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idolâtrie x SHIBUYA
by kotodama
di Damiana De Gennaro
TEMPO DI LETTURA 6’ state of emergency – so beautiful to be
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Jóga, Björk
shibuya fiorita – shibuya piovosa – shibuya che vuoi vendermi qualcosa – shibuya sciamana, adescatrice – shibuya-lolita che aspetta il professore – shibuya spettro, coda di sirena –shibuya masticata, deglutita, risputata – quante linee della metro attraversano shibuya? – quante primavere servono a colmare una voragine? – ci incontriamo a shibuya, a mezzogiorno?
al bistrot, shibuya era il mio soprannome. Questo la Signora Cactus non lo sa: per lei shibuya è solo un posto in cui incontrarsi, un po’ scomodo, per la verità. Non sa nemmeno di essere la Signora Cactus, anche se forse lo intuisce. Il nostro amore si regge sul mio non dire e sul suo non domandare. Abbiamo cose più importanti a cui pensare, come i missili della Corea del Nord annunciati stamattina al telegiornale. La diverte il fatto che un poco mi spaventano: si vede che sono appena arrivata e mi devo ancora abituare. Poi c’è la questione dei prezzi che salgono, e che solo il 20% delle aziende assicuri l’aumento degli stipendi ai dipendenti. La gente ancora fa fatica a immaginare viaggi all’estero, si scelgono destinazioni entro i confini nazionali, in cui spostarsi togliendo la mascherina solo se proprio necessario. La televisione suggerisce alcuni paesi del SudEst Asiatico da ammirare, tra le varie cose, per la rapida crescita economica. I ciliegi domani raggiungeranno la piena fioritura, ma la Signora Cactus non ha tempo per guardarli. È così impegnata, è così stanca. Io le dico di non sforzarsi troppo, che comunque presto o tardi moriremo per un dispetto geopolitico, un terremoto devastante, o la fine silenziosa di un amore immaginato. Lei sorride il suo sorriso storto: così so che in parte il nostro è salvo. Subito dopo aver pranzato più o meno dolcemente, iniziamo la lezione. Non è che tu abbia dimenticato il giapponese, dice, è solo scivolato sul retro del cervello, e bisogna rievocarlo come lo spirito di un morto. Sediamo al tavolo del fami-resu, la musica classica è snervante, e mentre facciamo i nostri esercizi-rituali penso che il problema non sia tanto la lingua in sé, quanto più il fatto di non sentirmi più fisicamente attratta da lei: l’unica persona con cui abbia mai desiderato comunicare veramente. Questo lo sappiamo bene entrambe, ma non possiamo dirlo, e così diamo pacificamente colpa all’incidente. Quando lei pronuncia la parola incidente a me viene da piangere, ma riesco a trattenermi. Vorrei dirle: quel giorno una parte addormentata di me ha provato a uccidermi; un’altra, subito prima, aveva provato a baciare qualcuno che amabilmente rifiutava: un bacio sulla guancia e uno schiaffo sul sedere: perché ci teneva molto a considerarsi fedele; un’altra parte ancora era in fuga da qualcosa che potrei riassumere così: il fantasma della madre, alcuni commenti agrodolci di mio padre, come per esempio: – vorresti fare carriera nella ristorazione? –; l’e-mail in cui il professore si diceva deluso dalla tesi anche se mi attribuiva il massimo dei voti con la lode, la delusione mai espressa ad alta voce delle donne di famiglia; il selvatico silenzio di una figura –amata? idealizzata? – che ormai dura quattro anni, il mio non essere né voler fare la parte della vittima; tutto questo vorrei dirle, ma lei beve il caffelatte e aspetta solo che io scelga quale verbo aggiungere nello spazio bianco lasciato tra parentesi, se la a., la b., la c., o la d. shibuya, vorrei dirle, è morta con l’estate.