. Passando per due stadi intermedi: quello dei compositi, caratterizzati dalla integrazione macroscopica di materiali diversi per ottenere prestazioni aggiuntive, come ferro e calcestruzzo nel cemento armato, e quello dei materiali funzionalizzati, che riescono ad incorporare la capacità di reagire a specifiche sollecitazioni grazie all’apporto di altre sostanze capaci di modificare alcune delle loro caratteristiche fisico-chimiche, come le variazioni di trasparenza nei vetri fotocromatici. Percorrendo questa linea di sviluppo, si ritrovano due piste parallele, spesso interconnesse. La prima, che è fino ad oggi la più fertile e praticata, fa evolvere la materia dal semplice al

complesso e procede dallo sfruttamento più intenso di proprietà elementari disponibili come risorsa naturale, fino a indurre modificazioni più sostanziali. La seconda pista è quella che spinge la materia dal comportamento inerte alla capacità di offrire una risposta adattiva, tipica della natura animata. Questa strategia ha potuto essere veramente praticata solo in tempi molto recenti, grazie agli straordinari progressi della fisica e della chimica. E solo ora comincia a produrre i primi risultati, con le applica-

zioni delle nanotecnologie e delle biotecnologie. I COMPOSITI

Il primo stadio della complessificazione della materia grezza ad opera della tecnologia è la formazione di materiali compositi, ottenuti dalla combinazione di ingredienti di base, reperiti in natura o manipolati artificialmente. Questa tecnica di combinazione, sviluppata fin dalla preistoria remota, continua ancora oggi ad offrire risposte efficaci. Fra le applicazioni preindustriali, un esempio di successo 1

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Foto 1. Mattone in terra cruda proveniente dal Ramesseum di Tebe, con impresso sulla faccia superiore il sigillo di Ramesses II (Egitto, XIX Dinastia, 1279-1213 a.C., ora conservato al British Museum). Foto 2. Le fibre di vetro Cem-Fil® di Saint-Gobain offrono modulo molto elevato, pari a 10 volte quello del polipropilene, e sono caratterizzati da resistenza alla trazione da 3 a 4 volte superiore a quella dell'acciaio. Il loro impiego consente di produrre manufatti in calcestruzzo con spessori ridoti fino a 10 a 15 mm, pesi ridotti ad ¼ rispetto al calcestruzzo normale a parità di resistenza dell’elemento, ottimo comportamento elvata all’impatto, alla flessione e alla propagazione di fessure. (Foto: Saint-Gobain)


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Foto 3. Le foto ottenute al microscopio elettronico evidenziano la affinità chimica della fibra nano modificata PAN coi prodotti di idratazione del cemento (che nell’immagine appaiono come filamenti), e il fittissimo legame tra i due materiali nella struttura del conglomerato, indizio di elevata adesione. (Foto: Basf-The Chemical Company) Foto 4. Figura di animale realizzata in piastrelle di ceramica smaltata: decorazione della Porta di Ishtar, proveniente da Babilonia, VI sec. a.C. (ricostruita e conservata al Pergamon Museum–Collezioni dell’Arte antica del Vicino Oriente, Berlino. Foto Ernesto Antonini)

dalle prestazioni migliorate e già reperibili sul mercato.

è l’aggiunta di paglia alla terra cruda, per produrre mattoni più resistenti e meno fragili di quelli ottenuti da solo fango (Foto 1). O il crine di cavallo impastato insieme alle malte da intonaci, per prevenirne la fessurazione, con la stessa logica che oggi ritroviamo nella formulazione di malte e calcestruzzi fibrorinforzati con fibre di vetro, metallo o realizzate con polimeri sintetici. In epoca moderna, il caso più noto in edilizia è quello che ha dato vita ad uno dei materialisimbolo dell’architettura contemporanea: il cemento armato L’inserimento di un rinforzo in barre d’acciaio in una matrice di conglomerato cementizio produce un materiale dalle caratteristiche di una pietra, ma resistente anche a trazione e quindi a flessione. A partire dalla metà del XIX secolo, lo sviluppo della chimica delle materie plastiche ha aperto un nuovo fronte in questa direzione, introducendo un’intera famiglia di materiali sintetici, che hanno moltiplicato le possibilità di combinazione e consentito una grande varietà di ibridazioni naturale/artificiale e di manipolazioni delle loro proprietà. Recentemente, l’uso di fibre ad

elevate proprietà meccaniche ha permesso di sviluppare una nuova generazione di compositi quali la vetroresina o fiberglass (poliestere con fibre di vetro) e tutta la gamma dei moderni FRP (Fiber-Reinforced Polymers). Ma anche i compositi a matrice cementizia continuano ad evolversi: la nuova frontiera aperta grazie ai progressi delle nano scienze sta producendo importanti risultati in termini di materiali

Fibre di vetro Cem-Fil® Le fibre di vetro Cem-Fil® prodotte da Saint Gobain sono destinate a produrre calcestruzzi GRC, (per Glass Reinforced Concrete, cioè fibrorinforzati con vetro in matrice cementizia). I filati Cem-Fil® offrono modulo molto elevato, pari a 10 volte quello del polipropilene, e sono caratterizzati da un resistenza alla trazione pari a tre o quattro volte quella dell'acciaio. Il loro impiego consente soprattutto di produrre manufatti in calcestruzzo con spessori ridotti fino a 10 a 15 mm, pesi equivalenti ad ¼ rispetto al calcestruzzo normale, con una resistenza elevata all’impatto, alla fles-

sione e alla propagazione di fessure. Il GRC Cem-Fil è infatti idoneo alla realizzazione di elementi prefabbricati finiti come pannelli di facciata, decorazioni per interventi conservativi, coperture, pannelli antincendio. Le fibre trovano applicazione anche in getti per opere di ingegneria civile: canalizzazioni, condotte, barriere anti-rumore, sistemi di drenaggio, rivestimenti di tunnel. Le fibre vengono incorporate nella matrice cementizia mediante proiezione simultanea dei due componenti in uno stampo aperto oppure mediante preparazione di una miscela preliminare di fili pretagliati, che può essere iniettata, vibrata, estrusa oppure può essere pressata in uno stampo (Foto 2). 4

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Malte da riparazione Emaco® Nanocrete Grazie alla progettazione della composizione delle nanoparticelle di materia, la linea Emaco® Nanocrete, prodotta da Basf Construction Chemicals, consente di garantire la massima efficacia e durabilità all’intervento di ripristino. Il prodotto è disponibile sul mercato in quattro formulazioni: una malta cementizia monocomponente nanomodificata contenente fibre in poliacrolonitrile (PAN) per riparazioni strutturali (Emaco® Nanocrete R4); una malta cementizia monocomponente polimeromodificata con fibre PAN per riparazioni strutturali ad alto spessore (Emaco® Nanocrete R3); una malta cementizia monocomponente polimeromodificata a presa rapida, per riparazioni e riprofilatura degli elementi ammalorati (Emaco® Nanocrete R2); un

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passivante attivo per la protezione dei ferri d’armatura (Emaco® Nanocrete AP). I principi impiegati nel definirne le formulazioni hanno consentito di ottenere un miglioramento del legame con aggregati e supporto, un’elevata resa per contrastare la fessurazione da ritiro plastico, una totale resistenza ad agenti aggressivi (Foto 3). I MATERIALI FUNZIONALIZZATI

Il secondo stadio del processo di complessificazione dei materiali è quello reso possibile dall’introduzione più “in profondità”. La tecnica più frequentemente utilizzata fin dall’antichità è quella che induce modificazioni delle caratteristiche fisico-chimiche di alcuni materiali primari, sottoponendoli a processi termici, come la calcinazione dei calcari per ottenere la calce, la produzione

Foto 5. Una lamiera in acciaio Corten (Foto: TAU Metal) Foto 6. Una griglia realizzata con lamiera stirata in rame prepatinata TECU® Net Patina Rib Mesh (Foto: TECU-KME)

del vetro tramite la fusione delle sabbie silicee o la cottura delle argille per realizzare elementi da costruzione in laterizio, più resistenti, più durevoli e geometricamente stabili rispetto ai mattoni in terra cruda o solo essiccata al sole. Allo stesso stadio di evoluzione appartengono anche altri materiali ottenuti ancora per manipolazione fisico-chimica di ingredienti semplici, ma senza fare uso di processi termici. Ad esempio, una delle tecnologie di punta dell’ingegneria romana: l’additivazione con argilla delle pozzolane naturali, per conferire alle malte caratteristiche idrauliche con le quali realizzare superfici impermeabili in infrastrutture come cisterne e acquedotti. O l’impiego di aggiunte organiche come il latte o l’albume d’uovo o l’olio di lino - agli intonaci per renderne dura, omogenea e brillante la superficie, oppure per stabilizzare gli effetti cromatici indotti dall’uso di sostanze coloranti di origine vegetale o minerale, soprattutto quando il pigmento presentava scarsa compatibilità con l’am-

biente alcalino creato dalla malta. A questo stadio del processo di complessificazione appartiene anche il grande gruppo dei materiali funzionalizzati per sovrapposizione di strati, cioè applicando trattamenti superficiali realizzati con sostanze o processi diversi da quelli che costruiscono il supporto, ma in modo da risultare stabilmente fissati ad esso. Fra le tecnologie antiche, il caso più noto è quello degli smalti vetrosi utilizzati per impermeabilizzare, aumentare la durabilità, colorare e decorare i manufatti in ceramica: un’innovazione decisiva, se dopo diverse migliaia anni la tecnologia della smaltatura è ancor fondamentale nella moderna industria ceramica, che continua a farla evolvere e ad applicarla con successo (Foto 4). Anche il rivestimento delle murature con intonaco realizza una strategia di funzionalizzazione superficiale, a scopo protettivo o ornamentale, così come l’applicazione, con le stesse finalità, di strati colorati su un’estesa gamma di materiali di vario impiego. 6


In epoca moderna, la funzionalizzazione delle superfici è stata ed è tuttora largamente praticata anche nel settore metallurgico e in quello dei vetri. La deposizione di strati protettivi di metalli resistenti alla corrosione, soprattutto tramite la galvanizzazione elettrochimica, ha aumentato la durabilità di manufatti realizzati con materiali metallici sensibili all’ossidazione e ne ha consentito l’impiego in nuove applicazioni. Una sottile cappa superficiale di zinco funzionalizza l’acciaio di lamiere e profilati, proteggendolo dalla ruggine. In modo analogo, le nichelature e le cromature di maniglie e altri accessori per serramenti o dei rubinetti e dei raccordi per apparecchi sanitari ne preservano per lungo tempo l’aspetto lucido e brillante, favorendone la pulibilità e difendendo dall’attacco degli ossidi il materiale sottostante. Con strategia opposta, ma con finalità analoghe, su alcuni metalli vengono indotti processi che favoriscono lo sviluppo di uno strato di ossido superficiale, simile a quello prodotto dall’azione degli agenti atmosferici, ma controllato in modo che la patina presenti una struttura compatta e ben aderente al supporto, così da fungere da protezione degli strati retrostanti non ossidati. L’aspetto “naturale” e l’apparenza autentica che mostrano – a dispetto del fatto che in realtà sono ottenute con un raffinato processo di manipolazione- oggi costituiscono oggi altrettanti fattori di successo per materiali come il Cor-Ten (per CORrosion resi stance-TENsile strength, brevettato dalla United States Steel Corporation nel 1933) (Foto 5) o le lamiere in rame preossidate o prepatinate, come quelle prodotte

dalla tedesca KME con il marchio TECU® (Foto 6). Ancora più rilevanti sono gli effetti prodotti dalla funzionalizzazione delle superfici dei vetri, che tramite il deposito metalli o ossidi metallici sulle facce delle lastre piane ha modificato radicalmente alcune fondamentali prestazioni del materiale, mantenendone tuttavia sostanzialmente inalterate le proprietà di resistenza meccanica e di trasparenza. Applicando depositi (coating) di argento e ossido di stagno si migliorano le prestazioni di isolamento termico del materiale, riducendo fino a meno di un ventesimo l’emissività della lastra rispetto al quella realizzata con vetro non trattato. Con depositi di ossidi metallici si aumenta invece la riflessione di parte della radiazione incidente, rendendo la lastra selettiva e quindi migliorando sensibilmente il fattore solare del vetro, mentre l’applicazione di biossido di titanio, grazie alle sue proprietà fotocatalitiche, consente di ottenere vetrate autopulenti, una prestazione che induce nel materiale un vero e proprio comportamento dinamico. La disponibilità di una gamma tanto estesa di caratteristiche funzionali dipende dallo straordinario sviluppo registrato in meno quaranta anni dai processi di coating del vetro piano. L’applicazione degli ossidi metallici col sistema pirolitico, che li deposita per vaporizzazione al vetro caldo in uscita dalla vasca di float, a partire dagli anni ’80 è stato prima affiancato e poi parzialmente sostituito dal processo magnetronico, che interviene sulla lastra finita con una sofisticata tecnica sotto vuoto, consentendo elevate precisioni di dosaggio dei depositi e quindi alta selettività degli effetti di funzionalizzazione indotti nel materiale.

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Foto 7. La struttura di un polistirene estruso ad alta densità (XPE), vista al microscopio elettronico. Le cavità circondate da sottili lamine di colore chiaro hanno dimensioni fra i 100 e i 200 nanometri (cioè tra 1 e 2 decimillesimi di millimetro) e sono l’effetto del processo di espansione del polimero con CO2, All’aria contenuta all’interno di queste cavità si devono le eccellenti proprietà termoisolanti del pannello Styrodur© di Basf (Foto: Basf-The Chemical Company) Foto 8. Dimostrazione del funzionamento dei vetri fotoelettrocromici sviluppati da Fraunhofer Institute for Solar Energy Systems (ISE) nel 20052006. (Foto: Fraunhofer ISE) 8

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I MATERIALI A COMPORTAMENTO DINAMICO

L’altra pista di evoluzione è quella che spinge la materia dal comportamento passivo alla capacità di offrire una risposta adattiva, riproducendo almeno in parte le strategie tipiche della natura animata, quindi reagendo alle condizioni esterne in modo quasi-biologico. A partire dagli anni Cinquanta del XX sec.olo, l’invenzione del microscopio elettronico e quindi il rapido incremento delle sue prestazioni hanno migliorato la comprensione dell’infinitamente piccolo, permettendo di “vedere” e poi anche di manipolare le strutture più profonde della materia, che erano state scoperte solo qualche decennio prima dalla chimica e dalla 9

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fisica contemporanee (Foto 7). La combinazione di più sostanze ha potuto spingersi così molto oltre la dimensione macroscopica, e riesce oggi ad operare alla scala del nanometro (pari ad 1 miliardesimo di metro, da cui il termine nanotecnologia). Cioè ad intervenire sulla materia ricombinando i singoli atomi e gruppi di atomi che la costituiscono, dando vita a “compositi microscopici” su misura, completamente artificiali, ma efficienti, stabili, performanti e selettivi quasi quanto quelli presenti in natura. In edilizia, sono stati ancora una volta i vetri a fare da apripista. Dapprima con la le tecnologie dei film sottili applicati alla superficie della lastra, rendendola capace di trasformare in modo reversibile le pro-

prietà termiche o luminose o di integrare funzioni complementari, come il riscaldamento dei lunotti delle auto per eliminare la condensa ad opera di resistenze elettriche serigrafate sulla superficie. Poi il deposito di coating attivi ha permesso di avanzare ulteriormente, con lo sviluppo di vetri cromogenici che, attraverso diversi sistemi, possono variare la loro trasparenza e alcuni loro comportamenti termici. Le due principali tecnologie fanno ricorso, una a dispositivi attivati elettricamente fornendo energia dall’esterno, come i cristalli liquidi e i sistemi elettrocromici;

l’altra a dispositivi che non necessitano di alimentazione, ma utilizzano l’energia solare incidente sulla lastra: vetri termocromici e fotocromici. In questa direzione le innovazioni si susseguono: il Fraunhofer Institute for Solar Energy Systems (ISE) ha recentemente sviluppato una nuova tecnologia per la realizzazione di vetri fotoelettrocromici destinati ad applicazioni edilizie, che ne riduce sensibilmente i costi, ne semplifica la produzione e assicura la durabilità e la reversibilità per lungo tempo del processo di variazione della trasparenza.

Foto 9. Progettata da Richard Meier su incarico del Vicariato di Roma e inaugurata nel 2001, la Chiesa "Dives in Misericordia" di Roma fa largo uso del cemento fotocatalitico Bianco TX Millennium® di Italcementi Group, con cui sono realizzati grandi conci prefabbricati in calcestruzzo delle caratteristiche pareti curve esterne dall’aspetto di vele gonfiate dal vento (Foto: Ernesto Antonini)


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Foto 10. La struttura del PCM Micronal® vista al microscopio elettronico (Foto: Basf-The Chemical Company) Foto 10a: Una sfera di Micronal®, dal diametro medio di 2-20µm, composta da una capsula esterna in materiale polimerico, riempita da una paraffina PCM (Foto: Basf-The Chemical Company)

Sulla lastra vengono depositati uno strato trasparente elettroconduttivo, che funge da “elettrodo trasparente”, poi uno strato elettrocromico in ossido di tungsteno e quindi uno strato nanoporoso di ossido di titanio, che funziona da materiale fotovoltaico e fornisce l’energia per alimentare l’elettrocromatismo. Si ottiene un vetro che senza necessità di alimentazione energetica da fonte esterna reagisce alle condizioni ambientali, inscurendosi progressivamente quanto più è illuminato, fino a limitare del 62% la trasmissione della luce visibile dopo 15 minuti di esposizione al sole, per poi tornare progressivamente all’originaria trasparenza al ridursi dell’irraggiamento (Foto 8). Anche l’effetto “autopulente” dei vetri, già disponibile in prodotti commerciali ampiamente collaudati come SGG BIOCLEAN® di Saint-Gobain o in Pilkington Activ™ di Pilkington, va registrato fra i comportamenti attivi , Il film autopulente in biossido di Titanio è applicato sulla faccia della lastra esposta agli agenti atmosferici: quando è esposto alla luce solare, il rivestimento decompone chimicamente lo sporco organico, che grazie alla distribuzione uniforme e all'effetto idrofilico, in caso di pioggia può essere dilavato ed asportato dall'acqua che scorre sulla lastra. L'aspetto

è molto simile a quello di un vetro comune: il rivestimento: il coating, non soggetto ad erosione, induce una tonalità solo leggermente azzurrata, nessun effetto sulla resistenza meccanica della lastra e una trascurabile riduzione del passaggio della luce e dell’energia solare. L’adozione di un comportamento fotocatalitico non è più esclusivo dei vetri: Tx Active®, brevettato dal Gruppo Italcementi, è un principio fotocatalitico che applicato a cementi e leganti conferisce loro un comportamento foto attivo. Nella matrice cementizia vengono dispersi dei fotocatalizzatori nanocristallini basati su biossido di titanio che, in presenza di energia solare e grazie al forte potere ossidativo, sono in grado di decomporre le sostanze organiche depositate, facilitandone la rimozione dalla superficie del materiale e purificando così anche aria e acqua. Sperimentazioni condotte investigando modelli comprendenti cemento e anastasio (una forma cristallina di diossido di titanio) hanno portato alla messa a punto una gamma di materiali fotocatalitici: malte, pitture, intonaci, calcestruzzi, pavimentazioni (Tx Aria®), cementi (Tx Arca®) (Foto 9). Più allineata con la linea di sviluppo legata alla complessificazione della materia è la messa a punto di materiali a cambia-

mento (o transizione) di fase, noti con la sigla PCM (Phase Change Materials). I PCM sono materiali solidi a temperatura ambiente, ma capaci di liquefarsi quando esposti ad una temperatura superiore. In questo modo essi accumulano in forma latente l’energia che li colpisce, senza aumentare la loro temperatura. Quando vengono riportati al di sotto della temperatura di soglia, il ciclo si inverte, il materiale torna allo stato solido e cede calore all’ambiente, funzionando così da volano termico. Grazie alla tecnologia Micronal® recentemente sviluppata da BASF, oggi sono disponibili materiali da costruzione a cambiamento di fase che permettono di aumentare l’inerzia termica degli elementi edilizi senza aumentarne la massa, conciliando così benessere termico e leggerezza. Il PCM Micronal® è costituito da sfere polimeriche microscopiche (dal diametro di 2-20µm) , contenenti una paraffina capace di passare dallo stato solido a quello liquido al variare della sua temperatura fra 22 e 26 °C, e viceversa. Le sfere possono essere facilmente incorporate nei comuni materiali da costruzione, già disponibili sul mercato: le malte per intonaco interno a a base di gesso “Maxit Clima”prodotte da Maxit e le lastre di cartongesso “PCM 23-26” di Knauf,

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che con 15 mm di spessore offrono una capacità di accumulo termico pari a quella di un muro in mattoni pieni da 12 cm o in calcestruzzo da 9 cm, ma con una massa quasi 10 volte inferiore. (Foto 10 10a) VERSO IL FUTURO

Benché il ritmo dell’evoluzione negli ultimi due secoli sia diventato tanto frenetico da apparirci quasi inquietante. Oggi l’introduzione negli edifici di componenti e dispositivi attivi -capaci cioè di reagire in modo reversibile e pressoché in continuo alle condizioni indotte dal comportamento degli occupanti, dal clima, dall’incendio o dal terremotoaprono un nuovo fronte di innovazione. Involucri a comportamento dinamico, superfici a condicibilità termica o a trasparenza variabili, materiali a cambiamento di fase ampliano e spesso integrano le prestazioni offerte da sofisticate dotazioni impiantistiche, che l’elettronica permette di affinare ulteriormente nella precisione di funzionamento, nella selettività e nella efficacia. Non c’è alcuna garanzia che così sapremo recuperare il gravissimo dissesto ambientale che ormai si profila imminente, ma è molto improbabile che esista un’altra strategia che ci possa permettere di farlo. DESIGN + 81



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T E P R I M A

Un progetto dello Studio Valle: la nuova area imbarchi dell’Aeroporto Internazionale “Leonardo da Vinci” a Roma

L’ORIENTE ACCOGLIE LO STUDIO VALLE

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rima tappa Seoul. La mostra è stata inaugurata il 9 ottobre e ospitata negli spazi del Jamsil Sports Complex, all’interno della manifestazione Seoul Design Olympiad 2009. Curata da Cesare, Gianluca e Gianluigi Valle, è una selezione di un’omonima esposizione, celebrativa dei cinquant’anni di attività dello Studio Valle, tenutasi, dal 5 dicembre 2007 al 9 febbraio 2008, presso i suggestivi spazi dell’ex carcere minorile del complesso monumentale del San Michele a Roma, aggiornata con l’inserimento delle realizzazioni e dei progetti in corso. La selezione di alcuni dei numerosi progetti è stata oggetto di una valutazione accurata, che delineasse un excursus di cinquant’anni di attività professionale e che ne rappresentasse la più recente produzione. La mostra di Seoul include, infatti, per la prima volta, il progetto presentato al concorso per il Padiglione Italiano per l’Esposizione Universale di Shanghai 2010, fondamentale alla comprensione della con-

tinuità di un discorso progettuale avviato, negli anni ’70, dal Padiglione italiano “Expo 70” di Osaka. Osaka e Shanghai rappresentano, infatti, i due “antipodi” cronologici di una costante ricerca linguistica che dalle embrionali “megastrutture” del precedente giapponese condurrà, attraverso l’imprescindibile complessità strutturale delle sinusoidi del Terminal di Yokohama, alla scomposizione e ricomposizione delle “articolazioni complesse” dell’esempio cinese, liberando la struttura da un ruolo esclusivamente statico. L’esposizione avviene attraverso il raffronto di episodi tematici significativi che ricompongano un excursus, sintetico e non analitico, dell’evoluzione della ricerca linguistico - formale di Tommaso, Cesare, Gianluca e Gianluigi Valle.

SEOUL, SHANGHAI, PECHINO, KUALA LAMPUR Studio Valle (1957–2007). Cinquant’anni di architettura Luoghi vari (da ottobre 2009 ad aprile 2010)

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MOSTRE

Progettare oltre confine

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La prima tappa è stato Palazzo Saraceni, presto sarà in Brasile. Una mostra per valorizzare il lavoro di architetti e ingegneri emiliano romagnoli nel mondo ’esposizione, realizzata dalla Consulta degli emiliano-romagnoli nel mondo in collaborazione con la Fondazione Carisbo, a cura di Bruno Di Bernardo e Claudio Bacilieri, raccoglie per la prima volta le opere di dieci architetti emiliano-romagnoli che, dalla metà del secolo XVI fino ai giorni nostri, hanno lasciato segni profondi della genialità e della passione civile che caratterizzano il territorio regionale. La mostra è stata inaugurata il 6 ottobre a Palazzo Saraceni, sede della Fondazione Carisbo, alla presenza della presidente della Consulta degli emiliano-romagnoli nel mondo Silvia Bartolini, il prof. Paolo Ceccarelli, ex preside e docente della Facoltà di Architettura di Ferrara e il presidente della Fondazione Carisbo Fabio Roversi Monaco. Dal lavoro della Consulta, orientato a valorizzare le presenze emiliano-romagnole nel mondo, sono emerse figure di architetti, ingegneri, costruttori e cartografi che, poco conosciuti in patria, sono ancora celebrati nei Paesi in cui hanno operato. Si pensi al romagnolo Agustín Codazzi, considerato eroe nazionale in Colombia, Venezuela ed Ecuador. O al bolognese Giuseppe Antonio Landi, che portò il classicismo europeo nell’Amazzonia brasiliana. Era stato allievo di Ferdinando Bibiena, il capostipite della dinastia di scenografi attivi nel 700 in diverse corti europee. Nato nel 1713, Landi aveva studiato all’Accademia Clementina respirando il clima culturale della sua città. Bologna era famosa in quel tempo per la pittura illusionistica d’architettura che tecnici specializzati stendevano sulle facciate e nei cortili dei palazzi per renderli più sorprendenti e sontuosi. Landi era uno di questi maestri di illusione. Ma le sue fantasie presero vita lontano dalla terra emiliana e divenne l’architetto ufficiale dell’amministrazione portoghese del Parà (Brasile), disegnando e costruendo edifici civili e religiosi, alcuni dei quali costituiscono oggi importanti

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monumenti nazionali, come il Palazzo del Governatore a Belém. In mostra anche il ferrarese Adamo Boari, colui che ha disegnato il Palazzo delle Belle Arti di Città del Messico (dove vive dal 1899), forse l’edificio più bello della città. Per preparare il progetto del teatro nazionale (prima destinazione di questo edificio), Boari dal 1901 al 1904 compie diversi viaggi tra

1. Guido Jacobacci, un tratto della Trochita (Creative Commons Licence) 2. Giuseppe Antonio Landi, Cattedrale di Belém 3. Adamo Boari, Palacio des Bellas Artes a Città del Messico (Creative Commons Licence) 4. Battista e Giovan Battista Antonelli, veduta aerea del forte di San Juan de Ulua, Messico 5. Roberto Gandolfi, Tribunal de Contas del Paranà nel centro civico di Curitiba 6. Battista e Giovan Battista Antonelli, veduta aerea di come è oggi il castello o forte di Araya (Arch. Gasperini) 7. Giovan Battista Antonelli, ponte sul fiume Tago, Alcantara

Europa e Stati Uniti. Il risultato è un vero capolavoro. Un’altra personalità di spicco è certamente Carlo Zucchi, che ha firmato la Plaza Independencia a Montevideo, simbolo della libertà uruguaiana. Carlo Zucchi appartiene alla prima fase della migrazione italiana in Argentina. Lasciò la sua patria per trasferirsi a La Plata insieme ad altri esiliati contrari alla Restaurazione assolutistica. Arrivo a Buenos Aires alla fine del 1826, durante il breve periodo presidenziale di Rivadavia. Al 1828 risalgono le prime notizie dell’attività pubblica di Zucchi, quando venne affiancato a Juan Pons, Ingegnere - Architetto della Provincia. Nel luglio del 1936 si trasferì a Montevideo, dove venne nominato Ingegnere - Architetto della Missione Topografica e Architetto di Igiene e Opere Pubbliche. O ancora gli Antonelli, architetti militari

costruttori di fortezze nei possedimenti caraibici della Spagna, che oggi sono patrimonio dell’Umanità dell’Unesco; gli Antonelli seppero coniugare insieme strategie militari e tecnologie d’avanguardia. Particolare la storia del reggiano Antonio Panizzi che, nonostante non fosse né architetto né ingegnere, immaginò e fece edificare quello che oggi è uno dei monumenti simbolo della capitale inglese: la Reading Room della British Library. Un busto all’entrata della sala lo ricorda ancora adesso. E poi si possono ammirare le opere di Emilio Rosetti, costruttore e scienziato in Argentina; del modenese Guido Jacobacci, progettista delle ferrovie patagoniche; del ferrarese Giovanni Tosi, architetto in Uruguay; e dell’unico vivente del gruppo, Roberto Gandolfi, figlio di emigrati, autore del celebre palazzo Petrobras a Rio de Janeiro, che ha avuto una parte attiva nella formazione della Scuole Paulista che ha fortemente contribuito all’architettura del Movimento Moderno in Brasile. La mostra, costituita da 46 pannelli (formato 100 x 120), è itinerante: è stata a Palazzo Saraceni fino all’11 ottobre, poi, dal 12 al 24 ottobre, all’Urban Center in sala Borsa. Attualmente si trova in Brasile, dove è ospitata alla VIII Biennale di Architettura di San Paolo, dal 31 ottobre al 6 dicembre. Tornerà in Italia, a Forlì, e proseguirà poi il suo viaggio a Montevideo, sede del teatro Solís, che la Regione Emilia-Romagna ha contribuito a ristrutturare, realizzato da Carlo Zucchi. L’esposizione è corredata da un catalogo con circa 150 foto edito da Hemingway Sas, a cura di Bruno Di Bernardo. I curatori stanno già pensando ad una seconda edizione, ampliata ad un numero maggiore di architetti, attivi anche in paesi diversi da quelli considerati nell’edizione attuale. SAN PAOLO - BRASILE - Architetti e ingegneri

emiliano - romagnoli nel mondo - VIII Biennale di Architettura (fino al 6 dicembre)


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MOSTRE

La mostra, fortemente caratterizzata dalla multimedialità (che è dalle sue origini un segno distintivo del MEB), è un’idea, un’emozione, un invito che tutti possono sentire, percepire, vivere. I video che costituiscono l’opera multimediale avvolgono in un unico fluire narrativo di idee, suoni, immagini. Raccontano, per sensazioni, le vite e le azioni di persone divenute determinanti nella costruzione della società in cui viviamo. L’opera video esprime, per emozioni, l’evoluzione della storia e delle idee, delle arti e della filosofia, dell’imprenditoria e della scienza e come queste siano rese concrete solo attraverso le connessioni, gli scambi e la rete di informazioni fra persone. Gli ebrei, costretti nel tempo a un percorso professionale e culturale completamente diverso dal resto della società circostante, furono in questo senso anticipatori di questo modo di porsi, della moderna società globalizzata, del network. Questo

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attraverso una rete di comunicazioni, studi, cultura e commerci che è divenuta una sorta di habitus mentale dell'ebraismo stesso: un continuo necessario riflettere su ciò che si è, in mezzo a tante identità plurali, per non perdere se stessi e per meglio conoscere il mondo circostante. Per esprimere il network, si sono scelti i media simbolo della moderna globalizzazione: internet e il video espressi in mostra attraverso installazioni multimediali in cui agiscono alcuni personaggi, icone della modernità ebraica nei secoli, con tratti rapidi ed efficaci che ne esprimo le idee e le azioni. Accanto alle opere multimediali, in esposizione il simbolo supremo e primo della comunicazione, il libro, che spesso ha connotato, anche simbolicamente, il popolo ebraico. La mostra prevede 3 sezioni di sviluppo all’interno del museo. Una prima sezione nella quale è collocata una video installazione che racconta attraverso immagini e suoni alcune delle personalità

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Emozioni multimediali

ebraiche che hanno con il loro operato lasciato un segno sulla comunità non solo ebraica. Nella seconda sezione le “Interviste impossibili” propongono il dialogo in chat fra un adolescente e i cinque testimoni per comprendere, con un linguaggio agile e attuale, la vita di questi personaggi e la loro concreta modernità. Una terza sezione accompagnerà le suggestioni multimediali con l’esposizione di volumi di rara importanza, mai esposti prima. Un nucleo di 13 libri antichi a stampa del XV e XVI secolo e un manoscritto, provenienti dalle più importanti biblioteche dell’EmiliaRomagna.Tra questi vanno ricordate alcune prime edizioni stampate anche a Bologna, una delle città in cui la tipografia si è affermata per prima in Italia. BOLOGNA

Il network prima di internet Museo Ebraico (fino al 6 gennaio 2010)


Segni immortali

ROMA Michelangelo architetto a Roma Musei Capitolini (fino al 7 febbraio 2010)

Decostruttivismo

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Boldini a Parigi

A differenza delle precedenti rassegne dedicate Boldini, tutte antologiche, in questa mostra viene studiato un solo fondamentale capitolo della sua carriera, quello del primo periodo parigino, dal 1871 al 1886. Indagando sull’evoluzione della sua pittura in quegli anni decisivi e gettando nuova luce su una fase per lui determinante ma ancora oggi poco studiata. Prima di diventare il ritrattista del bel mondo parigino, Boldini fu soprattutto pittore di Parigi. In quel primo e cruciale quindicennio che vi trascorse e che coincise con l’esplosione della rivoluzione impressionista, egli ne ritrasse ogni angolo, ogni palpito di vita, traducendo l’energia della metropoli e le sue atmosfere in pennellate scattanti, nervose, talvolta travolgenti. Autore di quadri di ogni tipo, dalle scene di genere alle vedute di città, dai paesaggi agli interni d’atelier, dai nudi ai ritratti, Boldini fu un artista poliedrico che, al pari dei colleghi impressionisti, ma con uno stile diverso e personalissimo, seppe restituire la vita pulsante della ville lumière. La mostra, organizzata da Ferrara Arte e dal Clark Art Institute di Williamstown, che la ospiterà dopo il debutto a Palazzo dei Diamanti, sarà l’occasione per presentare per la prima volta l’artista ferrarese in un museo statunitense di grande prestigio. Dalla rassegna emergerà la complessità della personalità boldiniana in quella fase che lo condusse dall’esperienza macchiaiola all’acquisizione della maniera larga e veloce che caratterizza i grandi ritratti della piena maturità.

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La Biennale di Architettura “Barbara Cappochin” contempla sempre anche un’esposizione di un architetto contemporaneo di fama mondiale. Quest’anno ospiterà la mostra dei progetti di Zaha Hadid, un vero e proprio allestimento curato personalmente dall’artista. È iraniana e naturalizzata inglese ed è uno degli interpreti più significativi nella scena mondiale del decostruttivismo in architettura. La Hadid è stata la prima donna a vincere nel 2004 il Premio Pritzker, che equivale al Premio Nobel per l'architettura.

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Piazza del Campidoglio, Palazzo Farnese e la Basilica di San Pietro. Santa Maria degli Angeli e la Cappella Sforza. Porta Pia. Il “segno” di Michelangelo a Roma si è moltiplicato e si è impresso, immortale. E dove non è rimasto scolpito nel marmo e nella pietra, si è tramandato nei disegni e nei progetti di quegli edifici che non videro mai la luce del sole. A testimonianza di un amore e di una passione verso questa città, pari soltanto all'amore e alla passione nutrita nei confronti della sua Firenze. La mostra comprende 17 sezioni e 105 opere grazie alle quali è possibile tracciare un profilo di Michelangelo architetto a Roma attraverso i due principali momenti in cui l’artista visse nella città tra 1505 e 1516 e dal 1534 fino alla morte nel 1564.

Aeropittura anni 30 La mostra riunisce oltre cento opere spiccatamente innovative e sorprendenti che, partendo dagli antefatti divisionisti, offrono del primo e secondo Futurismo una visione estesa e aderente alla sequenza creativa dei manifesti del movimento, dalla teorizzazione della valenza estetica del dinamismo e della simultaneità del primo periodo, alla rappresentazione della meccanizzazione giocosa della figura umana e del suo contesto degli anni venti, fino all’aeropittura degli anni trenta, basata sulla visione emozionale del paesaggio da un aereo in volo. Collegato al tema dell’aeropittura, la mostra intende celebrare anche il secondo centenario: quello dei primi voli aerei in Italia.

PADOVA Zaha Hadid

FERRARA Boldini nella Parigi degli impressionisti

MAMIANO DI TRAVERSETOLO (PARMA)

Palazzo della Ragione (fino all’1 marzo 2010)

Palazzo dei Diamanti (fino al 10 gennaio 2010)

Fond. Magnani Rocca (fino all’ 8 dicembre 2009)

FUTURISMO! Da Boccioni all’Aeropittura

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AGENDA

MILANO Edward Hopper Palazzo Reale (fino al 31 gennaio 2010)

Per la prima volta in Italia, Milano e Roma rendono omaggio all’intera carriera di Edward Hopper (1882-1967) il più popolare e noto artista americano del XX secolo, con una grande rassegna antologica senza precedenti nel nostro paese. La mostra presenta oltre 160 opere. Un percorso che attraversa tutta la produzione di Hopper e tutte le tecniche di un artista considerato oggi un grande classico della pittura del Novecento. Subito dopo Milano la mostra si terrà a Roma, presso il Museo della Fondazione Roma, dal 16 febbraio al 13 giugno 2010, e presso la Fondation de l’Hermitage di Losanna, dal 25 giugno al 17 ottobre.

MILANO Yayoi Kusama. I want to live forever - PAC Padiglione d’Arte Contemporanea (dal 27 novembre 2009 al 14 febbraio 2010)

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Un evento unico, in esclusiva assoluta per l’Italia, dedicato alla protagonista indiscussa dell’arte contemporanea giapponese. Oltre a dipinti figurativi e astratti di recente realizzazione, sculture di grandi dimensioni e installazioni create nell’ultimo decennio, sarà esposta una selezione di disegni formativi risalenti agli anni ’50 e ’60. In mostra anche Narcissus Garden, l’installazionescultura presentata per la prima volta alla XXXIII edizione della Biennale di Venezia (1966). Kusama produsse questo ambiente interattivo composto da 1500 sfere metalliche con l’assistenza di Lucio Fontana. In una presentazione improvvisata sul prato del Padiglione Italiano, Kusama puntò l’attenzione sugli aspetti commerciali usualmente velati della Biennale, vendendo ogni sfera a 1.200 lire. MILANO Fortezze, bastioni e cannoni Pinacoteca - Biblioteca Ambrosiana (fino al 2 dicembre 2009)

La Mostra si propone di presentare, per la prima volta in assoluto, la sequenza completa degli studi e dei disegni di Leonardo da Vinci sull’architettura militare, contenuta nel Codice Atlantico della Biblioteca Ambrosiana. Ciò grazie alla sfascicolatura del Codice, che consente una miglior conservazione delle carte e la loro presentazione al pubblico degli studiosi in gruppi tematici. I 45 fogli presentati in questa mostra documentano l’evoluzione del pensiero architettonico e scientifico di Leonardo riguardo l’arte delle fortificazioni e consentono di verificare il suo progressivo distaccamento dall’architettura militare del cosiddetto “periodo di transizione” per giungere a proposte estremamente innovative che tengono conto del potenziamento intervenuto nel settore delle armi da fuoco.


AGENDA

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MILANO Carlo Crivelli e Brera Pinacoteca di Brera (dal 25 novembre 2009 al 28 marzo 2010)

Carlo Crivelli è ancora oggi un pittore che sconcerta, impossibile da catalogare con etichette complessive come ‘gotico’ o ‘rinascimento’. Veneziano, quasi coetaneo di Bellini e Mantegna lasciò la patria dopo il 1458 e non vi tornò più, trovando nelle signorie e nelle città marchigiane il luogo dove fare apprezzare i suoi polittici, giganteschi e rutilanti di ori ma con dettagli anticheggianti in impeccabile prospettiva, o le sue tavolette dove l’occhio si perde in dettagli verissimi e commoventi. Questa scelta di vita e di stile ne decretarono la sfortuna critica e la scomparsa quasi totale dalle trattazioni dedicate alla storia dell’arte. Il percorrere in sequenza le sue opere, tutte eseguite nella parte finale, spesso a torto svalutata, della carriera del pittore, fa cogliere in sintesi passaggi cruciali del suo percorso artistico. RIMINI Da Rembrandt a Gauguin a Picasso Castel Sismondo (fino al 14 marzo 2010)

Sessantacinque capolavori della pittura europea dal Cinquecento al Novecento provenienti da uno tra i maggiori musei del mondo, il Museum of Fine Arts di Boston. Occasione che mai più si verificherà, dal momento che l’Istituzione americana ha in atto una parziale chiusura delle sale che porterà, nell’autunno 2010, all’inaugurazione della nuova, immensa ala progettata da Norman Foster. Tale iniziativa condurrà poi, come sempre accade in questi casi, a un successivo blocco dei prestiti. Pertanto la città di Rimini si candida a essere il luogo che, non solo in Italia ma in Europa, rappresenterà nei prossimi mesi Boston e il suo straordinario Museo.

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PARIGI Born in the streets. Graffiti Fondation Cartier (fino al 29 novembre 2009)

Occupando l’intero spazio della galleria della Fondazione Cartier, così come la facciata dell'edificio e il giardino circostante, l'esposizione mostra l'espansione straordinaria di un movimento artistico che si è sviluppato nelle strade di New York nei primi anni 70 per divenire rapidamente un fenomeno mondiale. Per questa occasione la Fondation Cartier ha invitato dieci artisti internazionali, ormai molto noti, a realizzare gli interventi più eclatanti. Tra questi ci sono tre protagonisti del movimento newyorkese: il pioniere P.H.A.S.E.2 e Richard «Seen» Mirando provenienti dal Bronx, e Part One dell’East Harlem. Tra gli altri artisti invitati ci sono alcuni francesi tra cui Gérad Zlotykamien.

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AGENDA

ROMA Caravaggio / Bacon Galleria Borghese (fino al 24 gennaio 2010)

di BERTACCINI

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La Galleria Borghese celebra Caravaggio, in occasione del IV centenario dalla morte, affiancando ai suoi capolavori venti dipinti di uno dei grandi artisti della seconda metà del XX secolo, Francis Bacon, di cui ricorre, invece, il centenario dalla nascita. Due personalità estreme, entrate nell’immaginario collettivo come artisti “maledetti”, che hanno espresso nella pittura il tormento dell’esistenza con pari intensità e genialità inventiva. A distanza di quattrocento anni queste personalità sconvolgenti si incontrano per la prima volta grazie a trenta capolavori dei due maestri, provenienti dai maggiori musei del mondo.

ROMA Dada e Surrealismo riscoperti Complesso del Vittoriano (fino al 7 febbraio 2010)

Una delle più imponenti e più complete mostre mai realizzate su Dada e Surrealismo a cura dello storico dell’arte, saggista, poeta e filosofo Arturo Schwarz. Oltre 500 opere tra olii, sculture, readymade, assemblaggi, collage, disegni automatici, ripercorrono nella sua interezza la nascita, il susseguirsi dei Manifesti e delle principali mostre, il cammino figurativo dei tanti protagonisti di questi due movimenti rivoluzionari che tanto potere eversivo hanno avuto tra le avanguardie artistiche del Novecento e tanta influenza hanno esercitato sull’arte successiva alla prima metà del secolo scorso. Un ricchissimo settore di quasi trecento periodici e documenti dada e surrealisti completano questa eccezionale rassegna. CALDOGNO (VI) Elisa Rossi. Mon Chéri Villa Caldogno (fino al 22 novembre 2009)

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È un progetto inedito e delicatissimo quello sviluppato da Elisa Rossi per le sale affrescate della palladiana Villa Caldogno. La residenza nobiliare ospiterà infatti le opere della giovane artista veneta, che presenterà i sui ultimi lavori su tela che fanno da contrappunto visivo, ma anche inaspettatamente erotico, al vasto apparato di pitture murali realizzate dal Fasolo, dallo Zelotti e dal Carpioni tra Cinquecento e Seicento. Mon Chéri raccoglie gli impalpabili ritratti femminili e le virtuosistiche rappresentazioni di merletti, ricami e gioielli, che saranno allestiti nelle stanze della villa, contrapponendo alla magnificenza dell’arte antica e dei soggetti mitologici una pittura caratterizzata da atmosfere silenziose, di raccolta e distillata intimità.


AGENDA

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MILANO Scapigliatura. Un “pandemonio” per cambiare l’arte Palazzo Reale (fino al 22 novembre)

Milano celebra la Scapigliatura, il movimento artistico e letterario che nacque proprio nel capoluogo lombardo e che qui si affermò. La mostra, attraverso 250 opere, dipinti, sculture, grafiche e incisioni, corredate da testi, fotografie e molto altro ancora, fa rivivere l’atmosfera di quest’esperienza che, dalla seconda metà dell’Ottocento fino ad inizio Novecento, seppe coinvolgere tutte le arti verso un rinnovamento e portò la società italiana ad un cambiamento ideologico e di costume. In mostra sono presenti i lavori di trentotto artisti, da Giovanni Carnovali a Daniele Ranzoni, da Tranquillo Cremona a Giuseppe Grandi, da Gaetano Previati a Medardo Rosso, a Pierre Troubetzkoy, provenienti da raccolte pubbliche e private italiane e da prestigiose istituzioni straniere. PADOVA Scultura Futurista 1909 – 1944. Omaggio a Mino Rosso Galleria Civica Cavour (fino al 31 gennaio 2010)

Tra le infinite rassegne che il Centenario del Futurismo ha fatto fiorire in Italia e nel mondo, la mostra programmata a Padova, promossa dalla Regione Veneto e organizzata dal Comune, ha carattere di assoluta unicità. Affronta, ed è la prima volta che ciò avviene in modo così compiuto, il grande, affascinante tema della Scultura Futurista, trattato sino ad ora in modo episodico e come corollario alla pittura e alla grafica. In particolare, la mostra padovana indagherà in modo completo la figura di Mino Rosso (1904-1963) futurista e lo farà presentando ben 40 opere dello scultore piemontese insieme a documenti d’archivio e importanti inediti.

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BOLOGNA Gilberto Zorio MAMbo (fino al 7 febbraio 2010)

I lavori presentati esplorano i diversi temi che caratterizzano da sempre il lavoro di Zorio e coprono in maniera esaustiva un arco temporale che va dal 1966 al 2009. Oltrepassando i confini della retrospettiva, le opere scelte fungono da catalizzatori di riflessioni e discorsi sulla loro stessa prassi, superano la mera ricostruzione cronologica e, per esplicito volere dell'artista, si pongono in rapporto dialettico le une con le altre. La rassegna si distingue per l'ampia selezione dei lavori che raramente sono stati riuniti in un unico spazio museale italiano, così come per lo spettacolare, magico allestimento, in cui l'arte di Zorio non è solo passivamente visibile ma agisce nel contesto del museo.

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Nato a Milano nel 1935, si laurea in architettura nel 1959 al Politecnico di Milano. Esordisce con il gruppo Rinascente. Negli anni ’60 è già noto per la sua attività di designer. Dagli anni ’80 lavora con crescente successo nel campo dell’architettura. È stato più volte premiato con il Compasso d’Oro e con sue opere è presente nella collezione permanente del MoMa di New York.

Dietro al progetto

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LOUVRE DI PARIGI Rendering della copertura della Corte Visconti. Un velo luminoso che legherà un sito storico all’esigenza di un nuovo spazio espositivo per il patrimonio architettonico e artistico della cultura islamica. Sotto le pieghe della copertura realizzata con una struttura metallica rivestita da due texture leggere e traslucide sarà possibile scorgere le facciate della corte

Mario Otto Compassi d’Oro, una Medaglia d'oro donatagli dalla Presidenza della Repubblica, 25 opere esposte nella collezione del MoMa di New York. Mario Bellini tende a non vivere di rendita. Considera il background culturale controllore della creatività. Rispettando la cultura del vivere e dell’abitare di Maurizio Costanzo DESIGN + 93


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rchitetto di fama internazionale, il milanese Mario Bellini, lega la sua notorietà alla sua precoce e ampia carriera di designer e alle opere architettoniche cui si dedica, dagli anni Ottanta. Sempre in quegli anni, importanti per la sua carriera, fonda la Mario Bellini Architects srl., di cui è presidente e il MoMa di New York gli dedica una personale. Ha insegnato nelle più importanti sedi culturali del mondo e dal 1986 al 1991 è stato direttore di Domus. Quando a Bellini è stato chiesto come ha costruito la sua carriera di designer, la sua risposta è stata alquanto spiazzante: “Per un caso fortuito. Subito dopo la laurea in architettura la Rinascente di Milano mi offre una consulenza per disegnare mobili e lampade. Ho subito scoperto due cose: che i miei studi di architetto non mi erano di grande aiuto ma che avevo anche un talento naturale per immaginare oggetti e arredi”. Ottimo intuito. Mario Bellini è famoso in tutto il mondo, le sue opere di design fanno parte di numerose e prestigiose collezioni e le sue opere architettoniche sono presenti nelle più importanti città del mondo. Il suo atelier è una fucina di idee. Nel capannone di 450 mq, un tempo sede di magazzini commerciali, si spazia dal design all’architettura, dal94 DESIGN +

l’urbanistica agli allestimenti. Tra i progetti su cui il gruppo si è provato in quest’ultimo periodo vi è il centro culturale di Torino, il cui corpo principale è composto da quattro piani sinuosi che snodandosi morbidamente culminano nella caratteristica torre troncoconica capovolta, il cui ultimo piano funge da bookstore, ristorante e internet cafè. Altra opera dalle linee avvolgenti e coinvolgenti è il Centro Congressi di Milano che lo stesso atelier definisce così: “Un vero e proprio terremoto volumetrico che ha richiesto e generato la sintesi risolutiva: l’invenzione di una cometa aerea e argentea che sormonta e abbraccia la nuova testata, con parte dei fianchi e della copertura dell’edificio e lo trasforma in una creatura nuova, insolita e coerente con l’intero complesso. Un landmark inconfondibile, concepito come uno sciame di raggi luminescenti che si staccano e formano una coda lunga 200 metri. Una cometa, appunto, destinata a diventare un simbolo e a dialogare con City Life alla pari, perché la sua estensione orizzontale gareggia con l’altezza dei grattacieli”. Si tratta di interventi simbolo della crescita urbanistica di due grandi città, Milano e Torino, due città italiane che sentono l’esigenza di tenersi al passo con la necessità dei cittadini di avere sempre spazi più qualificati. Ma Ve-


Dietro al progetto Pagina a fianco: il centro culturale di Torino. È stato pensato per un numero di 150mila accessi al mese. Lo spazio è articolato in modo da custodire circa 1 milione di volumi. L’edificio è situato alle spalle della stazione di Porta Susa. In questa pagina: Deutsche Bank di Francoforte. È una ristrutturazione radicale capace di investire tutto l’impianto edilizio. Al centro della hall, sospesa tra le due torri, una sfera di 16 metri in acciaio dalla trama leggera

rona non è da meno, e lì l’Atelier Bellini nel quartiere Zai (Zona Agricola Industriale), posto tra Porta Nuova e l’uscita autostradale di Verona sud, ha pensato ad un intervento per rendere questo “non luogo” un centro di servizi anche abitabile. L’intento Mario Bellini l’ha raggiunto proponendo un fronte strada compatto e dedicando al verde pubblico, all’interno del lotto, un’area di cospicue dimensioni. Si tratta del “Verona Forum”, il progetto per la trasformazione dell’area ex Foro Boario, denominato “Adige City”, per il recupero delle ex Officine Adige. Chiediamo, dunque, ad una mente capace di immaginare oggetti in tutte le scale, e che, citando una frase di rogersiana memoria, spazia dal cucchiaio alla città, se ci racconta cosa c’è dietro i suoi progetti. Domanda. Aver avuto validi insegnanti come Ernesto Nathan Rogers e Piero Portaluppi all’esordio della sua ricca carriera le è stato di aiuto? Risposta. Ho scoperto la personalità di Portaluppi, che allora era il mio preside, solo decenni dopo i miei studi. Più determinante è stato Nathan Rogers, invece, mio insegnante di Caratteri Stilistici dell’Architettura e anche mio relatore di laurea, perché nel panorama della facoltà di Milano, allora un po’ grigio, rappresentava un’eccezione. Era un intellettuale

raffinato e colto con spiccate doti pedagogiche. Con lui ho scoperto subito che fare architettura sarebbe stato molto più che esercitare una professione. D. Che tipo di approccio metodologico ha nella fase iniziale di un progetto? R. Ho sempre rifiutato di credere all’esistenza sistematica del cosiddetto approccio metodologico. Che mi pare essere più una preoccupazione accademica che un reale strumento di lavoro. Credo piuttosto di intraprendere ogni progetto come un nuovo viaggio. Un viaggio sorretto da una profonda curiosità e dalla ricerca di una meta che prende forma cammin facendo, secondo un procedere quasi darwiniano. D. Sappiamo che secondo lei esistono “immagini evocative”. Tratte dai ricordi di viaggio, dal patrimonio della storia dell’arte - italiana e non - oppure dall’immenso archivio delle forme naturali. Ce ne racconta alcune? R. Sin da bambino amo animare il mondo degli oggetti come fossero persone o animali. Per spiegare il rapporto magico, quasi sacro, che intercorre tra una macchina da calcolo e la mano di chi si accinge a usarla, ho spesso mostrato L’Annunciazione del pittore Antonello da Messina: Maria e la sua mano davanti al leggio. Personalmente mi risulta difficile parlare DESIGN + 95


delle molte altre suggestioni senza, appunto, il supporto iconografico. D. I luoghi, le città e le suggestioni che regalano. L’architetto Mario Bellini ha un luogo d’ispirazione? R. Sì, i centri storici delle città europee e i paesaggi sapientemente costruiti dal lavoro dell’uomo. D. Quanto conta il background culturale per essere architetto e designer? R. Conta molto, come carburante e controllore della creatività. D. Ha vinto numerosi premi nazionali e internazionali, 8 Compassi d'oro dell'ADI e diversi riconoscimenti che danno atto della capacità che lei ha di cogliere le diverse sfaccettature dei linguaggi formali e delle loro evoluzioni. Come si rinnova oggi l’architetto Mario Bellini? R. Continuando a disegnare, progettare e quindi a “viaggiare”. Con l’entusiasmo della prima volta. Senza sacrificare, quindi, il gusto della ricerca e dell’invenzione al culto di un comodo clichè personale. D. Nel 2004 le è stata assegnata la Medaglia d'oro dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi per la diffusione del design e dell'architettura nel mondo. R. Sì, è vero. Fin dall’inizio della mia attività ho 96 DESIGN +

molto lavorato e viaggiato in tutto il mondo. Sono stato circa 130 volte in Giappone, 40 in Australia, molte decine di volte negli Usa e in Europa. Tuttora viaggio. In Giappone, Francia e Germania ho cantieri aperti. E la gran parte dei miei incarichi di architettura sono il frutto di concorsi internazionali. Che comportano una sfida con se stessi e con gli altri. D. Lei è presente con venticinque opere nella collezione permanente del Museum of Modern Art di New York, che nel 1987 le ha dedicato una retrospettiva personale, il che vale a dire che molto della sua carriera è degno d’essere esposto. Esiste un progetto di cui non è particolarmente orgoglioso? R . Avendo la fortuna di poter scegliere di intraprendere i progetti che mi interessano cerco di non portare avanti ciò che non è destinato a soddisfarmi. D. Tra i suoi ultimi oggetti di design e quelli già storicizzati a quali è particolarmente affezionato? R. La sedia Cab per Cassina che ha venduto oltre 500 mila esemplari in tutto il mondo e che in oltre 30 anni ancora non accenna a invecchiare. Il Kar-asutra, concetto innovativo di auto disegnato per il Moma nel 1972 che ha modificato la storia dell’automobile. In che modo? Oggi più della metà delle auto in circolazione sono “monovolumi” generati da


Dietro al progetto In queste pagine: MIC. Milano Convention Center, Fondazione Fiera Milano. L’edificio è destinato a diventare il centro congressi più grande d’Europa. La struttura si affaccerà sull’area City Life come un insieme morbido di raggi. La proposta farà del Portello la porta di una nuova area di Milano aperta verso l’Expo e l’esposizione Fiera Milano Rho

Kar-a-sutra. E da ultima la Via Lattea per Meritalia, innovativo sistema di sedute ultraleggero, traslucido e luminescente, imbottito di ravioli d’aria. E rivestito di un sottile materiale riciclato. So di aver dimenticato altri “figli” che mi sono altrettanto cari. Sarà per un’altra volta. D. Con il suo bagaglio culturale attuale ha occhi diversi per i suoi primi lavori di disegno industriale? R. Il mio disegnare sia in architettura, sia nel cosiddetto design, tende a non vivere mai di rendita. È supportato dalla continua ricerca di materiali e procedimenti nuovi che stanno alla base di invenzioni, forme ed emozioni che vanno di pari passo, e talvolta anticipano, la cultura del vivere e dell’abitare del nostro mondo globale. D. Il Corriere della Sera un anno fa scriveva: “Da Bernini a Bellini il passo è durato 350 anni. Tanti ne sono passati prima che un architetto italiano venisse richiamato al Louvre per costruire una parte del museo dei musei”. Parliamo della costruzione del Museo per le Arti Islamiche progettato da lei con Rudy Ricciotti. Qual è l’idea fondante del progetto? R. Far rivivere la “Court Visconti” trasformandola nel Dipartimento delle Arti Islamiche del Louvre senza cedere alla tentazione banale di annetterla co-

prendola con una vetrata. Il che avrebbe estinto la corte e umiliato la singolarità della collezione delle arti islamiche. Un velo dorato plana nella corte come sorretto e agitato dal vento. La corte rimane aperta a sole, vento e pioggia, mentre questa straordinaria collezione del Louvre vive di vita propria in un nuovo spazio che dialoga da pari a pari con l’austero carattere della antica reggia del Re Sole. In competizione con la piramide di Pei che sta nella adiacente corte d’ingresso. D. Gli allestimenti museali. Mettere in scena un racconto e creare percorsi dinamici così che le opere esposte ne diventino gli interpreti. Allestire non è facile e bisognerebbe più volte ricordarlo. Quanto è importante sviluppare e coltivare una sensibilità evocativa e comunicativa per riuscire a esporre con una logica significativa? R. Nella mia lunga carriera ho avuto da subito la fortuna di affrontare molti allestimenti d’arte e museali. Vere e proprie vanitas architettoniche che compensano la loro fatale caducità con l’emozione di vederne la realizzazione in tempi brevissimi. Anche qui si tratta di mettere in scena un viaggio suggestivo e denso di sorprese, capace di vincere sulla noia e, in alcuni casi, sulla difficoltà a comprendere. DESIGN + 97


Dietro al progetto

Verona Forum Il progetto per la trasformazione dell’ex area Foro Boario consiste nella realizzazione di un complesso edilizio a destinazione direzionale, commerciale e alberghiero che disegna uno spazio verde fruibile dai cittadini. Sorge tra Porta Nuova e l’uscita autostradale di Verona sud. Il progetto prevede la presenza di corpi bassi a costruire il fronte strada e di edifici a prevalente sviluppo verticale nella zona più interna. L’articolazione planimetrica a “V” dei due corpi determina il formarsi di una piazza che funge da ingresso a tutto il complesso per uffici. Peculiarità dell’edificio è il rivestimento in facciata: un velo di lamiera stirata in acciaio. Al di sotto di questo velo, una semplice courtain wall in vetro e alluminio. Sulla struttura di alluminio delle tende a rullo realizzeranno la schermatura contro l’irraggiamento solare

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Showroom e uffici per la Natuzzi, ad High Point nel North Carolina L’edificio, sfrutta la planimetria del lotto. Assume una forma trapezoidale allungata terminante, nella parte più stretta, con una grande curva che si legge anche in alzato e che evoca la prua di una nave. L’edificio si affaccia lungo la South Elm Street con ampie superfici vetrate segnate da fasce marcapiano di lamiera di bronzo brunito. Il basamento fa da raccordo per il dislivello tra l’edificio e il piano stradale

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Dietro al progetto


National Gallery of Victoria, Melbourne, Australia La più grande galleria d’arte dell’emisfero australe. Il museo è stato ampliato e ridisegnato nella struttura architettonica e nel suo allestimento interno. L’intervento comprende 30 sale espositive per le collezioni permanenti. Tre grandi spazi espositivi sono dedicati alle mostre temporanee. Sono stati inoltre realizzati un nuovo foyer e un grande Orientation Space, sale per performance per un totale di 500 persone, un Coffee Shop in grado di accogliere 250 visitatori, un ampio Book Shop, Education Department e Study Areas. L’intervento rispetta l’esterno dell’edificio caratterizzato dal grigio bluastro della bluestone, e ne rivoluziona l’interno. È un intervento di alta tecnologia sia per ciò che concerne i materiali che le soluzioni progettuali

Tokyo Design Center Un edificio a doppio corpo. Il legame è il cilindro di acciaio e vetro, coperto da una cupola, che ospita gli ascensori e che domina sulle terrazze del retro dell’edificio, adornate da vasi di vegetazione che armonizzano la facciata con l’antico giardino giapponese. La galleria dal piano terra fino al terzo divide e collega le due parti non solo con la scala che la percorre tutta e che conduce sul retro, nel lussureggiante giardino-collina posto a quota diversa, ma ospita anche una serie di collegamenti a ponte che segnano orizzontalmente lo spazio e collegano tra loro i piani. Il Tokyo Design Center ha infatti funzione anche di showroom. Ospita un ristorante, una sala da tè, una libreria e un laboratorio. È un centro importante di comunicazione. È posto difatti a pochi passi dalla Stazione Gotanda e solo a un’ora dall’aeroporto

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Maestri di design

MENDINI ALESSANDRO

dei suoi progetti. Arte, architettura e design. La soggettività è tipica amentale. Una Ma considera la collaborazione un elemento fond a emotiva e creatività collettiva ed estrosa che privilegia la sfer s Caleffi sinergicamente ricerca la concretezza di Mercede

H

a un approccio letterario per tutto quello che fa. Progetta con ironia e usa il gioco per creare oggetti carichi di ritualità mistica. Non ama distinguere le discipline tra loro, ama la metaprogettazione e il lavoro di gruppo inteso come momento dialettico, necessaria ossigenazione per la creatività. Non usa quasi mai la matita e men che meno la gomma, mentre ama molto usare il tratto clip, che considera geniale. E preferisce la misura piccola per i suoi disegni, perché meno impegnativa. Per il suo lavoro ritiene indispensabili anche lunghi momenti di solitudine. Alessandro Mendini, il poliedrico maestro del design e dell'architettura, ha spostato l’attenzione oltre lo spazio geometrico, focalizzando l’interesse, nella progettazione, sul concetto di spazio psichico e sulla sacralità del quotidiano. Attenzione che riporta in tutte le scale progettuali. Ed è così che a Napoli anche le stazioni della metropolitana diventano per Mendini occasioni per rendere i cittadini protagonisti di se stessi nella loro città. Ma ciò non faccia erroneamente pensare a una caduta di attenzione progettuale verso la funzionalità. Non è un caso infatti che Stefano Casciani nel suo libro L’architettura presa per mano, nel 1992, scrive: «Insospettatamente ha iniziato a disegnare prodotti industriali dotati di una indubbia carica espressiva

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ma anche altrettanto funzionali, quanto quelli dei modernisti più convinti». Infatti Alessandro Mendini in un suo scritto intitolato Arte e Architettura afferma: «Per un oggetto di disegno industriale o un’architettura, parto ovviamente dalle esigenze concrete, e va benissimo, ma poi, appena possibile, faccio prendere il predominio all’immagine. Sono convinto che risolvere la funzione sia facile, risolvere l’espressione molto difficile». E aggiunge spiegando il suo incedere lavorativo: «Io procedo per assemblaggi a patchwork, in una maniera che non è sintesi, ma accostamento anche stridente… Abbinamenti improvvisi e imprevisti di materiali e misure… Siamo in un’epoca di grande violenza, anti-idillica. Il mio lavoro, diciamo positivo esteticamente, è un tentativo di rovesciare la negatività del reale». Domanda. Provocatorio, anti-ideologico, avanguardista. Quante definizioni per poterla descrivere. Nella realtà chi è Alessandro Mendini? Risposta. Penso di essere una persona un po' troppo seria, che prende la vita e il lavoro sempre con molta attenzione. D. Com’è il suo senso dell’abitare? Come sono i suoi ambienti? Le sue case? R . Le mie case sono una sommatoria di residui di case non mie. Situazioni più che arredamenti, desiderio di complessità mescolato a quello di


Alessandro Mendini in mezzo alla Lampada e alla Tazza della collezione 2000 “Mobili per Uomo”, Bisazza, di cui è stato direttore artistico dal 1994 al 1999

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Maestri del design 1

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povertà. Comunque per me quella di abitare è un’attività difficile. D. “Redesign scettico”, “kitsch elitario”, “culturalpop” sono queste le definizioni che si leggono per definire le sue opere. Il suo Atelier è una vera e propria fucina, come ben comunicava la mostra tenutasi all’Ara Pacis di Roma, “Dall’infinitesimo all’infinito”. Quali procedimenti segue nel suo lavoro? R. Il mio modo di lavorare oscilla fra due estremi: il momento dell'isolamento e quello del coinvolgimento. Mi piacciono le chiacchiere con i collaboratori, mi serve più ascoltare che parlare. D. I viaggi e le letture, le sue relazioni con il mondo come influenzano il suo modo di creare? R. Assorbo le idee un po' dovunque, è esistito il momento dei viaggi, ora più quello della lettura, eccetera. In questo 104 DESIGN +

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momento sto leggendo un libro intimista, le poesie di Catullo. D. Quando progetta lei ha dichiarato di utilizzare “la carica emozionale dello spazio”, ci chiarisce il concetto con un esempio? R. È semplice, mi interessa di più lo spazio psichico che non quello geometrico. D. Disegnare e progettare. Lei ne fa una netta distinzione, qual è? R . Il disegno, anzi lo schizzo, propone un'idea allo stato nascente. La realizzazione del progetto lo porta su un'altra dimensione. Entrambi i momenti sono pieni di fascino. D. La Stazione della Metropolitana di Napoli Salvator Rosa ed il concetto dell’arredo urbano dell’Atelier Mendini. Qual è l’idea fondante? R. Per me l’arredo urbano è un’attività barocca, ovvero è scenografia. Questo prin-

Schizzo preparatorio per il contenitore bar in legno laccato dai colori decisi per la collezione di mobili e complementi di Cleto Munari, esposti nel 2008 alla galleria V.M.21


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Interparete, San Francisco, per la collezione di Cleto Munari: legno laccato dai colori forti e intensi, ispirati alla WestCoast, esposti nel 2008 alla galleria V.M.21. 2. Zero disegno - Nilufar: mobili tutti di forma uguale. Il riferimento storico è dato dal fascino dei mobili da salotto della borghesia milanese degli anni ‘40.

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“Sandro M.”, serie cavatappi dell’Alessi: accanto alla versione standard, proposta in due varianti-colore, seguirono più di una serie di collezioni stagionali di haute-couture.

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Groninger Museum, Groninger, Olanda. Hanno partecipato a questo progetto M. De Lucchi per il padiglione Archeologia, P. Starci per il padiglione Arti Decorative, CoopHimmelblau per quello d’Arte 1500-1950.

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cipio è stato usato dal mio Atelier nelle stazioni di Napoli. Persone nella città protagoniste di se stesse. D. Il Museo di Groningen in Olanda. L’arte e il museo, e il museo che diventa arte. Quanto la soggettività è importante nella progettazione? R. Credo che a questa domanda ognuno debba dare una risposta molto personale. Nel mio caso, dato per scontato che un progetto deve essere funzionale (e professionale), per il resto io lavoro di soggettività. Ogni mio progetto è autobiografico. D. Aver fatto parte del gruppo Memphis cosa le ha dato come esperienza e soprattutto cosa lei ha apportato? R. Per Memphis ho disegnato poco, anche se ho molto ammirato certi aspetti di questo fenomeno. D. Alchimia e l’idea di "mobile infinito”, quale significato hanno avuto per lei?

R. Alchimia è stata una delle mie esperienze più importanti: redesign, kitsch, collaborazione con le culture emarginate, anti-accademia. Il “Mobile Infinito” ha rappresentato un'opera collettiva e aperta, un metodo che perseguo tuttora. D. Qual è il legame tra il design, l’artigianato e l’arte? R. Per me i metodi dell'arte, dell'industria, dell'artigianato eccetera sono sovrapponibili ed uno sfuma nell'altro, integrandosi. D. E il gioco, il divertimento, la provocazione: quale ruolo hanno nel suo modo di creare? R. Un gioco è una performance chiusa nel perimetro delle proprie regole. Anche ogni progetto è chiuso dentro alle sue regole. Auto-ironia e senso del divertimento garantiscono dal cadere nella retorica. Il paradosso e la provocazione sono dei mezzi

Galleria Mendini, centro commerciale e uffici, Lorrach, Germania, 2002. Le facciate sono pensate come grandi superfici pittoriche e trasparenti. L’effetto è ottenuto con vetri serigrafati studiati per il controllo energetico.

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Arte in Mosaico, collezione Bisazza: raccolta limited edition "Mobili per Uomo", l'ispirazione viene dal guardaroba maschile.

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Nuovo centro natatorio, B. Bianchi, Trieste 2004: è una struttura composta da due volumi, un tronco di piramide rovesciata per i servizi, ed il centro natatorio con pianta semiellittica.

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Maestri del design

A sinistra: Byblos Art Hotel, Villa Amistà, in Valpolicella, 2006. La villa cinquecentesca è stata progettata dall’architetto Michele Sanmicheli. L’Atelier Mendini ne ha curato l’Art Direction. A destra: la Biblioteca Civica di Lovere, Comune di Lovere. Il Progetto è nato dalla collaborazione tra l’Atelier Mendini, Gaetano Pesce, Giovanna Molteni ed Emanuela Morra. In basso: copertina del numero 625, del 1982, di Domus, diretta dal 1979 al 1985 da Alessandro Mendini

per attirare pensieri nell'interlocutore. D. Lei ha scritto: “risolvere la funzione è facile, risolvere l’espressione è molto difficile”. Che rapporto intercorre tra l’arte e l’architettura? R. Più è complessa in una architettura o in un oggetto la funzione, meno spazio ha il gradiente artistico. Sono due fattori inversamente proporzionali. D. Ci chiarisce il suo concetto di “assemblare e non sintetizzare”? R. Il concetto di sintesi delle arti appar-

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tiene alle utopie di un'epoca in cui tutto era più semplice. Nella drammatica complessità del mondo contemporaneo, è l'accostamento (e non la sintesi) delle parti che determina le nostre estetiche. D. Che rapporto intercorre tra l’oggetto e la sua collocazione nell’ambiente? R. L'oggetto è un personaggio e l'ambiente è il suo palcoscenico. Questo sistema crea una rappresentazione, vari oggetti in scena danno luogo alla commedia. D. Rileggendo la sua lettera ai lettori di Domus, pubblicata da L’Architettura nel 1985, ci chiediamo: oggi, come vede le riviste del settore? R. Io fui direttore di tre riviste “ideologiche”: Casabella con il radical design, Modo con l'infra-disciplinarità e Domus con il postmoderno.Oggilerivistenonesprimono idee, ma solo informazione, e lo fanno molto bene. I tempi sono diversi. D. Il grande successo di Modo, la rivista di design e architettura fondata nel 1977, e di cui lei era il direttore. Il segreto? R . Forse: un buon progetto grafico, un’equipe redazionale valida, ideologia precisa, pochi denari e perciò libertà... D. Qual è oggi il rapporto tra il suo creare e il concetto di marketing? R. Raramente i miei progetti sono entrati

in contatto con il marketing istituzionale. D. Alberto Alessi dice che il vostro rapporto ricorda quello di Behrens con l’AEG. Quanto è importante per lei creare in stretta collaborazione con il committente? R. La sintonia con il committente è un miracolo, e quando avviene è una meravigliosa fortuna. D. Parliamo di alcune sue opere: la Poltrona Proust come nasce? R. La Poltrona di Proust è frutto di una decisione concettuale. Non è disegnata ma solo pensata. La sua forma e il suo puntinismo sembrano farla levitare, è un concentrato di energia, il riferimento a Proust vuole condurla verso la letteratura più che verso il design. D. Oggi si può ancora parlare di ornamento? R. Non mi cito mai, per carità, non mi piace citarmi! Ma in queto caso dico: “gli ornamenti sono come i pesci nel mare, ci sono anche se non si vedono...”. D. Cosa vuol dire per A. Mendini arredare e quali materiali predilige? R. Arredare vuole dire estendere la psiche della persona al di fuori di se stessa, verso gli strumenti che usa. Materiali, suoni, colori, strumenti eccetera devono essere omologhi alla psiche.



IL CREATORE DEI SOGNI Anniversari

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Considerato il grande maestro del Decostruttivismo, Frank O. Gehry compie ottant’anni. Ha segnato l’architettura contemporanea coniugando le molteplici e confuse prospettive che l’universo urbano offre in tutto il mondo di Iole Costanzo al suo aspetto semplice e sereno non traspare affatto la robusta impalcatura di una fervida filosofia di lavoro aperta a tutte le esperienze. È lui stesso a mettere in guardia e ad avvisare che l’essere tranquillo è solo apparenza, e che in lui alberga un gran narciso dalle armi affilate. Il suo linguaggio è caos e equilibrio. È una delle archistar più famose dei nostri anni. È Frank Owen Gehry. E quest’anno, che festeggia i suoi 80 anni, a Milano, per La Triennale, Germano Celant, presenta Fank O. Gehry dal 1997, la prima esposizione che ripercorre con plastici, schizzi e fotografie le sue opere da Bilbao ad oggi. Contemporaneamente verranno proiettati i video legati al suo processo creativo e alla nascita del Gehry Technologies, il gruppo che sviluppa tecnologie e software su misura per la produzione architettonica. Come dire: il modo di progettare di Gehry è diventato sequenza numerica. È stato infatti fra i primi grandi architetti a modificare il design con l’aiuto del computer ma non per creare edifici con più efficienza e velocità, bensì per dare all’architetto maggiore indipendenza da ciò che vede, e porlo nella condizione di poter costruire tutto ciò che immagina o sogna. Infatti

“Frank Gehry - Creatore di sogni” è il titolo che il regista Sydney Pollack ha dato al suo film - documentario incentrato sulla figura del famoso architetto di origine canadese. Il film, presentato nel 2006, fuori concorso, al Festival di Cannes, ha suscitato molto interesse ma non ha molto stupito perché la fama del linguaggio architettonico di Gehry è ormai popolare. È argomento trasversale. Se n’è comunque sentito parlare. Oggi è nell’immaginario di tutti la sua architettura dalle fattezze scultoree. Pertanto è facile credere che di Gehry si sia da sempre scritto e parlato. Ma non è così. È solo nel marzo 1980 che Domus gli dedica la copertina. È il direttore Alessandro Mendini a rendergli omaggio con uno dei suoi editoriali. Il servizio verteva su dieci architetti californiani e tra questi vi era appunto Frank Gehry, nato a Toronto ben 51 anni prima, ma americano d’adozione. Non era giovane, quando comparve sulle scene del mondo dell’architettura, questo è chiaro, ma era comunque considerato, già allora, il nume tutelare di quel nuovo linguaggio che ai lettori del num. 604 di Domus procurò un certo disorientamento. Le sue architetture sembravano prive di eleganza, non presentavano alcun richiamo ai linguaggi classici o moderni, nessun legame

con gli insegnamenti presenti nelle diverse università europee. Le architetture presenti in quel numero erano oggetti nuovi, slegati dalla storia, oggetti che il grande Bruno Zevi definì di “grado zero”. Ma se volessimo veramente raccontare chi è Frank Owen Gehry non potremmo prescindere dal raccontare di Frankie P. Toronto, il personaggio principale della commedia “Il Corso del Coltello”, un manichino matto, che simboleggiando beffardamente l’architettura classica e postmoderna, cavalcò le scene di Venezia nel 1985. Chi interpretava con tanta ironia e irriverenza Frankie P. Toronto era lo stesso Frank Owen Gehry che sotto le vesti di Frankie, riuscì a fare a pezzi la pomposità tipica dell’architettura degli anni Ottanta. La rottura è avvenuta. Il pensare architettura è stato investito in toto. E da allora, per emulazione e per stratificazione dei cambiamenti linguistici l’architettura è cambiata. Aaron Betsky, il curatore della 11esima Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia affermò: “Frank Gehry ha trasformato l’architettura moderna, l’ha liberata dai confini della scatola e dai limiti delle comuni pratiche costruttive. Tanto sperimentale quanto le pratiche artistiche che l’hanno ispirata, è il vero moderno modello per

Museo Guggenheim di Bilbao


Walt Disney Concert Hall di Los Angeles

Weisman Art Museum di Minneapolis, Minnesota

IAC InterActiveCorp, New York

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Frank Gehry alla Triennale

Photo©Gehry Partners LLP

Anniversari

FILMATI, FOTO, DISEGNI E MODELLI PER TESTIMONIARE IL PERCORSO CREATIVO E COSTRUTTIVO DEL GRANDE ARCHITETTO CALIFORNIANO La Triennale di Milano presenta Frank O. Gehry dal 1997, a cura di Germano Celant. È la prima esposizione, dedicata a Frank O. Gehry, che riunisce la selezione dei progetti realizzati a partire dall’importante svolta stilistica del 1997, costituita dal Guggenheim Museum di Bilbao, fino ad oggi. L’incipit della mostra scritto da Germano Celant cita: “Tentare i limiti dell’architettura non seguendo la logica della normalità e della tradizione per tentare di immettere in essa una soggettività lontana dagli stereotipi dominanti è stato, sin dagli anni Sessanta, il fine ideale di Frank O. Gehry. La necessità di un ribaltamento del pensare costruttivo funzionalista e razionalista che, con il passare del tempo, si era sempre più omogeneizzato perché propenso alla ripetitività linguistica e formale, senza speranze e senza qualità, lo ha spinto a ricercare un’espressività, dovuta all’intreccio tra soggetto e oggetto, dove l’architettura riemerge dall’infanzia, si fa istanza personale ed esistenziale”. La mostra, curata da Germano Celant in collaborazione con Frank O. Gehry e Gehry Partners LLP, è resa possibile anche grazie all’assistenza di importanti istituzioni internazionali quali il Guggenheim Museum di Bilbao, l'Art Gallery of Ontario di Montreal e il Dansk Arkitektur Center di Copenhagen. I progetti in mostra, per la maggior parte inediti, sono stati selezionati insieme all’architetto americano, ideando un evento espositivo che indaghi oltre agli edifici anche le loro relazioni con il territorio in un’ottica di progettazione più urbanistica: dal DZ Bank Building di Berlino (1995-2001), all’ Art Gallery of Ontario (2000- 2008), dal Jay Pritzker Pavilion di Chicago (1999-2004), all’Interactive Corporation Headquarter di New York (2003-2007), fino al resort Atlantis Sentosa di Singapore e alla sede di Abu Dhabi del Guggenheim Museum, la progettazione dei quali è cominciata tra il 2005 e il 2006. Le architetture, che costituiscono l’highlight del lavoro di Gehry Partners LLP negli ultimi dieci anni, saranno raccontate attraverso le parole dell’architetto con l'ausilio di filmati, fotografie, disegni e modelli relativi alle varie fasi di elaborazione del progetto. Parallelamente, saranno proiettati in video i materiali relativi alle tecnologie utilizzate da Gehry nelle diverse fasi del processo creativo e costruttivo. Interviste e display illustreranno la nascita, la specificità del gruppo

Gehry Technologies, e le modalità di ideazione con il software Catia illustrandone le possibilità di ottimizzazione nel processo di creazione architettonica. L’esposizione sarà arricchita da un catalogo pubblicato da Skira, che riunirà tutti i progetti di Frank O. Gehry, esposti e non esposti a Milano, dall’innovativo strappo linguistico del Guggenheim Museum di Bilbao ad oggi. Introdotto da un saggio critico di Germano Celant, il libro ripercorre dal 1997 i recenti progetti dell’architetto vincitore del Pritzker Architecture Prize 1989, per la maggior parte inediti, attraverso i disegni a mano, i disegni di studio, le elaborazioni in 3D, i modelli e le fotografie del costruito.

FRANK O. GEHRY DAL 1997 TRIENNALE DI MILANO 27 SETTEMBRE – 10 GENNAIO 2010 INGRESSO 8/6/5 EURO. ORARI: MARTEDÌ-DOMENICA 10.30-20.30 GIOVEDÌ 10.30-23.00


A destra: il nuovo quartiere degli affari a Düsseldorf, sul Reno. Negli edifici si trovano le sedi delle più importanti compagnie di pubblicità e comunicazione. In basso: R. B. Fisher Center, Performing Arts del Bard College, Annandale-on-Hudson di New York, centro specialistico in arti visive e studi curatoriali

un’architettura oltre il costruire.” Motivazione questa che ha portato, sempre nel 2008, il Cda della Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, a consegnargli il Leone d’oro alla carriera. Ma di premi e riconoscimenti il famoso architetto ne ha avuti altri, il Pritzker Architecture Prize nel 1989, la Medaglia d’oro all’Architettura dell’American Institute of Architects (AIA) e quella del Royal Institute of British Architects (RIBA) tutti a riconoscimento, ovviamente, della sua irresistibile attrazione per la sfida. È infatti lo stesso Gehry a confessare di non amare situazioni come l’affidamento totale del lavoro, la cosiddetta carta bianca. Rapporti del genere non li trova affatto interessanti né stimolanti. Preferisce avere vicino la controparte pronta a discutere, a litigare e a esigere una partecipazione a ciò che precede ogni sua opera. È una mente che ha bisogno di continui stimoli, che cerca nuovi interessi e nuove prove. È una mente che lavora su elementi extra-architettonici ricavati dall’arte, come nel caso del pesce che è diventato il suo mantra formale. Attraverso questa dissacrazione delle forme architettoniche ha toccato la sua rabbia e la sua forza. Bruno Zevi in “Ebraismo e Architettura” afferma: “In lui convergono due tipi di ribellione contro i vincoli accademici: quella ebraica radicata nel solco del-

l’espressionismo e quella specifica del pionierismo tipico americano”. E prosegue: “Dalla disperazione ebraica scatta l’allegria del casuale, dell’avventura rischiosa, al limite del pop, del punk ed oltre”. Nel vecchio magazzino della Cloverfield (ristrutturato nel 1996), il suo studio, si è sommersi dai plastici che appesi alle pareti, stanno lì pronti ad essere smontati per crearne degli altri per altre architetture. È un’officina in fermento e nel mezzo vi si trova un’isola tranquilla, lo studio di Gehry. Francesco Dal Co scrive in Frank O.Gehry: “L’atmosfera è di semplicità, nulla di elaborato o di avanguardistico”. Ma forse è vero che è l’abitazione a rispecchiare il proprio carattere. Sembra evidente che la figura di Gehry ha una complessità a volte celata, ma di sicuro interessante. La casa di

Santa Monica in California (1978), la sua dimora, ha da subito manifestato le peculiarità del progettista. Il lavoro-summa di quegli anni d’apprendistato, è consistito nello scoperchiare, sventrare, e decostruire una tipica casa prefabbricata. Ha spogliato la costruzione e l’ha portata ai suoi nudi materiali, e vi ha incorporato frammenti di strutture esistenti, ridefinendola come una costruzione non-finita. E ne è nato un caso. Ma questo perchè per Gehry costruire vuol dire scoprire se stesso, ammettere l’esistenza del caos, l’esistenza del doppio, delle ossessioni portate all’estrema capacità di previsione degli eventi, delle pieghe caratteriali nonché materiche. Forse per questo lo troviamo simpaticamente rappresentato, con la sua casa e i suoi modellini, anche nella spassosa parodia dei Simpson, che fornisce un’ironica interpretazione nonché verosimile della genesi dei progetti di Gehry. Marge, la famosa protagonista dall’alta cresta di capelli in testa, convince la città a fare una concert hall, progettata dall'architetto Frank Gehry, il quale ne apprende l'offerta da una lettera. Nel cartoon si vede Frank Gehry fuori dalla sua abitazione, simile a quella di Santa Monica, che dopo una veloce lettura accartoccia la lettera e la getta per strada. Girandosi poi per caso si rende conto della forza espressiva che quel foglio di carta aveva acquisito. Nel cartoon la forma riprendeva la Walt Disney Concert Hall di Los Angeles. Sarà caos, sarà scultura, sarà puro egocentrismo da archistar, ma Frank Owen Gehry alias Frankie P. Toronto è riuscito pienamente nel suo intento: la totale fertilità della fantasia. DESIGN + 111


Architettura Story

ASMARA A BOLOGNA

UNA MOSTRA, UN ATLANTE

Circa 1.500 illustrazioni e oltre 600 pagine di testo. È il libro Architettura dell’Italia d’Oltremare. Atlante iconografico, firmato da Giuliano Gresleri e Pier Giorgio Massaretti. Una guida utile per i ricercatori coinvolti nel recupero e nel restauro di edifici che testimoniano la presenza e l’operato italiano nell’Oltremare di Mattia Curcio

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cura dell’associazione “4Asmara – Arbate Asmera” (organismo di eritrei e di amici dell’Eritrea in seno dell’associazione tedesca “Association to Promote Education and Media on Environment and Development”), dal 5 giugno al 5 luglio 2009, si è tenuta a Bologna, presso Palazzo Saraceni, sede della Fondazione Carisbo, la mostra: “Asmara, città segreta del Moderno in Africa”. Curata da Naigzy Gebremedhin − architetto eritreo dell’Università di Washington e primo direttore dell’Eritrean Cultural Assets and Rehabilitation Project (CARP) − e dal professor Omar Akbar, già presidente e direttore della Foundation Bauhaus di Dessau; l’esposizione trae origine dall’omonimo testo: Asmara. Africa’s Se-

cret Modernist City, pubblicato nel 2003 dall’editore Merrel (London – New York), e curato da Naigzy Gebremedhin, Edward Denison e Guang Yu Ren. La mostra intinerante, già esposta in importanti centri europei (Francoforte, Stoccarda, Londra) ed internazionali (Tel Aviv, Il Cairo, Lagos), ha trovato a Bologna l’ambiente più sensibile ai suoi contenuti. Bologna infatti, durante gli anni ’80, è stata la sede del governo provvisorio eritreo durante la guerra di liberazione contro l’Etiopia, ed anche oggi ospita una numerosa colonia di espatriati eritrei, residenti nel capoluogo emiliano. Rapporti culturali accreditati hanno legato l’università asmarina con quella bolognese. A Bologna infatti, organizzata dall’Università degli Studi “Alma

Nella pagina a fianco, in alto: il libro Architettura dell’Italia d’Oltremare. Atlante iconografico, di Giuliano Gresleri e Pier Giorgio Massaretti, edito da Bononia University Press. Sotto: Addis Abeba, la chiesa del Ghebì, 1938. In questa pagina, in alto: Ufficio PRG di Addis Abeba, mercato indigeno realizzato nel 1939. In basso: Addis Abeba, veduta aerea del recinto imperiale del Grande Ghebì e dell’abitato circostante, 1935


Architettura Story

Mater Studiorum”, si era tenuta alla Galleria Comunale d’Arte Moderna, nell’inverno 1993-’94, la grande mostra: “Architettura italiana d’Oltremare 1870-1940”; segnata da uno straordinario successo di pubblico, avviò una fortunata stagione di studi su un argomento decisamente dimenticato dalla storiografia nazionale: quello, appunto, della presenza dell’architettura italiana in quei territori dell’“oltremare”, soggetti alla gestione militare e amministrativa italiana, nei settant’anni in cui il nostro paese esercitò, con esiti alterni, una “sua” politica coloniale. Se il materiale esposto in quest’occasione si presentava sorprendente per qualità ed inediticità (i villaggi agricoli di fondazione, in Libia e nel Dodecaneso; le numerose opere pubbliche e private “dell’Impero”; le “città di fondazione” in Etiopia; i piani urbanistici di Gherardo Bosio per l’Albania), fu soprattutto la documentazione inerente il processo di lenta ma strutturata “territorializzazione” della colonia Eritrea che scatenò la più accreditata attenzione storicocritica. La “Colonia primigenia”, come allora veniva chiamata, sin dal 1885 fu investita da un attrezzato processo di pianificazione, territoriale ed urbano. I piani adottati a partire dall’inizio del secolo – prima “timidamente” dall’amministrazione militare, poi da quella civile −, evidenziano un’insospettata ricchezza disciplinare, che si sviluppò autonomamente rispetto alla vicenda nazionale, e addirittura precedendo, per alcuni aspetti, le esperienze francesi in Marocco ed in Algeria. Assistiamo qui, infatti, ad un fenomeno che, pur nelle ristrettezze economiche in cui si dibatteva l’amministrazione autonoma delle colonie, portò governatori civili come Fernando Martini, Salvago Raggi, e tecnici della pianificazione come Odoardo Cavagnari (fondatore e direttore dell’Ufficio OO.PP. di Asmara), all’approntamento di una politica urbana di sicura originalità: capace di improntare di sé l’intero territorio della colonia, ma soprattutto di recepire, allo stesso tempo (attraverso le architetture che a quei piani davano forma costruita), il fascino di un esotico orientaleggiante, che si fondeva ad un colto eclettismo di sicura tradizione Beaux Arts. La vicenda che accompagna la redazione del “Piano Cavagnari” (1911), il 114 DESIGN +

progetto del moresco palazzo governatoriale che Martini commissionò a Cesare Spighi (nel 1904), i progetti di Paolo Reviglio e di Giuseppe Canè (che qui operò come architetto della Banca d’Italia), sono interventi che attestano una cultura professionale fuori del comune; e la più recente mostra bolognese su Asmara testimonia efficacemente, attraverso le splendide fotografie di Edison e di Yu Ren, come si sia conservata la perfezione esecutiva di opere realizzate in condizioni “estreme”, come l’imprenditoria metropolitana e la mano d’opera locale sembra abbiano operato in un efficace accordo produttivo. Risulta assai emblematica la documentazione che costituisce il nucleo centrale della mostra: gli oltre duecento edifici, pubblici e privati, costruiti negli Sopra: Giuliano Gresleri, docente di Storia dell’Architettura dell’ateneo bolognese, autore, insieme a Pier Giorgio Massaretti, del libro “Architettura dell’Italia d’Oltremare”. Altre sue pubblicazioni: “Alvar Aalto. La chiesa di Riola”, (Giuliano Gresleri - Glauco Gresleri), Editrice Compositori; “Chiesa & quartiere. Storia di una rivista e di un movimento per l'architettura a Bologna”, (Glauco Gresleri - M. Beatrice Bettazzi - Giuliano Gresleri), Editrice Compositori; “Bologna dall'autarchia al boom. Coscienza urbana e urbanistica” vol. 2, (G. Gresleri - F. Farinelli G. Cuppini), Editrice Compositori. A destra in alto: Ex-villa (oggi ufficio), 1938. Sotto: Asmara, Cinema Impero, Mario Messina, 1937

anni ’30 ai margini dell’abitato Ottocentesco, e che oggi si trovano ad essere il vero centro storico della città. Funzionalismo, razionalismo, espressionismo ed organicismo si trovano qui ad essere “tendenze” alle quali gli architetti italiani, attivi sul posto, si riferirono con sicura capacità evocatrice del modelli europei originari: dalla opere di Gropius e Le Corbusier, al Novecento romano e napoletano, alla “razionalità” ortodossa di Terragni e di Figini e Pollini. Sono questi lavori, di giovani professionisti giunti in colonia tra il 1930 e il 1938, che assurgono ad un’emblematica catarsi costruttiva: fantasiosamente interpretando stilemi, regole ed assiomi progettuali che in patria, invece − coercizzati dalla retorica di regime −, irrigidivano le opere contemporanee. L’unità tipologica, il trattamento dei materiali e dei rivestimenti, i cromatismi, la compattezza planimetrica dei siti entro cui le architetture prendono forma, una cultura materiale che fa riferimento con sicurezza a modelli efficacemente studiati ed interpretati; paradigmi disciplinari che la mostra bolognese in esame attesta con perizia; segno dell’eccellenza con cui il CARP ha investito sulla politica di documentazione, conservazione e riuso di tale patrimonio asmarino; con il dicharato obiettivo di fondo d’intercettare l’attenzione dell’UNESCO per l’inserimento del patrimonio moderno di Asmara nell’elenco del “patrimonio storico dell’umanità”. La mostra ora esaminata, si è inaugurata in concomitanza con l’uscita del volume: Architettura dell’Italia d’Oltremare. Atlante iconografico, che gli architetti Giuliano Gresleri e Pier Giorgio Massaretti (docenti di Storia dell’Architettura dell’ateneo bolognese) hanno editato per i tipi della Bononia University Press. Si tratta di un lavoro che riprende le motivazioni di fondo della mostra bolognese del 1993, e che qui trova una sintesi di grande pregnanza iconografica: 1.500 illustrazioni tutte a colori, in oltre 600 pagine di testo ed interamente bilingue, italiano ed inglese; un’opera che tende – per le modalità redazionali ed editoriali del volume – ad organizzare visivamente la ricchissima quantità di documenti e informazioni provenienti dagli archivi, pubblici e privati, nazionali; destinata ad un’essenziale


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Architettura Story Sotto: una foto di O. Cavagni all’epoca del suo arrivo in Asmara. In basso: Distributore di benzina della Shell, 1937

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comprensione di un fenomeno storicocronologico che interessa settori sempre più allargati della storiografia architettonica, nazionale ed internazionale. Abbiamo chiesto a Giuliano Gresleri di illustrarci il lavoro compiuto e di guidarci, se così si può dire, attraverso gli archivi italiani depositari di questa stupefacente iconografia “perduta”. Domanda. In riferimento alle precedenti informazioni, il vostro volume sembra organizzato per ambiti geografici che vanno molto oltre la “questione eritrea”. Risposta. Naturalmente vuole essere un libro di grande utilità; un “catalogo”, una “guida” utilissima per i ricercatori che sempre più spesso sono coinvolti, dalle organizzazioni internazionali, nel recupero e nel restauro di edifici che testimoniano la presenza e l’operato italiano nell’oltremare. Biografie, bibliografia, regesti iconografici e documentali, funzionano perfettamente in tal senso. E Stefano Zagnoni, collega bolognese dell’ateneo di Udine che opera nella nostra unità di lavoro, è attualmente impegnato in Libia con tali compiti, e l’Atlante costituisce per lui un sicuro punto di appoggio scientifico. D. Settant’anni sono tanti nello sviluppo dell’architettura moderna, ed in questo caso racchiudono un periodo che parte dall’epoca “eclettica” e termina con quel “razionalismo“ che, alla chiusura degli

«OGGI QUASI TUTTO SI ASSOMIGLIA E LA NATURA DI UN SITO, LA SUA CULTURA, NON RIESCONO PIÙ A VINCERE L’INERZIA DELL’OMOLOGAZIONE» anni Trenta del Novecento, stava ormai entrando in crisi. Difficile quindi identificare delle unitarie caratteristiche comuni, all’interno della naturale evoluzione tipologica dell’architettura. R . Una presa di coscienza, traducibile in tipi edilizi definiti, avviene solo alla fine degli anni ’20, quando le funzioni tecnicoamministrative che governavano gli scenari urbani europei si sono definitivamente chiarite. Agli architetti risulta così facile dare una forma eloquente ai vari oggetti che essi progettano per le capitali moderne. Ciò che accade di straordinario nelle nostre ex colonie è che, mentre in Italia, ad edifici di un certo tipo, corrispondono forme più o meno definite, in colonia ogni “variazione” è possibile. I materiali tradizionali qui sono pienamente adottati dal “moderno”. Mentre i tratti distintivi dell’architettura razionale (pareti lisce o curve, tralicci in c.a. a vista, finestre circolari, ecc.), vengono adattate al clima locale; e così l’architettura che ne scaturisce risulta “sorprendente”, meno formalmente irrigidita. Il tema dell’esotismo appare sempre esaltante per i professionisti dell’epoca e li spinge a sperimentare una progettazione che anticipa con sicurezza il tema allora ignorato della qualità ambientale. Contemporaneamente, i principi dell’urbanistica dello zooning si presentavano ora molto chiaramente. In colonia puntavano ad un semplice obiettivo: separare gli indigeni dai bianchi; l’apartheid era funzionale al progetto politico di un rigido controllo della forza lavoro locale. Il colonialismo italiano - a differenza del colonialismo “capitalista” delle grandi potenze era di tipo “demografico”, destinato cioè ad esportare alte quote di popolazione agricola nazionale, che necessitava di nuovi insediamenti. Queste città “per nazionali” dovevano perciò “richiamare” le caratteristiche tipiche dei centri di provenienza, coi loro servizi: la piazza, la chiesa, la scuola, gli edifici amministrativi. È uno spazio che accoglie tutti e che - una volta partiti gli italiani, nel dopoguerra -, accoglierà i nativi, generando singolari “reinterpretazioni” architettoniche.


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Architettura Story

In alto: C. Spighi, Palazzo governatoriale di Asmara, fronte principale, 1903. Sopra: veduta di residenza italiana, 1938

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D. Le Corbusier fu tra coloro che mostrarono grande interesse per l’architettura italiana in Africa, tanto da mettersi in polemica con i colleghi francesi. R . Alla fine degli anni Trenta si era impegnato col procedimento urbanistico della pianificazione “aperta” alla scala regionale, impiegata da Bosio nelle città di fondazione africane, contrapponendola a quella “chiusa” tipica dell’Agropontino. Nell’Atlante c’è un capitolo che parla del piano di Le Corbusier per Addis Abeba. Non dobbiamo dimenticare infatti che il termine di paragone di questi architetti restava il filone collaudato delle tendenze europee che stavano sperimentando ovunque i nuovi modelli residenziali della siedlung e delle “città funzionale”. La rifondazione di una grande capitale, che doveva essere anche “imperiale”, non poteva lasciare indifferente lo sperimentalismo di Le Corbusier; è poi il suo un progetto che rivela non poche analogie con gli impianti di Piacentini e Pagano per l’“E 42” di Roma (1938-1940), ad esempio. Negli stessi anni gli architetti scoprirono l’eccezionale patrimonio dell’architettura mediterranea delle isole, che si diceva “minore” solo perché non eseguito da “grandi autori” diplomati: Capri, le isole Eolie, la Sicilia custodivano da secoli architetture vernacolari, create dalla popolazione autoctona come

perfetti “utensili da abitare”, costruiti “spontaneamente”, mantenendo una forte fedeltà ai caratteri di quei luoghi. È un dato ulteriore che interviene a modificare e “imbastardire” la modernità arricchendola e “variandola”. D. Oggi gli architetti hanno perso di vista la necessità di tali obiettivi, così che tutto si assomiglia e la natura di un sito, la sua intrinseca cultura, non riescono più a vincere l’inerzia dell’omologazione. R . Il grande compito che ci attende oggi è proprio quello di costruire l’architettura moderna che tenga conto dell’esperienze dei luoghi e della gente. Con l’Atlante abbiamo tentato di costruire uno strumento critico per chi dovrà operare in contesti di cui non conosce la storia. Certamente alcuni architetti italiani degli anni Trenta riuscirono ad accogliere nei loro progetti il genius loci di quei territori così diversi; inserendovi, con la potenza espressiva del “razionalismo asmarino”, che oggi ammiriamo. La città di Asmara che ha avuto la fortuna di non essere distrutta dalla guerra, è un caso da studiare e recuperare con attenzione. Cavagnari, l’architetto che pianificò Asmara, tenne in gran conto la geografia del sito, si adeguò al magnifico altopiano che circondava la città, si acco-

«ESALTANTE È IL TEMA DELL’ESOTISMO: SPINGE I PROFESSIONISTI A SPERIMENTARE UNA PROGETTAZIONE CHE ANTICIPA IL TEMA DELLA QUALITÀ AMBIENTALE»

stò al fiume che l’attraversa, “lesse” i monti circostanti. La città, fondata in origine come semplice campo militare, si trasformò in quella che doveva diventare la capitale della colonia eritrea: una gardentown, una “città giardino” che ancora oggi ci stupisce. Per questo Asmara deve entrare nel Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco, anche se l’instabilità politica della regione africana, pone pesanti ipoteche. Come per le antiche città europee, il suo futuro è garantito dalla conservazione della popolazione oltre che dal restauro degli edifici. Oggi l’Europa non riesce ad esprimere una vera politica, ancora una volta il nostro futuro dipende da come saremo e se saremo in grado di leggere e conservare la memoria del passato. L’Atlante iconografico ha anche questo tra i suoi obiettivi.


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