Chiesa di Santa Maria Assunta. Ariccia, Roma

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G.L.Bernini, S. Maria dell’Assunzione, Ariccia Inizio Lavori primavera 1662

Fine Lavori 16 maggio 1664

a cura di Luca Ossino


I protagonisti

Indice I. Analisi Storica 4-5

Contesto storico-geografico

6

Struttura amministrativa e gestione economica delle fabbriche barocche

7

Organizzazione tecnica del cantiere e delle maestranze

8-9

Elementi contestuali rilevanti

La riorganizzazione territoriale ad opera della famiglia Chigi, investì molte figure professionali, sia di altissimo livello internazionale che locale, tutte unite da uno scopo comune per il compimento di una visione urbana e rappresentativa della committenza illuninata chigiana.

II. Analisi Progettuale 10-11

Organizzazione urbana e rapporto con il contesto

12

Soluzioni progettuali

13

Purezza volumetrica

14

Il tema della luce

15

Riferimenti progettuali

III. Sintesi Critica 16-19

Restituzione grafica

20-22

Analisi dei documenti d’archivio per le lavorazioni sulla «Rotonda»

23

Prassi e princìpi dalle cupole rinascimentali a quelle barocche

24-25

Ipotesi costruttive

26-27

Analisi statica

28

Confronto tra approccio progettuale barocco e contemporaneo

29

Parallelismi tra architettura e musica

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Bibliografia

Alessandro VII ritratto da Giovan Battista Gaulli

G.L. Bernini autoritratto

Committenza Fabio Chigi

(1599-1667)

al 1662: 63 anni

Progettisti G. L. Bernini (1598-1682) Matthia de’ Rossi (1637-1695) Carlo Fontana (1634-1714) Luigi Bernini (1612-1681)

Progettista Soprintendente lavori Collaboratore Architetto delle acque

Uomini di cantiere Ambrogio Appiani, Iacomo e Carlo Beccaria, Paolo Naldini, Giuseppe Bocimazza, Federico Pigliuzzi, Antonio Martiniani, Giovanni Gemino, Andrea Hanghe, Filippo Pierantoni, Giovanni e Nicola Artusi, Francesco Petrone, Camillo Saraceni, Antonio Chicari,

Scalpellino Capimastri - muratori Scultore Capomastro Fabbro Imbiancatore Stagnaro Vetraio Vetraio Fonditore Argentiere Indoratore Falegname

Provenienza fondi Elemosineria Segreta di Papa Alessandro VII, curatore dell’Elemosineria: Monsignor Ferrini

al 1662: 64 anni al 1662: 25 anni al 1662: 28 anni al 1662: 50 anni


Modello ligneo del complesso della piazza di Corte, Palazzo Chigi e Chiesa (Palazzo Chigi, Ariccia)


De’ confini moderni del territorio Aricino. Il territorio Aricino nel tempo in cui scrivo [1795] è ristretto nella quantità di rubbia 914, quarta una, scorzi tre e un quartuccio, come risulta dall’ultimo catasto fatto d’ordine del regnante sommo Pontefice Pio VI, e confina da oriente con li territorj di Rocca di Papa, Nemi e Genzano, da tramontana con quelli di Castel Gandolfo e di Albano, da occidente con quelli di Albano e dell’agro romano, e da ostro con quelli di Civita Lavinia e Genzano. In tutto il suo territorio e nell’attigua tenuta di Campo Leone vi esercita la sua giurisdizione nel temporale l’eccma casa Chigi. La giurisdizione spirituale o parrocchiale però si estende più oltre perché abbraccia nell’agro romano le tenute di Montagnano, Campoleone, Cecchina e Casalotto. Non è stato possibile trovare documenti autentici per fissare i confini dell’agro aricino in tempo che ne erano possessori i Savelli. […] Allorchè nell’anno 1661 sotto li 20 giugno fu l’Ariccia da’ signori Savelli venduta alli signori Chigi, furono descritti i confini nell’istrumento di vendita rogato […]. […] Assegnati ora i confini dell’antica Ariccia, passiamo a discorrere del clima. L’aria è ivi molto salubre, e temperata, rimanendo ella coperta per mezzo de’ colli Ariccini degli umidi effluvi de’ circonvicini laghi Albano, o di Castel Gandolfo, e di Nemi, e dalle nocive esalazioni delle paludi Pontine è difesa dal monte detto Pardo. […] Noi certamente proviamo in questi tempi il nostro clima molto salubre, e potremmo in prova di ciò addurre molti testimonj, i quali nell’Ariccia hanno recuperato la sanità creduta da’ medici quasi disperata. Tra questi numerar si deve il Cardinal Clemente Argenvillieres, il quale dopo aver recuperato la sanità sotto questo cielo, continuò per quaranta, e più anni a venirvi in alcune stagioni dell’anno. Maggior prova però, credo io, non può darsi intorno alla salubrità dell’aria, se non la lunghezza della vita. Sotto questo clima si vive prosperosamente sino all’età di ottanta, ed anche più anni. Nell’anno 1780, conteneva l’Ariccia anime 1450, tra queste ve n’erano più di cinquanta, che passavano gli anni 70, i quali guadagnavansi il vitto con le loro giornaliere fatiche nelle vigne, e campagne vicine, e ven’erano 14 che passavano gli anni 80, alcuni dei quali così vivaci e prosperi che quotidianamente con la fatica delle proprie mani si procuravano gli alimenti. Nel detto anno 1780, ve ne eran due, che sormontavano gli anni 90, i quali hanno sempre lavorato nelle campagne, e uno di anni 92 andava quotidianamente a coltivar la vigna, l’altro di anni 94, dopo aver sofferto una lunga infermità, che lo aveva tenuto a letto dal mese di ottobre dell’anno precedente sino al principio di maggio, si vide di nuovo camminar per le strade, con istento però, attesa la debolezza delle ginocchia. Godevano, non ostante, ambedue perfettamente tutti i sentimenti del corpo, e una memoria felicissima. In questo anno 1795 è morto un sacerdote di anni 92, il quale ogni giorno diceva Messa, e godè sino alla fine perfetta salute di mente, e di corpo. Quale fosse la popolazione dell’antica Ariccia non è a noi noto. Quella però doveva essere assai numerosa; perché colti all’improvviso gli Aricini da formidabil esercito degli Etruschi, poterono facilmente vincerli e superarli […]

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Contesto storico-geografico

Planimetria del territorio di Ariccia Acquarello su pergamena, cm. 90,5 x 127,5 - Ariccia, Palazzo Chigi, inv. 714

Strada delle Frattocchie a' Castello da Castello a' Albano, alla Riccia, a' Genzano e a' Nemi, Acquarello su pergamena. Archivio Palazzo Chigi

Del Bosco Aricino, ora di Nemi

Il P. Abate Bracciolini monaco Vallombrosano, e primo abate di Galloro nelle memorie di Galloro scrisse, che i monaci di Grotta Ferrata a’ tempi di Eugenio IV governavano questa terra nello spirituale e nel temporale, e che vi fosse già una chiesa dedicata all’Assunzione di Maria Vergine, e dice ciò risultare da due istrumenti del Notaro Ambrogio di Giovanni di Ferentino, uno cioè nell’anno 1446 e l’altro nell’anno 1573 ne’ quali asserisce ritrovarsi la permuta dell’Ariccia fatta con la tenuta del Borghetto vicino alla badìa di Grotta Ferrata fra li monaci Basiliani, e Mario, o Mariano Savelli. Il P.D. Benigno Aloisi Vallombrosano, e abate parimente di Galloro nell sue memorie scritte nell’anno 1720, e stampate nell’anno 1758 dice che i monaci di Grotta Ferrata possedevano molti beni specialmente nel territorio dell’Ariccia, conforme si legge in una bolla di Gregorio IX, che incomincia Apostolicum convenit etc. spedito a favore di detto monastero l’anno 1233, che si conserva da’ monaci Basiliani nel loro monastero di S. Basilio in Roma, nella quale a corpo per corpo, ed a luogo per luogo, vengono distintamente numerati tutti li beni del monastero di Grotta Ferrata […]. Imperrocchè allorquando fu l’Ariccia da’ principi Savelli venduta alla famiglia Chigi, il Pontefice Alessandro VII di questa stessa famiglia diede origine a monsignor Pier Francesco De Rossi di usare tutte le diligenze per rin venire questi diplomi, o altro documento, che ciò comprovasse. Rivoltò il prelato gli archivj Vaticano, e di Castel s. Angelo, e della casa Savelli, e non rinvenne anzì stabilì l’epoca, in cui la famiglia Savelli acquistò il dominio dell’Ariccia, all’anno 1223, come dall’istrumento di compra, di cui si parlerà in appresso. Errò per altro il monsignor de Rossi perché l’acquisto fu fatto dalla Camera Apostolica, non dalli Savelli, come si dirà. Ma per meglio scuoprire la verità su questo tratto di storia confrontiamo i diplomi con gli altri documenti certi, che abbiamo in contrario. Si è di sopra osservato, che nell’anno 990 Guidone de’ Conti Tusculani era duca dell’Ariccia, e che in appresso fu da’ di lui discendenti governata.

[…] Io sono d’opinione, che questo luogo di delizie fosse formato da’ principi Savelli, perché confina coll’uccelliera, di cui si parlerà qui sotto, e perché trovo in più istrumenti nominato il Parchetto, onde è da credersi, che vi fosse altro parco grande. Certo è però che questo non era della vastità presente, né giungeva sotto le mura del palazzo. Il principe D. Agostino Chigi sotto li 25 e 30 settembre dell’anno 1666 e sotto li 23 e 25 aprile e 23 novembre 1667 fece pagare il prezzo di cinque vigne servite per far il Parco, per istrumenti rogati dal Lucidi […]. Dilettevole al sommo e abbondante è la caccia de’ beccafichi che nell’autunno si fa nel parchetto. Evvi in quel luogo una selva mantenuta a quest’effetto, con travi alti piantati negli stradelli a’ quali si stendono le reti, che chiamano retoni per la loro ampiezza. Questa caccia è ancora di molta presa al principe per il mantenimento della selva, per gli alberi di fico ed altri che producono il nutrimento a quegli animali, e le reti. Dell’Ariccia sotto il dominio delle famiglie Malabranca, Conti e Savelli Trovasi registrato in molti msti, e nel breve ragguaglio della madonna del Galloro stampato in Roma nel 1758, che l’Ariccia fosse stata soggetta a’ Monaci Basiliani di Grotta Ferrata. “ Prima che l’Ariccia (sono parole del canonico Arzani) passasse al dominio delli sig. Malabranca, si dice, perché scrittura, o altro riscontro non mi è pervenuto, che fosse delli RR. Monaci Basiliani di Grotta Ferrata, de’ quali fosse permutata col luogo già abitato, ora disabitato, detto il Castellaccio vicino alla badìa di Grotta Ferrata, per unire il territorio e proprietà, e spettante a tali Malabranca.

E. Lucidi


In seguito l’abbiamo veduta sotto il dominio dei Papi, e da questi nell’anno 1116 donata alla medesima famiglia de’ conti Tusculani, né mai si fa menzione della casa Savelli. Il Sansovino [in Origine delle famiglie illustri d’Italia, Signori Savelli] fa una lunga descrizione di tutti gli uomini illustri di questa famiglia, e tra essi non leggesi Virginio Savelli, quale non avrebbe mai dovuto omettere tra gli uomini illustri nell’armi di quella famiglia, se fosse vero ciò, che assicura il sig. abate Ricci cioè che Virginio Savelli d’illustre famiglia romana, come quei, che godeva della reputazione imperiale, e che era stato decorato del titolo di capitano dell’armi Cesaree, prese a tutt’uomo la difesa del suo signore, represse i tumulti in Roma, e indusse alla divozione di Ottone buona parte di quelle terre, che obbedivano al Senato di Roma. Obbligato l’imperatore in tal maniera, quando pose mano all’esterminio de’ congiurati, e all’abolizione del senato, volle mostrarsi grato a Virginio, lo dichiarò signore di Albano, dell’Ariccia e di altri tre castelli circonvicini, terre tutte di acquisto, e da esso rese all’obbedienza imperiale. D’onde abbia il signor abate Ricci estratte queste notizie cotanto interessanti, nol sappiamo e noi non possiamo passarle per vere, se non ci si reca qualche documento; anzi le supponiamo false. Poiché il Muratori negli annali d’Italia nell’anno 962 ci fa sapere, che Ottone esercitò la sua libertà verso i conti, marchesi ed altri baroni, che si erano mostrati più fedeli alla sua corona, ed attaccati al suo servigio, ed in seguito nomina alcuni del medesimo beneficati […]. Il Jacovacci nella sua storia manoscritta di Albano ci racconta il fatto in questa maniera: “ Ma poi l’anno della nostra salute 964 fu concesso Albano con la Riccia e tre altri luoghi da Ottone imperatore a Virginio Savelli suo capitano per gratitudine de’ servizj ricevuti, […] . Io credo, che tanto il Jacoacci, quanto il sig. abate Ricci allucinati da una supposta certezza di quei diplomi abbiano mancato nel descrivere il dominio di Albano ritenuto dalla Santa Sede sul falso fondamento, che quella città dall’anno 964 sia stata sempre sotto il dominio de’ Savelli investiti dagl’ imperatori Ottone, e Federico. E’ però da credersi, che in quel frattempo furono i conti, o di Marsi o Tusculani padroni di quella città […]. Da tuttociò apparisce, che negli anni 960 o circa 1060 e 1079 stava Albano sotto il dominio della Sede Apostolica la quale procurò sempre di mantenerlo.

e conveniva scendere dal convento della Stella d’Albano per la Via Appia sino all’orto detto de’ Torrioni, e di li salire per la strada detta de’ Sassi ( ora impraticabile, e ridotta a un fosso), ed entrava nell’Ariccia per la porta Napoletana; giacchè la porta Romana era tanto angusta, come anche a’ dì nostri vedesi murata, che per essa appena entrar le bestie con soma, e serviva per il commodo delle vigne; aprirono pertanto in parte, e in parte ampliarono la presente strada, che da Albano conduce all’Ariccia: innalzarono la presente magnifica porta disegnata dal celebre architetto Lorenzo Bernini; e innanzi ad essa innalzarono un muro a guisa di loggia, la quale forma all’occhio un dilettevole teatro per l’ampio prospetto della valle Aricina, della campagna romana, e del mare da Ostria sino al Monte Circejo. Ampliarono ancora in palazzo, in cui per molti giorni dimorò il pontefice Alessandro VII, il quale dopo aver comprate e fatte demolire molte case poste innanzi a quello, dilatò la piazza, l’ornò con due fontane, e da’ fondamenti vi eresse un magnifico tempio con portici da ambo le parti […]. E. Lucidi

Dell’Ariccia sotto il dominio de’ principi Chigi

La Piazza di Corte (1662-1665) La piazza al tempo dei Savelli era un grosso slargo, peraltro in forte pendio verso l'estremo occidentale del colle, con alcune modeste casupole a fronte del palazzo Salvelli e l'Oratorio di S. Nicola accanto alla Porta Napoletana. Non costituiva il polo religioso della comunità, poiché il Duomo vecchio, la paleocristiana collegiata di S. Maria si trovava nella parte bassa del paese, come anche l'altra importante basilica di S. Pietro. Il nome “piazza di Corte” è più antico della stessa sistemazione del palazzo e dello slargo frontestante. Esso potrebbe derivare dalla definizione architettonica di corte, come spazio scoperto entro il perimetro di uno o più fabbricati (infatti a Venezia corte indica una piazzetta in mezzo ad un gruppo di case). Già un documento del 1614 parla di “fontana in … piazza di Corte”. L'etimologia più certa è comunque quella che pone in collegamento il termine “Corte” con il titolo di alcune magistrature giudicanti (ancora oggi si parla di Corte d'appello, de' Conti). Effettivamente la costruzione della nuova residenza del Governatore sulla piazza nel 1664 fu detta “casino fatto fabbricare p. la Corte della medesima terra”, e già esisteva prima dei Chigi un edificio adibito a tale uso sulla piazza da giustificare questa nomenclatura. La piazza assunse dignità di scenografica corte barocca, con l'intervento voluto dai Chigi dopo il 1661;

G. Cerruti, Prospetto della parte di dentro avanti che si fabbricasse di nuovo a tempo d' Sig.ri Savelli, china acquarellata su carta. mm 373x522. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Archivio Chigi, n. 24940

Spuntò finalmente quel giorno, in cui riacquistò l’Ariccia qualche raggio del suo antico splendore, allorchè nell’anno 1661, di quella divenne padrone la nobilissima famiglia Chigi, come fu accennato sul fine del capitolo XXVIII […]. Subito che i nuovi padroni presero possesso dell’Ariccia, procurarono procurarono con la loro affabilità, e generosità accattivarsi gli animi de’ loro vassalli. Nel primo istrumento di affitto del forno rogato per gli atti del Sarnani notaro pubblico dell’Ariccia li 10 maggio 1662 obbligarono il fornaro a fare il pane di peso di un’oncia di più di quello che si faceva in Roma; e questa grazia durò sino alli 30 di settembre dell’anno medesimo, come si ha da altro istrumento dello stesso notaro rogato in stesso giorno. Fecero inoltre misurare tutto il territorio Aricino per istrumento del suddetto Paluzzi dei 3 febbrajo 1662. Per abbellire poi il nuovo loro feudo, siccome la strada, che conduceva all’Ariccia era troppo lunga, e incommoda,

il baricentro della cittadina si spostò definitivamente sulla sommità del colle, con la decisione di demolire le due basiliche paleocristiane. Alessandro VII volle che qui fosse innalzata la nuova chiesa collegiata e mise a disposizione, per le spese, il contributo della propria Elemosineria Segreta, ma il cantiere seicentesco interessò anche la ristrutturazione del Palazzo Savelli, la porta Napoletana, l'Oratorio dei Padri della dottrina, gli edifici vicini per la creazione dell'abitazione del seguito e gli Stalloni. Incisa della Rocchetta data alla metà del 1663 una carta dell'Archivio Chigi: “Nota di quel tanto si doveva fare per terminare la nuova Chiesa della Riccia”, in cui risulta che non si era ancora dato luogo alle operazioni di spianamento della piazza, realizzazione del muro di contenimento verso Albano, allestimento del lavatoio e dei tinelli sotto la piazza. Una nota del diario papale del 19 maggio 1663, ricorda i primi lavori di riempimento a seguito delle demolizioni: “ordiniamo i fianchi delle case e il ripieno della piazza”. Pianta del complesso e viabilità. Matita, china, acquarello su carta, mm 770x523. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Archivio Chigi n. 24949

Contesto storico-geografico

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La Reverenda Camera Apostolica La gestione dei cantieri romani rinascimentali e barocchi è sostanzialmente divisa tra la grande committenza papale e quella cardinalizia, pur mostrando spesso intersecazioni di ruoli difficilmente distinguibili. Nel primo caso, la gestione di fabbriche dimensionalmente o costruttivamente complesse, il più delle volte commissionate direttamente dal pontefice, dipende dalla Reverenda Camera Apostolica, organo istituzionale dell’amministrazione pontificia preposto anche al controllo dell’industria edilizia, che attua mediante Presidente e Prefetture. In presenza di committenza mista, pubblica e privata, l’amministrazione camerale è supportata finanziariamente dalle famiglie cardinalizie, dalle confraternite o dai capitoli basilicali, destinatari o fruitori delle opere. Su tale argomento si incentrano numerosi studi che contribuiscono a dipanare le intricate intersecazioni di ruoli e competenze tra istituzione dell’amministrazione pontificia, chiedendo il contributo di ognuna in materia di edilizia: se ne richiamano sinteticamente struttura e organizzazione allo scopo di porne in luce eventuali ricadute sulla gestione economica dei cantieri, sia di grandi che di piccolo dimensioni. Il meccanismo gestionale ed economico che sottende all’amministrazione dei cantieri papali è controllato da specifiche figure professionali afferenti alla rigida gerarchia ecclesiastica. La struttura amministrativa della Camera Apostolica può essere citata a modello anche per altre istituzioni pontificie; essa è diretta dal camerlengo, un cardinale chierico di Camera nominato direttamente dal papa, al quale sono assegnati ampi poteri amministrativi. Fino a tutto il pontificato di Sisto V Peretti (1585-90) il camerlengo ricopriva anche la carica di tesoriere generale, cioè di responsabile dell’amministrazione pontificia; successivamente i due incarichi vengono separati, rimanendo però tra i più ambiti in quanto sottendono per tradizione al berretto cardinalizio. Al tesoriere spetta il controllo finanziario dei beni della Camera, ivi compresa l’amministrazione dei luoghi di Monte, titoli di debito pubblico emessi in gran quantità a partire dalla fine del XVI secolo, anche allo scopo di finanziare importanti imprese edilizie. Tra queste, solo per citarne una, vi è anche la facciata della basilica di San Pietro; per la sua realizzazione, nel novembre del 1607, Paolo V Borghese (1605-21) istituisce un monte di 600.000 scudi sulle entrate della Fabbrica, estinguibile in 15 anni. La pesante responsabilità assegnata all’ufficio del tesoriere necessita della collaborazione di esperti contabili alle sue dipendenze. Per quanto riguarda le opere edilizie, spettano ai computisti la compilazione e il controllo delle stime dei lavori eseguite. Il tesoriere, verificate le valutazioni, autorizza al pagamento il depositario generale, responsabile della cassa della Camera Apostolica. In quest’ultima confluiscono tutte le entrate dello Stato Pontificio e da essa sono prelevati i fondi per gli investimenti nell’edilizia ordinaria e straordinaria, su cui gravano i pagamenti delle opere eseguite, preventivamente controllati e tarati dalla depositeria generale pontificia. I computisti camerali effettuano rigorosi controlli incrociati sui registri dei lavori, sui conti e sulle diverse scritture – trasmettendo le autorizzazioni al pagamento sia ai giudici contabili sia al depositario che emette i mandati. L’amministrazione camerale p strutturata in settori a competenza specifica. Presidenza delle Strade, Presidenza delle Acque e Presidenza delle Ripe, sono gli organismi da cui dipendono la gestione e il controllo di gran parte dei lavori edili. La Presidenza delle Strade controllala manutenzione e l’eecuzione di opere urbane di pubblica utilità;

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Struttura amministrativa e gestione economica delle fabbriche barocche

la Presidenza delle Acque gestisce opere idrauliche, acquedotti e fontane; dalla Presidenza delle Ripe, infine, dipendono il traffico fluviale, l’assegnazione degli appalti per la manutenzione delle rive del Tevere, la costruzione e la manutenzione dei ponti e anche la gestione del tiro dei bufali per il traino delle imbarcazioni di trasporto. Alle diverse cariche dell’amministrazione camerale sono chiamate figure professionali di provata competenza: tra i tanti, G.L. Bernini (1598-80) è nominato soprastante alla fonderia di Castel Sant’Angelo nel 1623, revisore a vita dei condotti delle fontane di piazza Navona nel 1625, architetto e segretario dell’Acqua Vergine nel 1629 e prefetto dell’Acqua Felice nel 1643. Tali incarichi, oltre oltre a favorirlo nell’assegnazione di commesse di prestigio come il baldacchino di San Pietro o la fontana dei Fiumi in piazza Navona, alimentata proprio dall’acquedotto Vergine, svolgono un ruolo determinante nel conferimento del titolo di architetto della Fabbrica di San Pietro, che detiene dal 1629 al 1680. L’organizzazione camerale comprende anche figure di provata competenza tecnica che affiancano gli amministratori nell’emissione dei pagamenti alle maestranze. L’insieme delle procedure e dei documenti contabili relativi alle opere edili presenta una tipologia unificata, ugualmente valida per i cantieri gestiti dalla Camera Apostolica, per quelli controllati dalla Reverenda Fabbrica di San Pietro e per quelli commissionati e diretti da privati. Capitoli e misure: contratti d’appalto e stima economica dei lavori Preliminarmente all’avvio di ogni opera, sia a carattere pubblico che privato, laico o ecclesiastico, è la stipula dei “Capitoli e patti”, autentici contratti sottoscritti da architetto, economo e imprese appaltatrici. I “Capitoli” sono compilati sulla base di modalità contrattuali concordate trai diversi operatori, che a Roma tra XVI e XVIII secolo assumono carattere ricorrente. Tra questi figurano contratti a giornata, che però non assicurano la velocità dell’esecuzione, e quelli a sola manifattura, nei quali la fornitura del materiale è interamente a carico della committenza. Più diffuso è il contratto a cottimo o a forfait, denominato anche “a tutta robba”. Questo tipo di accordo contrattuale, se da un lato accelera il processo costruttivo, dall’altro può pregiudicare la qualità esecutiva dell’opera, condotta frettolosamente in previsione di nuovi ingaggi. Per tale motivo, il cottimo viene spesso sconsigliato. Viceversa, la sottoscrizione dei capitoli a tutta robba può rivelarsi vantaggiosa in presenza di esecuzioni particolarmente impegnative. E’ questo, ad esempio, il caso delle strutture cupolate, la cui realizzazione è rimasta a lungo segregata dalla regola dell’arte custodita da poche squadre di costruttori esperti; essi offrono al committente il prodotto finito per un prezzo precedentemente concordato, ma si astengono dal descrivere le fasi esecutive nella stima finale dell’opera, che romane così a loro esclusivo appannaggio. Nel contratto a tutta robba inoltre il capomastro si fa carico dell’approvvigionamento dei materiali, dell’esecuzione delle opere e dei salari della manodopera, traendo profitto da eventuali rimanenze sulla cifra pattuita e dalla velocità dell’esecuzione, a pregiudizio quindi della qualità di materiali e dell’opera stessa. Pertanto, solo gli operatori riuniti in compagnie sono in grado di assolvere alle clausole contrattuali previste dalla formula a tutta robba, che comportano consistenti investimenti di denaro in materiali e attrezzature. A fine lavori, il committente si tutela da eventuali danni ordinando una serie di controlli su opere e quantità di lavoro eseguito, che , secondo una prassi adottata anche

nei cantieri pubblici, sono affidati a misuratori ufficiali. […] La formula a “misura e stima” è invece preferita ai committenti per tutta un serie di vantaggi e garanzie, comprese la relazione del contratto sulla base di tariffe standard . desunte dal confronto con altre opere elette a modello di perfezione esecutiva . e la verifica del lavoro svolto attraverso accurate misurazioni periodiche condotte da architetti e misuratori. In taluni casi, il contratto a misura e stima può prevedere la mutua partecipazione di committente e appaltatore alla fornitura dei materiali, il cui valore verrà decurtato dal conto presentato dall’impresa a fine lavori. Tale accordo risulta conveniente per il committente allorché egli disponga di una cospicua quantità di materiali di recupero, come pietra da taglio, tevolozze o elementi lapidei prelevati da altre fabbriche di sua proprietà, che lo esautorano dall’impiego delle forniture lasciando a suo carico i soli costi di trasporto. A lavori ultimati, i capomastri redigono il conto dei lavori, che include una descrizione sintetica dell’opera, quantità di materiale e giornate di lavoro. I conti, distinti per tipo, vengono tarati e ricontrollati dall’architetto o dal misuratore per mezzo della “misura e stima”. Si tratta di un documento fondamentale per la corretta quantificazione delle opere, specie nel caso di lavori retribuiti a tutta robba o secondo tariffe preventivamente concordate. Una risorsa da amministrare: vendita e noleggio di materiali e attrezzature Lo stupefacente fermento edilizio registrato a Roma in età barocca, specie in coincidenza degli anni giubilari, dissimula difficoltà di natura tecnica ed economica risolte solo con la graduale messa a punto di un apparato organizzativo, gestionale e tecnico straordinario che fa dei cantieri romani autentici modelli di efficienza, velocità e qualità esecutiva. Le numerose fabbriche aperte in città a partire dal XVI secolo, se da un lato favoriscono l’affinamento delle tecniche di approvvigionamento dei materiali da costruzione, smaltimento dei residui di lavorazione, organizzazione delle maestranze e coordinamento delle fasi esecutive, dall’altro mettono in luce nodi irrisolti connessi alla fornitura e all’uso di macchine, canapi, strumenti metallici, materiali lapidei pregiati e tagli di legname non ordinari, che i cantieri minori non riescono a gestire. Per fare un esempio, i canapi da 20 cm di diametro utilizzati nel 1666 nel restauro del portico del Pantheon per stabilizzare macchine e impalcati provvisionali, hanno prezzi inarrivabili per l’economia del cantiere diretto da Giuseppe Paglia e finanziato dalla Presidenza delle Strade, costretta a ricorrere alla Fabbrica di San Pietro e all’ingegnoso sistema di noleggio e vendita di materiali e attrezzature da essa attivato. A tale meccanismo si deve la realizzazione di gran parte delle architetture romane almeno fin tutto il XVIII secolo. La Fabbrica dispone di una cospicua quantità di materiali, strumenti e macchine, le cosiddette “munizioni”, accumulate e scrupolosamente conservate nella sua plurisecolare attività. […] Non altrettanto proficuo è invece il sub impiego di manodopera specializzata; i capomastri sampietrini, presenti in gran numero in altri cantieri romani, sono chiamati a guida di maestranze meno esperte, oppure a risolvere delicate questioni tecniche. Sebbene il loro ingaggio non sembri coinvolgere economicamente la fabbrica richiedente, tanto che non risultano compensi a favore della Reverenda Fabbrica, il loro contributo alla conduzione dei lavori è determinante. Non solo.


Specializzazione e salari

Il ruolo che essi assumono all’interno dell’industria edilizia romana è fondamentale anche per la divulgazione e il progresso delle conoscenze tecniche, affidati rispettivamente all’immediatezza della trasmissione orale e all’empirismo della sperimentazione sul campo, in una concezione pragmatica della professione che resisterà a lungo all’incalzante autorità del metodo scientifico. […] Alla metà del XVII secolo, pur nella permanenza dei divieti cinquecenteschi all’alienazione delle minizioni, comparare nei bollettini di prestigio una formula con la quale si assegna ai ministri della Fabbrica la facoltà di autorizzare vendita e nolo di materiali e attrezzature in circostanze particolari. Ciò obbliga alla compilazione di nuovi e più accurati inventari di materiali, attrezzature, macchine, canapi e pulegge, per i quali è predisposto un nuovo meccanismo di prestito. I libri di “Entrate e Uscite” vengono gradualmente sostituiti dalle “Liste Mestrue”, rendiconti mensili redatti dal fattore e vistati dal soprastante, che annotano tutte le informazioni utili alla tutela degli attrezzi prestati: nome e qualifica del richiedente, descrizione del materiale consegnato, condizioni e stato di conservazione, quantità o peso, prezzo stimato, uso e scopo della richiesta. Tra il 1657 e il 1660, compaiono anche il “Libro delle Robe Vendute” (1657) e il “Libro delle Robe Prestate” (1660), che individuano proprio in tale meccanismo uno dei motori della straordinaria vitalità edilizia della Roma barocca. La regolamentazione del lavoro La specificità dell’organizzazione imprenditoriale, se fa un lato necessita della sapiente programmazione delle fasi esecutive, dall’altro richiede una particolare sensibilità nei rapporti con i lavoranti, di cui i capomastri sono i diretti referenti. Questi rapporti, facilitati dalla familiarità o dalla frequentazione, sono favoriti anche dalla retribuzione diretta, “da mano a mano”, che snellisce le procedure contabili. Il capomastro corrisponde direttamente i salari attingendo alle somme anticipate dalla committenza “a bon conto” dei lavori, oppure ai capitali della compagnia. Lo statuto dell’Arte dei Muratori, controllato dai consoli, tutela le condizioni lavorative, le modalità di retribuzione, l’organizzazione gerarchica e assistenziale e inteviene negli eventuali contenziosi allo scioglimento delle società. Le frequenti liti tra capomastri costringono papa Sisto V a conferire al cardinale Federico Cornaro l’incarico di un’accurata indagine finalizzata alla compilazione di un regolamento professionale, gli Statuta Muratorum Urbis, pubblicato sotto Clemente VIII nel 1596. Voci specifiche dello statuto regolano i rapporti tra capomastri e subalterni, tentando di arginare l’abuso di qualifiche che maggiormente maggiormente remunerative. Non è infrequente, infatti, che “quelli che stanno in Roma di garzoni si fanno Maestri, et li Maestri diventano Capomastri”, senza però aver ottenuto i “bollettini”, attestanti la qualifica professionale e il numero di matricola dei registri dell’Università dei Muratori. In linea con la medesima volontà di regolamentare ruoli e gerarchie professionali, lo statuto fissa il trattamento economico delle maestranze: “i capomaestri debbano pagare tutti li muratori, et compagni, che pigliano lavori sopra di loro soli, o in compagni d’altrui, o a cottimo, o a stima, o a mercede convenuta, o a manifattura, o in altro modo, et che in dette opere havranno sotto di loro Maestri da giornata, quali debbano pagare per Maestri et garzoni per garzoni”, per evitare speculazioni e sfruttamento.

Ponte per risarcire la croce in cima all'obelisco Vaticano e ponteggio per il restauro degli ornati della cupola di S. Pietro (N.Zabaglia, tav. XXVI)

Tutela e “sicurezza” del lavoro La gestione dei rapporti tra committenza e maestranze nei cantieri romani si drammatizza quando si verificano incidenti sul lavoro, tutt’altro che infrequenti. Ad eccezione della Reverenda Fabbrica di San Pietro, anche in questo assimilabile all’Opera del Duomo di Firenze, non risulta a tutt’oggi del tutto chiara la natura delle relazioni che legano i capomastri a mastri e garzoni in questi evenienze. Talvolta vengono ascritte ai capomastri sanzioni pecuniarie di una certa consistenza, assimilabili tuttavia più a risarcimenti di danni economici che a veri e proprio indennizzi per invalidità o decesso. […] Più chiaro risulta invece il ruolo svolto da Arti e confraternite professionali nella cura agli adepti. Analogamente a quanto si verifica a Firenze fin dal Trecento, a tali sodalizi si devono la costruzione di ospedali, l’erogazione di sussidi alle famiglie. Il caso dell’Università dei Muratori romani si discosta solo marginalmente dal precedente toscano; essa, infatti, pur facendo capo alla confraternita di San Gregorio dei Muratori, si impegna annualmente a devolvere una somma cospicua all’ospedale di “S. Ambrosio delli lombardi per benefitio di tutti quelli poveri muratori che nelle loro infermità sono accettati e curati”.

Condizionante per l’intero settore edilizio è anche l’articolata organizzazione di maestranze impiegate stabilmente nella Fabbrica di San Pietro e iscritte nei “ruoli” dei dipendenti, con qualifiche e salari. I manovali sampietrini, riuniti in corporazione dal 1548 e suddivisi in squadre specializzate con mansioni e competenze diverse, costituiscono un corpo di intervento altamente qualificato. Squadre di scalpellini – suddivisi in sbozzatori, squadratori, lustratori e arrotatori, intagliatori e scultori – ma anche di muratori falegnami, fabbri, vetrari, stuccatori, stagnari, analogamente organizzati e rigidamente differenziati per abilità acquisita, sono assegnate a vario titolo ai lavori nella fabbrica vaticana, ma anche ingaggiati in altri cantieri romani con contratti “ a cottimo”. Al loro fianco operano manovali addetti a “scopar la Piazza, Colonnato, riveder tetti, levar erba, far ponti alli muratori, muover castelli per la chiesa, tirar su le lastre di piombo e tutt’altro che bisogna”. Questi ultimi e per di più giovanissimi, aspirano all’insegnamento nei ruoli ufficiali dei sampietrini, accettando un apprendistato pressoché gratuito, ricompensato con un addestramento accurato che include anche l’abitudine al lavoro a grandi altezze. Le paghe, corrisposte settimanalmente, sono differenziate per qualifica e talvolta anche per merito, calcolate sulla base di un criterio comparativo con i prezzi in uso in altre fabbriche, nella più generale omologazione gestionale di fabbriche pubbliche e private. […] Le assunzioni sono condizionate dalle necessità del cantiere, in base alle quali sono predisposte anche le norme che regolano il lavoro “straordinario” delle maestranze. Sebbene venga fatto esplicito divieto di lavorare nei giorni festivi, riconosciute eccezioni, funzionali al buon esito dell’opera, rendono possibile derogare a tale disposizione, proseguendo l’attività lavorativa anche “in nocturno tempore”, come attestano i frequenti acquisti di candele e sego. […] Al termine dell’apprendistato, i manovali sampietrini sono obbligati a frequentare corsi di formazione presso la scuola di disegno di San Salvatore in Lauro, non solo nei giorni festivi, ma anche ogni secondo e quarto giovedì del mese. La frequenza al corso è considerata un requisito indispensabile per l’inserimento nei ruoli ufficiali. Alla metà del XVIII secolo, per “mantenere vigorosa e fiorente la tradizione nel corpo de’ Manuali della Fabbrica di San Pietro di ogni sorte di operazioni meccaniche”, la Congregazione affida a Nicola Zabaglia (1664-1750) l’istruzione e la direzione di una Scuola di Meccanica Pratica per i manovali più abili, per la cui conduzione apre gli arsenali delle munizioni, mettendo a disposizione argani, traglie, puleggie e “qualunque altra sorte di ferramenti” per le esercitazioni pratiche dei giovani allievi.

Vedute dei porti di Ripa Grande e Ripetta (G.B. Piranesi, tavv. 46.22)

Organizzazione tecnica del cantiere e delle maestranze

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Casino del Governatore e Casino del Ministro (1662-1664)

L’Esedra (1662-1664)

La edificazione dei casini laterali all’Assunta, fu portata avanti contemporaneamente ad essa e con grande velocità, perché in uno dovevano essere collocate le “Carceri dove si amministra la giustizia”. Nel disegno pubblicato da Incisa (1939, p. 351, fig. 3) notiamo che la prima palazzina costruita a lato della chiesa fu quella verso Albano, essendo ingombrata l’area opposta, simmetrica, ancora da una vecchia casupola. In una lettera del 28 maggio 1662 scritta da fra’ Giorgio Martiali, direttore della fabbrica, si apprende che i lavori per i due casini, tralasciati temporaneamente “che non se ne doveva fare liì la prigione” (c’era stato forse un ripensamento) furono immediatamente ripresi (Incisa della Rocchetta 1939, p. 355). Il 17 maggio del 1663 Alessandro VII riceve Luigi Bernini per discutere “sopra le ale della Rotonda” ed il 21 maggio si fa mostrare “quelli disegni”. Soltanto nell’autunno iniziarono i lavori della palazzina di sinistra, con relativa esedra: “16 settembre…all’Ariccia si cominciano le ale ala Rotonda”, “9 Ottobre…Luigi Bernini, e M. Ferrini, riferiscono circa la fabbrica dell’ala sinistra della Chiesa nuova dell’Ariccia”. Per “le ale” gli ultimi conti sono del fabro Pigliucci dell’Ariccia: “20 febbraio 1664…spranghe per la casa del Lancia (casino destro guardando il complesso) 10 marzo: catene del portico della casa del Lancia…24 marzo 1665: ferri vari…del casino del Lancia, della casa del governatore” (casino sinistro); tutte le voci riguardano la collocazione delle inferriate nelle dieci finestre dei due edifici. I due fabbricati rimasero in proprietà rispettivamente della “Corte della terra” (quello a sinistra) e dei Chigi. L’esigenza di costruire le prigioni e un luogo dove si amministrasse la giustizia era sentita da tempo, tanto che il principe Bernardino Savelli aveva esonerato dal 1639 la Comunità dal pagare salario e canone d’affitto al Governatore, con l’impegno di spendere 600 scudi per costruire la sua residenza e le prigioni. Il Governatore era un notaio nominato dal principe ed aveva assunto tale titolo dal 1638 in sostituzione di quello di Vicario. I suoi compiti erano quelli di amministrare la giustizia in nome del principe, convocare l’assemblea ed ospitare nel proprio ufficio il Consiglio della Comunità; era quindi logico che per espletare queste funzioni fosse necessaria una sede indicata. Il casino verso Albano, edificato sulle rovine di un certo Giovanni Lancia era destinato in un primo momento allo stesso Lancia, poi per volere del papa venne donato ad Agostino Chigi, con l’impegno di corrispondere al proprietario un’indennità per la demolizione. Esso divenne la residenza del Ministro di Casa Chigi, curandone gli interessi ed il controllo gestionale dei beni ariccini.

Contemporaneamente alle palazzine laterali all’Assunta, venne portata a compimento la realizzazione dell’ambulacro che avvolge la “Rotonda”, costituito da un muro decorato da paraste binate tuscaniche, con trabeazione ionico-attica e sovrastante balaustra. Nei secoli successivi su tale schermo si sono addossati vari corpi di fabbrica, ma originariamente esso era costituito come una vera e propria quinta teatrale che chiudeva la percezione della parte retrostante (le palazzine) di cui è prosecuzione, ma scende seguendo la stradina dell’ambulacro; così anche l’interasse delle paraste si restringe mano a mano che ci si allontana dalla piazza. Questo “inganno” prospettico, è percepibile soltanto attraverso un accurato rilievo o guardando l’esedra dal piano nobile del palazzo, ove la logica della fuga comune delle parallele cade, per il cambiamento del punto di osservazione. Insomma, come per la Scala Regia, il Bernini ha utilizzato un procedimento della scenografia teatrale per ingigantire il corpo centrale rappresentato dalla chiesa e nel contempo suggerisce una maggiore profondità prospettica degli emicicli. Tale particolarità è sfuggita agli studiosi che si sono occupati della piazza e del suo “ordine apparente” (Birindelli), ma anche ai rilevamenti grafici del complesso (Ricci, Sordini, Savino).

La soluzione originaria di due edifici a tre piani – peraltro difficilmente realizzabile in funzione delle dimensioni dell’Assunta e lo spazio effettivamente disponibile – documentata nel disegno autografo del Bernini (Brauer, Wittkower, vol. II, p. 95) fu superata proponendo una struttura a due piani con porticato frontistante, caratterizzato da un ordine unico gigante di pilastri binati tuscanici. Una brillante ed originalissima variante ai porticati michelangioleschi del Campidoglio, sviluppata dal Fontana in un progetto esecutivo conservato presso la Kunstbibliothek di Berlino. Il grafico del Fontana chiarisce l’idea mai posta in essere di un coronamento della balaustra con statue, sul modello del Colonnato di S. Pietro (Petrucci 1998, pp. 23-24).

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Elementi contestuali rilevanti

La Fontana delle Tre cannelle o “Fontana delle Donne” (1665) La fontana detta “delle donne” poi “delle tre cannelle”, realizzata nel 1614 dai Savelli per portare l’acqua nell’abitato (Lefevre 1997, pp. 52-55), venne completamente rinnovata sotto la direzione del Bernini, come documenta la contabilità inedita dell’archivio Chigi. E’ citata nel diario di Alessandro VII con una annotazione del 30 maggio 1665: “Entriamo nell’Ariccia, vediamo la fonte del popolo, l’iscrittione, la via nova, la chiesa vecchia, la Rotonda”. […] Il 28 gennaio 1666 lo scalpellino Ambrogio Appiani presentò il conto tarato dal Bernini per la “fontana in faccia la porta acc. il muro di una Casa fa Cantone”, altrove sempre definita “fontana delle donne” (B.A.V., A.C., n. 3652). Dalla descrizione si capisce che l’attuale fontana conserva solo in parte la forma originaria, dato che le basi architettoniche non hanno la “zampa di Lione”, né sono più individuabili le “cinque colonnelle”; evidentemente ci deve essere stato qualche intervento di ristrutturazione, forse nel XIX secolo, sebbene l’iconografia ancora alla fine del settecento ci mostri la fontana originaria.

G.L. Bernini, Soluzione con le palazzine laterali a tre piani (Brauer e Wittkower)


Le “Lastre” (1665)

Palazzo Chigi (1664-1671)

L’inedita contabilità dello scalpellino Ambrogio Appiani vistata dal Bernini, cui è dovuto certamente l’elegante disegno delle due fontane sulla piazza di Corte, è conservata nel volume sulle fabbriche di Castel Gandolfo ed Ariccia. E’ curioso notare che le fontane, definite “lastre”, avevano sopra la vasca scolpiti dei monti Chigi, come appare nell’incisione del Falda della piazza ed in un disegno di Tessin: “Per haver fatto li monti a una di dette fontane… Per una guida di mattoni a una di dette dove si sono messe le lastre, quale è stata guasta” (B.A.V., A.C., n. 3652, carte 247, 382 e ss.). Il Lucidi ricordava che “avendo il Papa Alessandro VII fatto edificare in detta piazza due fonti, è rimasta la cura di uno al barone, e dell’altro alla comunità (p. 298). Osservando le due fontane simmetriche si può oggi notare la differenza nella fattura e stato di conservazione, essendo stata restaurata quella di sinistra a cura di Sigismondo Chigi attorno al 1771 con un rifacimento in marmo della tazza di coronamento. Quella di sinistra porta un fiore nello stelo, riferimento alla Comunità, la seconda (la tazza è in travertino) la stella dei Chigi. Mentre la vasca basamentale p in peperino, la stele con la tazza sovrastante sono in travertino, tanto da far ritenere che la bicromia fosse originariamente uniformata con uno scialbo color travertino.

L’imponente costruzione che domina la “piazza di Corte”, il piccolo borgo di Ariccia ed il “Barco”, fu progettata con la grandiosità di una reggia, senza timore di radere al suolo i vari corpi di fabbrica stratificati nei secoli dell’antica rocca Savelli, di cui venne risparmiato soltanto l’ampliamento tardo cinquecentesco costituente tre quarti sul prospetto della piazza (Petrucci 1984). Come ha scritto Lefevre, il Bernini non poté disinteressarsi alla soluzione del problema architettonico della nuova dimora dei Chigi quando progettava la piazza frontistante con tutte le fabbriche annesse e la stessa viabilità di accesso (Lefevre 1991); ne sono testimonianza i continui rapporti con Agostino Chigi che lo ospitò nel palazzo, ove eseguì il suo omaggio il S. Giuseppe col Bambino della cappella per la sospirata nascita del primogenito (si tratta di un’allegoria dell’amore paterno). Lo schizzo per la sistemazione della piazza come pure la sua complessa geometrizzazione dimostrano che il Bernini già in queste preliminari fasi progettuali avesse in mente il completamento del palazzo come venne poi realizzato, conferendogli una unità ed omogeneità che prima non c’era. In uno dei disegni autografi dell’Archivio Chigi (B.A.V., Chigi a I 19 f. 14v) viene abbozzata la gradonata dell’edificio ed in alto a sinistra la sezione con l’altana, che venne costruita alcuni anni dopo demolendo le fabbriche Savelli. Il Bernini studiò anche la corrispondenza tra la cappella interna del palazzo con l’Assunta, dato che un asse ideale congiunge il suo altare con lo stemma di Alessandro VII al centro del pronao, visibile attraverso una finestra della “Sala Maestra” prospettante sulla piazza. Al periodo del Breve papale (1667) risalgono forse quei disegni del Fontana che prevedevano per il palazzo di Ariccia una merlatura di coronamento. Ricorre insomma un atteggiamento “neomedioevalista” presente anche nella sistemazione di Porta Romana, forse un richiamo alla “gotica” Siena, patria dei Chigi. La fabbrica non è inquadrabile in una tipologia architettonica precisa, infatti il prospetto sulla piazza conserva il carattere severo del palazzo Savelli, il fronte opposto, con i due avancorpi, ricorda lo schema delle ville della Campagna Romana (derivato dalla villa di Agostino Chigi “il Magnifico” alla Lungara), mentre la costruzione vista dai dirupi scoscesi del parco assume le caratteristiche di una struttura fortificata, ultimo baluardo difensivistico dell’abitato. Il Bernini – cui ritengo si debba l’idea compositiva – creò effettivamente un ibrido architettonico, tra il palazzo, la villa ed il castello.

N. Tessin, veduta della piazza di Corte, china ed aquerello su carta. Stoccolma, Nationalmuseum (da Josephson)

C. Fontana, schizzo per la sistemazione della rocca nel prospetto verso il parco, china su carta. Ariccia, Palazzo Chigi, archivio

C. Fontana, prospetto del Palazzo Chigi verso il parco (prima soluzione), lapis su carta. BAV, AC

La spiegazione di tutto questo è riconducibile alla profonda impressione destata nell’ambito dell’artista dal viaggio in Francia, compiuto nel 1665 per progettare il Louvre di Luigi XIV. Il Bernini ebbe occasione di conoscere i castelli dell’Ile de France, come i celebri complessi di Vaux o Maison Laffitte, di cui ripropose lo schema planimetrico, caratterizzati appunto da strutture rettangolari allungate con padiglioni angolari ed avancorpi. Anche il motivo degli alti e numerosi comignoli, che caratterizzano Ariccia, è riferibile al medesimo influsso francese, addirittura la parte più articolata, come a Vaux, è quella verso l’esterno (si intravede la cupola dell’Assunta che ricorda quella inglobata nel castello di Vaux). Come per l’Assunta o per il palazzo del card. Flavio Chigi a Roma si debbono a Carlo Fontana tutti i progetti esecutivi, ma anche la direzione del cantiere.[…] a sinistra: Porta Romana in una stampa del XIX secolo C. Fontana, prospetto del Palazzo Chigi verso la piazza (prima soluzione), lapis su carta. BAV, AC a sinistra: Porta Romana in una stampa del XIX secolo

Elementi contestuali rilevanti

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L’Assunta e la piazza di Corte Un analogo fatale destino, accomuna le due piazze berniniane di S. Pietro e di Ariccia: entrambe subirono le conseguenze negative di ottuse concezioni urbanistiche, le quali falsarono irrimediabilmente in Roma solo i punti di percezione, ad Ariccia anche la funzionalità. La distruzione della spina di Borgo sacrificò la bicocalità dei punti di vista delle due stradine laterali per una chilometrica veduta assiale; la costruzione del ponte di Pio IX (1847-54) introdusse due nuove situazioni percettive, quella dal ponte monumentale e l’altra dal ponte di S. Rocco. Non previste nel previsto secentesco; nacquero due problemi architettonici ad oggi irrisolti, ed un grave problema urbanistico: l’esedra intorno all’Assunta era stata lasciata nella faccia retrostante, verso Roma, come un muro grezzo, in quanto da quella parte c’era il dirupo e nessuno l’avrebbe vista. L’edificio che congiungeva la Porta Napoletana con gli Stalloni fu tagliato di netto per far passare l’Appia lasciando un informe lacerto privo di facciata verso la piazza. La SS. 7 Appia attraversò la corte cancellando parte del Belvedere e trasformando lo spazio di sosta in uno spazio parzialmente carrabile. Nonostante queste menomazioni lo spazio fisico rimasto sostanzialmente immutato nelle sue dimensioni, conserva ancora tutte le leggi aggregative che ne determinano la formazione. Se per Domenico Fontana il centro del sistema urbanistico era l’obelisco punto d’intersezione di direttrici e luogo geometrico, per Bernini esso è la fontana (Argan). Anche nella piazza di Corte similmente a piazza S. Pietro, le fontane non sono semplici elementi d’arredo ma esse stesse inscindibilmente legate alla dinamica delle calibratissime corrispondenze geometriche, fulcri generatori nell’aggregazione e disposizione dei volumi architettonici. Facendo centro sulle fontane si possono tracciare due cerchi in tangenza con il corso di Ariccia, il Belvedere, l’allineamento Assunta-casini laterali; con centro nell’intersezione nord tra le due figure geometriche, si individua un terzo cerchio di ugual diametro, questa volta l’ambito tangenzialmente dal palazzo. L’invaso risulta quindi incrivibile con una certa approssimazione, in tre cerchi e la sequenza triangolare è ribadita da un altro importante allineamento; il posizionamento delle fontane è univocamente determinato nell’intersezione di due rette: la congiungente il portale di palazzo Chigi con l’ingresso centrale di uno dei palazzetti del complesso, e uno degli assi dell’emiciclo che circonda la Chiesa. Il Bernini non volle porre in parallelo palazzo e complesso scenografico, preferendo una disposizione obliqua a cannocchiale prospettico, allo scopo di aumentare illlusionisticamente la profondità della piazza e favorire una migliore percezione dell’insieme urbanistico, per chi entrasse dalla Porta Napoletana, principale ingresso di Ariccia. Ancora una volta l’angolo di inclinazione adottato non fu casuale ma nacque dalla solita teorizzazione teoretica: congiungendo lo spigolo interno di uno dei torrioni di palazzo Chigi con lo spigolo esterno di uno dei palazzetti berniniani, si individua una retta le cui parallele passanti per il centro del portale di palazzo Chigi e per l’altro spigolo del torrione, toccano rispettivamente il portale dell’Assunta e lo spigolo esterno dell’altro palazzetto. Nasce una corrispondenza omologica fra i due profili in un sistema di rette parallele tagliate dalle due trasversali del palazzo e del complesso, ma l’allineamento di quest’ultimo è esattamente perpendicolare al sistema di parallele. Questi tracciati sono in parte verificabili negli schizzi di Bernini pubblicati da Wittkower, in uno dei quali è presente anche un triangolo con vertici nella fontana, spigolo esterno del palazzetto verso Roma, spigolo del Belvedere:

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Organizzazione urbana e rapporto con il contesto

ebbene questo triangolo come risulta dal rilievo, è retto, con un angolo cioè a 90° che ha determinato quindi la lunghezza del parapetto del Belvedere. Ma l’aspetto più interessante della complessa dinamica progettuale è che, tramite un accurato rilievo eseguito recentemente, è stato possibile individuare il tracciato regolatore originario. Il Bernini eseguì, per essere più chiari, una maglia reticolare quadrata, con modulo di 13 palmi romani, sulla quale sono stati inseriti tutti i volumi architettonici e le loro particolari definizioni. Un ritmo dispari vede i due palazzetti e il pronao dell’Assunta formati ognuno da 5 quadrati mentre lo spazio tra il pronao e i porticati dei casini è di tre quadrati. La sequenza è quindi 5,3,5,3,5. Il sistema di parallele prima individuato, gli assi degli emicicli, fanno parte naturalmente della medesima maglia. Questa breve analisi vuole quindi dimostrare come il Bernini da grande architetto quale era, non lasciò nulla al caso, ma volle controllare razionalmente ogni elemento, rendendo rigorosa nei dettagli anche apparentemente meno significativi, la costruzione spaziale. Per gli elementi rilevanti contestuali: Rif.Bibliografico: Catalogo della mostra “L’Ariccia del Bernini” a destra: schema modulare adottato in fase progettuale da G.L. Bernini 1 modulo: 13 palmi romani (22,01 cm x 13 = 286,13 cm) - (L.Ossino)

a sinistra: restituzione grafica del processo di costruzione geometrica sottesa nel progetto berniniano. (L.Ossino)


Planimetria scala 1:500 La planimetria è la sintesi ragionata di tre diversi disegni lontani nel tempo e raffiguranti diverse informazioni. Da A. Specchi, le distanze e la geometria dei bracci intorno alla chiesa, da F.Petrucci la pianta della chiesa e da D.Fontana la planimetria generale. A questo si è aggiunto un confronto tra viabilità attuale e secentesca.

H

A A

I

A

G B M

K

C C N

Legenda

L

F

O

D

N

E

A

Palazzo Chigi

B

Piazza di Corte

C

Fontana lavatoio

D

Chiesa S.Maria Assunta

E

Casino del Ministro

F

Casino del Governatore

G

Fontana delle tre cannelle

H

Porta Napoletana

I

Edificio poi demolito

K

Stalloni

L

Strada di accesso alla piazza di Corte

M

Corso principale

N

Ponte della metà del XIX secolo

O

Edificato successivo

Organizzazione urbana e rapporto con il contesto

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Approccio progettuale L’esegesi critica dell’Assunta di Ariccia deve essere collegata agli intenti comunicativi che l’ideatore volle instaurare tra architettura e i suoi fruitori, tra forme simboliche e fedeli. Una lettura in chiave cosmologica dell’impianto barocco può cogliere, al di là dei tradizionali schemi interpretativi sulla teatralità e sul classicismo berniniano, nessi e connessioni profonde con il pensiero gesuitico secentesco e di nuovi valori espressi nell’ambito controriformistico. “Gli aspetti caratterizzanti dell’opera dei grandi gesuiti de Seicento sono soprattutto due. La volontà ad operare una vasta sintesi culturale che cerca di assorbire la vecchia struttura formale della cultura umanistica e rinascimentale, nel recupero dei valori religiosi operato dalla Controriforma; una visione ed interpretazione del mondo celeste e mondo terreno, spirito e materia, Dio e creazione, ma che cerca di vedere l’universo tutto come l’espressione di un rapporto vivente con Dio che legge il mondo in chiave metafisica”. Il Bernini volle ricreare nello spazio circolare della Chiesa di Ariccia una meravigliosa metafora cosmica, un piccolo universo in cui scompare la distinzione della realtà terrena con l’essenza soprannaturale, dell’uomo con il suo creatore. Le ricerche svolte sull’impianto centrale di S.Andrea al Quirinale e S. Tommaso da Villanova a Castel Gandolfo, ispirate ad analoghi intenti metafisici, trovano la loro sublimazione proprio nel progetto dell’Assunta per l’organicità e la straordinaria connessione che qui si instaura tra volontà simbolica e forme architettoniche. Il cerchio, luogo di punti equidistanti da un punto fisso è la figura geometrica piana perfetta, ma la sfera, rotazione del cerchio nello spazio intorno al proprio diametro, lo è ancor di più: sferica è la terra, sferiche sono le stelle ed i pianeti, sferico è l’universo, sferica è la forma spaziale illusionistica alla quale il Bernini volle far riferimento nella chiesa dell’ Assunta. A tale circolarità in pianta corrisponde una rotazione di tutta la struttura in sezione; come venne realizzato tutto questo?. [...] Il Bernini contemporaneamente stava lavorando alla sistemazione del Pantheon ove realizzò un isolamento (simile ad Ariccia) nei confronti dell’edilizia circostante, tramite due strade avvolgenti la Rotonda. Nel progetto per Ariccia il confronto con il grande esempio dell’architettura classica è necessario non per individuare semplicisticamente un atteggiamento mimetico, ma per porre in evidenza come qui il Bernini risolse i problemi architettonici lasciati aperti nella più famosa Rotonda romana. Il senso di fastidio che gli elementi verticali delle torri campanarie ingeneravano nella relazione con la cupola del Pantheon, fu eliminato in maniera tale che chi guardasse frontalmente l’Assunta, anche dal portale di palazzo Chigi, non potesse percepire il loro volume. Soltanto salendo sul balconcino del piano nobile del palazzo, sopra al portale, si possono scorgere le stelle alle estremità dei campanili, poiché la restante parte rimane coperta dalla cupola. La cipolla dei campanili è vista di scorcio, in diagonale mai frontale, all’ingresso presso Porta Napoletana, costituente il punto privilegiato per la percezione del complesso Assunta-edifici laterali. Nel Pantheon la connessione fra la geometria cilindrica del grande invaso cupolato e la geometria rettangolare del pronao è poco convincente in quanto il motivo del telaio architettonico del pronao si interrompe bruscamente in corrispondenza con la struttura circolare. Ad Ariccia il problema viene risolto cercando uno spazio neutro intermedio tra pronao e cilindro, alleggerito dalla presenza di due aperture – una porta ed una finestra – e ristretto rispetto alla larghezza del pronao porticato. In relazione a quanto riferito, l’affermazione del Portoghesi “Debole e

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Soluzioni progettuali

G. L. Bernini, schizzi per l'Assunta. La chiesa era stata progettata più vicina al palazzo, forse per evitare troppe demolizioni (da E. Brauer. R. Wittkower, Die Zeichnunge

G. L. Bernini, schizzi per l'Assunta. La chiesa era stata progettata più vicina al palazzo, forse per evitare troppe demolizioni (da E. Brauer. R. Wittkower, Die Zeichnunge

irrisolto è però l’aggancio del portico alla rotonda, e poco persuasiva la soluzione del’'innesto della nuova fabbrica con le vie del paese medievale”, ( il paese era stato completamente ricostruito nel cinquecento), sembra essere affrettata e poco comprensiva nei confronti della complessa problematica berniniana. ...] Il Bernini aveva già sperimentato in periodo giovanile “progetti aperti”

[anticipatori dell’Assunta, con facciata monumentale scandita da semicolonne binate, trabeazione e balaustra superiore. Nell’apparato per la canonizzazione di S. Elisabetta di Portogallo, in S. Pietro, lo schermo gira intorno all’edicola del trono papale con gli spessori colonnari che si riducono prospetticamente ed un architrave curvilineo. Il motivo dello stretto ambulacro intorno all’edicola è più coerentemente espresso nell’apparato per la canonizzazione di S. Andrea Corsini, ove il colonnato illusionisticamente curvo va a costituire un emiciclo che circonda il trono papale. L’architettura vera influenza il mondo teatrale della finzione e le sue scenografie, poi a sua volta di rimando le messe in scena condizionano l’architettura reale che sembra ambientazione teatrale; ecco quindi nascere la cortoniana S. Maria della Pace e più tardi il complesso della Assunta. Il sistema di lesene binate, trabeazione e balaustra sovrastante, emiciclo prospetticamente sagomato, avvolge qui non una edicola ma la stessa Rotonda. Sono possibili rapporti con le cavee teatrali classiche o più presumibilmente con la morfologia organica della perla sferica racchiusa dalla conchiglia che si dischiude mostrando il prezioso contenuto. Le paraste doriche binate inquadranti cornici di finestre, la balaustra, la logica prospettica che fa scendere la cornice di coronamento ci ricorda i bracci rettilinei del colonnato di S. Pietro, con la differenza che lì la cornice sale invece di degradare, per una diversa logica percettiva. [...] Da quanto esposto si può capire il tentativo di Bernini di coinvolgere tutti gli elementi compositivi: architettonici, scultorei, pittorici, in una grande orchestrazione corale; come nell’arte contrappuntistica musicale, ad una melodia di base si combinano più melodie contemporanee, non slegate ma intimamente correlate tra loro, così nel barocco berniniano i contenuti e i piani di lettura si accavallano e sovrappongono senza per altro nuocere alla organicità generale. Un parallelo potrebbe forse essere fatto con Bach, nella intuizione “storica di un ordine divine del mondo, ordine di valore universale al quale l’individuo si sottomette con gioia” (Mila). Genio sintetico fu Bach, genio sintetico fu il Bernini che seppe cogliere dalla storia quegli elementi vitali sui quali costruire un nuovo messaggio etico-architettonico. [...] Tutta la composizione, in cui partecipano allo stesso livello scultura, pittura, architettura, collabora nell’intento didascalico di convincere chi guarda ad imitare l’esempio della Vergine e dei Santi, un tempo persone umili, del popolo, come i contadini di Ariccia.


Purezza volumetrica Se ci limitiamo a una analisi sulla reale consistenza materiale dell’architettura, verrebbero fuori i rapporti del Bernini con il mondo classico, nel caso particolare il Pantheon; o meglio una sua tensione universalistica che lo porta a realizzare l’architettura nel riferimento alla geometria classica, a forme archetipe, universali aventi carattere necessario. Non si può parlare, nel caso del Bernini, di classicismo inteso come imitazione o riferimento ai classici dell’antichità, quanto piuttosto ad un atteggiamento classico che deve essere considerato aspirazione nell’assoluto, a cogliere cioè quei principi oggettivi che sono al di là della mutevolezza della storia, del contingente e che sostituiscono ancora una volta la preoccupazione metafisica già individuata nella prima lettura effettuata. Il triangolo, il cerchio, la sfera, il cubo, sono quelle matrici spaziali archetipe con cui si confronta una concezione classica, ed il Bernini volle incastrare, nel progetto di Ariccia un cilindro (l’invaso della chiesa) con una semisfera ( la cupola), con un cilindro più piccolo ( il lanternino), e un'altra semisfera (il cupolino) ad un parallelepipedo costituito dal pronao porticato. Le forme archetipe della geometria sono innate nell’uomo e costituiscono il legame dell’uomo con Dio, quindi ancora una volta, spostandoci da un livello di interpretazione dei contenuti più profondi, cioè iconologico, giungiamo ad individuare nell’intento comunicativosimbolico-religioso, la spinta propulsiva fondamentale del processo creativo berniniano. I procedimenti illusionistici tipici del Barocco, per i quali il Bernini era un grande maestro, si innestano in questa concezione spaziale, deformando le membrature secondo raffinati accorgimenti. L’esigenza simbolica di dare maggiore importanza all’arcone della zona absidale ed a quello d’ingresso, contrasta con la spartizione uniforme del cerchio in settori di circonferenza uguali; per evitare il fenomeno di disturbo ottico l’architetto pose due angeli al posto dei cheribini – tra il tamburo ed i costoloni della cupola – ed ingrandì i cassettoni per portarli al numero di cinque come negli altri spicchi di cupola corrispondenti. Il tema della circolarità si ripercuote all’esterno in un fenomeno di riverberazione, nell’emiciclo che avvolge la Rotonda, nelle fontane circolari, nella controcurvatura illusionistica data alla facciata di palazzo Chigi restringendo l’interasse tra le finestre dal centro verso l’estremità. L’idea di rendere l’emiciclo intorno alla Chiesa più profondo e avvolgente, ingigantire la massa cilindrica dell’edificio era condizionata dallo spazio ristretto a disposizione dietro alla Chiesa verso il paese. Il progettista a tale scopo non mantenne orizzontale la cornice del sistema colonnare degli ambulacri, ma la fece scendere amplificando il volume compreso ed aumentando la profondità nella illusione percettiva. Il tema di un corpo avvolgente il punto di riferimento fondamentale del sistema spaziale progettato, viene a generare l’uniformità di tutto lo spazio di relazione con cui la chiesa è a contatto; nulla di non progettato e non previsto può condizionare il nuovo equilibrio spaziale faticosamente creato, frutto di studi e corrispondenze calibratissime; “la sua posizione … ammette divergenze di significato tra le opere, ma non la irrisolta compresenza in un’opera di diverse polarità e cioè per una istintiva e profonda capacità di riproporre, nel microcosmo di una determinata occasione, una problematica generale”.

Forme pure utlizzate

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2 C. Fontana, progetto definitivo per il complesso dell'Assunta, lapis e aquerello su carta. Berlino, Kunstbiblioteck

1 - G.B. Falda, Veduta di dentro la Chiesa Colleggiata dell'Assunzione du M(ari)a Vergine nella Terra dell'Ariccia fatta et adornata da N.sig. PP. Alessan(dr)o VII. Incisione su carta, Collezione privata 2 - Foto notturna, vista frontale, 2011

Purezza volumetrica

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Il tema della luce Uno degli aspetti più significativi dell'Assunta, scarsamente considerato negli studi sul Bernini, è la soluzione anomala adoperata per l'illuminazione del grande vano centrale. Tutte le grandi cupole romane, più o meno derivate dal S. Pietro michelangiolesco e indirettamente dagli esperimenti bramanteschi (progetti per S. Pietro, tempietto di S. Pietro in Montorio), adottano oltre al lanternino, dei grandi finestroni posti sul tamburo, tra grande trabeazione dell'ordine inferiore e spiccato della volta. Questa prassi, invariata dal Gesù vignolesco alla S. Agnese borrominiana, comincia ad essere contraddetta proprio dal Bernini, che in S. Andrea al Quirinale pone le finestre a sesto ribassato, tra i costoloni della cupola, facendo quasi scomparire la fascia tradizionale intermedia tra trabeazione e calotta. Il processo di semplificazione è portato alle estreme conseguenze ad Ariccia dove le aperture scompaiono e la cupola può essere percepita libera nella purezza dei cassettoni e costoloni degradanti. Il Bernini conosceva bene gli inconvenienti che una simile scelta aveva comportato nel Pantheon; per questo l'illuminazione dell'ambiente è favorita dalla collocazione di lunettoni nelle cappelle laterali, sopra gli altari; tutto ciò fu reso possibile in virtù dell'isolamento da costruzioni laterali, ottenuto con l'emiciclo esterno la cui cornice è realizzata sufficientemente bassa per favorire la penetrazione della luce. Questo spiega l'effetto visivo di schiacciamento che ha la cupola vista dall'esterno: infatti il rapporto tra copertura voltata e ordine inferiore di S. Andrea era vicino all'unità, nell'Assunta è circa due terzi. L'altezza del cilindro risulta quindi notevolmente accentuata rispetto a tutti gli esempi coevi e anteriori. La tendenza dell'ultimo Bernini alla purezza stereometrica è esemplificata nel S. Tommaso da Villanova, S. Maria dei Miracoli, trova nella chiesa di Ariccia una rara coerenza espressiva, collegata all'allegoria metafisica. La luce che piove dal lanternino per il Bernini non è soltanto entità fisica, ma luce sovrannaturale, come nella cattedra ove la sorgente luministica viene fatta coincidere con il tramite d'ingresso dello Spirito Santo, o nella S. Teresa in cui i raggi luminosi materializzati cadono da una finestrella nascosta e simboleggiano la grazia divina. L'esigenza funzionale contraddiceva quella della catarsi trascendentale, quando alla luce mistica del lanternino si sovrapponeva quella delle finestre, la loro eliminazione e il nascondere delle aperture in fondo alle cappelle, conferisce valore significativo al lanternino – ingigantito rispetto alle altre opere – e al telaio statico simbolico di costole e pilastri.

Dal lanternino piovono in basso i raggi di luce emanati dallo Spirito Santo (la colomba sul cupolino); essi si materializzano sui costoloni della cupola e prendono consistenza architettonica nei pilastri della chiesa, per poi ricongiungersi nelle radiali del pavimento convergenti verso lo stemma chigiano. Il lanternino rappresenta l'Empireo, la cupola, con i cassettoni degradanti prospetticamente verso l'alto, il cielo stellato, il cilindro la terra. In questo microcosmo avviene un fatto straordinario: l'Assunzione al cielo della Vergine, raffigurata nell'affresco del catino absidale, seguita nel moto ascensionale da tutti i santi rappresentati nelle cappelle laterali. Foto a cura della Parrocchia di Ariccia.

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Il tema della luce

“Bernini, mago in questo campo, possedeva delle tavole per il calcolo esatto della luce che aveva creato lui stesso, del tutto simili a quelle che oggi si usano per le strutture, precise e minuziose. Ben sapeva il maestro che la luce, quantificabile e qualificabile come qualsiasi altra materia suscettibile di essere misurata, poteva essere controllata scientificamente. Purtroppo, al ritorno da un faticoso e sterile viaggio a Parigi per la costruzione del Louvre, il suo giovane e distratto figlio Paolo le perse. Il 20 ottobre del 1665, lasciando con sollievo la città che tanto I’aveva maltrattato, Bernini constatò con orrore che le sue tavole, più preziose per lui che le stesse Tavole della Legge, erano sparite. La ricerca fu vana. Chantelou, cronista puntuale e puntiglioso di quel viaggio in Francia, omise nel suo felice racconto qualsiasi dettaglio relativo a tale stortunato incidente. Si sa che Le Corbusier, anni dopo, rintracciò in una libreria della vecchia Parigi alcune delle pagine chiave dell’importante manoscritto che seppe usare con astuzia. Fu così che riuscì anch’egli a controllare la luce con esatta precisíone. Bernini, sommo maestro della luce, inventò quel metodo tanto semplice quanto geniale che è la “luce alla Bernini”. Utilizzando varie fonti visibili di luce, creava prima un ambiente di base con luce diffusa, omogenea, proveniente generalmente da nord, che illuminava e rischiarava lo spazio. E dopo averlo centrato geometricamente con le forme, zac!, irrompeva in un punto concreto, occultando la fonte agli occhi dello spettatore, con un cannone di luce solida (luce gettata) che diventava protagonista dello spazio. Il contrasto tra i due tipi di luce, produceva, creando una furiosa tensione, un effetto architettonico di altissima qualità. Esempio paradigmatico di questa operazione è Sant’Andrea al Quirinale: la luce solida, in visibile movimento, danza su un’invisibile luce diffusa in quieto riposo.” Alberto Campo Baeza


Riferimenti progettuali

La retorica

In riferimento alla pianta circolare, il semplice parallelo con il Pantheon, continuamente riportato dalla critica, non consente una obiettiva comprensione della genesi formativa dell’opera; il Bernini sicuramente conosceva i progetti presentati al concorso indetto da Leone X per S. Giovanni de’ Fiorentini, campionario di soluzioni sul tema dell’impianto centrale. Lo schema di Ariccia sembrava avere delle relazioni, per alcune soluzioni, con i progetti del Sangallo e del Peruzzi. Il valore statico dato ai pilastri tra le cappelle e ai contrafforti murari divergenti dietro al pilastro, l’assottigliamento del muro perimetrale, le scalette a chiocciola sui pieni murari verso l’esterno, sono vicini al progetto sangallesco (Uffizi, Gab. Disegni e Stampe, n. 199 A); la dilatazione spaziale sulla diagonale principale, la curvatura con centro indipendente dell’abside dell’atrio, le due nicchie curvilinee ai lati dell’ingresso, mostrano invece una conoscenza dei disegni del Peruzzi (Uffizi, Gab. Disegni e Stampe n. 510 Ar. e Av.). Il progetto di Ariccia rivela insomma una profonda cultura architettonica che non si ferma al Pantheon ma spazia dal mondo classico al Rinascimento, al seicento, rielaborando i vari contributi per la creazione di un’opera moderna, autenticamente barocca. La predilezione della forma ellittica, fruita ponendo l’asse minore nella direzione ingresso-altare condiziona anche lo sviluppo planimetrico dell’Assunta; il Bernini infatti aumenta l’interasse fra le costole decorative interne sull’asse minore, dilatando lateralmente la percezione e stimolando la rotazione dello sguardo, con un uso trasgressivo della geometria del cerchio. Motivo analogo ritorna anche nel ciborio del Santissimo Sacramento a S. Pietro, ove la citazione del tempietto bramantesco di S. Pietro in Montorio viene contraddetta dalla accentuazione dell’asse centrale con la stessa procedura. La tendenza classica ritorna nella particolare predilezione per i timpani triangolari ed arcuati, secondo il tradizionale riferimento sintattico alle edicole del Pantheon. Ma con gusto barocco i timpani si deformano seguendo la curva a ribadire l’atteggiamento proprio dell’autore di superamento della regola ma di non trasgressione: “ Io stimo meno male essere un cattivo cattolico che un buon Heretico”.

Buona norma della Rettorica, sui fine era persuadere ed ottenere consenso, è di lasciare qualche cosa di noto allo spettatore per ottenere migliori risultati, ed in ciò Bernini è maestro. Nell’esterno fu adottato lo schema prediletto in molte opere, della simmetria ad ali sporgenti, o a trittico, affiancando alla Rotonda ed al suo pronao, i due edifici porticati laterali. La logica prospettica è rinascimentale, ma viene puntualmente contestata dal fatto che il complesso è percepito in condizione di risicata lateralità da chi entri nella piazza, e non in parallelismo ma scorcio, anche da chi guardi dal portale del palazzo Chigi in asse con la Chiesa. La tendenza a porre un corpo centrale, fulcro compositivo e polo simbolico della aggregazione spaziale, circondato da elementi avvolgenti a tenaglia, è caro al Bernini, che nel primo progetto per il Louvre, ideò uno schema simile all’insieme Assunta-casini laterali; come ad Ariccia la convessità centrale è accolta fra concavità laterali ed il tutto è coronato con trabeazione e balaustra continua. Basterebbe sovrapporre una cupola e la corrispondenza sarebbe completa anche per l’arredamento dell’attico superiore (pseudo tamburo) sul filo murario esteriore.

A. Da Sangallo il Giovane, progetto per S. Giovanni de' Fiorentini, Firenze, Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe n. 199 A e n. 200 A

B. Peruzzi, Progetto per S. Giovanni de' Fiorentini, Firenze, Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe, n. 510 Ar., n. 510 Av.

Schema a «trittico» della facciata di Santa Maria in Agone, Roma

Il Pantheon con i campanili, demoliti nel 1883

G.L. Bernini, Primo progetto per il Louvre, Parigi, Museo del Louvre

G. L. Bernini, Schizzi per l'isolamento del Pantheon (Arch. Chigi P. VII 9, BAV)

Riferimenti progettuali

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Ad Ariccia Bernini prosegue in forma più ampia quello che aveva sperimentato poco prima a Castel Gandolfo, “non potuto lì sviluppare per obiettive limitazioni di spazio e anche di programma. E’ il discorso della radicale ristrutturazione urbanistica di un vecchio borgo secondo i canoni di una spettacolarità tutta barocca, ma inserita in un contesto deliberatamente funzionale, mantenuto, con felice innovazione, nella linearità di un classicismo lungamente meditato e genialmente rielaborato in chiave del tutto moderna” (Lefevre 1981, p. 24)

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L’architettura tra natura e cultura Il tema del “bel composto” (E’ concetto molto universale, ch’egli sia stato il primo, che abbia tentato di unire l’Architettura con la Scultura e la Pittura in tal modo, che di tutte facesse un bel composto…” Baldinucci, p. 67) espresso dal Bernini in tutta la sua produzione, viene qui applicato in un contesto più ampio, quello costruito dall’integrazione tra natura (il lago di Albano, Vallericcia, Monte Cavo, Colle Pardo, i boschi ed il mare in lontananza), gli insediamenti (i due centri storici), le testimonianze archeologiche e di architettura, creando un nuovo equilibrio generale tra le arti (pittura, architettura, scultura) nel più dilatato contesto della progettazione paesaggistica ed urbanistica, che ingloba in sé il pittoricismo (colori degli edifici e dell’ambiente), la plastica delle masse, ma anche le esigenze funzionali e sociali delle popolazioni locali e dei committenti. Osservando il complesso dell’Assunta dal Palazzo Chigi, si comprende come Bernini abbia stabilito un dialogo con il cielo ed il mare in lontananza su cui stagliano le forme, ritagliandone il profilo direttamente sull’atmosfera, e l’architettura diventa così partecipe dei tramonti autunnali, degli azzurri di tramontana invernali. Lo stesso può dirsi di S. Tommaso da Villanova a Castel Gandolfo, che interloquisce con il lago, visibile sempre da ogni angolazione, e con il Monte Cavo sullo sfondo: la coordinata topografica principe dei Colli Albani.

Riferimenti progettuali

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Notizie sulla Fabbrica della Chiesa Collegiata di Ariccia (1662-1664) Nell’Archivio dei Principi Chigi, in Ariccia, si conserva un grosso volume (782 fogli numerati, ma non molti, bianchi, non numerati; formato m. 0,30 x m. 0,2), rilegato in pergamena, dal titolo Castel Gandolfo e Ariccia – Per Fabbriche – 1659 al 1666. Esso contiene tutto o quasi tutto, l’incartamento, riguardante le fabbriche delle due chiese berniniane di Castel Gandolfo e di Ariccia. Il Volume, d’importanza grandissima per la storia di quei due monumenti, è sfuggito completamente all’attenzione degli studiosi. Solo il Canonico Emanuele Lucidi lo sfogliò, per la compilazione della sua Storia di Ariccia, ma non seppe servirsene quanto avrebbero potuto e dovuto; forse, perché dovette scorrerlo in Roma, nel Palazzo Chigi, dove allora era conservato l’Archivio […] Quando Giulio Savelli, Principe di Albano, ed il fratello Cardinale Paolo, ebbero venduto ai Chigi la terra dell’Ariccia, Papa Alessandro VII volle che a spese della sua Elemosineria Segreta, vi fossero fatti vari lavori fra i quali (dopo il prolungamento della navata al Santuario della Madonna di Galloro) la costruzione della nuova Chiesa Collegiata, di fronte al palazzo baronale, che veniva accresciuto dai nuovi padroni. Il documento che meglio ci illumina sulle origini della fabbrica, è questo conto di Mattia de Rossi:

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Analisi documenti d’archivio

Dunque il de Rossi, dal 17 al 1 novembre 1661, misurò otto case, dove si era pensato prima di fare la Chiesa; non si può dire esattamente dove fossero queste case, che, forse, cono quelle elencate in una nota di Mattia de Rossi senza data. Portano la data del 17 novembre 1661 due misure e stime di M. de Rossi, la prima, di una casa posta su il cantone della piazza della Roccia confinata da una parte…, l’altra …p. d’avanti con la sud. . Piazza e Stradone, che revolta e va v.o il Domo, la seconda di una casa posta nella Piazza del Castello della Riccia, non confinante, però, con la precedente. Lo stradone è, senza dubbio, il corso, la vecchia strada costiera da Roma a Napoli, che da Valle Riccia sale e attraversa il paese, per poi andare a Galloro e a Genzano. Forse la chiesa era stata pensata, in un primo tempo, prospettante, sulla via, al posto dell’isolato che termina con la fontana delle tre cannelle. In base alla pianta di tutta la terra dell’Ariccia si dovevano, forse, proporre al papa le migliorie da fare al paese. Le 5 altre case, che si mutò il sito per la Chiesa misurate il 12 gennaio 1662, erano probabilmente tutte poste dove ora è la chiesa, colle sue casette e le fontane. Di queste misure e stime se ne è conservata una sola, 18 gennaio 1662, di una casetta confinata p. davanti con la piazza, qual casa intende comprare la Santità di Nos. Sig. Papa Alessandro Settimo ad’ effetto di farne gettito p.fare la strada accanto alla nuova Chiesa. Non si sa quando il Papa abbia fatto la gita all’Ariccia. Probabilmente, la gita di Mattia de’ Rossi con Monsignor Ferrini, con D. Agostino Chigi e col Bernini, della quale parla il conto, era destinata a fermare definitivamente il tracciato delle fondazioni. La soprintendenza alla fabbrica fu affidata a Fra Giorgio Marziali, Minore Osservante del Convento di Palazzola, che aveva già avuto la direzione della fabbrica delle chiese di Castel Gandolfo e di Galloro. Dall’aprile 1662 all’aprile 1665 il frate rilasciò ricevute per la sua provvisione di sei scudi al mese, in qualità di soprintendente alla costruzione della rotonda di Ariccia. Il frate non era certamente un uomo di studi, è facile vederlo dalla sua lettera del 28 maggio 1662.

Il primo capoverso si riferisce, certamente, al rivestimento in piombo della cupola del Santuario di Galloro, il secondo. alla facciata della medesima Chiesa. Le due casette, invece, sono quelle ai lati della Rotonda dell’Ariccia. Sembra, che la loro fabbrica fosse stata spinta avanti con maggior celerità, perché vi si volevano fare le carceri feudali. Verso Albano, il muro della Chiesa era già alto diciotto palmi fuori delle fondamenta, mentre altrove era, ancora, meno elevato. A chi sia diretta la lettera, non è chiaro: forse al Bernini, ma più probabilmente a Monsig.r Ferrini. Nelle ricevute di Ambrogio Appiani, scalpellino, la Rotonda compare dal 18 aprile 1662 al 16 dicembre 1665. Il saldo finale, per la somma di 5800 scudi in base alla misura e stima dei lavori, fatti dal 25 ottobre 1662 a tutto aprile 1665, firmato da Luigi per G. L. Bernini, da Giovanni Maria Bolini e da Carlo Fontana per Mattia de’ Rossi, è del 3 maggio 1666. nelle ricevute di acconti dei fratelli Iacomo e Carlo Beccaria, la Chiesa dell’Ariccia si trova menzionata dall’ 8 maggio 1662 al 12 giugno 1664, prima con la facciata di Galloro, poi, alternatamente, con fabbriche nella terra dell’Ariccia. Le ricevuta per la Chiesa dell’Ariccia ed altro, vanno fino al 20 marzo 1666; dal 23 giugno 1664, solo per fabbriche nella terra dell’Ariccia in genere. Interessanti notizie sui lavori dei due capimastri muratori si trovano nella misura, che comprende oltre la stima della fabbrica della Chiesa e dei suoi immediati annessi (campanili, sacrestia, abitazione dei canonici), anche quelle dei lavori per il corridoio prospettico intorno alla chiesa, per le due casette, per le due fontane, per la piazza ed il portone del Palazzo Chigi, per gli scalini davanti alla Chiesa di S. Nicola (l’antica collegiata ricostruita) e per la casa del macellaro, dove si progettavano le prigioni.


Dal conto, si vede, dunque che la massima parte degli ornati a stucco della cupola furono fatti, non dallo scultore Paolo Naldini, di cui parleremo più avanti ma, a cura dei due Beccaria, da stuccatori ordinari, del resto, i Beccaria fornirono le materie prime anche per le figure del Naldini, ed è evidente, che la collaborazione fra scultore e stuccatori dovette essere continua, non potendosi concepire, che il Naldini lasciasse modellare i festoni di foglie e fiori e perfino i mazzi di fiori nelle mani dei putti e la corona di stelle nelle mani degli Angeli, senza sorvegliare attentamente il delicato lavoro intorno alle figure da lui modellate. A questo punto, sembra opportuno riportare uno dei documenti più importanti di tutto il volume. Si tratta di un foglietto, piegato a metà, sulle due pagine interne del quale sono scritte le disposizioni date dal G.L. Bernini allo scalpellino (certamente Ambrogio Appiani), ed a Iacomo Beccaria, muratore. Le firme sono autografe:

La casetta a sinistra della Chiesa era già quasi compiuta, ed il 6 aprile lo scalpellino avrebbe dovuto andare a prendere i modini delle balaustrate, che coronano le due casette. I tinelli del Principe D. Agostino esistono ancora e sono scavati sotto la piazza, fra il Palazzo e la casetta della destra di chi guarda la Chiesa, la pianta della Piazza con le misure dei tagli da fare per spianarla, non ci è stata conservata, mentre ci è giunta una misura, con la relativa stima, dei lavori fatti a tutte le spese di Gioseppe Bocimazza p. servito della Chiesa dell’Ariccia in abassare la piazza davanti d chiesa come anco invotare li tinelli tanto li due fatti di nuovo sotto la piazza, come quello sotto la casa destinata al Lancia, datata primo dicembre 1664. La stima importa 754 scudi e 98 baiocchi m.ta, è datata 23 dicembre 1664 e firmata da G.L. Bernini, Gio. Maria Bolini e Mattia de’ Rossi. La ricevuta della somma, diminuita di 8 baiocchi è del 7 gennaio 1665, controfirmata da G.B. Pasqua e da Domenico Lombri. Due altre misure e stime, del 17 maggio e del 16 luglio 1665, del medesimo cavaterra, non riguardano molto la Chiesa. Un biglietto datato Castel Gandolfo 15 maggio 1666, del Cardinale Giacomo Nini e Monsig.r Ferrini a Roma, lo incarica, da parte del Papa, di rivedere le misure dei lavori del Bucimazza; ma deve trattarsi di misure non conservate, perché le due suaccennate furono pagate il 14 settembre 1665, probabilmente. Tornando al promemoria berniniano, è notevole il fatto, che la soglia del Palazzo si sia dovuta abbassare di 4 palmi in seguito ai lavori della chiesa e della Piazza. Il cornicione grande è quello che corona il tamburo, mentre il cornicino piccolo è quello che cinge la base della calotta: anch’esso è ora coperto di tegole. Di tegole doveva venir coperto anche il tetto del portico, ma sull’orlo doveva sporgere una lastra di piombo. Quanto alla tinta di travertino, da dare alla prospettiva dietro alla Chiesa, se ne parlerà più giù, a proposito del conto del pittore. Degli stucchi si è già parlato, per quanto riguarda la parche vi ebbero i Beccaria. Ho detto, che questo documento è uno dei più importanti del volume, perché mostra, con quale minuzia il grande Bernini si occupasse anche dei minimi particolari delle sue fabbriche. Si sente più vivamente la vita di un monumento, quando si sappia, che esse fu curato così amorosamente da un artista di genio. Molto curiosi, perché registrano i vari lavori sotto la rispettiva data, sono i conti del fabbro Federico Pigliuzzi, dell’Ariccia. Numerosissime sono le stime dei lavori in ferro, forniti dal Pigliuzzi; molto frequenti sono anche le ricevute. […] Di grande interesse mi pare, anche, per riportare, almeno idealmente, la chiesa berniniana al suo aspetto originario, il conto di Antonio Martiniani, imbiancatore.

Per i documenti storici: Rif.Bibliografico: F.Petrucci, Santa Maria Assunta Collegiata insigne ed altre chiese minori in Ariccia

Analisi documenti d’archivio

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I conti del vetraio Andrea Haghe, certo uno straniero, vanno dal 10 novembre 1663 al 13 maggio 1665. Sembra, che alcune finestre (almeno sei) avessero al centro, i Monti chigiani in vetri colorati a fuoco. A carta 600, troviamo il conto, seguito da ricevuta 30 Aprile 1666, del vetraio Filippo Pierantoni, che aveva avuto, appunto da riparare alcune finestre con lo stemma Chigi, e a carta 599, la fede dell’Arciprete G. B. de’ Grandi che Filippo Pieramonti ha rimesso nelle vetriate di d. chiesa dodici mezi vetri, una stella et un monte li quali erano rotti ( il 29 maggio 1666). Il 3 marzo 1664, G. L. Bernini rilasciava un buono di pagamento, diretto a Mosig.r Ferrini, di sc. 300 a favore di Giovanni Artusi, fonditore, a conto della campana che faceva per la Rotonda a tutta sua Robba e metallo qual campana a da pesare due migliara et non meno. In calce sono due ricevute la prima di scudi trecento in data 6 marzo la seconda di scudi cento in data 3 giugno, firmate da Nicola Artusi, figlio di Giovanni, per non saper il detto scrivere. Reca la data del 6 maggio 1664. Il Conto d’una Campana nuova fatta di metallo p. servito della chiesa della rotonda dell’Ariccia, fatta con ordine del sig. Cav. Bernino a tutta robba da Gio. Artusio con haver fatto la lega di stagno fino e rame. (La campana pesata da Giacomo Balsimelli, fattore della R.da Fabb. di S. Pietro fu consegnata, d’ordine di Monsig.r Ferrini agli uomini di m.ro Andrea Appiani p. portarla con li carri, e bussole all’Ariccia). Compresi li due piumaccioli di metallo, il conto importava la somma di scudi 584 b. 50.

[…] Entriamo nella Chiesa e parliamo degli stucchi di Paolo Naldini che ornano la cupola. Gustoso è il biglietto di presentazione dato dal Bernini allo scultore, per Monsignor Ferrini:

A carte 625, 153,633, 634, 677, 638 sono varie notizie sulle finiture del piombo per coprire la cupola: esse vanno per data dal 20 aprile 1662 al 20 febbraio 1664. A carta 637 è il conto dello stagnaro Giovanni Gemino, per vari lavori in piombo dal 27 agosto 1663 al 14 ottobre 1664, per il rivestimento ed il restauro del rivestimento della cupola, del cupolino, dei campanili, del porticato e delle due casette (gronde dietro le balaustre). Il conto ammonta alla somma di sc. 1187,79 rivisto ed approvato il 16 gennaio 1665 , il conto fu ridotto a sc. 759,40. […

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Analisi documenti d’archivio

Paolo Naldini aveva già fatto i modelli delle figure di stucco per la cupola. L’acconto non è forte, ma è probabile che le buone parole di Monsignor Ferrini abbiano avuto successo dato che, come vedremo, i lavori furono finiti entro l’anno 1664. E’ notevole la frase del Bernini “e questo lo dicho perché non o altro che questo che dopo il Sig. Antonio sia buono”: è chiaro che il Naldini a giudizio del maestro era il solo atto dopo Antonio Raggi (che doveva essere impiegato altrove in quel momento) a realizzare il progetto berniniano della ghirlanda di Angeli e di putti, sul cornicione interno della cupola. Le “ altre occasioni in Roma” non mancarono certo allo scultore. Abbiamo giù detto della parte avuta dai Beccaria alla decorazione della Cupola: vediamo ora quella del Naldini.


La costruzione delle cupole in area romana è condizionata dagli impianti tipologici e dalle techiche costruttive dell’architettura antica. Peraltro, a differenza del Pantheon – il modello di cupola per eccellenza in cui la continuità e l’interdipendenza tra cupola e sottostruttura delineano uno spazio unitario – nell’architettura del Cinquecento romano la cupola, pur nella sua preminenza simbolica, posta come è a esaltare il luogo della più alta centralità liturgica, rimane elemento sovraimposto, il cui ruolo risulta distinto dall’impianto spaziale complessivo dell’organismo. Pur inserendosi come perno del concetto rinascimentale di simmetria, che porta la costruzione a delineare i confini di un’unità piramidale in essa convergente, la cupola si colloca quale coronamento di edifici, conservano una propria autonomia spaziale. Questa “separatezza” trova una non casuale corrispondenza nella forzata consuetudine che vede la cupola raramente costruita insieme al corpo basamentale: il più delle volte essa è edificata in epoche successive e sotto la guida di architetti diversi dal progettista dell’organismo ecclesiale. E’ un processo frequente soprattutto nelle chiese a croce latina, allorché l’edificazione della cupola, che copre l’intersezione tra navate e transetto, è differita per i più diversi motivi e in sua vece viene realizzata una copertura lignea provvisoria, destinata tuttavia a rimanere in loco per lungo tempo. Tra i tanti è esemplificativo il caso della cupola di Santa Maria in Vallicella (1575-99); progettata da Martino Longhi il Vecchio (1534-93) e realizzata da Giacomo Della Porta (1532-1602): essa è caratterizzata da un sesto emisferico estradossato, poggiato su un basso tamburo che le conferisce all’esterno una scarsa rilevanza visiva. Gli eventi che segnano la storia di questa cupola ne modificano a più riprese sia l’aspetto che il comportamento statico: nel 1643 Francesco Borromini (1599-1667) partecipa alla messa in opera della copertura in lastre di piombo; tra il 1647 e il 1651 Pietro da Cortona (1596-1669), attendendo alla decorazione pittorica dell’intradosso, apre quattro finestre ovali “per dare luce alla pittura” ed eleva la lanterna. Nel 1675 compaiono diverse crepe nella calotta che obbligano la Congregazione Generale del convento a consultare i più noti architetti e capimastri romani in vista di eventuali opere di consolidamento, concretizzatesi tra il 1672 e il 1675 nell’incatenamento del tamburo secondo il progetto di Carlo Fontana /1634-1714). […] L’effetto di sovra imposizione e di discontinuità spaziale tra cupola e struttura di base tende ad annullarsi negli edifici a pianta centrale, soprattutto in quelli di limitate dimensioni, che godono peraltro del favore dei teorici dell’architettura per la forma perfetta, esemplata sulla superiore armonia del cosmo. E’ questo il caso del tempietto di San Pietro in Montorio (1508-1512), sintesi metastorica tra il tempio circolare periptero, quale quello della Sibilla a Tivoli e il tempio di Vesta a Roma, e la spazialità compatta e unitaria del Pantheon. In tutti questi edifici tanto dall’interno quanto all’esterno, ogni parte si compone con l’altra, l’una serve di completamento all’altra. [...] Nella seconda metà del Seicento la sperimentazione barocca codificherà tale ruolo raggiungendo la completa fusione di tecnica, forma e simbolo negli esiti borrominiani di San Carlino alle Quattro Fontane (1638-41) e Sant’Ivo alla Sapienza (1642-50), come in quelli berniniani della chiesa dei novizi del Gesù di Sant’Andrea al Quirinale (1658-70) e dell’Assunta di Ariccia (1662-64). […] Lo studio dei monumenti antichi si riflette in una varietà di soluzioni progettuali nelle quali tuttavia traspare, in maniera piuttosto evidente nella tecnica costruttiva, la cultura dell’architetto progettista e delle maestranze e l’influenza esercitata da taluni esempi coevi, assunti come modelli. […] Nel ‘600, l’uso del tiburio diviene più frequente, come testimoniano le coperture delle cupole di Santa Maria del Pianto, Santa Maria in Trasportina, Sant’Andrea al Quirinale e quella di San Carlino alle Quattro Fontane, in cui il cilindro di muratura, che uti di laterizio, posto a protezione della calotta.

racchiude la cupola assorbendone le spinte laterali, si assottiglia verso la sommità articolandosi in tre gradoni. I criteri progettuali dell’architettura classica sono fondati generalmente su calcoli semplici, impostati su rapporti di numeri interi, legati dalla proprietà commutativa e associativa, e soprattutto sulla definizione euclidea di sezione aurea, cara agli antichi per i suoi effetti visivi e per le sue valenze simboliche. Tramite quest’ultima è possibile suddividere geometricamente una qualsivoglia misura, pur mantenendola in costante rapporto con l’insieme, e trovare così un certo numero di parametri fondamentali con cui trasformare i criteri di proporzionalità in istruzioni di cantiere. Questa estrema semplicità di misurazione si rende necessaria dal momento che i cantieri della Roma antica sono strutturati in modo complesso, forse privi di documentazione grafica e affollati da maestranze di variegata estrazione e provenienza, cui è indispensabile fornire indicazioni quanto più semplici possibile. Il sistema di misura è il piede romano, che corrisponde nel sistema metrico decimale a circa 0,30 metri, suddiviso in multipli e sottomultipli, affiancato dalla fine del I secolo al piede attico, (25/24 del piede romano), con cui è possibile calcolare in modo pressoché esatto il nostro P, e dunque edificare tipologie circolari e volte cupoliformi. L’applicazione di tale criterio di calcolo, corredato da semplici strumenti di progetto, ricorre invariato sino all’ultimo decennio del Seicento, quando le nuove elaborazioni di matrice francese sostituiscono il dimensionamento geometrico con quello analitico. E’ dunque possibile ricostruire, con il supporto degli insegnamenti rinascimentali dei trattati di architettura, i rapporti dimensionali che ordinano la progettazione delle cupole, fondati essenzialmente sulla proporzionalità tra le misure del diametro interno della cupola e i suoi spessori in chiave e all’imposta, da cui dipende la stabilità della costruzione. […] Nella codificazione delle “Regole delle Cupole semplici”, all’interno del “Templum Vaticanum”, pubblicato nel 1694, Fontana tenta di fissare definitivamente le proporzioni ottimali, decretando che “li muri che devono sorreggere le cupole semplici se saranno di ottimo lavoro di mattoni doveranno essere le loro grandezze 1/10 almeno del vano. Se saranno d’inferiore di Cimento, cioè Tufi, ò Pietre, dovranno essere le loro grossezze almeno la nona parte del vano”. Quelli invece “che doveranno reggere cupole doppie, doveranno essere più abondanti di grossezza delle suddette, secondo sarà giudicato dal Professore”, lasciando in questo modo aperto un altro difficile quesito. […] Bisogna sottolineare tuttavia che gli spessori attribuiti alle diverse sezioni della struttura cupoliforme variano notevolmente anche in relazione alla provenienza delle maestranze e dell’architetto, alla conformazione sia planimetrica che in elevazione della stessa cupola, e soprattutto in base alla qualità dei materiali impiegati. […] Dalla documentazione dei restauri sulle cupole rinascimentali romane emerge che i materiali e le tecniche per la costruzione delle cupole sono quelli tradizionali registrati più tardi da Vincenzo Scamozzi nei “Benefici ch’apportano le volte agli edifici” nel Libro Ottavo dell’Idea dell’Architettura Universale del 1615. La prima descritta è la tecnica impiegata per le costruzioni a cupola derivata dalle grandi volte delle terme romane: essa è caratterizzata da un getto di calcestruzzo costituito da un conglomerato di malta e pozzolana mischiato a scaglie di pietra tufacea, vulcanica o frammenti di laterizi; il getto viene generalmente a strati orizzontali ben compattati, su apposite armature, irrobustito a volte da uno scheletro di archi e costole in mattoni, disposti per lo più secondo i meridiani. In epoca romana, anche a causa del difficile e costoso reperimento del legname, si sperimentano nuove tecniche per aggirare il sistema delle armature, come l’involucro di laterizi consistente in una prima volta di grossi mattoni disposti di coltello e uniti di costa con malta a presa ante costruito da un impasto di calce, pozzolana e frammenti min

Carlo Fontana, profili di cupole secondo le regole dei trattatisti (da Regole, regioni et esempi... quali approvano esser buono il modo tenuto nella costruzione della famosa cuppola che copre il tempio di Santa Margherita nella città di Montefiascone) 1673, Modena Biblioteca Estense, 379 mss. Campori, B.1.16, fol. 21

rapida, gesso o malta ordinaria a base di calce, costituente una sorta di armatura a perdere su cui viene effettuato il getto di calcestruzzo. [...] Successivamente un primo strato di calce con pozzolana o rena vagliata, piuttosto liquida e alquanto grassa, segue la forma della centina. Al di sopra è realizzata la volta di mattoni; a disarmo avvenuto, la terra di sutura può essere facilmente asportata e le parti non perfettamente realizzate sono risarcite a stucco. Nella pratica costruttiva rinascimentale corrente, sull’estradosso della cupola viene steso uno strato a sezione omogenea di due-tre centimetri di malta semifluida, cui è attribuito il compito di limitare le deformazioni del guscio a presa avvenuta. Questa caldana ha probabile origine proprio nella tecnica romana del coccio pesto, uno strato impermeabilizzante. Maria Grazia D’Amelio, Nicoletta Marconi

Prassi e principi dalle cupole rinascimentali a quelle barocche

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Descrizione della cupola Costruzione geometrica della cupola della «Rotonda»

A

Q A1 S

R

90 palmi

Prima fase – determinazione massima diametro della cupola L’altezza data dal piano superiore della cornice al piano d’imposta di altezza EF viene diviso a metà nel punto M e l’altezza EM viene a sua volta divisa a metà nel punto M1. Dai punti E, M1, F vengono tracciate delle rette parallele che congiungono i punti opposti, quelli dati nella verticale d’imposta. Seconda fase – circonferenza di raggio SR/2 Preso come riferimento il diametro dell’occhio della cupola SR, costruisco la circonferenza di raggio SR/2 nel punto O. alla circonferenza costruita associo sul segmento OO1 due circonferenze uguali e tangenti tra loro. Il raggio OO1 è uguale a SR/2 x 5 e mi da una circonferenza che delimita l’imposta esterna della cupola e fissa nel punto Q la costruzione per la lanterna. Terza fase – costruzione lanterna Interno. L’altezza interna della lanterna è data da due circonferenze sovrapposte tangenti di altezza 2 SR. La circonferenza inferiore è tangente alla circonferenza OO1e la calotta interna della medesima è data dalla semisfera di raggio SR/2. Esterno. Dato il punto medio M del segmento GF costruisco la circonferenza di raggio GN che si interseca con la circonferenza d’ intradosso di raggio B1F nel punto L. Il segmento GL determina la circonferenza necessaria per definire l’altezza esterna della lanterna. Infatti dal punto A, tangenza delle due circonferenze interne della lanterna, proietto sulla circonferenza di raggio GL il punto A1. La circonferenza di raggio AA1 segna l’altezza esterna della lanterna a meno dei monti Chigi. Quarta fase – costruzione calotta Diviso il diametro SR in 6 parti uguali della circonferenza di centro O, sul raggio individuo il punto B sul segmento di origine M1, lo proietto sul segmento di origine M nel Punto B1. Determino il segmento B1F. La circonferenza di raggio B1F determina l’intradosso della cupola. Diviso il segmento OB in 9 parti uguali, prendo come riferimento il punto K. Il segmento OK è uguale a SR/54x2. dal punto K conduco un segmento nel punto D dato dall’intersezione della terza circonferenza di raggio SR/2 con la linea del piano d’imposta. Il raggio KD determina l’estradosso.

36 palmi

La cupola dell’Assunta, di Gian Lorenzo Bernini, costruita ad Ariccia nei Castelli di Roma tra il 1662 e il 1664, è a pianta circolare ed a sesto leggermente rialzato, con un profilo estradossato, e poggia direttamente su una “corona” di otto archi, sorretti da altrettanti pilastri costituenti il tamburo (Fig. 82). Il diametro interno della calotta all’imposta è pari a 77 ½ palmi, circa 17,3 metri, l’altezza è di 31 palmi, circa 9,60 m. Lo spessore all’imposta della cupola è di 3,80 m. All’altezza del cornicione esterno, a circa 60 cm dall’imposta, lo spessore è di circa 1,50 m, mentre è di 0,40 m alla sommità. L’altezza della calotta, pari a 9,60 m, corrisponde a poco più del raggio della cupola, e ciò spiega il profilo leggermente rialzato della Rotonda. Il rapporto tra la luce e lo spessore alle reni della calotta è pari a circa 1/10, secondo le regole esposte da Carlo Fontana nel Templum Vaticanum. Sicuramente consapevole dell’entità della spinta che il profilo della calotta trasferisce sulle strutture sottostanti di sostegno, il Bernini progetta gli otto pilastri, sui quali si imposta direttamente la cupola, con uno spessore pari a circa 3,60 m (16 palmi), mettendosi in linea con le regole di sicurezza del tempo: in tal modo il rapporto tra lo spessore dei contrafforti e il diametro interno è 1 a 5. La lanterna si innesta nell’occhio della cupola a circa 10,30 m dalla linea di imposta della cupola, con uno spessore di circa 60 cm e ha un’altezza di 2,0 metri: il profilo del cupolino della lanterna, a differenza della più grande cupola, è esattamente semisferico. Il diametro del cupolino misura circa 4,00 m. Oltre all’artificio dei pilastri–contrafforti, il Bernini, per garantire maggiore sicurezza statica, inserisce ben quattro catene di ferro all’interno.

54 palmi

L

N

S B1

F

D

M M1

O1

B KO E

3 palmi

C. Fontana, Templum Vaticanum et ipsius origo, Roma 1694; p. 367 Tavola delle «dimostrazioni e regole per construire le cuppole semplici»

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Ipotesi costruttive, costruzione geometrica

9 palmi

9 palmi 18 palmi

9 palmi

9 palmi 18 palmi 54 palmi

9 palmi

9 palmi 18 palmi

Stralcio di sezione A-A, rapporto 1:100


Ipotesi costruttive, materiali e tecniche, scala 1:100 25

costituiti da pezzame di pietra locale (calcare e tufi con frammenti di coccio, impastati con malta di calce idraulica)

Muri di fondazione

Pavimentazione originale, poi sostituita con quella attuale in opus sectile. laterizi sigillati con stuccatura liquidi a basi di polvere di mattone poi sottoposti a orsatura.

Ammattonati rotati ad acqua

uno degli otto piloni di sostegno

Pilone strutturale in mattoni

costituiti da pezzame di pietra locale, tufi e ricorsi di mattoni di livellamento, presenza di diatoni di supporto murario.

Ghiera di scarico in mattoni

tegole in cotto poste su massetto di allettamento

Tetti «novi impianellati»

(vedi nota superiore)

Decorazione a stucco

Barra in ferro una delle 4 barre di cerchiamento della cupola per vitare fenomeni di «spanciamento» e fessurazione

Copertura in piombo piombo posato su uno strato di allettamento di malta e fissato tramite chiodature

Il procedimento esecutivo delle decorazioni a stucco Ben illustrato nel dettaglio da Giorgio Vasari nel cap. XIII dell'Introduzione alle tre arti del disegno, proemio alle Vite, nel quale sono indicati fasi operative, materiali e strumenti: il motivo da seguire viene riprodotto a intaglio su uno stampo di legno, spolverato interamente con polvere sottile di marmo. Su questo viene disposto un impasto di calce e polvere di marmo o travertino, “che non sia sodo né tenero, ma di materia tegnente”. Si predispone quindi sulla superficie muraria l'abbozzatura di mattoni necessaria a dare rilievo alla decorazione e migliorarne l'aderenza (“si conficcano dove ell'ha da essere, ferramenti o chiodi o altre armadure simili che tengano in sospeso in aria lo stucco, che fa con essa presa grandissima”). Una volta infissi nel muro i chiodi, con profondità variabile in funzione del rilievo della decorazione, si posizionano “pezzami piccolo di mattoni o di tufi, a cagione che le punte o capi di quegli tengano il primo stucco grosso e bozzato”. Quindi, fissato lo stampo a questa sorta di armatura si batte con “colpo uguale” il martello sul fondo dello stampo fino a che la forma rimanga saldamente applicata alla superficie. La decorazione viene quindi rifinita e pulita con spatole bagnate e pennelli fino a rendere la superficie come se “fusse di cera o di terra”. Per cornici e decorazioni molto estese in lunghezza, la rifinitura è delegata a modini in legno rivestiti in lamina metallica, usati come guide e assicurati ad assicelle fissate nella parete, che vengono fatti scorrere avanti e indietro per modellare a dovere l'impasto. In ultimo è necessaria un'accurata pulizia della superficie: essa viene lisciata con spatole bagnate, strofinata con abrasivo e irrorata con sapone bianco sciolto con acqua tiepida. G. Vasari, Le tecniche artistiche, a cura di G. Baldwin Brown, Vicenza, Neri Pozza, 1996, pp. 149-150

Una soluzione alternativa a questa proposta potrebbe avvicinarsi ad una tecnologia ingegnosa, sviluppata già in epoca romana per evitare il problema economico-gestionale della centinatura, essa è caratterizzata da un involucro di laterizi consistente in una prima volta di grossi mattoni disposti di coltello e uniti di costa con malta a presa rapida, gesso o malta ordinaria a base di calce, costituente una sorta di armatura perdere su cui viene effettuato il getto di calcestruzzo.


Gli studi di Galileo Galilei della Prima metà del XVII secolo determinano il graduale abbandono del metodo empirico; tali studi si concretizzano nella definizione di un nuovo criterio scientifico, fondato sull’esperienza e sul ragionamento matematico, in cui assume ruolo preminente la sistemazione della meccanica razionale su basi sperimentali, nella quale, riassumendo le ricerche dei suoi predecessori, Galileo fonde osservazioni empiriche e considerazioni matematiche. Sulla scia degli insegnamenti di Galileo e con la pubblicazione a Parigi nel 1695 del Traite de Mecaniqur di Philippe De La Hire (1640-1718), dal 1686 direttore dell’Accademia Francese Reale di Architettura (nello stesso periodo in cui Fontana dirige l’insegnamento di architettura all’Accademia di San Luca) I trattati assumono un carattere marcatamente specifico. Tali testi sono informati dagli studi che in quegli stessi anni vengono approfonditi in Francia per merito soprattutto dell’Academie Royale des Sceince de Paris, che, grazie alla periodica pubblicazione delle Memories, contribuisce in maniera determinante alla divulgazione in Europa dei risultati degli studi sul calcolo analitico e sulle leggi della meccanica, sempre più frequentemente riconosciuti dai teorici e dai progettisti quali corretti criteri di progettazione. Si conclude dunque, a meno di qualche rara inevitabile eccezione, l’era dell’impiego dei criteri empirico-intuitivi per il progetto di architettura e si apre quella del calcolo e della verifica. Nella ricerca compiuta in Francia tra il XVII e il XVIII secolo si fa sempre più evidente l’urgenza di dare una veste “scientifica” e rigorosa a studi fino ad allora fondati su sperimentazione e prassi di cantiere. Dalla ricerca di una configurazione geometrica ideale, si passa al tentativo di determinare la sollecitazione reale della stuttura esaminata e, conseguentemente, di individuarne criteri universalmente validi di verifica. […] Un ulteriore progresso sulla meccanica delle cupole, avviata in Francia nel XVIII secolo, è individuabile nel De la Pousse des Voutes di C.A. Couplet. La ricerca di Couplet si colloca infatti quale anello di congiunzione tra i sultati di De La Hire e gli studi Coulomb, introducendo, nell’ambito del problema della definizione della forma e della valutazione della spinta delle volte, un’importante innovazione. Essa si fonda sulla composizione grafica di tre forze, peraltro già utilizzata da De La Hire, in cui l’entità della forza peso dei singoli conci, lasciata incognita, consente di ottenere un profilo rastremato in prossimità della chiave. In tale sistema la “linea di appoggio” (cioè la linea delle pressioni) deve risultare equidistante sia dall’intradosso che dall’estradosso. Couplet è così in grado di affermare, in linea con le teorie di Leonardo da Vinci, che un arco a tutto sesto è in equilibrio se la “linea di appoggio” è compresa nel suo spessore. […] Contemporaneo al periodo di maggior fermento degli studi matematici e meccanici sulla statica delle volte è un altro filone di pensiero, definito da Edoardo Benvenuto “pseudo-statico”, che vede alcuni eclettici studiosi di architettura della prima metà del XVIII secolo impegnati in una ricerca sviluppata su un piano intermedio tra quello puramente matematico e quello ancora legato a una ricerca di carattere geometrico. Il Trattato della Cognizione Pratica delle Resistenze, di Giovan Battista Borra, si colloca in posizione intermedia tra i due approcci progettuali, affiancando talune generiche indicazioni sull’equilibrio delle forze a un singolare criterio di dimensionamento del piedritto (riproposto peraltro da Giuseppe Valadier alla metà dell’Ottocento), a nozioni di stereotomia desunte dalla trattatistica francese, a descrizioni di opere provvisionali per le volte e cupole. […] Lo studio delle leggi che regolano i comportamenti statici delle cupole e non solo, implica una necessaria scomposizione in elementi minori; la cupola non è più elemento enigmaticamente unitario, ma diviene struttura soggetta all’applicazione di leggi matematiche e meccaniche, trattata al pari degli altri 26

Analisi statica, percorso storico

componenti dell’edificio, dal momento che, come in seguito affermato da Jean Baptiste Rondelet (1734-1839), la costruzione diviene un’arte allorquando le conoscenze teoriche, unite a quelle della pratica, presiedono ugualmente a tutte le sue operazioni. In questo contest osi ricercano regole universalmente valide sia per la progettazione che per la verigica delle coperture a volta, mediante indagini che si concretizzano nella divulgazione degli studi sulle proprietà della curva catenaria, considerata la configurazione ideale per la stabilità di archi e volte. La curva catenaria, assimilata alla linea ideale delle pressioni, nota agli architetti rinascimentali, è adottata da Michelangelo nei coperchi delle tombe medicee e da Bartolomeo Ammannati nel ponte di Santa Trinità a Firenze. Il problema della ricerca di una linea delle pressioni, tale da garantire la stabilità delle volte, è affrontato e intuitivamente risolto anche da Leonardo, secondo il quale si ha la stabilità di un arco allorquando la corda sottesa alla sua curva d’estradosso non intersechi quella dell’intradosso. Le strutture in uso nei secolo antecedenti al XVII, tuttavia, non offrono grandi spunti ai costruttori per spingerli ad approfondire le ricerche sulle deformazioni elastiche che possono verificarsi all’interno delle stesse membrature. Sarà il passaggio dal XVII al XVIII secolo, grazie agli approfondimenti delle ricerche in campo matematico, a vedere fiorire numerosi studi sulla teoria delle curve elastiche. […] Per le cupole in muratura la situazione è invece completamente diversa (rispetto al comportamento statico dei gusci). Quando nelle zone tese le sollecitazioni di trazione lungo i paralleli raggiungono valori prossimi alla debole resistenza a trazione della muratura, si verifica la frattura della muratura e compaiono lesioni lungo i meridiani. Anche una sola di queste lesioni è sufficiente ad annullare l’azione cerchiante dei paralleli, così determinante per la statica dei gusci sottili. La cupola in muratura non può pertanto presentare, se non per piccolissimi valori di carichi, le elevate caratteristiche di resistenza e di rigidità dei gusci. In definitiva la cupola in muratura non presenta, se non in modo trascurabile, resistenza di forma. La cupola semisferica in muratura esplica allora una spinta alle sue strutture di sostegno. […] Oltre alle lesioni meridiane, all’estradosso o all’intradosso della cupola, possono comparire anche lesioni circumferenziali. Ciò si può verificare per un non felice disegno della curva mediana della cupola ovvero per la presenza di notevoli carichi al centro, ad esempio dovuti ad un peso eccessivo della lanterna. […]

Descrizione del meccanismo con cui la cupola si adatta ad un lieve allargamento delle sue imposte. Questo comporta anch’esso lo sviluppo sia di lesioni meridiane passanti che di lesioni circumferenziali non passanti, situate queste ultime, superiormente, all’ intradosso e, inferiormente, all’ estradosso. Le lesioni all’estradosso non sono immediatamente riconoscibili in quanto l’estradosso della cupola è ricoperto, molto frequentemente, da un manto di piombo.

Le precedenti teorie sulla statica degli archi elaborate dagli ingegneri e trattatisti francesi De la Hire (1712) e da De Belidor (1729) prevedevano il meccanismo di rottura degli archi per slittamento dei conci dovuto a scarsa resistenza all'attrito. L'innovazione fondamentale portata dal Mascheroni fu quella di proporre e di sviluppare il meccanismo di rottura degli archi per formazione di cerniere plastiche, con rotazione degli elementi strutturali dell'arco e dei suoi appoggi.

La figura mostra due diversi meccanismi di collasso per gli spicchi di cupola: il primo comporta l’abbassamento uniforme di tutta la parte centrale, il secondo l’abbassamento e la rotazione delle parti superiori dello spicchio: in questo secondo meccanismo non è stata considerato presente il cupolino.

Elaborazione grafica del modello per il calcolo delle cupole di L. Mascheroni. F = punto di equilibrio CKDF = stato di equilibrio Da F a N «ogni cuneo superiore preme l’inferiore più di quanto sia da esso premuto», mentre il contrario avviene da F a O. Si ottengono così due «spinte relative»; la prima contribuisce a mantenere in equilibrio la lanterna e ad ammorsarla (F’O’), la seconda (F’N’) provoca una spinta verso l’esterno, che, se non contrasta, può provocare lo «spanciamento» della cupola.


Ripropongo uno studio di tesi di laurea sviluppato da uno studente della facoltà di Ingegneria dell’Università Roma «Tor Vergata» in cui si analizza analiticamente la cupola dell’Assunta del Bernini.

«Molto vasta, come si è già potuto intravedere dal precedente breve excursus storico, è la tipologia delle volte in muratura. La geometria delle volte si presenta più o meno complessa, nelle varie forme che esse possono assumere, e quella dello stesso guscio può presentarsi a singola o a doppia calotta, collegata da costoloni radiali ecc. Altrettanto varia è la composizione della struttura interna della relativa muratura, a concrezione con inerti di diversa densità, oppure in laterizio, od ancora a concrezione con nervature interne in laterizio, ecc. Si comprende pertanto come molto complesso sia in generale il problema dell’analisi statica di tali strutture, ben più complesso di quello relativo alle strutture riconducibili ad assemblaggi di elementi monodimensionali costituiti da pilastri ed archi. Nello studio di tali sistemi strutturali si è dovuta riprendere una discussione delle ipotesi a base del comportamento della muratura, in particolare quella relativa all’ammessa non resistenza a trazione. L’esperienza storica acquisita sul comportamento di tante di queste strutture voltate ci dice infatti che queste, pur esibendo il tipico comportamento condizionato dalla bassa resistenza a trazione della muratura, presentano, di regola, il fenomeno della fessurazione in modo più dilazionato nel tempo. Facendo riferimento alle costruzioni più rilevanti, per le quali la documentazione storica è più facilmente disponibile, risulta infatti che, ad esempio, la cupola di S. Pietro cominciò a fessurarsi almeno cinquant’anni dopo il completamento della sua costruzione; analogamente, ma ancora dopo un tempo maggiore, era accaduto per la cupola di S. Maria del Fiore a Firenze. Ci sono ragioni obiettive che possono spiegare tale comportamento. Mentre per le strutture monodimensionali, ad esempio per gli archi, l’attrito non contrasta l’aprirsi delle fessure tra i giunti, di regola accade il contrario per la muratura delle strutture voltate. La figura in basso ricorda infatti come in un arco la fessurazione sopraggiunga col prodursi di una rotazione relativa tra due sezioni dell’arco, quelle disposte a cavallo della lesione: attraverso la sezione fessurata continua pertanto a trasmettersi lo sforzo assiale e di conseguenza permane la resistenza allo scorrimento a taglio.

L’aprirsi di una lesione tra due sezioni di un arco conserva la resistenza allo slittamento.

Nel caso di una struttura voltata la fessurazione si presenta invece con aspetti molto diversi. Se facciamo riferimento ad esempio ad una cupola, ma la situazione è analoga in tante altre strutture voltate, la fessurazione si presenta con il comparire di fratture verticali: queste, come vedremo, sono conseguenti al superamento della resistenza a trazione da parte delle sollecitazioni di cerchiamento agenti lungo i paralleli nella zona inferiore della cupola. All’atto della fessurazione le file dei laterizi devono slittare una rispetto all’altra.

a destra: Impostazione del problema cinematico in basso: Costruzione della curva delle pressioni di minima spinta su di uno spicchio di ampiezza pari ad 1/8 di cupola.

La compressione meridiana contrasta, a causa dell’attrito tra le file di laterizi, la fessurazione verticale.

Tale scorrimento è contrastato dalla resistenza ad attrito che si sviluppa sui letti orizzontali soggetti alla compressione meridiana. Ciò implica il prodursi di una resistenza a trazione che non è dipendente né da una resistenza di adesione tra malta e laterizi, o blocchi, né dalla resistenza a trazione della malta. La fessurazione potrà allora avvenire solamente quando tale resistenza d’attrito viene vinta: ciò accade, di regola, a causa del propagarsi dell’umidità all’interno del corpo murario – che riduce gradualmente la resistenza d’attrito nella muratura ed impoverisce le malte – o anche col sopraggiungere di improvvise azioni dinamiche. Le sollecitazioni nelle volte sono inoltre molto contenute. Tutto ciò spiega come nelle strutture voltate la fessurazione si verifichi di regola solo dopo tempi più o meno lunghi e solo con il permanere nel tempo della sollecitazione di trazione. Tali considerazioni implicano che in una prima fase, che può durare anche diverse decine di anni, le volte in muratura si comportano come solidi più o meno monolitici, costituiti da materiale elastico, in grado di sostenere sollecitazioni sia di compressione che di trazione. C’è quindi, per tali strutture, un regime transitorio linearmente elastico, condizionato da una fessurazione latente a cui segue un regime statico definitivo, regolato dalla non resistenza a trazione. Solo quest’ultimo comportamento caratterizza le reali capacità resistenti della copertura e rivela se questa, unitamente alle sue strutture di sostegno, è in grado o non, di sostenere i propri carichi. Analisi statica Le lesioni presenti nella cupola sono quelle tradizionali, sottili in spessore, che corrono lungo i meridiani e suddividono la cupola, nella sua parte inferiore, in otto spicchi La natura e la posizione di queste lesioni denunzia con chiarezza l’avvenuto allargamento dell’anello di base della cupola e delle relative strutture di sostegno. L’assetto statico della cupola è verosimilmente vicino a quello di minima spinta. La statica della Rotonda, sottoposta a carichi verticali, può essere analizzata secondo quanto precedentemente esposto, facendo ad esempio riferimento ad uno degli otto spicchi in cui la fessurazione meridiana prodottasi ha diviso la cupola. [...] Per effettuare poi il calcolo della spinta dal punto di vista cinematico, si è collocato all’imposta dello spicchio di cupola un carrello con piano di scorrimento orizzontale. Si sono poi disposte due cerniere interne: di queste la prima è stata posta all’estradosso della calotta, dove si innesta il lanternino, tra il concio 2 e il concio 3, come descritto nella Fig. 84. La posizione della seconda cerniera, all’intradosso, è invece incognita ed è definita dall’angolo σ compreso tra il raggio che congiunge la cerniera con l’orizzontale. Come già effettuato nell’analisi statica, si è diviso lo spicchio della cupola in 14 conci.

Conclusioni Dallo studio condotto, all’angolo σ pari a 47° corrisponde il più grande valore di μS, pari a 18878 kg, molto vicino al valore della minima spinta valutato con il teorema statico, attraverso la costruzione del relativo poligono funicolare. L’errore di calcolo del valore della minima spinta tra il metodo statico, prevalentemente grafico, e quello cinematico, di carattere analitico, si attesta infatti intorno all’1%.

Analisi statica, approccio analitico

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La “Progettazione di consumo”

Materiali, tecniche e lavorazioni

Si è soliti credere che la progettazione antica sia “semplice” mentre quella contemporanea è definita complessa. Cosa si intende “oggi” per “complesso” non è poi così difficile da definire: attualmente l'edificio è considerato un prodotto tecnologico con svariati elementi impiantistici che condizionano e attivano un processo di feedback costante tra architettura e ingegneria. Ogni minimo aspetto costruttivo è controllato da figure professionali settoriali che spesso sono in contrasto per un approccio sistemico non convergente. Il ruolo dell'architetto si riduce ad un lavoro tecnicistico di supervisione. Il processo creativo è totalmente condizionato da una visione economicistica che è la sola “utilitas”. L'arte, giocata sull'emozione del clamore, ha perso la coralità che la rende espressione viva e sentita. E' solipsistica. Definire la progettazione antica “semplice” è il frutto di una “visione” evoluzionistica che non tiene conto della realtà delle cose. Nei progetti significativi del passato la complessità nasce dal bisogno di conservare valenze plurime, dalla scelta dei materiali fino ai significati simbolici delle forme. L'edificio racconta una storia, propone una filosofia se non una teleologia, si carica di una funzione che sfida il tempo perché la sua conservazione è la memoria della stessa comunità che rappresenta. L'approccio progettuale fino a circa la metà del XVIII secolo era di tipo geometrico. L'edificio veniva dimensionato e disegnato secondo regole geometriche. Fondamentali, a tal proposito, i trattati da Vitruvio a Vittone. Non ci si perdeva nel calcolo analitico come accadrà dalla fine del XVIII secolo ad oggi. Questa grande e netta differenza dei due approcci progettuali nasce da una nuova visione del mondo introdotta dalla rivoluzione francese. Nella progettazione fino al Barocco l'architetto era il deus ex machina che, in collaborazione con le grandi figure dell'aristocrazia e della cultura, dava forma a visioni del mondo profonde, dense di significato. Caso emblematico Bernini-Kircher. Il progetto proponeva, raccontava una storia dove il bello e il simbolo, l'immediato e il criptico coinvolgevano, “dall'ottentotto al parigino”. Oggi il progetto parla limitatamente con le transitorie leggi dell' “utilitas” commerciale. E' svuotato, non sfida l'eterno, la sua durata è limitatissima come i materiali con cui è fatto. La valenza estetica è un suppletivo. Il valore del bello, dell'eleganza, delle proporzioni, della firmitas, sono declassati a opzioni progettuali. La firmitas, in particolare, è stata superata: non è economicamente conveniente produrre architetture pensate per resistere al tempo in quanto non farebbero muovere, con restauri, demolizioni e ricostruzioni, la perversa macchina economica attuale. La progettazione delle strutture è attualmente calcolata per una vita nominale di 50 anni. L'aspetto tecnico costruttivo e quello materico richiederebbero una lunga analisi. In questa sede mi soffermo solo su alcuni concetti rilevanti. La qualità è il fattore determinante che ci allontana dal passato. Per la produzione di malta elemento essenziale è il grassello di calce: questo, ai tempi di Vitruvio, si faceva stagionare per 2 o 3 anni prima di poter essere utilizzato. Le caratteristiche chimiche e prestazionali di tale elemento erano insuperabili. Nessun composto industriale attuale ha tale qualità, a riprova di ciò, la malta del Pantheon dopo quasi duemila anni ha conservato intatta la sua resistenza. Oltre le tecniche costruttive e i materiali, la manodopera è un fattore determinante per la qualità del prodotto edilizio. I veri Mastri e Capomastri erano a tutti gli effetti delle maestranze critiche, sapevano far bene il loro mestiere con poche e precise indicazione degli architetti, seguendo le consuetudini e le secolari prescrizioni della regola d'arte.

Per capire quali sono le grandi differenze che ci separano, ormai per sempre, da un cantiere preindustriale porto ad esempio alcuni materiali comunemente utilizzati per le costruzioni. Ogni singolo materiale edilizio era ricavato da lavorazioni di elementi naturali. Il mattone non era altro che terra cotta, la calce, invece, era costituita da pietre calcaree cotte in forni, idratandola con acqua e aggiungendo “cementa” (pozzolona o sabbia) si otteneva la malta per murature e massetti e così via. Tutti elementi costruttivi, che una volta deteriorati, tornavano a far parte della natura; un rudere antico ritorna ad essere parte costituente della natura. Non possiamo certo dire lo stesso di un rudere moderno. Oggi la situazione è completamente opposta, il cambiamento più evidente riguarda materiali sempre più artificiosi e contaminanti, tecniche costruttive improprie, complessi urbani non più a misura d’uomo ma alienanti, logica del consumo fine a se stesso, assenza di educazione al riutilizzo, ecc. Questa nuova “cultura”, in ambito urbanistico, ha portato alla costruzione di grandi agglomerati massivi urbani, legati a lottizzazioni economiche veloci e remunerative, provocando una netta e drammatica separazione tra Contesto e Costruito. I due sistemi non dialogano, non si confrontano, si contrappongono. I casi più eclatanti riguardano le “archistar” dove l’architettura è autoreferenziale, racchiusa e rinchiusa in un perimetro delineato a tavolino. Non crea spazio sociale utile alla collettività né si sforza di creare rapporti tra le parti urbane. Da qui nasce l’importante aspetto legato al rapporto tra progetto e costruzione, dove il pensiero incontra la materia. È questo il tema che sancisce la forte rottura tra Natura e Cultura. Se fino a due secolo fa i materiali del costruire erano gli stessi elementi naturali caratterizzanti il luogo e perfettamente inseriti in un processo ciclico di distruzione e riutilizzo costante, oggi quella simbiosi si è perduta per sempre. Forse un fattore ancora più importante riguarda la perdita di unicità del costruito. Dalla notte dei tempi si sono sempre prodotti materiali e finiture su misura. Il concetto di standardizzazione, anche se enormemente sviluppato già dai romani, ha poco senso in un cantiere premoderno. Tutto si adattava alla visione dell’Architetto, non era schiavo, come oggi, dei prodotti standardizzati industriali. Non che oggi non esista il “su misura”, esiste ma entriamo in una fascia economicamente molto diversa e spesso svantaggiosa per i nostri standard di velocità e guadagno. Fare una costruzione unica, a misura del proprietario non era una facoltà esclusivamente dei ricchi come accade oggi. Il contadino utilizzava esattamente le stesse tecniche costruttive, gli stessi materiali e le stesse maestranze che utilizzavano i nobili. L’unica differenza era nella grandezza e nello sfarzo delle decorazioni che solo i soldi potevano comprare.

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Confronto tra approccio progettuale barocco e contemporaneo

Non avevano bisogno di pedanti disegni esecutivi, di ogni minimo dettaglio. Il loro sapere era dovuto ad anni di apprendistato in botteghe o direttamente sul cantiere, certi che un approccio concreto, fatte le dovute eccezioni, insegnasse molto di più e molto più rapidamente di qualsiasi studio teorico. I mastri, comunque, erano obbligati, almeno nel Seicento romano, a convalidare la propria capacità tecnica sotto l'autorità dell'Università dei muratori che rilasciava loro un numero di matricola previo esame pratico, e a frequentare corsi di aggiornamento presso la scuola di disegno di San Salvatore in Lauro, non solo nei giorni festivi, ma anche ogni secondo e quarto giovedì del mese. La frequenza al corso era considerata un requisito indispensabile per l'inserimento nei ruoli ufficiali. Oggi la manodopera, sempre più del terzo mondo, è semplicemente braccio, forza lavoro. Deve essere guidata tramite infinite carte e disegni che obbligano il mastro a seguire schemi pre-impostati dai tecnici. Il cantiere diventa macchina e gli operatori, ingranaggi che portano avanti un processo industriale di costruzione. Da questo dato di fatto nasce la consapevolezza che l'attuale architettura ha perso definitivamente il valore primario di arte per sostituirlo con quello di produttività o rendita economica. Il complesso architettonico non è più sintesi di tutte le arti (pittura, scultura etc.) che trascende il contingente per assurgere a valore universale ma frutto delle mode passeggere. Nasce il disegno industriale, le mode, lo stile corrente, e tutto ciò che è necessario per attrarre le masse ad alimentare quel sistema perverso chiamato economia consumistica (vedi obsolescenza programmata). La grande industria del design ci ha abituati a forme sempre più fugacemente persuasive che molto spesso non hanno niente a che fare con la funzionalità. Pensiamo, ad esempio, allo spremiagrumi di Philippe Stark by Alessi che ha solo un problema: l'acido citrico delle arance viene ossidato e quindi la vitamina C distrutta. In sintesi il problema più generale della povertà progettuale a cui siamo arrivati oggi non è solo dovuta alla preparazione aridamente tecnica data dalle università, metodologicamente simili in ogni parte del pianeta, quanto soprattutto da una committenza sempre meno illuminata o addirittura offuscata dall'unica valenza attuale: il profitto per il profitto. Oggi chi ha il potere decisionale di iniziare un'opera architettonica di spessore non guarda ad essa come mezzo comunicativo per i posteri ma solo come strumento temporaneo per soddisfare un bisogno.

Produzione pre e post industriale


Architettura, musica e dintorni Che “l'analogia rinascimentale tra accordi e proporzioni visibili fosse qualcosa di più che una semplice speculazione teoretica” ma “una fede profonda e solenne nell'armonica struttura matematica di tutto il creato” (1) è opinione consolidata. La dottrina proposta dai commentatori fiorentini della cerchia medicea (Ficino, Pico della Mirandola) ritorna alla tradizione pitagoricoplatonica dei semplici rapporti numerici nella teoria musicale come “espressione delle leggi dell'armonia cosmica”. Tradizione, peraltro, mai interrotta perché “le stesse proporzioni numeriche e geometriche ebbero il medesimo significato nel Medioevo e nel Rinascimento” (2) in una visione del mondo “simbolica e non estetica, teologica e non filosofica”. I trattati di architettura svelano persistenti riferimenti alla musica testimoniando che molte opere architettoniche sono progettate secondo proporzioni musicali. L'attenzione dei teorici dell'architettura verso la musica si rivolge essenzialmente al contenuto numerico e matematico di quest'arte e attraverso di essa ricercano una legittimazione della stessa architettura non solo estetica, ma – fino alla fine del '500 – cosmologica e divina. Nel Seicento si palesano le contraddizioni fra vecchia e nuova scienza, tra cosmologia tolemaica e contemporanea, tra tradizione e innovazione, tra antichi e moderni, tra vecchio mondo e nuovo mondo in un tempo in cui né l'uno né l'altro riescono a imporre i propri codici interpretativi. Al modello unicentrico rinascimentale dato dalla circonferenza si sostituisce il bicentrismo barocco dell'ellisse dove due fuochi definiscono l'unico soggetto geometrico (3). Il progetto architettonico del '600 rivela uno spiccato contenuto polisemico con feconde incursioni nella musica A. Kircher, Musurgia Universalis, 1650 dove nel X libro si ha una delle più importanti teorizzazioni della concezione barocca dell'armonia delle sfere: Kircher affermò che l'intera compagine del mondo era determinata da un'intima armonia di tutti gli esseri, accordati fra loro da Dio, che egli definì supremo organista come già aveva fatto Keplero; R. Fludd, Utriusque Cosmi, 1617, dove l'universo è immaginato come un immenso monocordo accordato direttamente dalla mano di Dio - , nella retorica – E. Tesauro, Il Cannocchiale Aristotelico, 1654 - , nella numerologia – P. Bongo, Numerorum Mysteria, 1599 (ult. Ediz. 1614) e nell'alchimia (4). Interdisciplinarietà, dunque, come “crocevia ove sostano e ripartono i pensieri” e “visione laterale su tutti quegli altri campi del sapere lontani dall'uno ma connessi all'altro: musica e matematica, pensiero musicale e arti figurative, indagine sul numero; archeoastronomia; architettura come spazio rituale e architettura come spazio acustico” (5) perché, con Kircher, “ le cose poste più in basso mostrano quelle poste più in alto, quelle corporali rivelano quelle intellettuali ed invisibili e, attraverso di esse, si possono vedere quelle che sono state create” (Ob. Alex. P. 92). I monumenti e le opere d'arte, dunque, sono in grado di parlarci “in quanto documenti storici anche se privi di 'pezze d'appoggio' scritte” (6). La molteplicità degli approcci permette di ridefinire il concetto di fonte per condurre a nuovi significati. “Da quando la scienza diffida dalle spiegazioni generali e dalle soluzioni che non siano settoriali e specialistiche” è quanto mai necessario “saper tessere insieme i diversi saperi e i diversi codici in una visione plurima, sfaccettata del mondo” (7). 1.

R. WITTKOWER, Architectural Principles in the Age of Humanism, London, 1949

2.

Ibid. Il problema dei rapporti commensurabili nel Rinascimento, pp. 151-53 Ed. 1962 (London, Academy Editions)

3.

E.N. GIRARDI, Il Seicento come momento centrifugo della letteratura rinascimentale, Bari 1970 pp. 277-89

4.

A.M. PARTINI, Alchimia, architettura e spiritualità in Alessandro VII, Roma, 2007

5.

V. ZARA, Musica e Architettura tra Medio Evo e Età Moderna, Acta Musicologica, [Vol.] 77, [Fasc.] 1 (2005), pp. 1-26

6.

G. MUSCA, Castel del Monte, il reale e l'immaginario, in G. Saponaro, Castel del Monte, Bari Mario Adda Editore pp. 23-62

7.

I. CALVINO, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano 1988 p.110

Dettaglio della lanterna

Analisi geometrico-musicale

Parallelismi tra architettura e musica

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Bibliografia

Sulla Chiesa dell’Assunta presso Ariccia E. Lucidi, Memorie storiche dell'antichissimo municipio ora terra dell'Ariccia, e delle sue colonie di Genzano e Nemi, Roma, 1796. F. Petrucci, Santa Maria Assunta Collegiata insigne ed altre chiese minori in Ariccia, Arti Grafiche Ariccia, Ariccia 1987. R. Wittkower, Arte e architettura in Italia 1600-1750, Einaudi, Torino 1993. Catalogo della mostra “L’Ariccia del Bernini”. Curatori della mostra e del catalogo: Maurzio Fagiolo dell’Arco, Francesco Petrucci. Edizioni De Luca, Roma, 1998. Letteratura tecnica A. Kiercher, Musurgia Universalis, typographia Haeredum Prancisei Corbelletti, Roma 1650 C.Fontana, Templum Vaticanum et ipsius origo, Gio. Francesco Bagni, Roma 1694. G. Vasari, Le tecniche artistiche, a cura di G. Baldwin Brown, Vicenza, Neri Pozza, 1996, pp. 149-150 Comune di Roma, Manuale del recupero del Comune di Roma, DEI Editore, Roma 1997. C.Conforti, Lo specchio del cielo. Forme, significati, tecniche e funzioni della cupola dal Patheon al Novecento, Electa, Milano 1997. N. Marconi, Edificando Roma barocca. Macchine apparati maestranze e cantieri tra XVI e XVIII secolo, Edimond, città di Castello 2004. N. Marconi, Nicola Zabaglia and the School of Practical Mechanics of St. Peters's Fabbrica in Rome, In: Nexus Network Journal, vol. 11, n.2, 2009, pp. 183-200. N. Marconi, R. Sabene, Fedeltà e sperimentazione. La Fabbrica di San Pietro in Vaticano attraverso cinque secoli di storia, in "Osservatore Romano" , 9 aprile 2011.

28.IX.2012


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