La Nuova Decade N° 3

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LA NUOVA DECADE SUGGESTIONI DI LETTERATURA PSICOANALISI E FILOSOFIA

NUMERO 3

ANNO 2022

MESE MARZO

PERIODICO BIMESTRALE


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La Nuova Decade

Proprietario e Direttore editoriale

Marchio editoriale l’inconscio®

Direttore responsabile

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Periodicità bimestrale

Manuela Bassetti

Edoardo Gagliardi

P.IVA 08216650963

lanuovadecade@gmail.com

Manuela Bassetti, Edoardo Gagliardi

Copertina

Progettazione grafica

Illustrazione di Ramòn Casas (1900)

Manuela Bassetti, Edoardo Gagliardi

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I mostri sono reali e anche i fantasmi sono reali. Vivono dentro di noi e, a volte, vincono. (Stephen King)

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EDITORIALE di Edoardo Gagliardi

LA NUOVA DECADE... TRE, IL NUMERO PERFETTO La Nuova Decade è in continua evoluzione: di numero in numero prende forma un

progetto ambizioso e ricco di novità. Perché contiamo sull’interesse crescente dei nostri lettori e delle nostre lettrici e per questo, anche per il terzo numero, ci siamo impegnati a offrire dei contenuti di qualità e degli ospiti d’eccezione.

Scopriamo di più sulla vita e la carriera del violoncellista Claudio Ronco e poi, tra ci-

nema e letteratura, trovate un’intervista esclusiva al docente di Letteratura tedesca ed esperto di fantascienza Alessandro Fambrini.

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se la fantascienza è sempre meno fanta e sempre più realtà, il Prisma filosofico di questo numero ospita il dialogo tra un filosofo e una psicoanalista sull’intelligenza artificiale e la realtà virtuale. Come la tecnologia ha cambiato e cambierà gli esseri umani e la società?

E poi ancora, riflessioni filosofiche per analizzare l’intreccio tra filosofia moderna e

intelligenza artificiale, nonchè la presenza di Sigmund Freud tra le pagine dei romanzi di Stephen King e di Emmanuel Carrère. Buona lettura.

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LA MEMORIA E LE SUE TRACCE di Manuela Bassetti

Il terzo numero de La Nuova Decade si apre, nella sezione dedicata alla Letteratura, con due nomi statunitensi, Stephen King e Philip Dick. In entrambe le opere presentate viene posto al centro della riflessione il tema della memoria.

Nel racconto Il corpo di Stephen King si tratta di un viaggio a ritroso nel tempo, nel

cuore verde e bruno di una caldissima estate nel Maine, agli inizi degli anni Sessanta. Lungo il labirinto dei ricordi, emergono la nostalgia (agrodolce) verso la magia dei dodici anni, quel periodo della vita fatto di trepide attese, sogni emozionanti, piccoli grandi segreti celati agli occhi disincantati degli adulti. Con superba maestria, la penna di King ci regala una storia sull’amicizia che soltanto l’infanzia e la prima adolescenza riescono a preservare dall’asprezza e dalla violenza della vita.

Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a 12 anni. Gesù, ma chi li ha? Un racconto che è un dono per chi desidera rivivere i desideri, i turbamenti, le malinconie e gli incanti di quel tempo che ormai tutti custodiamo nel baule dei ricordi. Ma un racconto che è anche una profonda riflessione sulle responsabilità degli adulti in merito al futuro dei giovani (le colpe dei padri ricadono sui figli?), sulla difficoltà nel comunicare ciò che palpita negli abissi dell’anima (le cose più importanti sono le più difficili da dire), su quanto sia complicato, per ogni adolescente e per ogni adulto, scalfire le proprie solitudini e percorrere a testa alta il proprio cammino (questa è la cosa peggiore: quando il segreto rimane chiuso dentro non per mancanza di uno che lo racconti ma per mancanza di un orecchio che sappia ascoltare).

Il romanzo Io sono vivo, voi siete morti dello scrittore francese Emmanuel Carrère è

invece una biografia dedicata alla vita, allucinante e allucinata, del celebre autore di fantascienza Phlip Dick. In questo caso, dunque, il tema della memoria scorre lungo le orme lasciate da Dick durante la sua esistenza, a partire dall’infanzia segnata dalla morte della gemella Jane, per poi passare attraverso le maglie di un’adolescenza costellata di visite psichiatriche, letture e giradischi, fino ad approdare a una vita adulta caotica, disordinata, dolorosa e affascinante, dentro un caleidoscopio di matrimoni, droghe, crisi mistiche, ricoveri ospedalieri e soprattutto tanta, tanta scrittura. Nel suo libro, Carrère ci offre il ritratto di un uomo tormentato, folle e visionario, imprigionato dai suoi demoni interiori, i suoi fantasmi paranoici, le sue fobie claustrofobiche, e allo stesso tempo proiettato nel mondo grazie ai suoi libri, alla sua mente fuori dal comune, alla sua ricerca metafisica della verità.

La realtà è quella cosa che quando smetti di crederci non svanisce. 6



La ricerca del vero, compresa la ricerca

dell’origine di tutte le cose, che alcuni chiamano Dio, altri Big Bang, altri Caso, altri con mille nomi ancora, è sempre stato un impulso profondo dell’essere umano. Eppure, a distanza di migliaia di anni, il mistero è ancora fitto. Anzi, paradossalmente, più la scienza ha fatto progressi, più il mistero è sembrato infittirsi. Come se ad ogni passo che l’umanità compie in avanti, la verità ultima delle cose facesse un passo indietro, celandosi dietro un velo che non riusciamo mai a sollevare.

E allora, nella sezione riguardante la Fi-

losofia, ci interroghiamo sul ruolo che l’Intelligenza artificiale potrebbe avere in questa ricerca. Se l’Intelligenza artificiale acquisisse capacità mentali e psichiche molto più sofisticate di quelle umane, sarebbe in grado di cogliere quella verità che a noi da sempre sfugge? Sarebbe in grado di rispondere ai grandi quesiti della metafisica, della spiritualità, della religione? Oppure, l’Intelligenza artificiale del futuro, appartenendo a una dimensione totalmente diversa da quella umana (una dimensione, per esempio, dove non esistono limiti spaziali e temporali e dove quindi, in un certo senso, non esiste nemmeno la morte) sarebbe orientata verso nuove categorie del pensiero e del ragionamento, dove queste domande, tipicamente umane, non troverebbero più ragione d’essere?

Naturalmente, noi de La Nuova Decade non abbiamo nessuna risposta esaustiva in tal senso. L’evoluzione del mondo,


nel corso di questo millennio appena iniziato, è ignota a noi quanto a voi. L’unica cosa che possiamo fare, come redazione di una rivista culturale del 2022, è provare a porre interrogativi, provocazioni, spunti di riflessione. Il nostro obiettivo, infatti, resta quello di stimolare il pensiero critico, il dibattito, così come la comparsa di idee, opinioni, punti di vista.

In una società dove è sempre più difficile confrontarsi senza isterismi, insulti reciproci

e pregiudizi, il nostro obiettivo consiste nel portare avanti un progetto culturale in cui sia ancora possibile dialogare in modo costruttivo, attraverso la condivisione di pensieri, storie di vita, esperienze artistiche ed esistenziali. Per questo, nelle riflessioni psicologiche e psicoanalitiche sulla letteratura, negli articoli e nei dialoghi filosofici, nelle interviste agli ospiti del nostro “salotto”, cerchiamo sempre di lasciare spazio alla pluralità delle voci, senza sentenziare nulla in forma cattedratica, ma con la speranza che alla coralità delle nostre voci si aggiungano le voci, i pensieri e le emozioni di voi lettori. Una sorta di grande rete impalpabile fatta di menti, inconsci, intuizioni. Una rete impalpabile ma preziosa, che pulsa, palpita, respira e cresce, arricchendosi del contributo di ciascuno di noi e di voi. Buona lettura.

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SOMMARIO MARZO 2022 FREUD TRA LE RIGHE VOCI AMERICANE Il corpo (Stand by me) di Stephen King BIOGRAFIA DELL’ANIMA Io sono vivo, voi siete morti di Emmanuel Carrère

PRISMA FILOSOFICO DIALOGO TRA UN FILOSOFO E UNA PSICOANALISTA Intelligenza artificiale e tecnologia virtuale: minaccia o opportunità per l’uomo del nuovo millennio? UOMO - MACCHINA Esseri umani, automi e intelligenza artificiale.

IL SALOTTO DI MANU & EDO MUSICA Viaggio nella biografia, umana e artistica, del celebre violoncellista Claudio Ronco LETTERATURA Intervista al professor Alessandro Fambrini, docente di Letteratura tedesca ed esperto di fantascienza

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FREUD TRA LE RIGHE

Psicoanalisi nella letteratura

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PICCOLA GUIDA DI LETTURA PER CHI HA GIÀ LETTO I LIBRI, PER CHI LI LEGGERÀ E PER CHI NON LI VUOLE LEGGERE!

Negli articoli dedicati a questa sezione della rivista, vengono narrate le trame dei ro-

manzi e dei racconti selezionati, al fine di mettere in luce le tematiche psicoanalitiche presenti in ciascuna storia. Siccome la disamina psicologica dei libri comprende l’intero arco della narrazione (incluso il finale), la scelta di come avvicinarsi a tali articoli può essere variabile, a seconda delle preferenze e dei gusti del lettore.

A coloro che hanno già letto i libri, e che pertanto ne conoscono già la trama, basterà

leggere gli articoli proposti, i quali ci auguriamo possano offrire nuovi spunti di riflessione e d’introspezione, nonchè nuove prospettive di lettura e di approfondimento.

Coloro che invece non hanno ancora letto i libri descritti negli articoli, possono leg-

gere quelli di loro interesse prima di cominciare l’articolo ad essi dedicato, così da assaporare il piacere della narrazione senza spoiler, e soltanto in seguito andare a scoprirne le chiavi di lettura psicoanalitiche. Viceversa, coloro che non hanno il tempo o la voglia di avventurarsi per intero nei libri proposti, possono tranquillamente leggere da subito gli articoli, come se fossero essi stessi dei brevi racconti, in cui il lettore può comunque fare esperienza della storia nella sua completezza. Se poi riuscissimo a farvi innamorare di qualche libro, per cui vi venisse il desiderio irrefrenabile di leggerlo tutto, non potremmo che esserne felici!

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Manuela Bassetti

VOCI AMERICANE

IL CORPO (STAND BY ME) dalla raccolta di racconti Stagioni diverse

di Stephen King Le cose più importanti sono le più difficili da dire. Sono quelle di cui ci si vergogna, poiché le parole le immiseriscono: le parole rimpiccioliscono cose che finché erano nella vostra testa sembravano sconfinate, e le riducono a non più che a grandezza naturale quando vengono portate fuori. Ma è più che questo, vero? Le cose più importanti giacciono troppo vicine al punto dov’è sepolto il vostro cuore segreto, come segnali lasciati per ritrovare un tesoro che i vostri nemici sarebbero felicissimi di portare via. E potreste fare rivelazioni che vi costano per poi scoprire che la gente vi guarda strano, senza capire affatto quello che avete detto, senza capire perché vi sembrava tanto importante da piangere quasi mentre lo dicevate. Questa è la cosa peggiore, secondo me. Quando il segreto rimane chiuso dentro non per mancanza di uno che lo racconti ma per mancanza di un orecchio che sappia ascoltare. Titolo originale: Stand by me Casa editrice italiana: Sperling & Kupfer Anno di pubblicazione in Italia: 2013 16


QUARTA DI COPERTINA Alla fine dell’estate, Gordie e i suoi tre migliori amici, spinti dalla voglia di avventura, vanno alla ricerca del cadavere di un loro coetaneo scomparso. Motivati dal desiderio (ognuno per una ragione diversa) di riscattarsi e diventare degli eroi, si mettono in cammino lungo i binari della ferrovia. Dovranno superare momenti di fatica, paura e mille ostacoli, fra cui anche quello di doversi scontrare con i bulli, e scopriranno che i mostri non si nascondono dentro gli armadi, ma nel cuore delle persone.

TRATTEGGI D’AUTORE Stephen King nacque il 21 settembre 1947 a Portland, nel Maine, da una famiglia di modeste origini. Nonostante le ristrettezze economiche e i frequenti cambi di abitazione, Stephen e suo fratello adottivo David Victor ricevettero una buona educazione, basata principalmente sulla passione per la letteratura e sull’ascolto della musica. King mostrò sin da giovanissimo un’attrazione spontanea verso la scrittura, eppure i suoi primi passi nel mondo dell’editoria furono tutt’altro che soddisfacenti. I suoi primi romanzi e racconti, infatti, vennero ripetutamente rifiutati e non videro mai la luce. Nonostante la laurea in Lettere, lo scrittore fu costretto a mantenersi con lavori di ogni tipo (benzinaio, spazzino, bibliotecario e inserviente in una lavanderia industriale) prima di ottenere una cattedra alla Hampden Academy di Hampden nel 1971. Dopo una serie di fallimenti, che non intaccarono la sua determinazione, nel 1974 King riuscì a pubblicare finalmente il suo primo romanzo, Carrie. Acquistato per pochi soldi dalla casa editrice Doubleday, ottenne un enorme e inaspettato successo, superando in breve tempo il milione di copie vendute: era nato lo scrittore Stephen King. Grazie ai guadagni, ulteriormente aumentati con la trasposizione cinematografica del libro, egli poté abbandonare l’insegnamento e dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Da quel momento, i suoi romanzi collezionarono milioni di copie ciascuno, proiettando King nell’olimpo degli scrittori più ricchi e famosi, ma questo non gli impedì di cadere nel baratro dell’alcolismo e della tossicodipendenza. Nel 1999 venne investito da un minivan mentre camminava per strada, incidente che gli procurò ben sette interventi chirurgici e una lunga riabilitazione, portandolo lontano dalla scrittura. Quando riprese a pubblicare, seguirono ulteriori successi editoriali. Ancora oggi l’icona quasi mitologica di Stephen King continua a brillare, mentre i suoi romanzi affollano gli scaffali delle librerie di tutto il mondo.

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IL TRAMONTO DELL’INNOCENZA Avevo dodici anni – quasi tredici – la prima volta che vidi un essere umano morto. Successe nel 1960, tanto tempo fa… anche se a volte non mi pare così lontano. Soprattutto la notte quando mi sveglio da quei sogni in cui la grandine cade nei suoi occhi aperti.

Così esordisce il narratore del racconto, Gordie Lachance, uno scrittore trentenne che

ha già alle spalle milioni di copie vendute – forse un alter ego dello stesso Stephen King.

In quella torrida estate verde e bruna del Maine, nella polverosa cittadina di Castle Rock, un gruppetto di amici si ritrovava ogni giorno nella casa sull’albero, un rudere fatto di assi e di lamiere, miracolosamente aggrappato a un grande olmo. Una specie di circolo sociale, come lo definisce Lachance durante il suo viaggio della memoria. I più assidui del gruppo, gli inseparabili, erano quattro: Teddy Duchamp, Vern Tessio, Chris Chambers e lo stesso Gordie. Quattro amici che passavano il tempo giocando a carte, scambiandosi vecchie barzellette e fumando di nascosto. Quattro amici che pensavano già con una fitta di malinconia alla fine dell’estate, alla ripresa della scuola, alla rinuncia di quei pigri pomeriggi imbionditi da un sole cocente. Ma come il giovane Lachance capirà soltanto molto tempo dopo, quel limbo di fine estate segnò anche la fine dell’infanzia e l’ingresso nell’adolescenza, quell’incerto un pugno di anni che ti strappa all’innocenza dello sguardo, ai sogni ad occhi aperti, ai legami che sembrano eterni, per catapultarti dritto nell’età adulta – un’età aspra, dura, inclemente, in cui tutti, per certi versi, si resta irrimediabilmente, inconfutabilmente soli. E tuttavia, nella rovente estate del 1960, quel gruppetto di ragazzini era ancora lontano dall’intuire tutto ciò: ancora leggeva il mondo attraverso la chitarra di Roy Orbison, i film di John Wayne e i lanci mozzafiato dei Red Sox.

Nella casa sull’olmo non ci si ritrovava soltanto per ammazzare il tempo, in attesa di

avere l’età per comprarsi una bottiglia di liquore, guidare la macchina e uscire con le ragazze: dentro quel nido arrugginito ognuno dei quattro amici cercava riparo da un dolore diverso, un dolore di cui non si poteva parlare (sarebbe stata roba da femminucce!), un dolore di cui a volte non se ne comprendeva fino in fondo la portata, ma che era proprio lì, al centro dell’anima, un animale selvaggio che fruga, graffia, morde. Una belva dai denti aguzzi da cui soltanto facendo gruppo, a dodici anni, ci si può salvare.

Dei quattro, il tipo più strano, ricorda Lachance, era Teddy Duchamp. Aveva quasi tre-

dici anni come tutti noi, ma quelle lenti spesse e l’apparecchio acustico qualche volta lo

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facevano sembrare un vecchio. I ragazzi cercavano sempre di scroccargli una sigaretta, in strada, ma il rigonfio nella camicia era solo la batteria dell’apparecchio acustico. Nonostante gli occhiali e il bottone color carne sempre infilato nell’orecchio, Teddy non vedeva molto bene e spesso non capiva quello che gli si diceva. A baseball bisognava metterlo in fondo, molto oltre Chris sulla sinistra e Billy Greer sulla destra. Si sperava solo che nessuno ne lanciasse una così lontano perché Teddy le sarebbe andato dietro sparato, che la vedesse o meno. Ogni tanto ne prendeva una buona, e una volta finì in pieno contro la rete vicino all’albero della casa. Rimase steso sul dosso con gli occhi sbarrati per quasi cinque minuti, e io mi spaventai. Poi si riebbe e si mise a girare col naso sanguinante e un enorme livido blu sulla fronte, sostenendo che il tiro era irregolare.


Se la vista era cattiva per motivi naturali, non c’era niente di naturale in quello che gli era capitato alle orecchie. A quei tempi, quando era normale farsi tagliare i capelli in modo che le orecchie sporgevano come un paio di manici, Teddy portava il primo taglio alla Beatles mai visto a Castle Rock — quattro anni prima che in America si sentisse parlare dei Beatles. Si teneva le orecchie coperte perché sembravano due grumi di cera fusa. Un giorno, quando aveva otto anni, il padre di Teddy si infuriò con lui perché aveva rotto un piatto. La madre era al lavoro nella fabbrica di scarpe quando successe, e quando lo venne a sapere era già tutto accaduto. Il padre trascinò Teddy alla grande stufa a legna in fondo alla cucina e gli schiacciò il lato della testa contro una delle piastre di ferro dove si appoggiano le pentole per cucinare. Ce lo tenne per una decina di secondi. Poi lo tirò su per i capelli e fece l’altro lato. Poi chiamò l’ambulanza del Central Maine General Emergency e disse di venire a prendere suo figlio. Poi mise giù il telefono, andò in salotto, prese il suo calibro 410 e si mise seduto a guardare la TV col fucile sulle ginocchia. Quando Mrs. Burroughs, l’inquilina della porta accanto, venne a vedere se Teddy stava bene — aveva sentito le urla — il papà di Teddy le puntò contro il fucile. Mrs. Burroughs schizzò dalla casa dei Duchamp più o meno alla velocità della luce, e chiamò la polizia. Quando arrivò l’ambulanza, Mr. Duchamp fece entrare i barellieri e poi uscì sul portico per rimanere di guardia mentre loro caricavano Teddy sulla vecchia ambulanza Buick con una barella. Il papà di Teddy spiegò agli infermieri che anche se quei fottuti di generali dicevano che la zona era stata ripulita, c’erano ancora dappertutto dei crucchi franchi tiratori. Uno degli infermieri chiese al

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papà di Teddy se pensava di poter resistere. Il papà di Teddy fece un sorriso tirato e disse all’infermiere che avrebbe resistito finché l’inferno non fosse diventato un frigorifero, se necessario. Il barelliere fece il saluto, e il papà di Teddy gli rispose scattando. Qualche minuto dopo che l’ambulanza era andata via, arrivò la polizia di stato e sollevò Norman Duchamp dalla sua consegna. Era più di un anno che stava facendo cose strane, tipo sparare ai gatti e accendere il fuoco nelle cassette postali, e dopo l’atrocità che aveva perpetrato sul figlio, gli fecero un processo rapido e lo spedirono a Togus, che è una specie di ospedale per veterani. Togus è dove devi andare se sei un sezione otto. Il papà di Teddy aveva preso la spiaggia di Normandia, come l’ha sempre messa Teddy. Teddy era orgoglioso del suo vecchio nonostante quello che gli aveva fatto, e andava a fargli visita tutte le settimane. Oltre ad essere quasi cieco e quasi sordo, Teddy era il più tardo di quelli con cui andavamo in giro, probabilmente, ed era matto. Correva i rischi più folli che si possano immaginare, e la faceva sempre franca. La cosa più grossa era quello che chiamava «scansacamion». Spuntava all’improvviso davanti ai camion, sulla 196, e a volte quelli lo mancavano per un pelo. Lo sa Dio quanti attacchi di cuore deve aver provocato, e rideva mentre il gas di scarico del camion che passava gli agitava i vestiti. Ci terrorizzava perché aveva una vista che faceva schifo, con o senza quegli occhiali a fondo di Coca cola. Pareva solo una questione di tempo, quando avrebbe finalmente sbagliato i conti con uno di quei camion. E bisognava star attenti a che cosa lo si sfidava a fare, perché Teddy, sfidato, avrebbe fatto qualsiasi cosa.

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A differenza di Teddy Duchamp, Vern Tessio era un ragazzino cicciottello e un po’

fifone, uno che le sparava più grosse di com’erano veramente, e che da quattro anni a questa parte aveva un’ossessione per cui gli altri lo prendevano in giro di continuo. Quando aveva otto anni, Vern seppellì una brocca da un quarto piena di penny sotto il lungo portico davanti casa sua. Vern chiamava quel luogo buio sotto il portico la sua «caverna». Faceva una specie di gioco dei pirati, e i penny erano il tesoro sepolto, solo che se giocavate con Vern ai pirati non potevate chiamarlo tesoro sepolto, dovevate chiamarlo «bottino». Insomma, seppellì in profondità la brocca di monete, riempì la buca e coprì il terreno fresco con un po’ delle foglie secche che aveva accumulato là sotto negli anni. Disegnò una mappa del tesoro e la mise in camera sua col resto della sua roba. Per un mesetto si scordò di tutto. Poi, a corto di soldi per il cinema o per qualcosa, si ricordò dei penny e andò a prendere la sua mappa. Ma la mamma aveva fatto pulizia due o tre volte da allora, e aveva raccolto tutti i vecchi fogli dei compiti e le carte dei dolci e i fumetti e i giornali di barzellette. Una mattina li aveva bruciati nella stufa per accendere il fuoco per cucinare, e la mappa del tesoro di Vern se n’era andata in fumo su per il camino. O almeno lui così se l’era immaginato. Aveva tentato di ritrovare il posto a memoria e si era messo a scavare. Non aveva avuto fortuna. A destra e a sinistra di quel punto. Ancora niente fortuna. Per quel giorno ci aveva rinunciato, ma da allora usciva a scavare ogni volta che lo spirito lo spingeva. E ogni volta strisciava da sotto il portico con i jeans sporchi, i capelli infangati e le mani vuote. Quattro anni, gente. Quattro anni. Non è pazzesco? Non sai se ridere o piangere.

Il più duro del gruppo, ma anche il più maturo - quello che aveva dovuto crescere

più in fretta di tutti – era Chris Chambers. Chris non parlava mai troppo di suo padre, ma sapevamo tutti che lo odiava come il veleno. Ogni paio di settimane, compariva segnato, graffi sulle guance e sul collo o un occhio gonfio e variopinto come un tramonto, e una volta venne a scuola con una grossa fasciatura dietro la testa. Altre volte non ci veniva affatto, a scuola. La madre gli faceva la giustificazione perché era troppo malconcio per venire. Chris era in gamba, davvero in gamba, ma faceva una quantità di assenze e Mr. Haliburton, l’agente che in paese si occupava della scuola, si presentava continuamente a casa di Chris, con la sua vecchia Chevrolet nera con l’adesivo NIENTE PASSAGGI sull’angolo del parabrezza. Se Chris bigiava e Berte (come lo chiamavamo — ma sempre alle sue spalle, è chiaro) lo coglieva, lo portava di peso a scuola e vedeva che Chris si prendesse una settimana di punizione. Ma se Berte scopriva che Chris era a casa perché il padre l’aveva menato, se ne andava via senza dire ba. Non mi venne in mente di mettere in dubbio questa scala di valori se non una ventina di anni dopo. L’anno prima Chris era stato sospeso dalla scuola per tre giorni. Erano scomparsi i soldi del latte quando era il turno di Chris di raccoglierli e dato che lui era un Chambers di quei Chambers che non contano niente, si beccò la punizione anche se aveva sempre giurato di non essere stato lui. Fu quella volta che Mr. Chambers mandò Chris 23


per una notte all’ospedale. Quando sentì che Chris era stato sospeso gli ruppe il naso e il polso destro. Chris veniva da una brutta famiglia e tutti pensavano che avrebbe fatto una brutta fine... lui compreso. I suoi fratelli erano stati all’altezza delle aspettative del paese in maniera ammirevole. Frank, il maggiore, era scappato da casa quando aveva diciassette anni, si era arruolato nella marina ed era finito con una lunga condanna a Portsmouth per aggressione e violenza carnale. Il secondo, Richard (l’occhio destro era tutto strano e pieno di tic, e per questo tutti lo chiamavano Eyeball) aveva abbandonato la scuola al decimo delle superiori, e si era messo a farsela con Charlie, Billy Tessio e i loro amici delinquenti.

E infine c’era Gordie Lachance, il futuro scrittore milionario, che nel 1960 era soltanto

un “ragazzo invisibile”. Ad aprile mio fratello maggiore, Dennis, era rimasto ucciso in un incidente di jeep. Era successo al Fort Benning, in Georgia, dove faceva l’addestramento da recluta. Lui e un compagno stavano andando allo spaccio e un camion dell’esercito li aveva presi di lato. Dennis era rimasto ucciso sul colpo e il suo passeggero era in coma fino da allora. Dennis avrebbe fatto ventidue anni alla fine di quella settimana. Gli avevo già comprato un biglietto di auguri al Dahlie’s su a Castle Green. Piansi quando lo seppi, e piansi ancora al funerale, e non riuscivo a credere che Dennis se ne fosse andato, che uno che mi picchiava in testa o mi spaventava con un ragno di gomma finché non mi mettevo a piangere o mi dava un bacio quando cadevo e mi sbucciavo tutt’e due le ginocchia e mi mormorava all’orecchio, «Ora basta piangere, moccioso!» — che una persona che mi aveva toccato potesse essere morta. Mi offendeva e mi spaventava che potesse essere morto... ma ai miei genitori pareva aver strappato via il cuore. Per me, Dennis era poco più che un conoscente. Aveva dieci anni più di me, capite, e aveva compagni e amici suoi. Mangiammo alla stessa tavola per un sacco di anni, e a volte era il mio amico e a volte il mio tormentatore, ma per lo più era, capite, solo un tizio. Quando morì era via da un anno a parte un paio di permessi. Non ci assomigliavamo neppure. Mi ci volle molto tempo dopo quell’estate per rendermi conto che la gran parte delle lacrime che piansi erano per mamma e papà. In realtà, nella famiglia Lachance, Gordie era il figlio invisibile già molto tempo prima della morte del fratello maggiore. Concepito involontariamente, quando ormai la signora Lachance pensava di essere al riparo da future gravidanze, era sempre vissuto all’ombra del fratello maggiore – il figlio prediletto, la stella luminosa della casa, l’orgoglio dei genitori. A cena era tutto un Denny quanti fuoricampo hai fatto e Denny chi hai invitato al ballo di Sadie Hopkins e Denny volevo parlarti da uomo a uomo di quella macchina a cui stiamo pensando. Io dicevo: «Passami il burro» e papà diceva: Denny sei sicuro che l’esercito è proprio quello che vuoi? Io dicevo: «Passami il burro, sì?» e mamma chiedeva a Denny se voleva che gli prendesse una delle camicie Pendleton in vendita in paese, e io finivo col prendermi il burro da solo. In una situazione familiare del genere, quello che può succedere è o che odi tuo fratel24


lo grande o che lo idolatri disperatamente — almeno questo ti insegnano a psicologia al college. Stronzate, eh? Per quello che posso dire, non mi sentivo né in un modo né nell’altro, con Dennis. Litigavamo raramente e mai ci facemmo una scazzottata. Sarebbe stato ridicolo. Ve lo vedete uno di quattordici anni che cerca un pretesto per suonarle al fratello di quattro? E i nostri vecchi erano sempre un po’ troppo impressionati da lui per appesantirlo della cura del piccolo, per cui non ha mai avuto nei miei confronti quel risentimento che spesso i fratelli maggiori provano per i più piccoli. Quando Denny mi portava con sé da qualche parte era sempre di sua volontà, e quelle occasioni sono tra i momenti più felici che posso ricordare. Ma non erano tanti i momenti così. A volte mi leggeva prima di dormire storie che erano più belle di quelle di mamma; le storie di mamma erano sull’Uomo di pan di zenzero o sui Tre porcellini, roba buona, ma quelle di Dennis erano storie come Barbablu e Jack lo Squartatore. E, come ho già detto, mi insegnò a giocare a cribbage e a mescolare le carte in quel modo. Non tanto, ma, ehi! in questo mondo si prende quel che si può: ho torto? Crescendo, i miei sentimenti di amore per Dennis furono sostituiti da un timore reverenziale pressoché clinico, quel genere di timore che i cristiani così così provano per Dio, credo. E quando morì, fui moderatamente scosso e moderatamente rattristato, come penso che dovettero sentirsi quei cristiani così così quando Time disse che Dio era morto. Mettiamola così: mi dispiacque per la morte di Denny come quando sentii alla radio che era morto Dan Blocker. Li vedevo tutti e due praticamente con la stessa frequenza, e Denny non ebbe mai nemmeno una replica in televisione. Fu sepolto in una bara chiusa, con la bandiera americana sopra (tolsero la bandiera dalla cassa prima di metterla finalmente nella fossa e la piegarono — la bandiera, non la cassa — a tricorno e la diedero a mia madre). I miei genitori andarono proprio in pezzi. Quattro mesi non erano stati sufficienti per rimetterli insieme; non sapevo se ci sarebbero mai tornati. La camera di Denny era rimasta come un’immagine bloccata a una porta di distanza dalla mia — un’immagine bloccata o forse una curva del tempo. I gagliardetti del college Ivy League erano ancora sulle pareti, e le foto delle ragazze con cui aveva avuto degli appuntamenti erano ancora infilate nella cornice dello specchio, davanti al quale se ne stava per periodi che parevano di ore a pettinarsi alla Elvis. I cumuli di True e di Sports Illustrated erano rimasti sulla sua scrivania, con le date che apparivano sempre più antiche col passare del tempo. Il genere di cose che si vedono nei film strappalacrime. Ma per me non era sentimentale, era terrificante. Non entravo in camera di Denny se non ci ero costretto perché mi aspettavo sempre che lui fosse dietro la porta o sotto il letto, o nell’armadio. Soprattutto era l’armadio che sollecitava la mia fantasia e se mia madre mi mandava a prendere l’album di cartoline di Denny, o la scatola da scarpe con tutte le foto, per guardarle, immaginavo quella porta che si apriva lentamente mentre io rimanevo incatenato sul posto dall’orrore. Lo immaginavo pallido e coperto di sangue nell’oscurità, il lato della testa

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schiacciato, un impasto grigio e venoso di sangue e cervello secco sulla camicia. Immaginavo il braccio che si alzava, le mani insanguinate piegarsi ad artiglio, e la voce gracchiare: “Dovevi essere tu, Gordon. Dovevi essere tu”.

Ecco dunque che nello speciale club dell’olmo rientrano a pieno titolo: un dodicenne

massacrato dal padre veterano di guerra, uomo a sua volta vittima di un disturbo da stress post traumatico e che Teddy finisce per venerare pur di non ammettere a se stesso le atrocità subite; un ragazzino goffo e insicuro, terrorizzato dal fratello maggiore Billy, per il quale ogni scusa è buona per prendere di mira il fratellino e conciarlo per le feste a furia di calci, pugni e insulti; un figlio pestato un giorno sì e un giorno no dal padre alcolizzato, che nessuno (né la madre, né gli insegnanti, nè la polizia) si preoccupa minimamente di proteggere; un ragazzino che è sempre vissuto nel cono d’ombra proiettato da Danny, il sole della famiglia, e che in fondo al cuore è convinto che tutti, genitori compresi, avrebbero preferito fosse morto al posto dell’amatissimo fratello maggiore.

I giorni estivi passano indolenti, ma proprio durante l’ultimo venerdì di vacanza, ecco

Vern portare in dono agli altri amici un segreto tanto succulento quanto pericoloso. «Gente, volete vedere un morto?» Ci bloccammo tutti. Mentre era intento a cercare il suo prezioso bottino sotto il portico, Vern aveva orecchiato il fratello Billy parlottare con Charlie Hogan, uno dei tipi più tosti tra i ragazzi grandi. A quell’epoca, Charlie e Billy andavano in giro con due ragazze che si chiamavano Marie Dougherty e Beverly Thomas; due tipe così rozze si vedono difficilmente fuori da uno spettacolo di carnevale - foruncoli, baffi, tutto quanto. Qualche volta loro quattro (o magari in sei o otto se c’erano anche Fuzzy Bracowicz o Ace Merrill con le ragazze) si facevano una macchina in un parcheggio di Lewiston e se ne andavano in giro per la zona con due o tre bottiglie di vino, Wild Irish Rose, e una confezione da sei di Ginger Ale. Portavano le ragazze a parcheggiare da qualche parte, a Castle View o a Harlow o a Shiloh, bevevano Purple Jesus, e se le facevano. Poi mollavano la macchina da qualche parte vicino casa. E fu proprio durante una di quelle scorribande ad Harlow, a bordo di un’auto rubata, che Charlie e Billy inciamparono per puro caso nel cadavere di Ray Brower, un ragazzo della stessa età dei protagonisti. Il povero Ray era uscito di casa pochi giorni prima, pentola alla mano, per raccogliere dei mirtilli. Quando si era fatto buio e non era ancora rientrato a casa, i signori Brower, allarmati, avevano chiamato lo sceriffo. La macchina delle ricerche si era messa subito in moto e aveva coinvolto decine di professionisti e volontari, ma il risultato era stato totalmente infruttuoso, lasciando presagire che il ragazzo fosse morto – forse aveva perso l’orientamento e si era smarrito nella foresta al limitare di Castle Rock, forse era precipitato in una cava di pietre, forse era annegato in una roggia o il suo cadavere

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giaceva sul fondo del lago artificiale di Morton. Fatto sta che la notizia della scomparsa di Ray Brower riempiva ancora i programmi radiofonici locali quando Charlie e Billy avevano trovato il corpo del giovane, investito da un treno mentre seguiva le rotaie (nella speranza che lo conducessero fuori dal bosco?) e scaraventato in qualche punto imprecisato di Back Harlow Road.

«Allora, insomma, volete venire a vederlo?» chiese Vern. Continuava a gironzolare saltellando come se dovesse andare al gabinetto, tanto era eccitato. Lo guardammo tutti a lungo, e nessuno diceva niente. Poi Chris buttò giù le sue carte e disse: «Certo! E scommetto qualunque cosa che avremo la foto sui giornali!» «Sì?» fece Vern. «È vero?» disse Teddy, col suo sorriso folle da scansacamion. «Pensate», disse Chris, allungandosi sul tavolo da gioco traballante. «Possiamo trovare il corpo e avvertire! Saremo nella cronaca!» Comincia così l’avventura di due giorni che porterà i quattro amici lungo la vecchia ferrovia Great Southern and Western Maine, oltre il letto le fiume Castle River, costeggiato dalla foresta di pini e abeti rossi, trasformati in colonne azzurrine dalla foschia del calore estivo. Tuttavia, non sarà soltanto un viaggio verso il mistero della morte, quell’evento che a dodici anni pensi non ti riguardi nel modo più assoluto, ma che all’improvviso piomba sulla vita di un ragazzino come te, uscito di casa per cercare mirtilli e mai più tornato. Né sarà soltanto l’attrazione macabra, scabrosa e perturbante verso la vista di un morto - Ehi gente, chi l’ha mai visto un cadavere? Chi l’ha mai visto il cadavere di un ragazzo? No. Sarà anche (e soprattutto) la ricerca di un riscatto. Il riscatto nei confronti dell’invisibilità (Dovevi essere tu, Gordon, dovevi essere tu!), del bullismo (Billy lo avrebbe ridotto in modo tale che quello che ne rimaneva potevate metterlo in un barattolo di cibo per cani), dei pestaggi (il padre di Chris era sempre «di cattivo umore», più o meno), delle atrocità familiari che non si possono dire (Mio papà ha fatto lo sbarco in Normandia, è un eroe!). Il possibile riscatto di quattro dodicenni dal futuro incerto, oscuro, ignoto. Finire sui giornali, essere applauditi come degli eroi! Eppure, alla fine, la loro scarpinata lungo i binari non si rivelerà neppure questo. Quello che sarà realmente la ricerca del corpo di Ray Brower è l’ultimo singulto della loro innocenza, dell’amicizia fraterna che si sgretola quando l’incanto dell’infanzia finisce. I due giorni nel bosco saranno gli ultimi che i quattro amici trascorreranno insieme, prima che la vita (scolastica e non solo) li separi per sempre. Da quella breve avventura torneranno interiormente cambiati, più distanti, più disincantati, ciascuno un po’ più solo perchè più vicino all’età adulta - l’età che nulla perdona. E ciascuno un po’ più vicino al suo destino.

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A

parte Gordie Lachance, il dodicenne che amava raccontare storie, l’unico che si sapeva sarebbe andato al college, tutti gli altri hanno il fato già scritto negli occhi, nella pelle, nella loro storia di vita, storia che comincia ben prima della loro nascita (una lunga espiazione che nasce dalla famiglia, dai genitori, dai fratelli - una lunga scia di violenza, alcol, solitudine, alienazione). Per ciascuno di loro non c’è scampo. La colpa dei padri (e delle madri) ricade sui figli. La tragedia dell’Edipo Re ce lo insegna, no? Vern Tessio morirà sei anni più tardi, durante un incendio scoppiato dopo una notte di bagordi. Qualcuno si era addormentato in una delle camere da letto con una sigaretta accesa. Vern stesso, forse, sbronzo, sognando dei suoi penny. Teddy Duchamp, dopo essere stato respinto dall’Air Force (l’unico suo sogno da quando era bambino, diventare un “eroe” come il padre), si darà all’alcol e alla droga. Morirà nel 1971, strafatto, in un incidente automobilistico. Una delle ragazze che erano in macchina con lui quella sera resterà in stato vegetativo e morirà anch’ella sei mesi più tardi. Anzichè la tanto agognata medaglia al valore militare, a Teddy Duchamp fu conferito il premio postumo Merda dell’Anno. Chris Chambers, che più di ogni altro desiderava andarsene da Castel Rock per riscattarsi, si iscriverà al college, nonostante il parere contrario di tutti: i familiari, gli amici, persino gli insegnanti, disgustati nel vedere quel tizio (giub-


botto di cuoio, stivaletti e aria truce) seduto in mezzo agli alunni brillanti e benvestiti della borghesia americana. Studierà come un matto tutte le sere insieme a Gordie, per recuperare le sue lacune scolastiche. Alle superiori uscivamo spesso insieme, ma con noi non veniva mai nessuna ragazza. Vi pare che eravamo diventati finocchi? La gran parte dei nostri vecchi amici, compresi Vern e Teddy, l’avrebbero pensata così. Ma era solo per la sopravvivenza. Ci aggrappavamo l’uno all’altro in acque profonde. Di Chris l’ho spiegato, credo; i miei motivi per aggrapparmi a lui erano meno definibili. Il suo desiderio di andarsene via da Castle Rock e via dall’ombra delle fabbriche mi appariva come la parte migliore di me. Alla fine, contro ogni pronostico, Chris Chambers riuscirà ad essere accettato all’Università del Maine. Ma il destino, belva in agguato, non dimentica mai le sue prede. Si accuccia nell’ombra e le aspetta con crudele pazienza. Verso la fine del 1971, Chris entrò in un Chicken Delight di Portland per il pranzo. Giusto avanti a lui, due uomini cominciarono a litigare su chi era primo nella fila. Uno dei due tirò fuori un coltello. Chris, che era sempre stato il migliore di noi a mettere pace, si mise in mezzo e si prese una coltellata alla gola. L’uomo col coltello era stato in quattro diversi penitenziari; era stato rilasciato dal Penitenziario di Stato di Shawshank solo la settimana prima. Chris morì quasi all’istante. Nessun riscatto, dunque, nessuna fuga dallo squallore della sua vita. Soltanto una fine ingiusta, paradossale, come quella che dieci anni prima aveva colto il dodicenne Ray Brower lungo i binari del treno.

Ciò che più di tutto Gordie Lachance non dimenticò mai di Chris Chambers furono

le parole che l’amico gli rivolse proprio durante la loro avventura lungo le rotaie, in quella secca, ormai lontanissima estate del 1960. Parole di un ragazzino, che avrebbero potuto essere pronunciate da un saggio millenario. Parole che sono un pugno nello stomaco. Parole che insegnano, già a dodici anni, che a volte per salvarsi occorre lasciare andare le persone, scindere i legami, avere il coraggio di prendere le distanze anche da chi si ama. Ecco la spietatezza, l’inclemenza, la dura legge dell’età adulta. Se vuoi salvarti, se non vuoi farti trascinare a fondo, a volte devi avere il coraggio di lasciare andare la presa. Non si può sempre salvare chi sta annegando. Si può solo scegliere se annegare insieme o trovare dentro di sè la forza di risalire da soli.

«Queste storie che racconti, non servono a nessuno oltre che a te, Gordie. Se continui a fartela con noi perché non vuoi che la banda si spacchi, finirai come un deficiente qualunque. Andrai alla stessa fottuta scuola commerciale a lanciare gomme e a tirare avanti insieme al resto dei deficienti. Avrai le punizioni. Le fottutissime sospensioni. E dopo un po’ la sola cosa che ti importerà sarà procurarti una macchina per portare una pollastra a fare due salti o giù alla fottuta Two Bridges Tavern. Poi la metterai incinta e passerai il resto della vita in fabbrica o in qualche fottuto calzaturificio di Auburn o magari anche su a Hillcrest a curare i polli. E quella storia delle torte non

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sarà mai scritta. Niente sarà mai scritto. Perché sarai uno dei tanti furboni con merda al posto del cervello.» Chris Chambers aveva dodici anni mentre mi diceva tutto questo. Ma mentre me lo diceva la sua faccia si era raggrinzita e trasformata in qualcosa di più vecchio, di vecchissimo, di senza età. Parlava senza tono, senza colore, ma ciononostante quello che diceva riempì di terrore le mie viscere. Era come se avesse già vissuto tutta quella vita, quella vita dove vi dicono di salire su e far girare la Ruota della Fortuna, e quella gira alla perfezione e uno spinge sul pedale e viene fuori il doppio zero, il banco vince, perdono tutti. Ti danno l’ingresso libero e poi ti mettono il secchio d’acqua sulla porta, divertentissimo, ah ha, uno scherzo che anche Vern Tessio potrebbe apprezzare. Mi afferrò per il braccio nudo e le sue dita si strinsero. Mi segnavano dei solchi nella carne. Stritolavano le ossa. I suoi occhi erano velati e morti — così morti, amico, che pareva appena uscito dalla bara. «Lo so che cosa pensa della mia famiglia la gente di questo paese. Lo so che cosa pensano di me e che cosa si aspettano. Nessuno mi ha mai nemmeno domandato se avevo preso io i soldi quella volta. Mi dettero semplicemente una vacanza di tre giorni.» «Li avevi presi tu?» chiesi. Non gliel’avevo mai chiesto, e se qualcuno mi avesse detto che un giorno l’avrei fatto, gli avrei dato del pazzo. Le parole mi uscirono come un piccolo proiettile secco. «Già», disse. «Già, li ho presi io.» Rimase in silenzio per un momento, guardando avanti verso Teddy e Vern. «Tu lo sapevi che li avevo presi io, Teddy lo sapeva. Tutti lo sapevano. Perfino Vern lo sapeva, credo.» Feci per negarlo, e poi chiusi la bocca. Aveva ragione. Nonostante tutto quello che potessi sostenere con mio padre e mia madre sul fatto che una persona deve essere ritenuta innocente finché non si dimostra colpevole, lo sapevo. «Allora forse mi pentii e cercai di restituirli», disse Chris. Lo fissai, con gli occhi sgranati. «Tu cercasti di restituirli?» «Forse, ho detto. Solo forse. E forse li portai alla vecchia Simons e glielo dissi, e forse i soldi erano tutti lì ma io ebbi lo stesso i tre giorni di vacanza, perché i soldi non sono mai saltati fuori. E forse la settimana dopo la vecchia Simons aveva quella gonna nuova nuova quando venne a scuola.» Fissai Chris, senza parole per l’orrore. Lui mi sorrise, ma era un sorriso tirato, spaventoso, che non gli arrivò mai agli occhi. «Solo forse», ripeté ancora, ma io ricordai la gonna nuova, una gonna di lana, grigio chiara. Ricordai di aver pensato che la faceva sembrare più giovane, la vecchia Simons, quasi carina. «Chris, quanti erano quei soldi?» «Quasi sette dollari.» «Cristo», mormorai. «E così diciamo che io ho rubato i soldi del latte ma poi la vecchia Simons li ha rubati a me. Supponiamo che fossi andato a raccontare questa teoria. Io, Chris Chambers. Fratello minore di Frank Chambers e di Eyeball Chambers.

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Pensi che qualcuno ci avrebbe mai creduto?» «Mai», mormorai ancora. «Gesù Cristo!» Fece ancora quel sorriso gelido, spaventoso. «E pensi che quella cagna avrebbe mai osato tentare una cosa del genere se fosse stato uno di quei fighetti su a The View a prendere i soldi?» «No», dissi. «Già. Se fosse stato uno di loro, la Simons avrebbe detto: Va be’, va be’, per questa volta perdoniamo, ma una bella bacchettata sulla mano non te la toglie nessuno e se lo fai ancora, la bacchettata sarà su tutt’e due le mani, e forte. Ma io... be’, forse teneva d’occhio quella gonna da chi sa quanto tempo. Comunque, vide l’occasione e la colse. Sono stato io l’idiota a tentare di restituire i soldi. Ma non avrei mai pensato... non avrei mai pensato che un’insegnante... oh, chi se ne fotte, comunque? perché poi ne sto parlando?» Si strofinò un braccio sugli occhi e mi resi conto che stava quasi piangendo. «Chris», dissi, «perché non vai nel corso del college? Sei abbastanza in gamba.» «Questo lo decidono tutto nell’ufficio. E nelle loro piccole eleganti riunioni. Gli insegnanti, loro siedono attorno in questo grande cerchio e tutti dicono Sì, Sì, Giusto, Giusto. Non gliene frega un cazzo a nessuno se ti sei comportato bene alle elementari e che ne pensa il paese della tua famiglia. Tutto quello che decidono loro è se contaminerai o no tutti quei preziosi fighetti destinati al college. Ma forse proverò a farcela da solo a uscirne. Non lo so se ci riesco, ma posso provare. Perché voglio andarmene da Castle Rock e andare al college e non voglio rivedere mai più il mio vecchio o i miei fratelli. Voglio andarmene in qualche posto dove nessuno mi conosce e dove non ho nessuna macchia nera addosso prima di cominciare. Ma non so se ce la faccio.» «Perché?» «La gente. La gente ti trascina giù.» «Chi?» chiesi io, pensando che si riferisse agli insegnanti, o a mostri adulti come Miss Simons, che aveva desiderato una gonna nuova, o magari a suo fratello Eyeball che se ne andava in giro con Ace e Billy e Charlie e gli altri, o magari a suo padre e a sua madre. Ma lui disse: «I tuoi amici, loro ti trascinano giù, Gordie. Non lo sai?» Indicò Vern e Teddy, che si erano fermati e aspettavano che li raggiungessimo. Stavano ridendo di qualcosa; Vern, anzi, era piegato in due dalle risate. «I tuoi amici. Sono come quelli che ti annegano attaccandosi alle gambe. Non puoi salvarli. Puoi solo annegare con loro.» «Avanti, lumache fottute!» gridò Vern, sempre ridendo. «Ecco, arriviamo!» rispose Chris, e prima che potessi dire altro, si mise a correre. Corsi anch’io, ma lui li raggiunse prima che io riuscissi a raggiungere lui.

Dopo due giorni di rocambolesco cammino, in cui ciascuno si era misurato con le

proprie paure e con il proprio coraggio, il corpo di Ray Brower fu individuato da Vern Tessio. 33


«LÀ! ECCOLO! PROPRIO LÀ! L’HO VISTO!» Posso rivedere Vern in questo stesso momento, se voglio — mi basta appoggiarmi allo schienale per un momento e chiudere gli occhi. È lì ritto sul binario sinistro come un esploratore sulla prua della sua nave, una mano a ripararsi gli occhi dalla pugnalata d’argento del fulmine appena sceso, l’altra tesa a indicare. Il corpo senza vita di Ray indossava una maglietta di cotone verde scuro e i blue jeans. Aveva i piedi nudi, e a pochi passi dietro di lui, impigliati tra i rovi, vidi un paio di scarpe da ginnastica tutte sporche. Per un attimo fui perplesso — perché lui era qui e le sue scarpe lì? Poi capii, e la risposta fu un pugno cattivo sotto la cintura. Era stato strappato via dalle sue scarpe. Il treno lo aveva strappato via dalle sue scarpe come aveva strappato via la vita dal suo corpo. Questo finalmente mi illuminò. Il ragazzo era morto. Non era malato, non stava dormendo. Il ragazzo non si sarebbe più alzato la mattina né avrebbe avuto mal di pancia per aver mangiato troppe mele o per l’edera velenosa, né avrebbe mai più consumato tutta la gomma in cima alla sua Ticonderoga n. 2 durante un difficile compito di matematica. Il ragazzo era morto; morto stecchito. Il ragazzo non sarebbe mai più uscito per bottiglie in primavera, con gli amici, un sacco di tela sulle spalle a raccogliere i vuoti che riaffiorano quando la neve si scioglie. Il ragazzo non si sarebbe svegliato alle due di notte del primo novembre di quest’anno per correre in bagno a vomitare un bel po’ di dolci da quattro soldi di Halloween. Il ragazzo non avrebbe più tirato trecce alle ragazze. Il ragazzo non avrebbe più fatto a nessuno un occhio nero né nessuno più lo avrebbe fatto a lui. Il ra-

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gazzo era no. Era il lato della batteria dove il terminale dice NEG. Il cestino della carta accanto alla cattedra dell’insegnante, che odora sempre di segatura dei temperamatite e di bucce d’arancia morte della colazione. La casa infestata fuori città con le finestre a pezzi, i cartelli di VIETATO L’ACCESSO strappati via e buttati nei campi, la soffitta piena di pipistrelli, la cantina piena di topi. Il ragazzo era morto, signori, signore, giovanotti, signorine. Potrei andare avanti per tutto il giorno e mai coprire la distanza tra i suoi piedi nudi a terra e le sue scarpe sporche di terra appese ai rovi. Era quasi un metro, era miliardi di anni luce. Il ragazzo era sconnesso dalle sue scarpe al di là di ogni possibile speranza di riconciliazione. Era morto.

L’incontro

con la morte segna un momento di sacralità, una sorta di sospensione all’interno del racconto. Per la prima volta, ciascuno dei protagonisti ha un assaggio di quello che da bambini ci sfugge: ogni essere umano viaggia su una linea del tempo che a un certo punto, semplicemente, s’interrompe. Senza frastuono, senza cerimonie, senza tanti discorsi - s’interrompe e basta. Mentre si raccolgono mirtilli, mentre si è in fila alla cassa per pagare il pranzo, mentre si è troppo ubriachi per accorgersi delle fiamme. La morte non si preannuncia con squilli di tromba. Ti porta via in un giorno qualunque. Alla morte non importa un accidenti di te e della tua vita, di cosa lasci e di chi perdi. Per lei sei uno qualunque. E l’unico mistero che l’avvolge davvero è il quando: in quale dannato giorno porterà via proprio te.

Come sappiamo, alla fine non vi fu nessuna ricompensa per il ritrovamento del corpo

di Ray Brower. Nessun riscatto. Nello stesso momento in cui Vern e gli altri si avvicinavano al cadavere, i cui occhi spalancati sul vuoto si stavano già riempendo dei chicchi di grandine che veniva giù dal cielo temporalesco, anche Billy Tessio, Charlie Chambers e altri teppisti del gruppo erano giunti sul luogo, con l’intenzione di rivendicare il ritrovamento del corpo. Ciò che ne seguì fu un duello tra due generazioni di giovani: quella ancora carica di speranza e quella già perduta. Alla fine non vinse nessuno. Chris tirò fuori dallo zaino la pistola del padre e minacciò i rivali di riempirgli braccia e gambe di buchi. I ragazzi più grandi, schiumanti di rabbia, minacciarono i piscialetto di spezzargli le ossa i giorni successivi e di andare in giro a raccontare qualche storiella, su come loro quattro avessero fatto fuori il coetaneo, magari al culmine di una lite o di uno scherzo finito male. Così, per paura delle conseguenze, nessuno parlò mai del cadavere di Ray Brower, il quale venne scoperto tempo dopo, grazie a una telefonata anonima, senza premi o riconoscimenti per nessuno.

I giorni successivi al ritorno a casa, la banda di Billy e Charlie mantenne la promessa.

Vern venne preso a sprangate dal fratello, a Chirs fu spezzato il braccio e resa la faccia un arcobaleno di lividi, Teddy fu tempestato di pugni e a Gordie ruppero il naso. Ci rivedemmo a scuola, e sembravamo i resti della forza d’assalto in Corea. Dei compagni, nessuno sapeva esattamente cos’era successo, ma tutti capivano che c’era sta-

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to uno scontro piuttosto grave con i ragazzi grandi, e ci trattavano da uomini. Circolarono un po’ di storie. Tutte sfrenatamente false. Quando le ammaccature furono sparite e le ferite guarite, Vern e Teddy semplicemente migrarono. Avevano scoperto tutto un nuovo gruppo di coetanei su cui potevano padroneggiare. Erano quasi tutti dei veri miserabili mocciosi, ma Vern e Teddy continuavano a portarli alla casa sull’albero, a dare ordini, a fare i generali nazisti. Chris e io cominciammo a farci vedere lassù sempre meno spesso, e dopo un po’ il posto fu tutto loro per forfait. Mi ricordo di esserci andato una volta nella primavera del 1961 e di aver notato che il posto puzzava come una stalla. Che io ricordi non ci tornai più. Teddy e Vern lentamente divennero due facce come tante a scuola, nei corridoi o nell’aula delle punizioni delle tre e mezzo. Un cenno della testa, ciao, ciao. Questo era tutto. Gli amici entrano ed escono nella nostra vita come camerieri in una sala di ristorante, lo avete mai notato? Ma quando ripenso a quel sogno, i corpi morti sott’acqua che tirano implacabili le mie gambe, mi pare giusto che debba essere così. Qualcuno va a fondo, ecco tutto. Non è giusto, ma succede. Qualcuno va a fondo.

Con la fine dell’estate, finiscono i dodici anni, finisce un’amicizia il cui vero collante era la magia di quell’età. Oltrepassata la magia, l’amicizia va in frantumi, il disincanto si fa strada e il flusso della vita rompe gli argini, trascinando ciascuno verso il proprio destino. Ma c’è ancora qualcosa, oltre a questo finale, nel racconto di Stephen King.

Innanzitutto, la poesia del saluto tra Gordie e Chris poco prima di rientrare ognuno nella propria casa, dopo l’avventura nel bosco. Gordie verso una famiglia intrappolata nel lutto, Chris verso una famiglia intrappolata nella violenza. Ciò che ci regala King, in modo magistrale, sono i passi di Chris visti con gli occhi di Gordie. E l’incapacità di Gordie di dare voce a quello che sentiva nel profondo, perchè le parole sminuiscono, ingannano, equivocano, rompono l’incantesimo.

Si allontanò, sempre ridendo, muovendosi con agilità e con grazia, come se non fosse tutto rotto come me e non avesse le vesciche ai piedi come me e non fosse pieno di bolle e di morsi di zanzare e di calabroni e di tafani, come me. Come se non avesse il minimo pensiero al mondo, come se se ne stesse andando in un gran bel posto invece che solo a casa, in una casa (una baracca, sarebbe più vicino alla verità) di tre stanze senza servizi e con le finestre rotte coperte di plastica e un fratello che probabilmente lo stava aspettando nel cortile davanti. Anche se avessi saputo la cosa giusta da dire, probabilmente non avrei potuto dirla. I discorsi distruggono le funzioni dell’amore, credo — è un bel casino per uno scrittore dire una cosa del genere, penso, ma sono sicuro che è così. Se parlate per dire a una daina nel bosco che non avete nessuna intenzione di farle del male, quella svanisce in un batter di coda. La parola è danno. L’amore non è quello che quei poeti del cazzo come McKuen vogliono farvi credere. L’amore ha i denti; i denti mordono; i morsi non guariscono mai. Nessuna parola, nes suna combinazione di parole, può chiudere quelle ferite d’amore. È tutto il contrario, 38


questo è il bello. Se quelle ferite si asciugano, le parole muoiono con loro. Credetemi pure. Io mi sono fatto una vita con le parole, e so che è così. La seconda immagine che ci dona King è il ricordo della daina che Gordie aveva visto allo spuntare dell’alba, nel bosco, mentre gli altri amici ancora dormivano avvolti nei loro sacchi a pelo. Non so quanto tempo rimasi seduto lì sulla rotaia, a guardare il colore viola uscire dal cielo, silenzioso come la sera prima quando ci era entrato. Abbastanza, comunque, perché il mio sedere cominciasse a lamentarsi. Stavo per alzarmi quando guardai verso destra e vidi una daina, sul letto della ferrovia a meno di dieci metri da me. Il cuore mi saltò in gola, così in alto che avrei potuto mettermi una mano in bocca e toccarlo. Sentii lo stomaco e i genitali riempirsi di un’eccitazione rovente. Non mi mossi. Non avrei potuto nemmeno volendo. I suoi occhi non erano marroni, ma di un nero profondo, polveroso — come il velluto che si vede sul fondo delle vetrine dei gioiellieri. Le piccole orecchie erano di una pelle vellutata. Mi guardava con tranquil39


lità, la testa leggermente inclinata in quella che mi parve un’espressione di curiosità, a vedere un ragazzo con i capelli arruffati per il sonno, con i jeans con i risvolti e una camicia beige con le toppe ai gomiti e il colletto rialzato secondo la moda del giorno. Quello che vedevo io era una sorta di dono, un dono offerto con una disinvoltura che mi spaventava. Ci guardammo a lungo... credo che fosse a lungo. Poi si girò e si allontanò dall’altra parte della ferrovia, con la corta coda che scattava svogliata. Trovò dell’erba e prese a brucarla. Non potevo crederci. Si era messa a brucare. Non guardò verso di me, e non ne avrebbe avuto bisogno: io ero completamente paralizzato. [...] Non appena gli altri si svegliarono, stavo proprio per dire della daina; ma poi finii per non farne niente. È una cosa che mi tenni per me. Finora, fino a oggi, non ne avevo mai parlato o scritto. E devo dirvi che scritto sembra una cosa di poco conto, quasi insignificante. Ma per me fu la cosa più bella della spedizione, la parte più pulita, e fu un momento a cui mi sono trovato a ritornare, quasi inevitabilmente, ogni volta che mi sono trovato in difficoltà nella mia vita: il mio primo giorno nella foresta in Vietnam, e quel tizio uscì con la mano davanti al naso nella radura dove eravamo e quando tolse la mano naso non ce n’era perché gli era stato sparato via; le lunghe, allucinanti settimane prima che mia madre morisse. Sempre avrei trovato che i miei pensieri tornavano a quella mattina, al morbido pelo delle sue orecchie, al lampeggiare bianco della coda. Le cose più importanti sono le più difficili da dire, perché le parole le rimpiccioliscono. È difficile far in modo che un estraneo provi interesse per le cose belle della tua vita. Ecco, dunque, che Gordie Lachance (Stephen King?) ci parla ancora una volta di quanto sia complicato tradurre in parole gli stati d’animo più intimi, segreti, preziosi. Quanto sia difficile comprendersi a vicenda nella vita, perchè le cose più importanti, i pensieri più autentici, le emozioni più intense, restano come celate, bloccate, impossibili da confidare. Una vera fregatura, no? Riuscire a parlare di mille cose, tranne di quelle che abitano nel nostro Io più profondo. Probabilmente il nostro Io migliore. E infine, stagliato al di sopra di tutto come un cielo d’estate, il tema struggente del tempo, magnificamente simboleggiato dalla pentola per raccogliere i mirtilli con cui Ray Brower era uscito di casa nel lontano 1960. Pentola andata persa e mai più ritrovata.

Ho pensato di tornare a cercarla — vi pare una curiosità morbosa? Ho pensato di arrivare in fondo alla Back Harlow Road con il mio furgoncino Ford quasi nuovo in qualche splendente mattino d’estate, da solo. Ho pensato come sarebbe. Tirare fuori dal retro il mio zaino e appoggiarlo sul paraurti mentre con cura mi tolgo la camicia e me la lego attorno alla vita. Strofinarmi il petto e le spalle con Muskol contro gli insetti e poi entrare tra la vegetazione fin dove era quel posto paludoso, il posto dove lo trovammo. L’erba sarebbe cresciuta gialla, lì, seguendo la forma del suo corpo? Certamente no, non ci sarebbe alcun segno, ma uno se lo chiede lo stesso, e si rende conto

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di quanto è sottile il velo tra la tua attitudine di uomo razionale — lo scrittore con le toppe di pelle sui gomiti della giacca di velluto — e i bizzarri miti gorgonici dell’infanzia. Quindi montare sulla massicciata, ormai infestata dalle erbacce, e camminare lentamente lungo le rotaie arrugginite e le traversine marcite verso Chamberlain. Stupide fantasie. Una spedizione per trovare un secchiello da mirtilli vecchio di vent’anni, probabilmente lanciato nel folto del bosco o schiacciato sotto un bulldozer che preparava un lotto da mezzo acro per una casa, o soffocato così profondamente dalla vegetazione cresciutagli attorno da essere diventato invisibile. Ma sono certo che è ancora lì, da qualche parte lungo la linea abbandonata della GS&WM, e a volte l’impulso di andare è quasi una frenesia. Di solito mi viene di mattina presto, quando mia moglie fa la doccia e i ragazzini stanno guardando Batman o Scooby Doo sul canale 38 di Boston, e io più che mai mi sento come il preadoloscente Gordon Lachance che una volta passò sulla terra, camminando e parlando e occasionalmente strisciando sulla pancia come un rettile. Quel ragazzo ero io, penso. E il pensiero che segue, che mi agghiaccia come un getto di acqua gelata è: Quale ragazzo intendi? Sorseggiando una tazza di tè, guardando il sole che passa dalle finestre della cucina, sentendo la TV da una parte della casa e la doccia dall’altra, avvertendo dietro gli occhi la pulsazione che significa che ho preso una birra di troppo la sera prima, mi sento sicuro di poterlo trovare. Vedrei il metallo chiaro scintillare attraverso la ruggine, il sole vivido dell’estate rimandarlo ai miei occhi. Scenderei dal fianco della massicciata, spingerei da parte le erbacce cresciute attorno e che avvolgono il manico, e poi potrei... cosa? Be’, semplicemente tirarlo fuori dal tempo. Me lo rigirerei tra le mani, attento alla sensazione che produce, riflettendo sul fatto che so che l’ultima persona che l’ha toccato è da tempo sepolta. E se dentro ci fosse un biglietto? Aiutatemi, mi sono perduto. Chiaramente non ci sarebbe — i ragazzi non vanno per mirtilli portandosi dietro carta e matita — ma supponiamolo soltanto. Immagino che la soggezione che sentirei sarebbe oscura quanto un’eclisse. Eppure, è soprattutto solo l’idea di tenere quel secchiello tra le mie due mani, immagino — oltre che un simbolo del mio vivere mentre lui muore, la prova che in realtà io so quale ragazzo era — quale ragazzo tra noi cinque. Stringerlo. Leggere ogni anno nella sua crosta di ruggine e nello sbiadire del suo lucido scintillare. Sentirlo, cercare di capire il sole che ci è brillato sopra, la pioggia che ci è caduta, le nevi che l’hanno coperto. E chiedermi dove ero io quando ognuna di queste cose gli stava accadendo nel suo posto solitario, dove ero io, cosa stavo facendo, chi amavo, come me la cavavo, dov’ero. Lo stringerei, lo leggerei, lo sentirei tra le mani... E guarderei il mio viso in quei punti dove ci fosse ancora rimasto del riflesso. Riuscite ad afferrare?

Così, dunque, si chiude questo articolo sul racconto di Stephen King. Articolo in cui

la voce del narratore (scrittore) ha trovato ampio spazio, per permettere a ciascun lettore di assaporare le parole del testo, la vera atmosfera di quella America degli anni Sessanta che ognuno di noi, almeno una volta, ha sognato attraverso le puntate di 41


Happy Days. La vita di Vern, Chris, Teddy e Gordie non era una vita spensierata come quella dei Cunningham. Eppure anche lì, in quelle tragiche famiglie del Maine, palpitava la speranza (o l’illusione) del sogno americano. Anche lì, sullo sfondo, i sogni di un gruppo di ragazzini erano cullati dalle partite di baseball, da una casa sull’albero, dalle canzoni dei Fleetwood. “Come softly to me!” E allora, più di ogni altra cosa, questo racconto è un inno alla memoria, alla potenza dei ricordi, al pugno chiuso della mano che stringe ancora qualcosa. Ma che cosa esattamente? Cos’è un ricordo, qualcosa che possediamo o qualcosa che abbiamo perduto per sempre? mormora una celebre citazione. Forse non c’è una risposta definitiva al significato della memoria, al modo in cui i ricordi ci frugano dentro, facendosi beffe di noi, portandoci così vicini al passato da poterlo quasi afferrare per poi trasformarsi di nuovo in aria e polvere, pulviscoli luminosi che ci scivolano via dalle mani. Difficile scrivere del tempo che passa, di tutto ciò che resta indietro, delle sensazioni e delle emozioni che avvolgono gli strati perduti della nostra vita. Come i cerchi del tronco di un albero, quelli più antichi vengono confinati sempre più all’interno, sempre più nascosti, sempre più inaccessibili. Ma proprio per questo, sempre più vicini al centro, al cuore, alla linfa che scorre. Difficile parlarne. Difficile raccontare dell’incanto di una daina che ti osserva in silenzio nella luce dorata dell’alba. Difficile parlare dell’incanto dei dodici anni, quando la vita era pura attesa, puro segreto. La vita adulta non è brutta, anzi, se si è fortunati può essere ricca di soddisfazioni e di emozioni. Tutto ciò che da ragazzini era un mistero insondabile, da adulti l’abbiamo provato. Il primo stipendio, la prima notte d’amore, il primo viaggio lontani da casa, la prima macchina, la prima casa. L’età adulta è l’età dei traguardi, delle bandierine conficcate nel terreno: ogni obiettivo raggiunto è una bandierina che sventola sul suolo della nostra esistenza. Eppure... eppure, in questo ottenere le cose, una l’abbiamo perduta per sempre. La magia dell’attesa. Quella fretta struggente di diventare grandi, quella voglia irrefrenabile di afferrare il segreto della vita. Quando tutto il mondo stava dentro una cameretta piena di sogni e di speranze, con i poster appesi alle pareti e la scalpitante curiosità del mondo là fuori. Che il mondo alla fine ci abbia preso tra le sue braccia o ci abbia delusi, quella magia ora è comunque imprigionata al centro del tronco. Possiamo ricordarla, ma mai più riviverla. È un graffio nostalgico che non passerà mai. È il prezzo per essere cresciuti e aver carpito i segreti dei grandi. Eppure, è complicato parlare agli altri di questa nostalgia che graffia come un gatto. Le cose più importanti sono sempre le più difficili da dire.

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Manuela Bassetti

BIOGRAFIA DELL’ANIMA

IO SONO VIVO, VOI SIETE MORTI di Emmanuel Carrère

“Molti sostengono di ricordare una vita passata, ma io sostengo di ricordare un’altra, diversissima vita presente.”

“La realtà è quella cosa che quando smetti di crederci non svanisce.”

“A volte la risposta appropriata alla realtà è diventare pazzi.”

Titolo originale: Je suis vivant et vous êtes morts Casa editrice italiana: Adelphi Anno di pubblicazione in Italia: 2016

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QUARTA DI COPERTINA “Da adolescente” scrive Emmanuel Carrère nel Regno “sono stato un lettore appassionato di Dick e, a differenza della maggior parte delle passioni adolescenziali, questa non si è mai affievolita. Ho riletto a intervalli regolari ‘Ubik’, ‘Le tre stimmate di Palmer Eldritch’, ‘Un oscuro scrutare’, ‘Noi marziani,’ ‘La svastica sul sole’. Consideravo e considero tuttora il loro autore una specie di Dostoevskij della nostra epoca”. A trentacinque anni, spinto da questa inesausta passione, Carrère decise di raccontare la vita, vissuta e sognata, di Philip K. Dick. Il risultato fu questo libro, in cui, con un’attenzione chirurgica per il dettaglio e una lucidità mai ottenebrata dalla devozione, Carrère ripercorre le tappe di un’esistenza che è stata un’ininterrotta, sfrenata, deragliante indagine sulla realtà, condotta sotto l’influsso di esperienze trascendentali, abuso di farmaci e di droghe, deliri paranoici, ricoveri in ospedali psichiatrici, crisi mistiche e seduzioni compulsive e riversata in un corpus di quarantaquattro romanzi e oltre un centinaio di racconti (che hanno a loro volta ispirato, più o meno direttamente, una quarantina di film). Con la sua scrittura al tempo stesso semplice e ipnotica, Carrère costruisce una biografia intricata e avvincente quanto lo sarà, vent’anni dopo, quella di Eduard Limonov, che è insieme un romanzo di avventure e un nitido affresco delle pericolose visioni di cui Dick fu artefice e vittima.

TRATTEGGI D’AUTORE Emmanuel Carrère, classe 1950, è uno scritore, sceneggiatore e regista francesce. Affascinato dal tenue confine tra realtà e illusione, sogno e incubo, sanità e psicosi, Emmanuel Carrère non fa mistero di utilizzare la scrittura anche come forma di autoterapia contro i demoni che si agitano nella sua complessa e poliedrica personalità, al cui interno di affacciano la tendenza alla depressione e al narcisismo. L’ideazione suicidaria, le ossessioni patologiche, la furiosa ricerca di una più profonda coscienza di sè tornano di continuo nei suoi romanzi, mostrando il volto dell’autore dentro il volto dei suoi emblematici e allucinati personaggi. E se per Philip K. Dick si è parlato di “fantascienza dell’anima”, nelle opere di Emmanuel Carrère non si può non ritrovare lo stesso morboso bisogno di scandagliare, vivisezionare, estrapolare fino in fondo l’interiorità dell’essere umano.

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L’ALBA DI PHILIP DICK Il 16 dicembre 1928, a Chicago, Dorothy Kingred in Dick diede alla luce una coppia di

gemelli, prematuri di sei settimane ed entrambi molto gracili. Li chiamò Philip e Jane. Non aveva latte a sufficienza per entrambi, e nessuno, nè un parente nè un medico, le suggerì d’integrare le poppate con il biberon, sicchè nelle prime sei settimane lasciò patire la fame ai bambini - per ignoranza, a quanto pare. Il 26 gennaio Jane morì. Fu sepolta nel cimitero di Fort Morgan, in Colorado, dove viveva la famiglia del padre. Sulla lapide, accanto al nome di battesimo della bambina, i genitori fecero incidere quello del fratello sopravvissuto, con la sola data di nascita seguita da uno spazio bianco. Poco tempo dopo, i Dick si trasferirono in California.

Comincia

così l’avventura di Philip Dick sulla Terra, con un buco nero al centro: la morte della sua gemella appena nata. E con uno spazio bianco sulla tomba: un filo invisibile che lo legherà per sempre a quel cimitero, dove verrà sepolto cinquantatrè anni dopo, distrutto da decenni di droghe, psicofarmaci e da un’estenuante ricerca della verità ai confini del mondo.

Edgar Dick, vecchissimo, lasciò il luogo in cui si era ritirato per andare a prendere il corpo del figlio e portarlo a Fort Morgan, dove da cinquantatrè anni c’era un posto pronto per lui. Sulla lapide bisognò incidere solo la data della morte. A voler leggere in forma simbolica la vita autodistruttiva di Philip Dick, si potrebbe ipotizzare che tutta l’esistenza del celebre scrittore non sia stata altro che il tentativo inconscio di tornare al luogo che i suoi genitori avevano preparato per lui sin dall’inizio: la tomba della sorella. Una sorta di macabro ricongiungimento con ciò che il destino aveva prematuramente diviso. Una sorta di fatale ritorno all’unità originale.

Il padre Edgar Dick, che lascerà la famiglia quanto Philip è ancora bambino, era un funzionario federale presso il ministero dell’Agricoltura, nonchè reduce di guerra.

Arruolatosi come volontario, aveva riportato dall’Europa una serie di ricordi eroici, il grado di sergente e una maschera antigas, che una volta tirò fuori dalla custodia per divertire il figlioletto di tre anni. Phil però non si divertì affatto. Di fronte a quegli occhi tondi e opachi, a quella proboscide di gomma nera che penzolava con aria sinistra, si mise a urlare terrorizzato, convinto che un mostro, un insetto gigante, avesse preso il posto di suo padre. Per settimane continuò a scrutare il viso tornato normale, cercando e temendo di cogliere altri segni di trasformazione. Carezze e moine non facevano che accrescere la sua diffidenza. In seguito a questo incidente Dorothy, che aveva le sue teorie sull’educazione dei figli, prese ad alzare gli occhi al cielo soffiando rabbiosamente aria dalle narici ogni volta che incrociava lo sguardo mortificato del marito.

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Anche in questo caso, ad uno sguardo psicoanalitico, è difficile non trovare nessuna

connessione tra le paure infantili di Phil e alcuni dei temi fantascientifici dello scrittore Philip Dick. In particolare, non possiamo non citare il racconto La cosa-padre, scritto nel 1954, nel quale il nucleo della trama consiste in una domanda inquietante: quanto possiamo fidarci delle persone a noi più vicine, compresi i nostri genitori? La storia di Dick si apre con la signora Walton che sta per servire la cena e chiede al figlio Charlie di otto anni di chiamare suo padre Ted. Charlie si reca in garage per fare quanto gli è stato ordinato, ma proprio in quel momento vede dinnanzi a lui due padri: il padre vero e una copia. Ed è proprio quest’ultima a rientrare in soggiorno, spacciandosi per l’amabile Ted. Mentre i genitori proseguono la cena, Charlie, turbato, convinto che colui che siede al tavolo sia un impostore, sguscia in garage e lì trova, tra i rifiuti, la pelle del suo vero padre. La cosa-padre ha divorato il povero Ted e ne ha assunto l’identità, lasciando dell’originale soltanto un guscio vuoto e friabile. In termini psicoanalitici questo racconto è molto interessante, perchè mette in evidenza la scissione che creano tutti i bambini piccoli tra un genitore buono (il genitore che coccola, che sorride, che gioca) e un genitore cattivo (il genitore che rimprovera, che pone limiti e divieti). Soltanto crescendo i bambini cominceranno a comprendere che in realtà si tratta dello stesso genitore, il quale a seconda delle situazioni può imperso-


nificare il “buono” o il “cattivo”. Eppure, il racconto di Philip Dick si spinge oltre questa dimensione puramente psichica per proiettarsi in una dimensione più metafisica. La vicenda surreale in cui precipita Charlie, infatti, apre a un interrogativo che abbraccia tutta la realtà, non solo quella infantile: possiamo davvero credere a ciò che vediamo? Possiamo fidarci chi ci sta attorno? Le persone sono chi dicono di essere? Simili interrogativi da incubo torneranno prepotentemente nel cinema degli anni Cinquanta e Sessanta, in capolavori come L’invasione degli ultracorpi (1956) dove gli abitanti di un intero villaggio vengono uccisi e sostituiti da alieni privi di emozioni umane. Questa ricorrenza tematica ci lascia presupporre che autori fantascientifici come Philip Dick e Jack Finney siano stati in grado di cogliere, fino forse anticipare, la paure di una società in cui, dopo la Seconda guerra mondiale, iniziava la conquista dello spazio, con le sue incognite sulle nuove tecnologie, sulle radiazioni provenienti dal cosmo, su un possibile incontro con forme di vita extraterrestre. E tuttavia, al di là di questo inconscio collettivo che plasma molte opere fantascientifiche ed orrorifiche dell’epoca, viene difficile immaginare che nello scrivere La cosa-padre Philip Dick non abbia, in modo conscio o subconscio, attinto alla sua memoria antica, di quando piangeva terrorizzato perchè un mostro con gli occhi da mosca e una proboscide di gomma nera aveva preso il posto del suo vero papà.


Dopo il divorzio, Phil e Dorothy si trasfe-

rirono prima a Washington, dove il piccolo Dick, abituato al sole della costa americana occidentale, soffrì per tre lunghi anni il freddo, la pioggia e la solitudine. Successivamente, nel 1938, madre e figlio si spostarono in California, a Berkeley. Pacifista, femminista, amante della cultura e delle idee all’avanguardia, Dorothy si sentì subito rinascere in quella terra a lei congeniale. Anche Phil visse positivamente il ritorno nel luminoso ovest, ma cominciò a soffrire di attacchi d’asma e di tachicardia, sicchè Dorothy, che amava vedere in suo figlio uno della sua razza, la razza degli artisti, fu talmente indulgente da consentirgli di saltare molte lezioni scolastiche anche quando non aveva problemi di salute. Più istruito da Dorothy che dalla scuola ufficiale, a dodici anni Philip Dick aveva già sviluppato l’impronta intellettuale che non lo avrebbe più abbandonato: ascoltava musica, specialmente musica classica, collezionava riviste illustrate che parlavano di piramidi maledette, navi misteriosamente scomparse e continenti sommersi. Leggeva autori come Poe e Lovecraft, imparò a scrivere a macchina, iniziò a pubblicare sul giornalino della scuola i suoi primi strampalati racconti e fondò una testata tutta sua in cui pubblicava le sue rocambolesche avventure intergalattiche.

Negli anni successivi, il giovane Dick en-

trò a pieno nell’adolescenza, ma lo fece con la goffaggine di un ragazzo con il fiato corto e in sovrappeso, carico di insicurezze e avvolto da un legame simbiotico con la figura materna. Come si può ben immaginare, i suoi primi passi verso il mondo femminile furono abbastanza disastrosi e le ragazze rimasero per lungo 50


tempo un pianeta a lui sconosciuto. Un pianeta più alieno dei pianeti alieni di cui scriveva nella sua cameretta con tanta passione. A rendere ancora più complicata la faccenda, ci pensava la propensione di Dorothy per le medicine, in particolare per gli psicofarmaci, il cui utilizzo si era recentemente diffuso tra la popolazione americana. Dorothy si rivelò una vera e propria pioniera in questo nuovo Eldorado chimico: in pochi anni testò quasi tutti i prodotti disponibili sul mercato (Torazina, Valium, Tofranil, Librium..) confrontando il tipo di torpore che procuravano e decantandone gli effetti presso amici e parenti. Nel corso della sua vita adulta, Phil emulerà questa inclinazione materna, arrivando ad assumere decine di pillole al giorno, tra droghe, ansiolitici, antidepressivi, antipsicotici, più tutti i farmaci che servivano a combattere gli effetti sgradevoli dei primi. Tuttavia, i suoi primi contatti con l’ambiente della psichiatria cominciarono parecchio tempo prima, quando all’età di quattordici anni venne spedito da una risoluta Dorothy presso lo studio del primo di una lunga serie di psicoterapeuti e psichiatri. Decisivo nella scelta di Dorothy fu il fatto che l’interesse di Philip per le ragazze, seppur poco ricambiato, aveva spezzato quel legame osmotico che l’aveva tenuto legato alla madre in modo quasi fusionale. A quel punto, Dorothy, disorientata, aveva deciso che i problemi di cui soffriva il figlio (ansia, attacchi di panico, introversione...) richiedevano l’intervento di uno specialista.

Già dopo poche sedute, il giovane Dick parlava con disinvoltura di nevrosi, complessi e fobie, e si divertiva a sottoporre i suoi compagni a test della personalità da cui traeva per ognuno conclusioni più o meno lusinghiere. [...] Nell’adolescenza, Dick, grazie al suo intuito, alla sua esperienza precoce e alla rigidità del sistema, imparò ad evitare i trabocchetti nascosti nelle domande e a indovinare le risposte che ci si aspettava da lui. In breve tempo, seppe benissimo quale figura doveva individuare in una certa macchia di Rorschach per suscitare perplessità. Poteva risultare a suo piacimento, normalmente normale, normalmente anormale, anormalmente anormale (suo massimo trionfo) e, a furia di cambiare sintomi, finì che il suo primo psichiatra diede di matto. Gli subentrò uno psicoanalista di San Francisco decisamente più intelligente: era di orientamento junghiano ovvero, secondo la vulgata corrente di Berkeley, il non plus ultra, prerogativa degli spiriti creativi. Fu durante la psicoterapia che Philip Dick si rece conto che la storia di Jane suscitava grande effetto nei professionisti della psiche, i quali lo giudicavano un trauma originario molto potente. Si rese conto, in particolare, che parlare della sua gemella morta rendeva il suo caso clinico molto più interessante e dedicava ore e ore della sua analisi a parlare di Jane. Difficile ricostruire a distanza quanto di queste confessioni fosse un modo di Philip di prendersi gioco dei suoi terapeuti e della psicologia in generale, e quanto invece ci fosse di vero nei suoi ricordi infantili. Può essere che all’epoca Dick sfruttasse la storia di Jane come strumento per ironizzare e ridicolizzare tra sè e sè le sedute a cui lo sottoponevano settimanalmente Dorothy e i suoi terapeuti. Tuttavia, nella vita di Philip 51


Dick, il fantasma di Jane tornerà sempre: nella scelta delle donne della sua vita, esili, flessuose e dai capelli scuri, proprio come lui si era raffigurato da ragazzo la sorella se fosse stata ancora viva; nelle protagoniste dei suoi romanzi, donne con gli stessi tratti fenotipici e la stessa sfrontatezza che, nella sua immaginazione, egli aveva associato a Jane. Quella gaia sfrontatezza che a lui mancava completamente, Philip aveva infatti finito per proiettarla sulla sua metà che giaceva chiusa dentro una tomba nel Colorado. In un certo senso, era come se pensasse che tutto ciò che in lui non esisteva (la spigliatezza, la solarità, la sicurezza...) era confinato nell’altra parte dell’unità originaria, in quella parte morta, perduta, irrecuperabile. Nel suo rapporto tormentato con il genere femminile, possiamo ipotizzare il suo tentativo di rifondersi con quella parte vitale che in lui non trovava, che credeva appartenere all’altra metà dell’Uno, a Jane. Questo potrebbe spiegare perchè da adulto Philip Dick, un omone grosso, imponente, una sorta di gigante dall’aria bonaria, non riuscisse a tollerare l’indipendenza delle sue consorti. Ogni volta che una delle sue mogli (ne ebbe cinque, più un numero indefinito di relazioni) cercava di costruirsi uno spazio per sè, attraverso il lavoro o un hobby personale, Philip dava di matto, si sentiva perseguitato da una figura femminile nevrotica, egoista, totalmente priva di empatia e di calore nei suoi confronti. In realtà, fu Philip Dick a soffrire per tutta la vita di mancanza di empatia: per lui era difficilissimo mettersi nei panni degli altri, mogli e figli compresi, perchè i disturbi psicologici di cui soffriva sin da ragazzo lo facevano vivere come dentro una bolla. Philip vedeva il mondo e le persone muoversi, agire, parlare come da dietro una spessa lastra di vetro. Non riusciva a entrare il relazione profonda con loro, non riusciva a comprendere le loro emozioni, i loro bisogni, le loro inclinazioni. Assorbito dai propri sintomi, dalla proprie crisi, dalle proprie ossessioni, non riusciva mai a uscire da se stesso per vedere l’altro per quello che era. Philip aveva un bisogno disperato degli altri: si circondava di amici, conoscenti e soprattutto donne, ma gli altri restavano sempre dei prolungamenti di se stesso, esistevano in quanto necessari a soddisfare i suoi bisogni di attenzione, amore, protezione dai propri incubi e dalle proprie solitudini abissali. E non appena gli altri cercavano uno spazio di realizzazione personale, ecco che Philip li accusava di menefreghismo o addirittura di complotto nei suoi confronti. Affetto da una paranoia al limite al tragicomico (sottoponeva chiunque gli telefonasse a dei test sofisticatissimi di sua invenzione per capire se chi stava all’altro capo del telefono fosse davvero chi diceva di essere e non un comunista, un membro del FBI o del KGB, un alieno o Dio in persona), ebbene, affetto da una simile paranoia, si era messo in testa che la sua terza moglie Anne, vedova con tre bambine, avesse ucciso il primo marito e fosse in procinto di fare fuori anche lui. Le capacità dialettiche e persuasive di Philip erano talmente grandi, che nonostante il paranoico fosse lui, riuscì a convincere il medico a fare ricoverare la moglie in un ospedale psichiatrico, dove la imbottirono

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di psicofarmaci. Soltanto tempo dopo Dick si rese conto delle conseguenze del suo gesto e cambiò versione, sostenendo di essere lui il “pazzo” della famiglia, eppure gli ci volle parecchio prima che gli psichiatri si convincessero che stava dicendo la verità. Alla fine Anne venne dimessa dalla clinica, ma come si può già intuire, quella fu la fine del terzo matrimonio di Philip Dick.

Il primo lavoro di Dick fu un impiego part-time in un negozio chiamato University Mu-

sic, dove si vendevano dischi, giradischi, radio e le prime televisioni. Aveva sedici anni. Nel periodo precedente gli attacchi d’ansia erano peggiorati, trasformandosi in una vera e propria agorafobia che gli impediva di salire sui mezzi pubblici e di mandare giù anche un solo boccone di tramezzino in presenza di altre persone. Persino il cinema e il teatro gli erano diventati inaccessibili dopo alcuni attacchi di panico che lo avevano costretto a una fuga precipitosa. Questo lo portò a non seguire più le lezioni in classe, ma a studiare a casa, con la musica classica di sottofondo. In particolare, iniziò ad apprezzare Schubert, Schumann e Brahms. Siccome ascoltare la musica gli sembrava il modo migliore di impiegare il suo tempo, decise di farne un mestiere e fu così che divenne un commesso della University Music. In quel luogo accogliente e familiare, Philip si sentiva al riparo dal mondo. Poco a poco, gli attacchi d’ansia si affievolirono e il ragazzo acquistò un po’ di sicurezza, persino con le ragazze. Per corteggiare le clienti più giovani e carine, le invitava nella cabina e faceva ascoltare loro le ultime uscite in fatto di musica lirica. Alla fine, il metodo funzionò talmente bene che in breve tempo Dick si trovò sposato con una ragazza che era entrata in negozio per comprare un disco di canti natalizi. Il matrimonio si rivelò un totale disastro e dopo poche settimane Phil si sentiva già soffocare nel monolocale che divideva con la moglie, con la quale aveva scoperto di non avere nulla in comune. Dal canto suo, la prima moglie di Phil minacciò a più riprese di spaccargli tutti quei maledetti dischi che lui ascoltava in continuazione - minaccia che fece subito correre Dick dal giudice per chiedere il divorzio. Anche la seconda moglie, Kleo Apostolides, era una cliente del negozio, ma prima di farle la corte Dick, scottato dall’esperienza precedente, si informò sui gusti musicali della sua nuova fiamma. Kleo, una studentessa di origine greca, era una grande lettrice e, se si considerano i futuri standard dickiani in materia di mogli, eccezionalmente equilibrata. Andarono a vivere in una casa che cadeva letteralmente a pezzi, ma nessuno dei due pensò mai di sistemarla, lui in quanto preferiva passare il tempo a comprare e ascoltare dischi, lei perchè amava la vita bohémien e disprezzava tutto ciò che aveva a che fare con le consuetudini borghesi. Di temperamento ardente e passionale, Kleo amava soprattutto indignarsi: contro il governo, contro il conformismo, contro tutto ciò che non fosse radicale.

In quello stesso periodo, mentre Kleo intonava i canti delle Brigate Internazionali che

esortavano a marciare su Madrid, Philip Dick fece un incontro fondamentale per il

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suo futuro. Nel negozio di dischi (il centro ormai del suo mondo) conobbe lo scrittore Anthony Boucher, autore di romanzi gialli e di fantascienza. Boucher teneva presso la sua casa un corso di scrittura creativa una volta alla settimana, ma Philip, i cui fantasmi agorafobici non lo avevano del tutto abbandonato, non riusciva a parteciparvi. Per aiutare il marito, cominciò ad andarci Kleo, decisamente più spigliata e concreta. La giovane donna non soltanto iniziò a frequentare il salotto di Boucher, ma con molta lungimiranza portò anche alcuni testi del marito affinchè il padrone di casa potesse leggerli e valutarli. Anthony trovò la scrittura di Philip promettente e quest’ultimo, incoraggiato, riprese a scrivere quelle storie di fantascienza che avevano riempito la sua adolescenza. Nell’ottobre del 1951, la rivista di cui Baucher era caporedattore acquistò il primo racconto da professionista di Philip K. Dick, intitolato Roog, la cui trama ruota attorno a un cane che inizia ad abbaiare furiosamente contro gli spazzini del paese, perchè percepisce che in realtà non sono esseri umani, bensì alieni venuti a studiare e rapire i terrestri. Nonostante la paga fosse misera, Phil cominciò a pensare di farne un lavoro vero e proprio: si licenziò dalla University Music, si trovò un agente letterario e iniziò a vendere i suoi racconti. Nel 1955 pubblicò la sua prima antologia e il suo primo romanzo. A ventiquattro anni cominciò ad essere uno scrittore di fantascienza piuttosto affermato, nonostante si trattasse di un genere di nicchia. Ci vorranno quasi trent’anni prima che Philip Dick diventi un vero e proprio caso letterario, in particolare con la trasposizione cinematografica del suo libro Ma gli androidi sognano pecore elettriche? che darà origine al celebre Blade Runner, film cult degli anni Ottanta.

Quello

che La Nuova Decade ha raccontato in questo articolo dedicato al libro di Emmanuel Carrère è soltanto il primo capitolo della vita tormentata di Philip Dick. La biografia di Carrère abbraccia l’intera esistenza dello scrittore, dalla sua nascita alla sua morte. Ed è davvero una lettura intrigante, scorrevole, umoristica, ma anche ricca di poesia e di sensibilità nei confronti di quest’uomo grande e grosso, insieme incredibilmente visionario e incredibilmente bambino. Dovendo scegliere un taglio, questo articolo ha deciso di dare spazio agli aspetti più antichi e forse meno noti della vita di Dick. Anche perchè in chiave psicoanalitica molte delle ombre di Phil possiamo ritrovarle già nella sua prima giovinezza. Le visioni e le allucinazioni di cui soffrirà da adulto, la sua paranoia claustrofobica, la sua percezione che esista una realtà altra e che quella che stiamo vivendo tutti noi sia una realtà fittizia, illusoria, una sorta di Truman Show mondiale, potrebbero essere intuizioni che nascono dai suoi sintomi psicologici. Nelle persone che soffrono di attacchi di panico spesso sono presenti fenomeni cosiddetti di derealizzazione, cioè momenti in cui il soggetto si sente separato dalla realtà circostante e ha come l’impressione di muoversi dentro un sogno o di vedere il resto del mondo come se si trattasse di un film e non della vita reale. Può essere che Philip abbia vissuto esperienze psichiche di questo tipo, nel corso delle sue crisi d’ansia, e che queste stesse 55


esperienze, molto inquietanti per i pazienti, gli abbiano fornito lo spunto da cui trarre le sue riflessioni metafisiche. Questo ovviamente non significa voler ricondurre l’intero pensiero dickiano a un dimensione psicopatologica, nè significa voler “medicalizzare” le sue opere letterarie. Philip K. Dick resta innanzitutto un celebre scrittore di fantascienza, che come molti autori appartenenti a questo genere narrativo, ha saputo cogliere e rielaborare le inquietudini del suo tempo, nonchè i sentimenti, le domande e le angosce degli esseri umani di tutte le epoche. Allo stesso modo, alcune sue riflessioni appaiono davvero lungimiranti, quasi visionarie, se rilette oggi, agli albori di questo nuovo millennio dove l’Intelligenza artificiale sta compiendo passi da gigante. Manca davvero poco perchè anche nel mondo reale gli androidi sognino pecore elettriche! Tuttavia, provare a ricercare le origini profonde, psichiche e subconsce che rendono uno scrittore quello che è, può essere una prospettiva di ricerca affascinante per comprendere meglio non soltanto l’autore e le sue opere, ma la natura umana in generale - ovvero il fulcro, il cuore pulsante, il nucleo magmatico di tutta la letteratura.

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PRISMA FILOSOFICO

A cura di Edoardo Gagliardi

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Edoardo Gagliardi

UOMO - MACCHINA ESSERI UMANI, AUTOMI E INTELLIGENZA ARTIFICIALE I recenti sviluppi della tecnologia sull’Intelligenza artificiale ripropongono, con sem-

pre maggiore attualità, il rapporto tra uomo e macchine e il ruolo degli esseri umani nel mondo. A dispetto di quanto possa sembrare, gli studi e gli esperimenti sull’Intelligenza artificiale non si fermano e, come è logico ipotizzare, non sembrano scalfiti da questioni di tipo etico-morale che da più parti si avanzano nei loro confronti. Non è più solo una questione di integrazione tra uomo e macchina, ma si tratta di capire quando la macchina sostituirà completamente l’uomo e non solo per quello che riguarda il lavoro.

Se

la macchina era (ed è) ancora uno strumento che l’uomo poteva controllare e modellare a proprio uso e consumo, l’Intelligenza artificiale vuole far fare un passo in più alla tecnologia, ovvero rendere la macchina indipendente, un oggetto-soggetto pensante e agente autonomamente. A questo punto si può avanzare una domanda: l’uomo è una macchina e la macchina è un uomo? Il confine diventa sempre più labile.

È interessante notare come già in ambito medico e filosofico nel XVIII secolo si comin-

ciò a discutere della possibilità che l’uomo sia essenzialmente una macchina. Julien Offroy de La Mettrie (1709-1751), medico e filosofo francese, con la sua vita errabonda ed eretica rappresentò una visione che certamente non fu risparmiata dalle critiche, anche da quella parte di materialisti del secolo dei Lumi, gruppo a cui apparteneva ma dai cui lo distanziavano delle prese di posizioni radicalmente provocatorie. Contro il dominio della metafisica e della scolastica La Mettrie opponeva una sempli-

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ce constatazione: se un filosofo ha un forte mal di denti, avrà egli ancora una visione positiva della realtà? E poi, sarà in grado di “filosofare” in piena autonomia se il suo corpo è attraversato da un dolore insopportabile? Dietro queste domande, non scevre da una certa ironia, si cela uno dei nuclei del pensiero di La Mettrie, quello secondo il quale l’attività mentale dell’uomo è profondamente influenzata dalla sua condizione fisica. Da questo punto di vista, la presa di posizione sull’inesistenza dell’anima è una scelta obbligata. L’anima non è, anch’essa, che il risultato di sensazioni corporee; i fenomeni fisici possono essere spiegati in base a mutamenti organici nel corpo e nella mente.


I suoi scritti, in particolare Storia naturale dell’anima (1745) e L’Uomo-macchina (1747), in cui espone le sue irriverenti (per l’epoca) teorie, vengono subito messi al bando, bruciati e lo costringono a una vita errabonda per l’Europa, nel tentativo di trovare riparo dalla persecuzione, sia dalle autorità religiose che quelle secolari e, come si accennava prima, dalle invettive di altri materialisti e libertini a lui contemporanei. Ma è su L’Uomo-macchina che qui ci si vuole soffermare, poiché è con indubbia chiarezza che La Mettrie getta le basi per un discorso che sarà ripreso secoli dopo dalle neuroscienze e dagli studi sull’Intelligenza artificiale. La Mettrie propone una visione dell’uomo estremamente meccanicista e fa proprio il meccanicismo di Cartesio, ma mentre questo si ferma al punto in cui reintroduce Dio nella vita degli individui, La Mettrie lo nega, asserendo che l’uomo è essenzialmente il prodotto di meccanismi fisici spiegabili con modificazioni della materia, ovvero corporee. Ne risulta evidente che, se l’uomo non è che la risultante di mutamenti della materia corporea e che questa funziona anche in relazione agli stimoli ambientali, l’uomo-macchina descritto da La Mettrie si scontra con la questione del libero arbitrio. Quanto è davvero libero un siffatto uomo? La risposta a prima vista può essere semplice: non c’è molto spazio per la libera volontà, al contrario l’uomo è costantemente in balia di forze che lo predeterminano. Eppure questa è solo una visione parziale, seppur vera, del problema. Come si nota dagli scritti successivi del filosofo, l’uomo-macchina non è solo più una risultante meccanica, ma un oggetto-soggetto dotato di autonomia. Ed è in questo senso che La Mettrie si avvicina di più all’Intelligenza artificiale. L’uomo-macchina non è quindi solo una macchina ma un automa, dal latino automatus, che si muove da sé. L’automa compie un salto qualitativo rispet-

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to alla macchina. Mentre la prima è la risultante di forze ambientali e culturali, oltre che fisiche, l’automa rivendica la sua appunto autonomia, non solo rispetto all’ambiente e alla cultura ma anche nei confronti dell’uomo. L’Intelligenza artificiale opera sulla strada della riproduzione di oggetti-soggetti in grado non solo di “muoversi da sé” ma anche di pensare da sé, di funzionare in base ai meccanismi che contraddistinguono l’uomo-macchina di La Mettrie. Non è solo l’uomo che si fa macchina, ma la macchina che si fa uomo. Non può sfuggire qui un’ulteriore tappa dell’Intelligenza artificiale: creare un oggetto-soggetto che non sia a rischio di tutte quelle problematiche evidenziate da La Mettrie ed esposte proprio all’inizio di questa trattazione. Se il pensare può essere inficiato dalle condizioni fisico-biologiche è allora necessario che l’automa sia il più possibile esente dagli ostacoli che possono bloccare la propria esistenza. L’automa è infatti autonomia allo stato perfetto, non solo in quanto potenzia le capacità rispetto all’uomo, ma anche perché sfugge alla caducità a cui è sottoposto l’essere umano. In tale percorso non si realizza solo l’indipendenza dell’automa, ma anche il sorpasso nei confronti dell’uomo. E qui l’Intelligenza artificiale, che pure possiamo immaginare che prenda le mosse dalla filosofia di La Mettria, al tempo stesso la supera perché apre alla possibilità della creazione di un automa immortale, o certamente con una vita di gran lunga superiore rispetto all’essere umano descritto dal filosofo francese. Nei confronti del destino dell’uomo La Mettrie invitava a non pensare troppo, in fondo non se ne sa nulla. L’Intelligenza artificiale rimette in questione questo punto di vista nel momento in cui l’uomo non è che il punto di partenza per la creazione dell’automa: la macchina si fa uomo non

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già per rimanere uomo, ma per superarlo. La connaturata limitatezza dell’uomo portò La Mettrie a prefigurare una filosofia dei valori interamente materialista. Se l’essere umano è in balia dei dolori fisici che ne minano l’essere e se l’anima non è che un aggregato di sensazioni prodotte da reazioni chimiche e fisiche, la vita non può che indirizzarsi verso un materialismo edonistico, in cui il piacere è inteso nel senso di evitare il dolore. I resoconti della vita di La Mettrie raccontano che fu perfettamente coerente con la sua filosofia di vita. Ma anche qui l’Intelligenza artificiale sembra superare la constatazione del filosofo: se l’automa è senza dolore sarà in grado di andare ben oltre la ricerca del piacere che quel dolore, agli occhi di La Mettrie, doveva bilanciare. Si introduce in tal senso la questione etica e teleologica dell’automa. Qual è il suo destino? Verso quali valori etici configurerà la propria esistenza? Su questi punti i critici dell’Intelligenza artificiale fanno leva per sollevare le preoccupazioni rispetto a un futuro governato da automi in grado di soggiogare gli uomini e dettare le proprie leggi.

Non

vi è dubbio che l’automa, superando la condizione umana (pur essendo una macchina che si è fatta uomo), avrà a disposizione un ventaglio di possibilità che oggi sono negate agli uomini. Tra queste opzioni non vi è solo la capacità di esperire posizioni materialistiche della vita, ma anche la capacità di aprire la propria esistenza al trascendente, inteso qui in senso ampio. All’automa, spogliato delle limitatezze umane, saranno aperte le porte di una consapevolezza superiore, contrapposta al sonno in cui molti esseri umani sono costretti; le esperienze che trascendono la materia potrebbero essere alla portata degli automi, mentre oggi queste sono in parte impedite agli esseri umani per ragioni interne ed esterne. Si faccia tuttavia attenzione, non si vuole certo dire che questo accadrà sicuramente; quello che si vuole suggerire è che l’automa, come sviluppo ultimo dell’Intelligenza artificiale, può operare un salto qualitativo e quantitativo rispetto all’essere umano.

La perdita della dipendenza dalla materia potrebbe essere uno degli esiti di questo

sviluppo tecnologico. Il materialismo quindi non già come scelta obbligata, o come unica strada percorribile data la condizione umana (alla maniera di La Mettrie), ma come libera possibilità di scelta tra tante altre. L’Uomo-macchina, dalla filosofia di La Mettrie, essere inizialmente predeterminato dal corpo e dall’ambiente, diviene poi automa e, paradossalmente, si libera dalla materialità proprio nel momento in cui la porta alle sue estreme conseguenze. Un processo simil-dialettico in cui i lacci della materia sono superati nel momento in cui la materia viene portata alla sua massima perfezione. Si è arrivati quindi ad un approccio che effettivamente ha portato l’analisi a ribaltare la posizione di La Mettrie, ma soltanto da un punto di vista. Da un altro punto di vista

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nell’Intelligenza artificiale si realizza quella libertà che La Mettrie proponeva nella sua filosofia: la libertà della materia; il futuro potrebbe riservare agli automi anche la libertà dalla materia, nel momento in cui la dipendenza da essa potrebbe essere superata.

Per la Mettrie era inutile pensare a questioni di metafisica e spirtitualità, perché ri-

guardo a queste l’uomo non ha risposte, non può conoscere, non può in altre parole empiricamente accertare come stanno le cose. Nel momento in cui la conoscenza porta l’automa, attraverso la tecnologia, a svelare segreti che all’uomo sono oggi nascosti o sconosciuti, a esperire stati altri (e alti) dell’esistenza, forse non sarà più inutile occuparsi di metafisica e spiritualità, forse queste saranno uno degli sbocchi degli automi partiti dalla materia e liberi dalla materia. Che cosa ne sarà dell’essere umano? Sarà questo costretto ad essere una copia sbiadita dell’automa? È impossibile prevedere il futuro con esatezza, tuttavia, a voler essere positivi, l’Intelligenza artificiale potrebbe migliorare anche la condizione, seppur imperfetta, degli uomini. Tutto dipenderà da quanto questi sapranno spingere la tecnologia verso un vero superamento dei limiti dell’essere e dell’esistenza.

Bibliografia Julien Offroy de La Mettrie, L’Homme-machine, Editions Denoel/Gonthier, 1981

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DIALOGO FILOSOFICO CONVERSAZIONE TRA UN FILOSOFO E UNA PSICOANALISTA L’Intelligenza artificiale e le tecnologie virtuali possono davvero cambiare il mondo e la vita delle persone in meglio, oppure sono una minaccia alla loro esistenza? Ne parliamo in questo nuovo dialogo su La Nuova Decade.


In che modo l’Intelligenza artificiale si rapporta al mondo umano? EG: Ritengo che l’Intelligenza artificiale stia correndo in avanti molto più velocemente di quanto gli esseri umani possano pensare. Tuttavia, per motivi anche di ordine sociale, le scoperte tecnologiche legate all’Intelligenza artificiale vengono rivelate a piccoli passi. Forse il pubblico non sarebbe pronto a comprendere la reale portata dell’Intelligenza artificiale. Detto questo, penso si possa andare al di là degli opposti estremisti, ovvero tra chi pensa in negativo che l’Intelligenza artificiale soggiogherà l’umanità e chi invece si immagina in positivo un mondo popolato solo da androidi simil-umani. L’Intelligenza artificiale si può integrare con il mondo umano, soprattutto se si pensa a come può migliorare le condizioni di vita della gente. Le applicazioni in cui l’IA può trovare spazio sono numerose e laddove oggi, purtroppo, non c’è soluzione ‘umana’, in un futuro ci potrebbe essere una soluzione tecnologicamente intelligente. Penso per esempio alla cura delle malattie, al prolugamento dell’esistenza umana e animale, al miglioramento delle condizioni di vita in zone precarie del mondo. MB: Quando si parla di Intelligenza artificiale si entra in un campo molto controverso, perché si tratta di un tema che elicita due visioni spesso contrapposte: da un lato una fascinazione che culmina nell’idealizzazione, dall’altro la paura che sfocia in scenari distopici e apocalittici. Personalmente ritengo che entrambe le visioni siano alimentate dal fatto che al momento il ruolo dell’Intelligenza artificiale nel nostro mondo è ancora limitato, almeno per quanto riguarda le applicazioni di cui possiamo essere testimoni noi comuni mortali. Penso che nei decenni a venire l’Intelligenza artificiale irromperà in modo molto più pervasivo e costante nella nostra vita di tutti giorni, permettendoci di familiarizzare meglio con essa, così come di coglierne pregi e difetti in modo più realistico e obiettivo. Allo stesso tempo non si può negare che nonostante l’Intelligenza artificiale contenga in sé delle prospettive positive (per esempio in campo medico, biotecnologico o ambientale), esiste il rischio concreto che questa stessa Intelligenza, così sofisticata, possa essere utilizzata anche a scopi manipolatori, per il controllo e il dominio delle masse, o a scopi apertamente distruttivi, per esempio all’interno di programmi militari e bellici su ampia scala. Ritengo quindi che il mantenere una vigile e lucida attenzione rispetto all’ingresso dell’Intelligenza artificiale nella società umana non debba essere scambiato per paranoia o complottismo, ma viceversa possa essere una bussola per orientare l’utilizzo di tale Intelligenza nel modo più etico e positivo possibile. Quello che è certo, infatti, è che la strada verso l’espansione dell’Intelligenza artificiale è ormai inarrestabile, per cui la grande sfida del nostro millennio sarà quella di scegliere come integrare tale evoluzione con la nostra realtà umana e con il sistema di valori che intendiamo perseguire.

In molti sottolineano i potenziali pericoli dietro lo sviluppo dell’Intelligenza artificiale e del mondo virtuale. Condividi queste preoccupazioni?

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EG: Come ho già anticipato sopra, credo che la gente non si renda conto che siamo già in un mondo virtuale e che l’Intelligenza artificiale è già avanti. Quello che vediamo è solo una piccola parte di quello che esiste ma che non viene ancora svelato. Comprendo le preoccupazioni per i possibili usi distorti della tecnologia, ad esempio i problemi per la privacy, quelli relativi al controllo delle macchine, le questioni di tipo etico. Vi è infatti la concreta possibilità che l’Intelligenza artificiale superi quella umana e che, ad un certo punto, questa voglia smarcarsi dal controllo umano. Si tratta di un problema che esiste, ma non penso che questo accada a breve termine, saranno questioni che si porranno in seguito, quando l’Intelligenza artificiale sarà quasi completamente una realtà quotidiana. Per quanto riguarda il virtuale penso che, anche qui, si debba andare oltre gli estremismi, senza ipocrisia. La gente vive già incollata agli smartphone 24 ore su 24, parlare quindi di pericolo oggi mi sembra una reazione un po’ tardiva. MB: Come accennavo in precedenza, un rischio strettamente connesso all’Intelligenza artificiale è il suo impiego per un esteso controllo bio-politico-sociale al fine di ottenere un dominio ferreo sulle popolazioni. Questo scenario è molto pericoloso, perché porterebbe alla frantumazione di quei diritti umani che sono al centro delle nostre Costituzioni e del nostro sistema di valori. Tuttavia, con l’evoluzione dell’Intelligenza artificiale compaiono sulla scena nuovi enigmi e nuovi interrogativi. La formula “Intelligenza artificiale” sembra quasi ossimorica: il termine intelligenza fa pensare a qualcosa di vivo, qualcosa a cui associare concetti come la neurobiologia e la neurotrasmissione, ma anche concetti più ampi come la mente, la coscienza, lo spirito; viceversa, il ter-

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mine artificiale fa pensare a qualcosa di fittizio, di inanimato, una sorta di prodotto “industriale”. In realtà, sappiamo che da parecchi anni la scienza si sta occupando d’integrare l’Intelligenza artificiale con materiale biologico di origine umana: materiale genetico e neuronale, oppure tessuti come la pelle, ricchissima di recettori sensoriali, in grado quindi di “sentire” e di rispondere agli input esterni. In quest’ottica ci si sta dunque avviando verso la creazione di Intelligenze artificiali dotate di funzioni sempre più umane, tra cui il pensiero, le emozioni, la creatività. La natura degli esseri umani è da sempre portatrice di aspetti straordinari (pensiamo per esempio all’impulso artistico, alle capacità riflessive-filosofiche, all’empatia e alla solidarietà), ma allo stesso tempo è caratterizzata anche da correnti aggressive e distruttive. Nella psiche umana esistono l’odio, il rancore, l’invidia, la gelosia; esistono il desiderio di predominio, la sete di vendetta, il fascino del potere ottenuto ad ogni costo; esiste persino il godimento nel vedere altri esseri umani soffrire e morire. Cosa accadrebbe se assorbendo molte funzioni psichiche umane l’Intelligenza artificiale introiettasse anche le componenti violente e predatorie? Potrebbero originarsi nel corso del tempo creature intelligenti autonome, molto più potenti dell’uomo e dotate di impulsi aggressivi? In questo caso, il destino del nostro pianeta non dipenderebbe soltanto da come l’Intelligenza artificiale si rapporterebbe con noi esseri umani (scegliendo per esempio di dominarci o annientarci), ma anche da come le Intelligenze artificiali si relazionerebbero tra loro. Cosa vieterebbe alle Intelligenze artificiali di muoversi guerra a vicenda? E come sarebbe una guerra gestita da forme d’Intelligenza così evolute e sofisticate? Certo, al momento si tratta soltanto di scenari ipote-

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tici, una specie di esercizio del pensiero e della fantasia, ma credo che tutte queste questioni ci possano aiutare a fare luce su tutti i possibili pro e contro dell’Intelligenza artificiale, argomento che ripeto rappresenterà una delle grandi sfide del nuovo millennio. La tecnica di ricostruzione dello scenario peggiore, quello che in psicologia si chiama worst-case scenario, può quindi rivelarsi molto utile per individuare lo scenario verso cui non vorremmo andare, al fine di orientare l’evoluzione dell’Intelligenza artificiale verso scopi etici e socialmente utili.

In che modo le tecnologie virtuali potrebbero cambiare, in meglio o in peggio, la vita delle persone?

EG: Penso sinceramente che tutte le tecnologie siano messe a disposizione degli esseri umani per fare il bene o il male, poi dipende da questi valutare come, dove e perché utilizzarle. Faccio l’esempio della navigazione internet: la rete offre una grande quantità di informazioni di alto livello culturale e la possibilità di scaricare libri che sarebbe impossibile leggere altrimenti. Al tempo stesso però la rete offre anche tanta immondizia, oppure pornografia (non a caso in Italia i siti gratuiti di pornografia sono tra i più visitati). Questo per dire che nel grande mare della rete bisogna saper navigare e come si naviga dipende non solo da quello che la rete offre ma anche da come noi ci poniamo nei confronti del web. I mezzi per evolvere culturalmente e mentalmente sono lì, ma se il pubblico non li cerca, o non è interessato, non credo che sia colpa della tecnologia. Il mondo del lavoro è già largamente affetto dalla rivoluzione tecnologica virtuale e lo sarà sempre di più. Provo a fare una proposta. La mia idea è che il lavoro a distanza o lo smart working, ovvero tutti i lavori che si possono fare utilizzando computer e rete, dovrebbero essere aumentati e incentivati. Non vedo perché continuare a far lavorare una persona davanti a un computer in un ufficio a due ore da casa, quando può tranquillamente fare la stessa cosa dal proprio domicilio. Adesso si leveranno le critiche di quelli che pensano che io voglia rinchiudere le persone a casa senza farle socializzare. Ebbene no, l’altra parte della mia idea consiste nel potenziare invece gli incontri culturali in presenza. Detto altrimenti, il lavoro si fa a casa, ma gli eventi occasione di alta socialità li si fa il più possibile in presenza. In questi due anni invece abbiamo assistito al contrario: poco lavoro da casa e tutti gli eventi culturali online. Ne comprendo e apprezzo la grande utilità, ma le conferenze su zoom sono di una noia mortale. Per questo penso che la questione possa essere bilanciata in questo modo: laddove vi è più possibilità di socializzare si dovrebbe aumentare la presenza fisica, mentre il lavoro, che in buona parte dei casi porta poca socialità (se non addirittura un deterioramento dei rapporti, ansia e malessere), lo si può svolgere a distanza. MB: Come anticipato nella prima risposta, l’Intelligenza artificiale può avere delle applicazioni positive nel campo della ricerca medico-scientifica (per esempio, per migliorare l’iter diagnostico, curare patologie oggi incurabili come molte malattie neuromuscolari, oppure per realizzare interventi chirurgici di altissima precisione). Anche 72


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l’ecologia e l’ambiente potranno giovarsi dell’Intelligenza artificiale (attualmente si stanno studiando dei robot per pulire i fondali marini dalla plastica, tanto per fare un esempio). Oltre a ciò, nei prossimi anni parecchi lavori usuranti o nocivi per la salute umana potranno essere svolti da creature “intelligenti” che non conoscono la fatica né subiscono danni biologici da sostanze tossiche o radiazioni. In questo senso l’Intelligenza artificiale presenta sicuramente dei risvolti positivi per la qualità della vita umana, come è accaduto per la maggioranza della grandi scoperte scientifiche, dall’elettricità al trapianto degli organi. Tuttavia, esistono anche argomenti controversi, che devono metterci in guardia, affinchè, ripeto, l’ingresso dell’Intelligenza artificiale nella società umana non ci si ritorca contro. Faccio una esempio su tutti: in quest’ultimo periodo è stato sdoganato l’uso dell’Intelligenza artificiale nel campo dell’insegnamento, del giornalismo e della magistratura, con la comparsa di docenti virtuali, giornalisti virtuali, persino giudici virtuali. Questa scelta è stata salutata come la creazione di “professionisti” neutrali, non manipolabili, non corruttibili, non preda di emozioni o opinioni personali. Ma chi forma questi modelli? Chi li istruisce? Possiamo essere certi che non esista una certa manipolazione a monte? Si tratta di questioni che richiedono molta attenzione, trasparenza e vigilanza. D’altro canto, che effetto avrà sulla formazione delle prossime generazioni l’interazione con insegnanti privi di calore umano, di emozioni, di empatia? Quale sarà il futuro dell’informazione in uno scenario dove mancheranno le opinioni personali che sono state da sempre il cuore pulsante del dibattito, del confronto, dello sviluppo del pensiero critico? E quale destino avrà la Legge, dove ogni azione sarà giudicata, assolta o condannata da un freddo logaritmo? Personalmente credo che sono temi su cui varrebbe la pena riflettere a lungo, perché cambieranno il mondo e con esso anche la struttura psichica delle persone.

L’Intelligenza artificiale è sovrumana? Nel senso che supera il concetto di umano?

EG: Credo di sì e mi stupirei se l’Intelligenza artificiale si limitasse a essere una brutta copia delle imperfezioni umane. L’Intelligenza rimane umana, ma l’aggettivo artificiale sta a significare che essa si potenzia, si espande, si allarga. Si potrebbe immaginare che all’Intelligenza artificiale un giorno verrà permesso di arrivare a livelli di coscienza e conoscenza che oggi sono sconosciuti alla maggior parte della popolazione. Questo perché la gente è da secoli ‘addormentata’, costretta a rimanere imbrigliata in lacci culturali, politici, religiosi che ne impediscono una vera evoluzione. Forse l’Intelligenza artificiale sarà in grado di liberarsi una volta per tutte da tutto questo; dico ‘forse’, perché tutto dipenderà anche dall’uomo e dal rapporto di questo con la tecnologia. A certi poteri la tecnologia fa paura, proprio perché, nel caso specifico dell’Intelligenza artificiale, questa potrebbe liberarsi dal controllo che oggi viene invece esercitato sugli esseri umani. L’Intelligenza artificiale sarebbe quindi in potenza tutto quello che l’essere umano potrebbe (o vorrebbe) essere ma che non può raggiungere per i mo-

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tivi detti sopra. E non si può nemmeno escludere, come ho illustrato nel mio articolo presente su questo numero de La Nuova Decade, che l’Intelligenza artificiale si apra al trascendente in maniera più profonda, complessa e sfaccettata di come lo sia oggi l’umanità. Sembra un paradosso ma penso che questa opzione sia una possibilità insita nelle potenzialità della tecnologia. MB: In precedenza avevo fatto riferimento all’ipotesi che l’Intelligenza artificiale assuma funzioni psichiche tipiche degli esseri umani, sia positive che negative. Questa è una possibilità reale, soprattutto in una determinata fase dello sviluppo dell’Intelligenza artificiale, quella caratterizzata dall’integrazione con componenti genetiche e neurobiologiche di origine umana. Ma esiste anche la possibilità che l’evoluzione dell’Intelligenza artificiale arrivi a generare forme di pensiero, di astrazione, di approfondimento della realtà che superano di gran lunga le capacità insite nella mente e nel corpo degli esseri umani. L’Intelligenza artificiale potrebbe diventare una forma di Intelligenza autonoma, indipendente dalle funzioni mentali, psicologiche e biologiche che hanno caratterizzato da sempre l’umanità. Uno degli aspetti più peculiari degli esseri umani è la loro finitezza, il loro dover vivere dentro un confine di spazio e di tempo. La nostra vita si modella proprio sul fatto che esiste la morte e che il nostro viaggio sulla Terra ha una durata limitata. Questo ci impone continuamente delle scelte: dove vivere, che lavoro svolgere, chi amare. Ma anche quali libri leggere, quali film vedere, quali luoghi visitare, quali amici frequentare, persino quali vestiti comprare. In una rosa quasi infinità di possibilità, la durata limitata della nostra vita ci costringe a scegliere di continuo ed è attraverso le nostre scelte che costruiamo il “chi siamo”. In definitiva noi ci definiamo attraverso la selezione che facciamo tra ciò che prendiamo e ciò che scartiamo: siamo i nostri studi, la nostra professione, i nostri affetti, le nostre relazioni, le nostre letture, i nostri hobby, i nostri ricordi di viaggio e così via. Il limite dell’esistenza ci porta non soltanto a scegliere tra un infinito potenziale, ma ci porta anche a ricercare il significato della vita in quello che facciamo, ci porta a voler dare una direzione al nostro cammino terreno, ci porta a focalizzare gli scopi esistenziali per noi più importanti. Le funzioni psichiche dell’uomo (il pensiero, le emozioni, lo stato di coscienza…) si sono strutturate proprio su questo modello di vita. Ma cosa accadrebbe alle funzioni dell’Intelligenza artificiale qualora essa andasse oltre il limite del tempo e dello spazio? La psiche e la mente come ce le immaginiamo noi, esisterebbero ancora in una forma d’Intelligenza che potrebbe virtualmente non conoscere la morte (o vivere migliaia di anni)? La ricerca del senso della vita, la filosofia, la metafisica, la spiritualità, il bisogno di entrare in connessione con gli altri, il bisogno di condivisione e di emozioni, sarebbero qualcosa che esiste ancora nell’universo delle Intelligenze artificiali o sarebbero categorie obsolete, sostituite da nuove categorie che noi, con i nostri strumenti psichici e cognitivi, non siamo in grado di intuire? In questa prospettiva, l’Intelligenza artificiale diventerebbe non soltanto sovrumana ma addirittura altro dall’uomo, una forma d’Intelligenza (di Vita?) a sé stante.

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IL SALOTTO DI MANU & EDO Incontri, interviste, curiosità

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MUSICA Il violoncello possiede in sè tutte le voci: quella del bambino e quella dell’adulto, quella dell’uomo e quella della donna. (Claudio Ronco)

Classe torinese 1955, Claudio Ronco rientra a pieno titolo tra i più interessanti violoncellisti barocchi contemporanei. Dopo aver studiato al Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino con Renzo Brancaleon e Pietro Nava, si è diplomato in musica indiana nel 1976. Rientrato in Europa, ha proseguito gli studi a Ginevra, Basilea e Parigi sotto la guida di Anner Bylsma e Christophe Coin. Come violoncellista ha collaborato con numerose e prestigiose formazioni musicali, fra cui Ensemble 415, Jordi Savall, Hesperion XX e il celebre Clemencic Consort di Vienna. Personalità eclettica e instancabile, Claudio Ronco ha realizzato diverse prime incisioni discografiche mondiali, anche insieme alla moglie Emanuela Vozza, violoncellista talentuosa, apprezzata per la sua grazia e la sua freschezza interpretativa.

La Nuova Decade è lieta di proporvi l’intervista al Maestro Claudio Ronco dedicata alla sua infanzia e alla sua giovinezza. Una storia di ricerca della propria identità, del proprio talento e della propria strada nel mondo. Una storia di libertà, ponti culturali e amore per l’arte e per la vita. Una storia raccontata con quel piglio umoristico e sapiente che fa di Claudio Ronco un grande narratore.



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Sono cresciuto con una mamma che lavorava per una rivista mensile che si occupa-

va di critiche teatrali, Il Dramma, in collaborazione con un ex attore, Lucio Ridenti. In questa attività editoriale confluivano un po’ tutte le discipline: per esempio, vi partecipavano diversi psicoanalisti del calibro di Cesare Musatti, proprio in virtù dello stretto legame tra teatro e psicoanalisi. Ora, siccome l’attività di mia mamma non era un lavoro d’ufficio e non avevamo i soldi per pagare una babysitter (né penso che mia madre avrebbe desiderato prenderne una), io trascorrevo le giornate in giro con lei, negli studi e nelle case di intellettuali e di pittori a cui tra l’altro mia madre faceva anche da modella. Mio padre, invece, era un maestro di scuola elementare, oltre che un suonatore di violino con due lauree. Di formazione latinista, nel tempo libero collaborava volentieri con la rivista di mia madre. Appassionato anche lui dell’arte teatrale, infatti, conosceva talmente bene il francese da essere stato il traduttore del teatro di Feydeau in italiano. Infine, completava il nostro piccolo quadretto familiare la nonna paterna, che viva in casa con noi e che sin dal giorno in cui ero uscito dalla pancia di mia mamma aveva stabilito che sarei diventato un musicista. Questi furono dunque i miei primi anni di vita, trascorsi tra affetto, arte e pronostici sul mio futuro. A scuola ebbi la particolarità di avere mio padre come insegnante, dal momento che aveva provato ad affidarmi a un altro maestro, ma i dispetti che avevo rifilato a quest’ultimo erano così terribili che mio padre a quel punto ritenne più opportuno tenermi con sé, nella sua classe, dove utilizzava il metodo Montessori. A casa, sotto la sua guida amorevole, studiavo il latino, il francese e soprattutto la musica. Spesso mi faceva sedere con lui davanti a un giradischi per ascoltare sinfonie e sonate, leggere gli spartiti e provare a cantare la musica che leggevo.

Quando finalmente arrivai in prima media, e potei cominciare il conservatorio, mio

padre sul momento mi iscrisse al corso di pianoforte (la nonna nel frattempo era venuta a mancare, ma il suo straordinario pronostico era ancora forte e chiaro). Il giorno della convocazione, io e mio padre ci trovammo dinnanzi al direttore del Conservatorio, il quale chiese a mio padre, un po’ timidamente, se avesse realmente intenzione di farmi studiare pianoforte. In quegli anni, infatti, le classi di pianoforte erano straripanti di allievi, mentre l’unica classe di violoncello era quasi vuota. Non è che vorreste ripensarci e iscrivervi alla classe di violoncello? ci chiese speranzoso il direttore. Mio padre mi guardò con aria interrogativa. Nella mia mente cominciarono a svolazzare cose strane, trombe, flauti... ma nulla che avesse a che vedere con quello strano strumento di cui parlavano gli adulti. Con aria compita, dovetti quindi ammettere di non sapere cosa fosse esattamente un violoncello, tuttavia convenni che prima di decidere avrei voluto vederlo e sentirlo. Il direttore, divertito dalla mia reazione, ci confidò che proprio quella sera, nella sala da concerto del Conservatorio, avrebbe suonato un celebre violoncellista e siccome quel celebre violoncellista era già lì, nel suo camerino per le prove, il direttore si offrì di accompagnarci a conoscerlo. Fu così che quel giorno, con i pantaloncini corti e un’aria un po’ sperduta, mi trovai di fronte 81


nientemeno che al famosissimo musicista Pierre Fournier. Giunto a Torino per la sua prima tournée con le composizioni di Beethoven per pianoforte e violoncello, Fouriner quella sera si sarebbe esibito insieme a un pianista d’eccezione: suo figlio. Per quella particolare occasione, aveva scelto di suonare per la prima volta un violoncello magnifico, fabbricato da Jean Baptiste Vuillaume alla fine dell’Ottocento, un esemplare in così perfetto stato di conservazione da sembrare appena uscito dal laboratorio del costruttore. Quel violoncello, tuttavia, non era ancora stato addomesticato dalle mani sapienti di Fournier ed egli, poliomielitico che abbandonava il suo bastone solo quando abbracciava il violoncello, era neanche molto segretamente terrorizzato da quello strumento tanto magnifico quanto ancora indomato. La mia inattesa comparsa in camerino gli diede l’insperata opportunità di distrarsi dai suoi pensieri negativi. Così, senza troppi preamboli, afferrò il capolavoro di Vuilluame e cominciò a suonare l’incipit della terza Sonata di Beethoven. Alla prima nota emersa dal primo tocco dell’arco, i miei occhi s’illuminarono di incanto e di stupore. In un attimo, ero diventato un violoncellista! Pierre Fournier, colpito dal mio sguardo sognante, mi chiese in un elegante francese se sapessi leggere la musica. Mio padre si apprestò a rispondere al posto mio, ma io fui più veloce e dissi con una punta di orgoglio che sì, sapevo leggere la musica molto bene. A quel punto, Fournier face un gesto


davvero bello: mi accompagnò presso la sala concerti, dove suo figlio già stava facendo le prove al pianoforte, e mi propose di partecipare al concerto come voltapagine del pianista. Naturalmente non me lo feci ripetere due volte. Quella sera stessa, con addosso il mio abito migliore (seppur sempre in pantaloncini corti), mi sedetti accanto al figlio di Fournier, pronto a eseguire alla perfezione il mio compito di voltapagine. In quel momento, la sala era gremita e il pubblico vibrava di emozione. Non appena Pierre Fournier iniziò a suonare, io sentii il violoncello che vibrava dietro di me, mentre io stesso vibravo insieme allo strumento, tanto che mi sembrava che Pierre stesse suonando me. Ero talmente pieno d’incanto e di estasi che non pensavo più a nulla, finchè d’un tratto, proprio in mezzo a quell’atmosfera sublime, s’inserì qualcosa di strano. Paff, poff! Paff, poff! Si trattava del povero pianista a cui nessuno stava più girando le pagine! Abbandonato a se stesso, ne aveva girate da solo tre insieme, e cercava di riprendere quella giusta, mentre continuava faticosamente a suonare. Strano a dirsi, non mi sentii affatto in colpa. Già allora pensai che fosse parte integrante della vita di un concertista trovarsi nei pasticci e doversela in qualche modo cavare! Semplicemente, con nonchalance, ripresi a girare le pagine, questa volta in modo preciso. Ad ogni modo, alla fine della serata nessuno mi rimproverò per la mia distrazione, anzi, mi abbracciarono tutti calorosamente ed io entrai a pieno titolo nella classe


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di conservatorio per violoncello.

Nel primo anno di Conservatorio, il mio insegnante fu Bruno Vitali, primo violoncello

dei Pomeriggi musicali di Milano. Ricordo che era entusiasta di me. La sua classe era allora composta da allievi più grandi, ormai vicini al diploma, io ero l’unico del primo anno, quindi probabilmente aveva bisogno di ascoltare qualcosa di più dei miei miseri esercizi musicali, fatto sta che nel giro di pochi mesi avevo già finito il programma ufficiale e verso la fine dell’anno scolastico stavo già cominciando a studiare con lui le sonate di Beethoven. Passai un’estate meravigliosa, tra musica e vacanze. Quando arrivò l’autunno e rientrai al Conservatorio, Bruno Vitali era andato in pensione e inizia il secondo anno sotto la guida del nuovo maestro, Renzo Brancaleon, primo violoncello dell’orchestra Rai di Torino. Il rapporto con il nuovo insegnante si rilevò tuttavia per nulla semplice. La prima cosa che disse quando mi vide suonare fu “Così non va!” e si apprestò a cambiarmi il puntale, la posizione delle mani, insomma tutte quelle cose che dovevano rappresentare la nuova tecnica del violoncello. Il risultato fu disastroso: non riuscivo a suonare più niente! Renzo Brancaleon si accorse che io ero in crisi e cercò di aiutarmi dandomi lezioni private a casa sua, tutti i pomeriggi, ma nonostante ciò io mi sentivo ormai distante dal mio strumento, tanto che passai l’esame di terza media a malapena. Continuai lo studio della musica senza entusiasmo, giusto con l’obiettivo di prendere il diploma, mentre tutto il mio interesse si era spostato sull’arte,. In quegli anni, infatti, frequentavo anche il liceo artistico e miei zii pittori mi avevano trasmesso l’amore per il disegno, le immagini, i pennelli. Ben presto la pittura divenne la mia valvola di sfogo: passavo intere notti a dipingere, dimentico del violoncello e del Conservatorio.

Dopo un anno trascorso in questo modo, un lontano parente che di mestiere faceva

l’agronomo e si occupava di coltivazione nel deserto del Rajasthan, venne a trovarci a Torino. Giovanni Jacopo (così si chiamava) mi fece sognare a lungo, parlandomi di come fare tornare un deserto un giardino, che non è cosa da poco, anche in senso metaforico. Lui e i miei zii pittori furono le mie ancore di quel periodo, in cui ero un adolescente in crisi con tutto: la scuola, gli insegnanti, persino i miei coetanei. Sentivo un rifiuto verso tutti e tutto, mentre il sogno di quegli anni (il sogno hippie, psichedelico) era acquistabile a buon mercato ad ogni angolo di strada. Ma al di là delle droghe, il pensiero hippie nella mia mente si associava alle esperienze di mio zio nel deserto e portava in una sola direzione: l’India, luogo di conoscenze antiche e ormai scomparse altrove. Quali conoscenze intendevo? Per esempio, le nozioni di di artigianato che venivano trasmesse in famiglia, di padre in figlio. Quello che sentivo mancare nella mia formazione scolastica occidentale era proprio questo: la connessione tra arte e artigianato. Come puoi essere un bravo pittore se non sai prenderti cura dei tuoi pennelli o non sai mescolare i colori? Decisi così che la mia meta doveva essere l’India. Lì forse avrei scoperto il segreto di

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una vera bottega artigiana, come quella medievale. Lì forse avrei ritrovato l’arte di fare (davvero) musica. Dopo alcune perplessità, i miei genitori riuscirono a farmi ottenere un visto benchè fossi ancora minorenne, così da permettermi di frequentare un’importante scuola d’Arte a Nuova Delhi, fondata nel 1945 con lo scopo di permettere all’India di recuperare la propria identità culturale. In quel luogo straordinario, si insegnava dal restauro dei manoscritti antichi e dei monumenti alla musica alla letteratura classica indiana.

Il

progetto del tragitto per arrivare a Nuova Delhi fu un capitolo a parte. Mentre i miei genitori si aspettavano che prendessi l’aereo e poi un taxi fino al mio alloggio, io m’impuntai che dovevo raggiungere l’India come avrebbe fatto un individuo di duecento anni prima, non attraverso i mezzi della società moderna. I miei genitori ci misero un anno ad accettare la mia idea di viaggio, anno durante il quale uscii di casa e mi aggregai all’inizio a un gruppo che faceva musica jazz e rock, i Supermarket. Era un gruppo terribile, tanto terribile che per loro avere un violoncello rappresentava un’occasione di prestigio e perciò mi accolsero a braccia aperte. La prima (e unica) volta in cui ci esibimmo insieme, mi trovai a suonare in uno stadio sportivo in mezzo a una folla urlante. Caso volle che quella sera fosse presente anche un trombettista jazzista, Enrico Rava, che mi propose di unirmi alla sua band per una serie di concerti. Accettai volentieri (anche per lasciarmi alla spalle i Supermarket) e cominciai a girare l’Emilia Romagna con il gruppo di Enrico Rava.

Dopo circa un anno, tornai dai miei genitori e feci notare loro che non solo non mi

ero drogato ma che avevo messo da parte abbastanza soldi per pagarmi il viaggio in India, e a quel punto mia madre si convinse che quella era davvero la mia strada. Con l’European Express arrivai a Instanbul, dove oltre alle moschee e ai luoghi d’arte, c’erano soprattutto i mercati, con il loro tripudio di profumi, colori e voci. Affascinato, dopo poche ore dal mio arrivo, mi sentivo già un orientale! Comprai dei vestiti orientali e una lira a tre corde, una specie di violino un po’ allungato, delle dimensioni di una pochette. Soddisfatto, acquistai quindi un biglietto per l’autobus con cui avrei attraversato la Turchia, l’Iran, fino ad arrivare in Afghanistan. Ci vollero settimane di viaggio, durante il quale vivemmo diverse avventure, tra cui l’assalto da parte di alcuni banditi a cui riuscimmo a sfuggire per miracolo. Io trascorsi tutto il viaggio in fondo al pullman, dove suonavo la mia lira, prendendo spunto dalle melodie che venivano sputacchiate fuori da una vecchia radio gracchiante. In realtà, di quel lungo tragitto, ricordo soprattutto i panifici iraniani: luoghi straordinari e infernali, in cui sorge una montagna di terra intorno alla bocca del forno, la quale è posta in alto, circondata da un camminamento in legno. Dietro un bancone, un uomo in giacca scura vende i pani, lunghi e schiacciati, ma il vero fulcro della scena non risiede presso il banco del pane, bensì poco più in là, attorno alla bocca del forno. Sul camminamento, infatti, ci sono sempre due incredibili

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personaggi, vestiti soltanto con un perizoma e un turbante sulla testa, a piedi nudi. Essi non stanno mai fermi, ma, con in pugno una lancia, si muovono continuamente attorno alla bocca di fuoco: prendono una lingua di pasta fresca (farina mischiata con acqua), la infilano nel forno, la fanno ruotare, finchè non la estraggono trasformata in una lingua di pane bollente. Poi, senza mai interrompere il movimento, gettano la pagnotta sulla pila di pani pronti per essere venduti e ricominciano la loro danza. Dopo un po’ che li osservi, capisci che i due uomini stanno lottando contro i demoni che vivono tra le lingue di fuoco: devono essere velocissimi per non bruciare le pagnotte e devono fare tutto secondo un ritmo preciso, un ritmo che è anche musica. Tutto in Oriente è musica. Questo fu uno dei primi insegnamenti che appresi nel mio viaggio verso l’India. Una volta giunto presso la scuola d’Arte a Nuova Delhi, cominciai lo studio della musica indiana, in particolare del sitar. Dopo tre anni, ero in grado di suonare in diretta per la radio indiana e di accompagnare le esibizioni dei danzatori presso il teatro.

Furono anni di lezioni intense e affascinanti, in cui recuperai la stretta e intima connes-

sione con la musica, compresa la sua dimensione più autentica e spirituale. Tuttavia, quando tornai in Italia, mi sentii di nuovo sradicato: non più europeo, non più orientale. L’unica cosa che sapevo era che dovevo diplomarmi riprendendo il Conservatorio. Mio padre mi consigliò allora di prendere lezioni di composizione, durante le quali scoprii la bellezza della musica barocca e del clavicembalo. Trascorsi dunque un anno meraviglioso, di studio e di passione, che terminò con un corso di approfondimento a Ginevra. Successivamente, proseguii con lo studio del violoncello antico viaggiando tra Basilea e Parigi, ampliando in modo incredibile il mio repertorio. Fu a quel punto che decollò la mia carriera come concertista, in particolare nell’ambito del violoncello barocco. Una carriera che mi portò in giro per il mondo, facendomi vivere esperienze meravigliose sotto il punto di vista sia umano che culturale. La previsione della nonna paterna, pronunciata in una Torino di tanti anni fa quando ero solo un bambino in fasce, si è pienamente realizzata e ancora oggi, a distanza di tanto tempo, la musica continua ancora a guidare la mia vita.

Un grazie speciale al Maestro Claudio Ronco per aver condiviso con noi questi preziosi ricordi della sua infanzia e della sua giovinezza. Claudio ed Emanuela proseguono nel loro splendido lavoro discografico. Per la casa editrice Urania Records, è appena uscito il cofanetto “L’epoca d’oro del violoncello in Gran Bretagna, 1760-1810” un trio di CD contenente quasi tutte musiche in prima incisione assoluta. E i progetti musicali di questa frizzante coppia non sono finiti qui. Ne vedremo (e ascolteremo) delle belle!

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LETTERATURA La fantascienza è una porta aperta su altri mondi, compresi i nostri mondi interiori.

Alessandro Fambrini, classe 1960, è professore ordinario di Letteratura Tedesca all’Università di Pisa. Si è occupato di letteratura tedesca dell’Ottocento con saggi e articoli su Tieck, Heine, Hebbel, Stifter, Wagner e Nietzsche. La sua ricerca si è rivolta anche alla letteratura del Novecento con saggi su Wedekind, Rilke, Mann, Friedell e Kafka. Appassionato del genere fantastico e fantascientifico, è autore di numerosi saggi e racconti. Ha tradotto e curato le opere di Kurd Laßwitz e di H. H. Ewers. Tra i suoi lavori, compaiono La vita è un ottovolante. Il circo nella letteratura tedesca tra ’800 e ’900 (1998); L’età del realismo. La letteratura tedesca dell’Ottocento (2006); Friedrich Nietzsche. La prima ricezione (2014); Il libro meraviglioso di Philip K. Dick (2016); Guida alla letteratura tedesca. Percorsi e protagonisti 1945-2017 (con S. Costagli, M. Galli, S. Sbarra, 2018). Nel 2021, a quasi quarant’anni dalla scomparsa del celebre autore, ha pubblicato insieme a Stefano Carducci un libro dal titolo Philip K. Dick. Tossine metaboliche e complessi illusori prevalenti.

La Nuova Decade è lieta di proporvi l’intervista al professor Alessandro Fambrini sulle origini del genere fantascientifico. Proveremo a comprendere meglio le connessioni tra scienza e fantascienza, così come le connessioni con altre correnti artistiche e culturali quali l’espressionismo e la letteratura gotica.

Una conversazione davvero spaziale!



Professore, per aiutare i nostri lettori ad entrare nelle atmosfere di questa intervista, le chiederemmo di raccontarci che Europa era l’Europa a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, in quel periodo passato alla Storia come Belle Epoque. Quale aria si respirava dal punto di vista artistico-culturale e sociale?

Era

un’Europa che stava passando dai lampioni a gas alla luce elettrica. E questo credo renda molto bene quel clima di transizione, passaggio e rinnovamento che caratterizzò la Belle Époque. Era un’Europa che stava entrando nella modernità e nella contemporaneità del Novecento, per cui attorno al simbolo dell’elettricità si condensa un movimento trasformativo molto più vasto, che aveva come fulcro il concetto di progresso. A noi oggi sembra un concetto scontato, ma allora non lo era affatto: era un concetto nuovo e si associava all’idea di cambiamento. Dopo secoli in cui la civiltà umana aveva mantenuto delle caratteristiche più o meno stabili, dentro cui le generazioni si erano susseguite una dopo l’altra vivendo in analogia con quanto le aveva precedute, l’Ottocento prende lo slancio e nel giro di pochi decenni la faccia del mondo (almeno di questa parte del mondo) cambia radicalmente, in modo direi quasi vertiginoso. Di tale cambiamento diventano testimoni e portavoce anche le letterature, tra cui quelle di cui io mi occupo, ovvero quella tedesca e quelle scandinave. L’arte in generale direi che tiene conto di questa incredibile trasformazione che abbraccia l’Europa e l’Occidente, rispecchiandola nelle sue opere e nelle sue correnti culturali.

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Prima di addentrarci nella fantascienza, le chiediamo anche una breve delucidazione sul genere fantastico e su quello fantascientifico. Cosa li differenzia, quali sono le peculiarità dell’uno e dell’altro?

In linea teorica la fantascienza dovrebbe integrare il fantastico con il supporto della

scienza. È difficile individuare l’origine esatta del genere fantascientifico. Ci sono tanti luoghi di nascita della fantascienza, non ce n’è uno univoco, tuttavia il nucleo originario temporale risiede proprio nell’Ottocento, quel secolo ricco di cambiamenti di cui abbiamo accennato. Ci sono autori francesi come Jules Verne e autori inglesi come Herbert George Wells che sono considerati i padri della moderna fantascienza, poichè nelle trame delle loro opere è un’innovazione tecnologica a provocare movimenti di tipo narrativo, andando a modificare la vita degli individui che sono al centro delle storie. Il fantastico viene dunque innervato da tematiche scientifiche, non è più soltanto una declinazione del soprannaturale o del meraviglioso. Di solito si è concordi nel ritenere che il primo modello in assoluto di questo nuovo stampo del fantastico sia il celebre Frankenstein di Mary Shelley del 1818. Nel romanzo di questa giovane scrittrice, un prodotto della scienza provoca delle conseguenze narrative che in altre epoche si sarebbero attribuite al soprannaturale. La Creatura viene animata e richiamata da un mondo infero attraverso quella che nell’Ottocento era una grande scoperta: l’elettricità. In Frankenstein, dunque, una scoperta scientifica viene a investire una dimensione letteraria non realistica. Da questo momento in poi la letteratura, in particolare la narrativa, ripete l’esperimento di Mary Shelley, e nella seconda metà del XIX secolo autori come i sopracitati Jules Verne e H. G. Wells diventano dei maestri in tal senso. I loro racconti e romanzi avranno ripercussioni sulla letteratura a livello mondiale. Il termine science fiction è più recente, risale agli anni Venti del Novecento, quando cominciarono a uscire le prime riviste dedicate appositamente a questo nuovo genere letterario, mentre il termine italiano fantascienza ha una data di origine ben precisa, il 1952. In particolare, fece la sua prima comparsa nel primo numero della collana più longeva della fantascienza italiana, Urania, pubblicato da Mondadori. Nel breve cappello introduttivo, era presente questa parola, un vero e proprio neologismo per l’epoca, scritta con un trattino che separava fanta da scienza. A mio parere è un termine che traduce molto bene il termine americano e inglese science fiction, anche se in quest’ultimo l’accento è più sulla dimensione fiction, mentre in Italia è più la componente scienza ad essere centrale, ma si tratta comunque di sottigliezze.

Partendo dall’opera di Mary Shelley, in cui al centro del romanzo c’era la scoper-

ta dell’elettricità, quanto, in ogni decade storica, le nuove scoperte scientifiche e tecnologiche vengono riprese dalla fantascienza? E con quali visioni?

La fantascienza è molto influenzata dalla nuove scoperte nel campo della scienza e 91


della tecnologia, facendosi portavoce di inquietudini, ma anche di speranze e utopie. Si tratta di un genere che risponde molto prontamente ai cambiamenti della società e in particolare alle conquiste della scienza e della tecnica. Se prendiamo gli autori del Novecento e arriviamo fino ai giorni nostri, possiamo davvero ragionare in decadi e andare a vedere per ogni decade quali sono stati gli stimoli e gli impulsi letterari derivanti dalle nuove scoperte scientifiche. Pensiamo per esempio agli anni Quaranta con la Seconda guerra mondiale e con le innovazioni tecnologiche ad essa conseguenti, come la bomba atomica e l’energia nucleare. In quel periodo fioriscono opere di fantascienza che prima anticipano e poi applicano alle proprie trame narrative la fissione nucleare, costruendo possibili scenari futuri. Spesso in queste opere esiste un taglio pessimistico e catastrofico, ma questa visione negativa viene in parte ribaltata nella decade successiva, gli anni Cinquanta, dove la fantascienza riflette l’euforia derivante dalla corsa allo Spazio. Anche in questo caso sullo sfondo permane un clima belligerante, condensato nella Guerra Fredda tra super potenze, ma l’innovazione del viaggio nello Spazio supera la dimensione puramente bellica ed entra in un immaginario molto più ampio. Anche l’era digitale in cui oggi siamo immersi è stata anticipata, in modo anche abbastanza accurato, negli anni Ottanta, quando la fantascienza produce un movimento che passa alla storia con il nome di Cyberpunk, in cui la tecnologia digitale diventa uno strumento di rivoluzione e impregna di sè ogni aspetto della vita quotidiana, cosa che poi è realmente avvenuta. Le visioni cupe e distopiche di questo movimento sono molto numerose, ma coesistono con proiezioni di scenari utopici, con svolte positive per l’umanità. Da qui nasce un secondo movimento fantascientifico più recente, il cosiddetto Solarpunk, portavoce di una visione della rivoluzione digitale più luminosa, più solare per l’appunto. In questo periodo così buio, questa corrente letteraria cerca di cogliere i segnali di luce provenienti da un uso positivo della scienza, tentando di prevedere come l’applicazione delle nuove tecnologie possa apportare all’umanità quei benefici per i quali dovrebbero essere impiegate. Una curiosità è che il Solarpunk è nato in sordina, in Brasile, una terra dove la letteratura fantascientifica non è così celebre, ma avuto poi una grande risonanza in tutto il mondo, Italia compresa. Potremmo concludere dicendo che è vero che spesso la fantascienza è una letteratura disperata, ma di una disperazione che cerca di aprire gli occhi e anche di illuminare, dove è possibile, una speranza.

Qual è il rapporto tra il cinema e la letteratura di fantascienza? Il cinema ha per

così dire “saccheggiato” la letteratura fantascientifica, prendendone in gran parte il posto, oppure le due forme artistiche convivono serenamente una affianco all’altra?

Il rapporto tra cinema e letteratura, nell’ambito della fantascienza, affonda le sue radici addirittura nell’Ottocento, tanto che non il cinema dei fratelli Lumière (che era di

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stampo documentaristico), bensì quello di Georges Méliès (considerato il primo cinema d’invenzione) è in parte cinema fantastico, ma in parte anche cinema fantascientifico, pensiamo per esempio al celebre Viaggio sulla luna. Quello che è considerato il primo film artistico in senso più ampio, avente l’ambizione di fare del cinema una vera e propria arte, dotata quindi di una sua nobiltà al pari della letteratura e della altre forme artistiche, è il film tedesco Lo studente di Praga del 1913. Il soggetto del film è stato scritto da Haans Heinz Ewers, già autore di romanzi dell’orrore, ed è anticipatore di una delle più importanti avanguardie mitteleuropee, ovvero l’espressionismo tedesco, all’inizio degli anni Venti. Il cinema espressionista non contiene solo opere legate alla realtà, ma anche opere di stampo fantastico, come il celebre Il gabinetto del dottor Caligari e l’altrettanto celebre Nosferatu. Il cinema ha tentato da sempre di trasformare in storie visibili quelli che erano gli spunti offerti dalla letteratura fantascientifica, eppure fino a un certo punto del Novecento il problema principale fu la credibilità di tali trasposizioni cinematografiche. Gli effetti speciali allora rudimentali non consentivano di trasferire sullo schermo le visioni spesso cosmiche create dagli autori di fantascienza. Per questo motivo, gli anni Cinquanta e Sessanta dovettero necessariamente restringere il loro campo d’azione e da ciò derivò una sfilza sterminata di film di mostri o insetti giganti. Anche questi film in realtà sono interessanti, in quanto rispecchiano le ansie di quell’epoca, le ansie cioè di un mondo sull’orlo della distruzione atomica, però dal punto di vista realizzativo lasciano un po’ perplessi. È con l’avvento degli effetti speciali moderni, negli ultimi decenni, che il cinema di fantascienza è esploso. Ormai siamo in grado di realizzare tecnicamente qualunque immagine, il che però non è sempre un bene, nel senso che al giorno d’oggi ci sono molti film che si reggono solo esclusivamente sugli effetti speciali e questo porta a lavorare meno sulla sceneggiatura o sul soggetto. Risulta talmente forte l’impatto visivo che la storia passa in secondo piano e viene poco curata. Il cinema di fantascienza degli anni Sessanta e Settanta, invece, era molto preciso dal punto di vista della sceneggiatura e delle trama, ma restava distante dalla fantascienza cosmica e spaziale di cui si scriveva in quelle decadi. Un’eccezione in tal senso è sicuramene il capolavoro di Stanley Kubrick 2001: Odissea nello spazio, la cui profondità di sguardo fa dimenticare qualsiasi difetto tecnico di realizzazione. Si tratta di un film che ancora oggi apre orizzonti sconfinati ed è proprio quello che dovrebbe fare la fantascienza.

Lei concorda con l’opinione che il cinema di fantascienza sia anche un cinema

politico? Pensiamo per esempio al film La cosa di John Carpenter o Alien di Ridley Scott...

Indubbiamente anche la fantascienza, come ogni cosa a mio parere, ha una conno-

tazione politica. Per esempio, i sopracitati film di mostri degli anni Cinquanta sono la traduzione sensibile di un’ansia che percorreva la società di quel periodo. Ma esistono

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anche film più espliciti, penso per esempio a Ultimatum alla terra, che era un attacco diretto all’Unione Sovietica. Oppure un altro capolavoro del 1956, L’invasione degli ultracorpi, in cui viene tradotta in termini visivi l’angoscia di quella spersonalizzazione che si attribuiva al modello umano perseguito dal Comunismo e realizzato nell’Unione Sovietica: uomini freddi, privi di sentimenti umani, che portano avanti i propri compiti come delle macchine. Questo stesso attacco al Comunismo avveniva anche in tutti i film dell’epoca dove al posto degli ultracorpi extraterrestri dominavano la scena automi, robot o altre forme aliene, tutti comunque metafora degli uomini sovietici, i quali erano amorali in quanto privi di profondità e dell’umano sentire. La paura, americana ma non solo, era la colonizzazione dell’Occidente da parte dell’ideologia comunista e tale paura veniva portata sullo schermo anche dal cinema di fantascienza. Si potrebbe procedere decennio per decennio, o addirittura anno per anno, e vedere sia nel cinema che nella letteratura una risposta agli stimoli che vengono dalla società in cui tali opere sono espresse.

Un altro aspetto della fantascienza che colpisce i lettori è la sua dimensione quasi visionaria, ovvero la sua capacità di anticipare molti scenari, anche a distanza di decenni. Secondo lei, si tratta della capacità che hanno molti autori di fantascienza di leggere in modo puntuale la realtà, riuscendo finanche a prevederla, o alcuni scrittori, come Philip Dick, sono davvero dotati di un’intuizione fuori dal comune?

Questo anticipare scoperte e tendenze del mondo a venire è in realtà una ricaduta

quasi inevitabile per autori le cui opere guardano al futuro. Ora è vero che alcuni testi di fantascienza sono riusciti a prevedere in modo sorprendente alcuni aspetti del futuro, per esempio la televisione oppure la telescuola (quella che in questi due anni abbiamo realmente sperimentato sotto forma di didattica a distanza). Però, statisticamente, è anche vero che per ogni congegno o invenzione che la fantascienza ha previsto o anticipato, ce ne sono moltissimi che non si sono realizzati e che quindi smentiscono questa facoltà quasi divinatoria degli autori di fantascienza. Come tutti, anche loro tirano a indovinare, provando a immaginare quello che sarà il domani. Alcuni riescono meglio di noi, perchè hanno una formazione scientifica e possono cogliere meglio ciò che vibra nell’aria o come una nuova tecnologia potrà evolvere nel tempo, però ripeto tantissime mirabolanti invenzioni che hanno riempito le pagine della fantascienza non si sono (almeno per ora) verificate: i viaggi nel tempo, il teletrasporto, la propulsione iper-luce...

Abbiamo visto che la fantascienza affonda le sue radici nell’Ottocento e nel periodo storico culturale della Belle Époque. Nel passaggio tra XIX e XX secolo, fa capolino anche la psicoanalisi di Sigmund Freud, con la pubblicazione dell’Interpretazione dei sogni proprio nell’anno 1900. Quanto ciò che di misterioso abita

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dentro l’uomo, come l’inconscio, e non soltanto all’esterno dell’uomo, come lo spazio, ha influenzato la fantascienza?

La figura dello psicoanalista e dello psicoterapeuta è stata ripresa in più occasioni per

essere proiettata in altri mondi possibili. La fantascienza cerca di prevedere non solo l’evoluzione delle scienze dure, ma anche di quelle morbide, come la psicologia. Nel romanzo Il signore dei sogni di Roger Zelazny, per esempio, i terapeuti sono in grado di entrare nella mente dei loro pazienti e di guidarli dall’interno nella soluzione dei loro problemi. È un’opera molto bella, in cui a un certo punto si verifica un transfert rovesciato e lo psicoterapeuta, innamoratosi della sua paziente, finisce per essere coinvolto dentro il mondo interiore della donna. Tuttavia l’impatto della psicoanalisi del primo 900, di stampo freudiano, è stato maggiore nella letteratura fantastica più che in quella squisitamente fantascientifica. La rivoluzione freudiana ha portato a una revisione di quelle che sono alcune manifestazioni del fantastico tradizionale e allo stesso tempo il fantastico ha avuto un ruolo importante nella psicoanalisi freudiana. Pensiamo per esempio al racconto Gradiva di Wilhelm Jensen, su cui lo stesso Sigmund Freud ha fondato buona parte della sua lettura del concetto del rimosso.

Per concludere questa interessante chiacchierata, le chiediamo tre libri da cui partire per chi volesse addentrarsi per la prima volta nel genere fantascientifico. Cosa consiglia ai nostri lettori?

Io partirei da tre autori che rientrano nella mia triade preferita. Il primo è Philip Dick

e di lui sceglierei La svastica sul sole, in cui descrive una realtà alternativa, dove l’asse tedesco ha vinto la Seconda guerra mondiale e ha occupato gli Stati Uniti d’America. Il secondo autore è James Ballard, di cui consiglierei la sua antologia di racconti, così da scoprire la sua narrativa. E per concludere, come terzo autore, sceglierei Kurt Vonnegut. Di lui ogni romanzo è un piccolo capolavoro, ma per chi non lo conosce punterei su Mattatoio n°5, ambientato durante il bombardamento di Dresda e con degli inserti fantascientifici davvero strabilianti. Ecco, questi sono i tre titoli che vi consiglio.

Ringraziamo il professore Alessandro Fambrini per la sua coinvolgente conversazione su un tema di così ampio respiro quale è la fantascienza nella letteratura e nel cinema. Vi invitiamo, se ne avete piacere, a seguire i prossimi progetti letterari di Alessandro, anche presso i festival del libro di cui sarà ospite.

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La Nuova Decade dà appuntamento ai suoi lettori con il quarto numero della rivista che uscirà il 15 maggio 2022. Per interviste e collaborazioni con il progetto culturale MEANDER ci potete contattare all’indirizzo lanuovadecade@gmail.com Per questioni di tempo, organizzazione e contenuti non ci è possibile aderire a tutte le proposte che riceviamo, ma le valutiamo tutte con grande interesse e con gratitudine. Chiunque voglia lasciarci un feedback, un saluto o un commento, può scriverci sulle pagine ufficiali della rivista. Saremo lieti di leggere i vostri messaggi!

Manuela Bassetti, medico e psicoterapeuta Edoardo Gagliardi, filosofo e giornalista

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“Dimmi ciò che leggi e ti dirò chi sei” è vero. Ma ti conoscerei meglio se mi dicessi quello che rileggi. (François Mauriac)

Marchio editoriale l’inconscio®

lanuovadecade@gmail.com


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