La Nuova Decade N° 2

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LA NUOVA DECADE SUGGESTIONI DI LETTERATURA PSICOANALISI E FILOSOFIA

NUMERO 2

ANNO 2022

MESE GENNAIO

PERIODICO BIMESTRALE


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La Nuova Decade

Proprietario e Direttore editoriale

Marchio editoriale l’inconscio®

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Manuela Bassetti

Edoardo Gagliardi

P.IVA 08216650963

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Manuela Bassetti, Edoardo Gagliardi

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Illustrazione di Georges Barbier (1914)

Manuela Bassetti, Edoardo Gagliardi

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Rendi conscio l’inconscio, altrimenti sarà l’inconscio a guidare la tua vita e tu lo chiamerai destino. (Carl Gustav Jung)

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EDITORIALE di Edoardo Gagliardi

IL CAMMINO DE LA NUOVA DECADE Non si è fatto nemmeno in tempo a chiudere il primo numero de La Nuova Decade

ed ecco che è già tempo di accogliere il secondo. Prosegue infatti il cammino della rivista che, con impegno e un pizzico di sana follia, io e Manuela abbiamo deciso di condividere con i nostri lettori. Non è un caso che abbia menzionato il termine follia, perché parte del secondo numero de La Nuova Decade è dedicato proprio a un viaggio nei meandri oscuri della follia umana. Leggendo le recensioni di alcuni libri proposti, il lettore non potrà fare a meno di domandarsi se le storie narrate siano vere o false, se stiano descrivendo una realtà o un mondo di fantasia. Dalle atmosfere rarefatte della Finlandia, quella degli spazi infiniti e dei lunghi inverni nordici, i lettori sono invitati a fare una riflessione sul proprio essere e sul proprio modo di agire. E se per agire davvero ci fosse bisogno di smettere di agire? In un approfondimento sul concetto di non-azione taoista si propone ai lettori un approccio paradossale alla vita che potrebbe riservare piacevoli sorprese. Sono proprio le sorprese a non mancare in questo secondo numero de La Nuova Decade. La prima riguarda lo spazio dedicato alle interviste realizzate ad artisti e persone di cultura; l’altra invece la presenza di un dialogo a due voci sui grandi temi del pensiero, della cultura, della storia. Non mi resta che augurarvi buona lettura. Mettetevi comodi, lasciate che il tempo scorra più lento e assaporate, pagina dopo pagina, il piacere di essere parte di un progetto unico nel suo genere.

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IL SURREALE DELL’ANIMA di Manuela Bassetti

Come anticipato dall’editoriale di Edoardo, in questo secondo numero de La Nuova Decade, nella sezione dedicata alla letteratura in psicoanalisi, ci addentreremo in un tema molto affascinante e complesso, quello della follia.

Prima d’iniziare il nostro viaggio letterario, permettetemi dunque, in questo mio saluto introduttivo, di darvi il bentornati con un breve omaggio a tre autori del Novecento, le cui opere rappresentano dei capolavori sul tema del surreale e sul tema del labile, misterioso confine tra realtà e immaginazione. Questi tre grandi scrittori del secolo scorso sono Luigi Pirandello, Franz Kafka e Philip Dick: tre scrittori molti diversi tra loro per biografia, ambiente culturale, provenienza geografica, stile di scrittura. Eppure tutti e tre dei giganti della letteratura novecentesca, i cui testi ancora oggi esprimono potentemente quella crisi dell’Io (in fondo mai risolta) che ha segnato il passaggio tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo.

Sei personaggi in cerca d’autore è una delle novelle surreali più famose di Pirandello,

in cui lo scrittore riporta sulla scena uno dei suoi nuclei tematici più significativi: quello della maschera, questa volta non indossata da persone comuni, bensì da sei personaggi (tutti componenti di una stessa famiglia), i quali, dopo essere stati abbandonati dall’autore che li aveva inventati, si rivolgono a un capocomico affinchè possa mettere in scena il loro dramma. Mentre infatti il capocomico sta lavorando con i propri attori sul palcoscenico, ecco irrompere in teatro i sei personaggi, i quali implorano affinchè la loro storia possa essere finalmente interpretata da qualcuno. Dopo molte ritrosie, il capocomico e gli attori accettano di raccontare il dramma dei personaggi, un dramma familiare fatto di tradimenti, abbandoni, miseria e risentimento. Ma nonostante l’iniziale intesa tra le due parti (attori da un lato e personaggi dall’altro), ben presto l’accordo si trasforma in un contrasto senza soluzione. Appare chiaro infatti che nulla di quanto vissuto realmente da ciascun personaggio può essere riportato sulla scena con la medesima intensità e veridicità. Ogni punto di vista, ogni sentimento, una volta recitato dagli attori, suona falso e artificioso, fino alla piena consapevolezza che la vita umana (quella vita che vibra, pulsa, palpita, soffre, brucia) non può essere ridotta a una rappresentazione teatrale. La celebre novella pirandelliana non è soltanto una raffinata opera metateatrale (il teatro che riflette sul fare teatro), ma anche, e soprattutto, una mirabile opera di psicoanalisi e filosofia. Pirandello ci dice che non esiste alcuna realtà assoluta e oggettiva, ma soltanto una realtà relativa e soggettiva, che dipende unicamente dalla prospet-

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tiva di chi la vive e la narra. Se ogni persona è dunque portatrice del proprio punto di vista e della sua personalissima chiave di lettura delle cose, così come del proprio vissuto emotivo e interiore, potranno mai gli esseri umani comprendersi fino in fondo? La risposta, secondo lo scrittore, non può che essere negativa. Ed è proprio questa incomunicabilità (fonte continua di malintesi, equivoci, solitudini dell’anima) il grande dramma con cui ogni uomo e ogni donna deve fare davvero i conti. Ne La Metamorfosi, una delle opere più celebri e inquietanti di Kafka, il protagonista, Gregor Samsa, si sveglia una mattina trasformato (senza alcun motivo logico) in un enorme insetto, una specie di scarafaggio gigante. Egli, commesso viaggiatore, è colui che si occupa del sostentamento della famiglia (i genitori e la sorella) dopo che un tracollo finanziario ha portato tutti sull’orlo della bancarotta. Terrorizzato non tanto da quanto avvenuto al suo corpo, bensì all’idea di non riuscire più a lavorare e per questo ricevere il biasimo dei familiari (che egoisticamente fanno affidamento solo su di lui per tirare avanti), Gregor all’inizio cerca di nascondersi, ma ben presto deve fare i conti con lo sguardo carico di orrore e di rimprovero dei suoi genitori. Anche la sorella, l’unica che tenta di accudirlo portandogli da mangiare nella sua stanza, ben presto inizierà a provare un freddo distacco nei confronti del fratello. Ciò che assilla i familiari di Gregor non è la tragedia inspiegabile che si è abbattuta su di lui, ma soltanto il fatto che così conciato non potrà più portare a casa lo stipendio, tanto meno farsi vedere in giro. Nessuno di loro mostra il benchè minimo interesse per i sentimenti di Gregor e per la sua condizione di emarginato, nessuno gli mostra alcuna forma di empatia. Questo claustrofobico racconto kafkiano mette al centro della narrazione il tema dell’alienazione esistenziale, di quell’incomunicabilità di fondo che caratterizza la vita delle persone, sia all’interno della famiglia che della società. In chiave metaforica, la terribile trasformazione di cui è vittima il protagonista rappresenta lo scivolamento dell’essere umano dentro il baratro delle proprie ansie sociali, del proprio vissuto di solitudine e incomprensione. Insieme racconto autobiografico ed espressione di quel male di vivere che affligge l’uomo contemporaneo e che permea la letteratura del primo 900, La metamorfosi di Kafka è anche una profonda riflessione sull’incapacità di prendersi cura di se stessi, di coltivare una sana autostima, di cercare il giusto equilibrio tra la propria realizzazione personale e l’occuparsi degli altri, familiari compresi. Gregor Samsa ha speso tutta la sua vita nella ricerca dell’approvazione altrui, ha fatto suo un senso di responsabilità abnorme e ipertrofico nei confronti dei familiari, persone altrettanto adulte che avrebbero avuto a loro volta il dovere morale di cercare di provvedere a se stesse, invece di gravare sulle spalle del protagonista. Incapace di prendere le distanze dai veri parassiti della storia (i genitori e la sorella), Gregor Samsa si è a sua volta trasformato in un insetto, ovvero ha assorbito completamente ciò da cui non è riuscito a proteggersi. 7


La condizione di soffocamento che aleggia attorno al commesso viaggiatore diventato all’improvviso uno scarafaggio, è dunque la descrizione narrativa di quella depressione che avvolge, come una cappa, coloro che non riescono a sottrarsi a dinamiche familiari opprimenti, disfunzionali, sottilmente coercitive e ricattatorie. Dinamiche in cui l’altro (lungi dall’assumersi in prima persona la responsabilità della propria esistenza) si aggrappa al familiare apparentemente più forte, esplicitando un bisogno assoluto, disperato di essere accudito. Come ben espresso dall’opera di Kafka, in questi rapporti dai tratti simbiotici e fusionali, spesso si cela una forma di egoismo mascherata da fragilità, una sorta di vampirismo emotivo per cui non si concede all’altro di evolvere e di esistere in sè e per sé, ma si desidera trattenerlo, al fine di mantenere il vantaggio implicitamente cercato: non fare lo sforzo di crescere, maturare, assumersi le responsabilità tipiche dell’età adulta. Questo gioco delle parti spesso si attua attraverso una polarizzazione emotiva: da un lato, colui che assume il ruolo infantile di accudito tende a colpevolizzare l’altro, a farlo sentire crudele, insensibile, egoista, ogni qualvolta quest’ultimo si emancipa, anche di poco, dal suo compito di figura accudente; dall’altro lato, colui che viene genitorializ-


zato e colpevolizzato tende a vivere il suo ruolo con un senso di responsabilità ingigantita, con la paura di non fare abbastanza, con l’ansia di non riuscire a provvedere ai bisogni del familiare in apparenza più debole. Soltanto quando queste dinamiche relazionali patologiche vengono riconosciute e spezzate, l’individuo può finalmente (e legittimamente) abbandonare il suo corpo da insetto per riappropriarsi della sua vita da essere umano.

Il cacciatore di androidi è il famoso romanzo di Philip Dick, da cui è stato tratto il film cult Blade Runner di Ridley Scott. Nel 1992, dopo un devastante conflitto nucleare che ha reso la Terra un pianeta dai contorni post-apocalittici, la maggior parte degli esseri umani superstiti si è trasferita su colonie marziane. In questo scenario fantascientifico e distopico, in cui la malinconia verso il pianeta d’origine viene gestita mediante programmi di controllo delle emozioni, possedere un vero animale domestico (ne sono rimasti pochissimi esemplari) è un lusso da ricchi. Tutti gli altri si devono accontentare di robot replicanti. E su Marte non vengono prodotti solo replicanti animali, ma anche umani, la cui circolazione sulla Terra morente è tuttavia impedita per legge. Il protagonista del romanzo, Rick Deckard, desideroso di possedere un vero animale ma troppo in ristrettezze economiche per farlo, decide di assumere il compito, ben retribuito, di cacciatore di androidi a S. Francisco. Durante la sua missione, in cui deve ritirare alcuni robot di ultima generazione, inizia tuttavia a interrogarsi sulla moralità del suo lavoro e su ciò che distingue quello che è umano da quello che non è umano. Per esempio, la freddezza emotiva di alcuni suoi colleghi fa sì che siano comunque più “umani” degli androidi che è chiamato a eliminare? Ecco dunque che in questo capolavoro del genere fantascientifico, Philip Dick porta alla ribalta uno dei suoi temi più ricorrenti e profondi: cosa vuol dire davvero essere un umano? Di cosa si compone ciò che noi definiamo l’umanità degli individui? Una delle caratteristiche che nel suo libro permette, attraverso dei test, di distinguere un replicante da un uomo è l’assenza di empatia. Sta dunque nell’empatia, e non nell’intelligenza, la vera essenza dell’essere umano? Sta in questa dimensione la linea di demarcazione tra noi e l’intelligenza artificiale? O potrà un giorno anche l’intelligenza artificiale provare sentimenti e stati d’animo, tra cui l’empatia stessa? E in quel caso, cosa ci distinguerà da essa? Domande filosofiche e psicologiche affascinanti quelle che ci impone la fantascienza di Philip Dick, non a caso definita una fantascienza dell’anima. Uno scrittore di cui certo torneremo ad occuparci più approfonditamente nei prossimi numeri della rivista, anche per le strette connessioni tra la sua letteratura e le profonde trasformazioni scientifiche-sociali-antropologiche di cui siamo tutti oggi testimoni. Trasformazioni radicali che ci portano a riflettere con attenzione e onestà intellettuale sul delicato confine tra realtà e fantasia, umano e non umano, presente e futuro, etica e scienza. 9


SOMMARIO GENNAIO 2022 FREUD TRA LE RIGHE VOCI DEL NORD L’isola delle anime di Johanna Holmström IL CLASSICO DEL MESE Doctor Faustus di Thomas Mann INCUBI D’INCHIOSTRO I baffi di Emmanuel Carrère

PRISMA FILOSOFICO DIALOGO TRA UN FILOSOFO E UNA PSICOANALISTA Il mondo è davvero entrato nel XXI secolo? WU-WEI Azione e non azione nella filosofia taoista

IL SALOTTO DI MANU & EDO MUSICA Intervista a Stefano Burbi, compositore fiorentino ARTE Le Nevralgie Costanti: un artista dell’inquietudine BLOG LETTERARIO Intervista dell’editor Domizia Moramarco a La Nuova Decade 10


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FREUD TRA LE RIGHE

Psicoanalisi nella letteratura

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PICCOLA GUIDA DI LETTURA PER CHI HA GIÀ LETTO I LIBRI, PER CHI LI LEGGERÀ E PER CHI NON LI VUOLE LEGGERE!

Negli articoli dedicati a questa sezione della rivista, vengono narrate le trame dei ro-

manzi e dei racconti selezionati, al fine di mettere in luce le tematiche psicoanalitiche presenti in ciascuna storia. Siccome la disamina psicologica dei libri comprende l’intero arco della narrazione (incluso il finale), la scelta di come avvicinarsi a tali articoli può essere variabile, a seconda delle preferenze e dei gusti del lettore.

A coloro che hanno già letto i libri, e che pertanto ne conoscono già la trama, basterà

leggere gli articoli proposti, i quali ci auguriamo possano offrire nuovi spunti di riflessione e d’introspezione, nonchè nuove prospettive di lettura e di approfondimento.

Coloro che invece non hanno ancora letto i libri descritti negli articoli, possono leg-

gere quelli di loro interesse prima di cominciare l’articolo ad essi dedicato, così da assaporare il piacere della narrazione senza spoiler, e soltanto in seguito andare a scoprirne le chiavi di lettura psicoanalitiche. Vicerversa, coloro che non hanno il tempo o la voglia di avventurarsi per intero nei libri proposti, possono tranquillamente leggere da subito gli articoli, come se fossero essi stessi dei brevi racconti, in cui il lettore può comunque fare esperienza della storia nella sua completezza. Se poi riuscissimo a farvi innamorare di qualche libro, per cui vi venisse il desiderio irrefrenabile di leggerlo tutto, non potremmo che esserne felici!

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Manuela Bassetti

VOCI DEL NORD

L’ISOLA DELLE ANIME di Johanna Holmström

A te che qualche volta ti sei chiesto se sei pazzo o sei stai per diventarlo. Probabilmente hai ragione. Deve lasciare che il dolore si faccia strada nel suo corpo, in ogni tendine e in ogni vertebra. Deve lasciare che tutto venga e tutto passi attraverso di lei. Se resiste, se si irrigidisce e lo allontana da sè, allora si spingerà sempre più vicino, sempre più addosso, finchè lei non riuscirà più a respirare e sparirà di nuovo, si rannicchierà, chiuderà gli occhi e scivolerà nel posto che l’aveva inghiottita tanti anni prima. Perchè dopo il dolore viene qualcos’altro. Lo sa. Prepara la strada per ciò che viene dopo. Il trauma dentro di lei non guarià mai completamente. L’unica cosa che può fare è imparare ad accettarlo. Titolo originale: Själarnas ö Casa editrice italiana: Neri Pozza Anno di pubblicazione in Italia: 2019

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QUARTA DI COPERTINA Finlandia, 1891. Una notte, ai primi di ottobre, una barchetta scivola sull’acqua nera del fiume Aura. A bordo, Kristina, una giovane contadina, rema controcorrente per riportare a casa i suoi due bambini raggomitolati sul fondo dell’imbarcazione. Le mani dolenti e le labbra imperlate di sudore, rientra a casa stanchissima e si addormenta in fretta. Solo il giorno dopo arriva, terribile e impietosa, la consapevolezza del crimine commesso: durante il tragitto ha calato nell’acqua densa e scura i suoi due piccoli, come fossero zavorra di cui liberarsi. La giovane donna viene mandata su un’isoletta al limite estremo dell’arcipelago, dove si erge un edificio, un blocco in stile liberty con lo steccato che corre tutt’attorno e gli spessi muri di pietra che trasudano freddo. È Själö, un manicomio per donne ritenute incurabili. Un luogo di reclusione da cui in poche se ne vanno, dopo esservi entrate. Dopo quarant’anni l’edificio è ancora lì ad accogliere altre donne «incurabili»: Martha, Karin, Gretel e Olga. Sfilano davanti agli occhi di Sigrid, l’infermiera, la «nuova». I capelli cadono intorno ai piedi in lunghi festoni e poi vengono spazzati via, si apre la cartella clinica della paziente, ma non c’è alcuna cura, solo la custodia. Un giorno arriva Elli, una giovane donna che, con la sua imprevedibilità, porta scompiglio tra le mura di Själö. Nella casa di correzione dove era stata rinchiusa in seguito alla condanna per furti ripetuti, vagabondaggio, offesa al pudore, violenza, rapina, minacce e possesso di arma da taglio, aveva aggredito le altre detenute senza preavviso. Mordeva, hanno detto, e graffiava. L’infermiera Sigrid diventa il legame tra Kristina ed Elli, tra il vecchio e il nuovo. Ma, fuori dalle mura di Själö la guerra infuria in Europa e presto toccherà le coste dell’isola di Åbo. Magnifico romanzo che muove da un luogo realmente esistito, L’isola delle anime è una commovente storia sul prezzo che le donne devono pagare per la loro libertà. Un inno alla solidarietà, all’amore e alla speranza.

TRATTEGGI D’AUTORE Johanna Holmström è nata nel 1981 a Sibbo, una località della Finlandia di lingua svedese. Dopo il suo debutto come scrittrice a soli 22 anni, ha vinto il premio letterario Svenska Dagbladet e il premio letterario svedese YLE. Attualmente vive a Helsinki dove prosegue la sua carriera come autrice di romanzi.

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LA FOLLIA DELLE DONNE (RIBELLI) Una notte, ai primi di ottobre, una barchetta scivola sull’acqua nera del fiume Aura. Nella barca c’è Kristina, e rema con gli occhi fissi sulla baia che si è appena lasciata alle spalle.

Così ci viene presentata la prima protagonista di questo romanzo: una giovane contadina, madre di due figli, che dopo una lunga ed estenuante giornata di lavoro fa ritorno verso casa. Il tragitto sul fiume è lento e faticoso. I remi le scorticano i palmi delle mani. Le braccia dolgono e bruciano. E intorno alla giovane donna, tutto è umido, freddo e nero come la pece. Solo lei è fuori a quest’ora impossibile. Un po’ alla volta, la stanchezza prende il sopravvento, trasformandosi in quella sensazione strana e paralizzante che ultimamente la pervade sempre più spesso. Una sorta di melma che le riempie la testa, un’ospite opprimente che si annida dentro di lei al solo scopo di tormentarla giorno e notte. Avvolta dall’oscurità, stremata nel risalire il fiume controcorrente, ecco che Kristina ha all’improvviso un’intuizione: perchè non gettare in acqua quei fagotti che giacciono sul fondo della barca? Senza l’inutile zavorra sarà più leggera e potrà remare con la prua danzante. Verso la casa, la pace, il silenzio. E soprattutto verso quel calduccio meraviglioso, al bagliore della lampada ad olio e con una tazza fumante di fondi di caffè! Rinvigorita, ritira subito i remi, si alza in piedi e senza alcun indugio solleva il cesto, poi lo cala in acqua e lo spinge lontano. Un attimo dopo, si gira verso il secondo fagotto e lo solleva con più fatica. Rispetto al cestino con dentro il neonato, la bambina è più pesante, immersa nel sonno. Kristina stringe per un attimo quel corpicino tra la braccia, poi lo lascia cadere in acqua con un tonfo. Neanche il tempo di un gemito assonnato e la bambina è già affondata sotto le onde cupe del fiume. Soltanto la mattina successiva, alla spietata luce del giorno, la protagonista inizia a realizzare quanto avvenuto la notte precedente.

I bambini! Spariti! Si precipita giù alla barca, la tira, la strattona, la spinge in acqua con un calcio. Quando afferra i remi e voga, sembra avere alle calcagna il diavolo in persona. Non appena arriva nel punto in cui ha affogato i suoi figli, si getta nel fiume e subito comincia ad affondare. Stretta da una morsa gelida, lotta per tornare in superficie, poi si immerge di nuovo alla ricerca dei corpi, finchè le braccia di alcuni uomini del villaggio non l’afferrano e la riportano a riva. Da quel giorno Kristina non sarà più la stessa. Accusata d’infanticidio e trasferita nel manicomio di Själö per essere lì custodita come donna incurabile, resterà chiusa nella sua stanza per otto lunghissimi anni - lavata, cambiata e imboccata dalle infermiere dei matti. Otto lunghissimi anni sigillata dentro uno stato psicotico in cui il confine tra veglia e sonno, realtà e incubo, è talmente sottile che il tempo trascorre in assenza

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della coscienza. Finchè un giorno, senza alcun preavviso, Kristina si sveglia da quel torpore psichico che l’aveva protetta come una coperta pietosa e (per la prima volta) inizia a fare i conti con quanto accaduto. Con la morte dei suoi figli, con la perdita della sua giovinezza, con la rinuncia alla sua vita di prima.

Gli anni perduti sono molti. Questo l’ha capito. Molto le è stato risparmiato. I ricordi che ha sono piccolissime briciole, come frammenti di un sogno; ha ricevuto la grazia di poter dimenticare tanto dolore. Lo ricorda dopo un po’ di tempo come una corrente pulsante di immagini confuse che emergono e svaniscono. I bambini. La prigione. Un periodo nella casa di correzione e poco dopo il trasferimento in manicomio. Una stanza in una casa con le pareti giallo-crema. La luce sui campi. La chiesa. Le infermiere dei matti che parlavano con lei mentre fluttuava, prostrata nella paura, il letto che la legava, le lenzuola strette, le cinghie intorno ai polsi, il sapore di medicina, salato e amaro, e poi la liberazione. Scivolava dentro e fuori nel paesaggio di ombre; la lunga, divorante oscurità e poi una luce dura, spietata, e di nuovo erano passati alcuni mesi. Gli anni non sono stati clementi. Gli occhi si sono infossati nelle orbite. Le occhiaie sono profonde e scure. I capelli sono caduti a ciocche. È la scabbia, dice Margareta (l’infermiera) quando lei fa domande. La pelle è spenta e senza luce, e rughe profonde


si sono radicate agli angoli della bocca, sotto al naso. Le ciglia sono cadute. Lunghi periodi di ostinazione e rifiuto del cibo hanno diradato le file dei denti. Il risveglio di Kristina non coincide con la sua guarigione, in un posto dove non esiste nessuna possibilità di cura. Contenzione e custodia - queste sono le uniche forme di “sostegno” offerte alle donne di Själö. Con l’arrivo della primavera, tuttavia, la donna comincia a riconoscere l’arrivo delle riacutizzazioni, come giorni nuvolosi con nevicate che possono trasformare anche l’aprile dal sorriso più bello nell’inverno più cupo e profondo. Ogni volta che sta per sopraggiungere una crisi, l’angoscia cresce dentro di lei fino a spazzare via tutto come un’onda furiosa, pronta a sommergerla. In quei momenti, Kristina sa che deve trovare riparo nella quiete della sua stanza, deve lasciare che l’angoscia l’attraversi senza che lei vi si opponga, deve starsene rannicchiata nel letto, cullata dalla consapevolezza che quell’orribile sensazione un po’ alla volta diminuirà.

Le tenebre che prima l’avevano completamente ingoiata sono solo piccole e nere punture di spillo, buchi in cui lei scompare ma di cui poi si ricorda. Presto impara ad aggirarle queste punture di spillo, impara a chiedere le medicine (l’oppio, il bromuro di potassio, il cloralio). La sensazione che i farmaci l’aiutino a gestire e controllare la propria mente le infonde nuova fiducia.



Con il trascorrere dei mesi e poi degli anni, i momenti di veglia diventano sempre più lunghi, mentre quelli di assenza si accorciano di pari passo. In questo luogo dimenticato da Dio non si può sperare di più. Eppure, nonostante le lunghe fasi di calma, in Kristina resterà sempre una spaccatura della personalità, una frattura tra lei e la realtà che non si potrà più rimarginare. La depressione psicotica di cui soffre, infatti, non l’abbandonerà mai, ma trasformerà i suoi sintomi in allucinazioni più dolci. La visione della bambina, con i capelli scuri e i placidi occhi castano chiaro, torna dal regno dei morti per farle compagnia, per ridere e giocare con lei, fino alla fine dei suoi giorni. Mentre cura l’orto e i fiori del giardino, mentre stende il bucato, mentre riposa nella sua camera d’ospedale, Kristina non è più sola, c’è sua figlia (mai cresciuta) accanto a lei, finchè, ultranovantenne, Kristina non si spegne nel silenzio (e nella solitudine) della sua stanza. Senza aver mai rivisto la sua famiglia, la sua casa, il mondo che vive e che palpita oltre la scogliera di Själö.

Elli

ha compiuto diciassette anni quando viene trascinata in manicomio. Sfrontata, ribelle, piena di energie, diventa da subito una delle pazienti preferite dell’ultima infermiera giunta sull’isola: la giovane Sigrid - una ragazza acqua e sapone, che lavora sodo e con entusiasmo, nell’attesa di mettere da parte qualche soldo per potersi finalmente sposare con Frans. Quello che Sigrid coglie di speciale nello sguardo di Elli è la luce - quella luce, tanto rara in un posto come il manicomio di Själö, che brilla soltanto negli occhi di chi ha una speranza di farcela. Perchè pochissime sono le donne che lasciano l’ospedale. Quasi tutte muoiono dietro le gelide mura del manicomio, specialmente nella stagione fredda, quando la polmonite ne falcia ogni anno a decine. Le più forti e longeve diventano vecchie lì dentro, dimenticate da tutti, a volte dimentiche persino di se stesse. Ma in Elli c’è quello speciale scintillio, quella fiamma vitale che potrebbe farla tornare a casa se soltanto si comporterà bene, se non farà la matta pur essendo classificata come matta. E se non si comporterà nemmeno troppo da persona normale, perchè equivarrebbe alla negazione della sua condizione di malata. Insomma, pazza ma non troppo - quella giusta via di mezzo che piace tanto al dottor Mikander. Proprio come piace al dottore soppesare i seni delle pazienti durante le visite, frugarle nella loro intimità alla ricerca dei reperti tipici dell’isteria, misurarne la circonferenza del cranio, pizzicarne la pelle delle braccia e delle cosce, valutarne la peluria e la turgidità dei tessuti, annusarne l’odore del corpo. Ogni aspetto fisico delle pazienti viene diligentemente annotato nelle loro cartelle cliniche, così come ogni pasto, ogni funzione fisiologica, ogni oscillazione dell’umore. Non c’è nulla di privato nella vita delle donne di Själö. Soltanto la loro follia resta qualcosa di personale, il loro spazio interiore popolato di demoni, fantasmi, voci, volti (esistiti o immaginati, poco importa oramai). Soltanto ciò che si agita nella loro mente (i lampi, le tenebre, i vortici) appartiene ancora alle donne di Själö, tutto il resto viene 23


ogni giorno minuziosamente esplorato dal medico e dalle infermiere. Tutto viene quantificato, misurato, schedato, aggiornato; tutto viene ridotto a numeri, calcoli, dati, come se tutto fosse il frutto di una macchina priva di anima.

Mentre Kristina muore lentamente nella sua

stanza, anche la vita di Elli finisce nel tritacarne del manicomio.

Grave psicopatia, demenza precoce, mitomania, ninfomania. Un’adolescente che scappa con il ragazzo di cui è invaghita, ma che viene presto fermata dalla polizia. Un’adolescente che tenta il suicidio tra le mura di una casa in cui non si è mai sentita abbastanza amata dai genitori. Un’adolescente fragile e ipersensibile, come tante ragazze della sua età, che però sotto lo sguardo asettico del dottor Mikander diventa una paziente affetta da disturbi cronici.

“Ha capito la sua diagnosi, signorina Curtèn?” Lei scuote la testa. “Per ciò di cui soffre, signorina Curtèn, non c’è alcuna cura.” “Non capisco, se non c’è cura... Se per me non c’è nessuna possibilità di guarire... allora che cosa ci faccio qua?” Mentre riflette, il dottor Mikander giocherella con la penna stilografica. Poi si sporge in avanti sulla scrivania. “La maggior parte delle pazienti sull’isola è qui da parecchi anni. Il loro quadro clinico è invariabile. Questo è un istituto per malati cronici. Davvero pochissime pazienti vengono dimesse. In pratica, nessuna.” Eppure, proprio come aveva intuito Sigrid scrutando gli occhi vivi e acuti di Elli, la giovane donna, dopo alcuni anni di ricovero, rie-

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sce a ottenere le dimissioni, anche grazie alla pressione dei genitori, che nonostante la loro freddezza emotiva, subissano l’ospedale di lettere per poter riavere a casa la figlia. E così alla fine Elli può lasciare la piccola isola di Själö per tornare (quasi) riabilitata nel mondo dei sani. Tuttavia, l’allontanamento dal manicomio non è a costo zero: può avvenire soltanto a patto che Elli si sottoponga a un intervento di isterectomia. Secondo la psichiatria dell’epoca, la follia isterica che le viene addossata è strettamente connessa con la natura femminile, con la sua ciclicità ormonale e i suoi flussi. Soltanto eradicando l’organo femminile per eccellenza, l’organo della fecondità e della maternità, la follia può essere placata, rendendo la paziente adatta a tornare a vivere in società. Dunque Elli, poco più che ventenne, torna sì nel mondo, ma mutilata, privata di una parte del suo corpo, impossibilitata a scegliere per se stessa e per il suo futuro. Le protagoniste di questo romanzo sono due donne molte diverse tra loro, come storia di vita e come prognosi clinica. Kristina muore tra le mura del manicomio, cullata unicamente dall’allucinazione della bambina che ha ucciso tanti anni prima. Elli lascia l’isola e fa ritorno nel mondo, dove si legherà per il resto della sua vita a una donna, Karin, dentro un sodalizio amoroso tutto al femminile. Eppure, qualcosa di profondo, intangibile e oscuro, accumuna le due pazienti di Själö. Entrambe, infatti, giungono al manicomio dopo essere precipitate negli abissi della depressione. Entrambe hanno alle spalle esperienze di amore negato, solitudine, pregiudizi sociali.

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Kristina diventa madre della bambina a seguito di un atto di violenza perpetrato da un tagliaboschi quando lei ha soltanto sedici anni. Un marchio d’infamia che il piccolo villaggio finlandese riesce a malapena a perdonarle. Sicché quando, pochi anni dopo, s’innamora del bellissimo Einari e, dal fuoco della loro passione giovanile, nasce il secondo figlio, lo scandalo è troppo grande per poter essere sopportato. La coppia, ripudiata dalla gente perbene, si rifugia in una baracca sulle sponde del fiume, dove vive una vita di stenti e di miseria, finchè Einari non parte per mare, con la promessa di tornare i mesi successivi con abbastanza denaro da poter provvedere alla sua nuova famiglia. Ma la promessa di Einari, seppur sincera, giunge troppo tardi: il tarlo della depressione ha già messo radici nella psiche di Kristina. E ben presto la inghiotte. Nella fredda solitudine della baracca, assediata dalle continue richieste d’attenzione da parte dei bambini, rancorosa verso il suo compagno che ha potuto lasciare quell’inferno fatto di niente, la giovane donna scivola verso una rabbia sempre più sorda e fatale. Irascibile e manesca nei confronti dei figli, che imparano presto a temerla come una belva imprevedibile, e con la testa sempre più avvolta da una densa cappa pesante, Kristina arriva a perdere sempre di più la cognizione di sè, del tempo, del suo ruolo di madre. Finchè si convince che Einari le ha mentito, che l’ha abbandonata per sempre in mezzo a quella desolante povertà, che non esiste per lei alcuna speranza di fuggire dalla sua miserabile esistenza. Ed è proprio lì, al centro di quella tristezza paludosa e traditrice come le sabbie mobili, che Kristina, in uno di quei momenti in cui perde la lucidità, arriva ad affogare i suoi bambini nel fiume. Mezzo secolo dopo, ecco Elli, un’attraente ragazza borghese, il cui destino non sembra avere nulla a che fare con quello di una contadina come Kristina. Ma se si guarda a fondo, i destini delle donne hanno spesso un’ombra in comune. Ed Elli, nella sua casa benestante, ha trascorso tutta la vita nella trepida attesa delle attenzioni materne. Quella donna altera, impaziente, che si chiudeva in camera con l’ordine tassativo di non essere intralciata dall’affetto goffo dei suoi bambini. Da quelle manine sempre tese in cerca di un abbraccio, di una carezza, di uno sguardo d’approvazione. Oh, Elli sarebbe morta per uno sguardo d’approvazione da parte di sua madre. Per poter stare accoccolata nel suo grembo, tra le sue braccia profumate, con il visetto schiacciato contro la collana di perle. E più tardi, da adolescente, sarebbe morta per ricevere una parola d’amore, di complicità, di vicinanza. Ma agli occhi di sua madre, Elli non andava mai bene: troppo esuberante, troppo pigra, troppo sfacciata, troppo melanconica. C’era soltanto un modo per essere apprezzata davvero: starsene in disparte, preferibilmente in silenzio. Non disturbare con la sua ingombrante presenza - non esistere. È così che si annida il pensiero della morte: quando allo sguardo di chi ami sei talmente trasparente che se provi a specchiarti, in quello sguardo, non vedi niente. Non ci sei. Non conti. In un certo qual senso, già non esisti. E allora, perchè non ingoiare un flacone di sonnifero e andarsene in pace? Perchè continuare a lottare nella feroce

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attesa di quei brevi attimi in cui l’altro sembra (forse) vederti? Perchè passare un’intera vita china sul pavimento dell’anima per raccogliere le poche briciole lasciate da chi nemmeno si accorge che stai morendo (dentro) di fame? Eccolo dunque il segreto di Kristina, di Elli, delle donne di Själö: l’essere portatrici di una malattia che spesso non nasce soltanto da una frattura della mente, ma anche dalla frattura con la famiglia e con la società. Ciò che si contesta a queste donne internate (a vita) con l’etichetta di pazze, di dementi, di socialmente deviate o pericolose, è spesso il loro non accettare di uniformarsi alle rigide regole sociali, alle monolitiche impostazioni familiari, al gelo di dinamiche relazionali dominate dal pregiudizio, dallo stereotipo, dal vuoto perbenismo, dalla facciata stantia, dalla morale senza cuore. Dietro il concetto di accoglienza e di cura, molte volte si cela uno scopo recondito, di segregazione e punizione, così come la volontà di sottomettere questi spiriti ribelli e riottosi, queste varianti femminili fuori controllo. Lontano dalla società perbene, affinchè non fungano da cattivo esempio. Affinchè la loro rabbia, la loro disperazione, il loro anelito alla libertà non sporchino l’immagine della donna angelo del focolare. Nei manicomi dalle mura invalicabili non c’è spazio per la redenzione: poco importa se la follia (o la presunta follia) sia la conseguenza di episodi di violenza, abusi, trascuratezza, emarginazione. Ciò che conta è correggere i comportamenti scorretti, contenere con i lacci costrittivi le pazienti agitate, umiliare i caratteri focosi, domare gli spiriti ribelli. Finchè di queste donne indomite e scandalose, a volte pazze, a volte assassine, ma mai conformi alle norme dell’epoca, non resta che un guscio vuoto, un’esistenza destinata a trascinarsi dentro una reclusione senza fine.

E se il romanzo della Holmström appare, a prima vista, un romanzo tutto al femmi-

nile, in realtà, dietro le pazienti che compongono i personaggi della storia, si erge in tutta la sua potenza la dimensione del maschile, dimensione rappresentata dalle brevi visite del dottor Mikander. Benchè infatti il coro di voci che popola il libro sia un coro di donne, esse sono tutte soggette al potere dell’uomo: l’uomo che legifera dentro il governo, l’uomo medico che le visita e ne stabilisce la curabilità o l’incurabilità, l’uomo padre o marito che firma per il loro ricovero. Il maschile incombe sulla vita fisica e interiore delle donne, ne traccia il destino, può elargire premi o punizioni, può aprire o chiudere per sempre la porta sul mondo. Ed ancora, è la morale degli uomini a fare le norme, a stabilire quali condotte siano congrue e quali inaccettabili, quale debba essere il posto e il ruolo di una donna, se ella merita di essere salvata oppure no. Mentre in psicoanalisi maschile e femminile sono due correnti che coesistono nello stesso individuo (la parte razionale, autorevole, che agisce e la parte emozionale, accogliente, che ascolta e che comprende), in questo spaccato della Finlandia di fine 800, maschile e femminile restano due poli disgiunti, tra loro contrapposti in una cristallizzazione impari, dove il primo regna incontrastato sul secondo. Sono folli le donne di Själö, ma quanto è folle una società che pretende di ridurre ogni

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sentimento, ogni inclinazione personale, ogni desiderio a un freddo codice di norme, di credenze religiose, di precetti morali, di stereotipi a cui tutti si debbono per forza uniformare, pena l’esclusione dal mondo dei sani? Dove sta il confine tra la legge dello Stato e l’autodeterminazione? Dove sta il confine tra il giudizio e l’empatia? Tra il biasimo e il perdono? Dove si annida il senso di colpa quando si è vittime? In quale strato profondo dell’essere mette radici? In Kristina, l’ostracismo sociale e il senso di colpa connesso al suo marchio d’infamia l’hanno gettata dentro il vortice di una follia psicotica da cui non è mai più riemersa. In Elli, la sensazione d’indegnità legata al rifiuto materno l’ha portata sull’orlo del baratro, in punta di piedi sul precipizio che separa la vita dalla morte. E dietro di loro, lungo il corridoio del manicomio di Själö, una lunghissima fila di donne matte, ciascuna con la propria storia inascoltata, il proprio dolore non raccolto da nessuno. Una fila di volti, di spettri, di figure che una alla volta scompaiono, inghiottite dal nulla, dall’oblio, da una tomba inadorna nel piccolo cimitero dell’isola.

Oggi i manicomi non esistono più, almeno sulla carta. Oggi la psichiatria è progredi-

ta, la psicoterapia ha preso il posto degli elettroshock e dei bagni freddi, l’arte viene utilizzata come mezzo di espressione e di comunicazione nei pazienti con disturbi psichici. Eppure, siamo davvero più capaci di rapportarci con la follia rispetto a una volta? Siamo davvero meno portatori di pregiudizi, di paure, di tabù nei confronti della malattia mentale? L’isola delle anime ci lascia con questa domanda insoluta: la nostra società è davvero più capace d’interpretare il linguaggio delle follia, di comprendere ciò che si cela nel profondo di essa?

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Manuela Bassetti

CLASSICO DEL MESE

DOCTOR FAUSTUS di Thomas Mann

Perché invece di provvedere saggiamente a ciò che occorre sulla terra affinché la vita vi sia migliore… l’uomo si abbandona all’ebbrezza infernale? Temo, caro amico e maestro, di essere cattivo perché non ho calore. Si dice, è vero, che sono maledetti e respinti coloro che non sono né caldi né freddi, ma soltanto tiepidi. Non direi di essere tiepido; sono decisamente freddo. Vorrei paragonare la sua solitudine a un abisso nel quale sprofondavano, in silenzio e senza lasciar traccia, i sentimenti che gli altri nutrivano per lui. Intorno a lui era il gelo. Titolo originale: Doktor Faustus Casa editrice italiana: Oscar Mondadori Anno di pubblicazione in Italia: 2014

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QUARTA DI COPERTINA Nella Germania devastata alla fine della seconda guerra mondiale, il professor Serenus Zeitblom scrive la biografia dell’amico d’infanzia Adrian Leverkühn, un geniale musicista che in cambio dell’anima ha ottenuto dal diavolo ventiquattro anni di furore creativo. Reinterpretando in chiave moderna il mito di Faust, Thomas Mann narra una vicenda che per molti aspetti sembra anticipare il destino della Germania, travolta dalla follia hitleriana e dalla distruzione. Dando vita a tre generazioni di personaggi, descritti ora con accorata pietà ora con mordente ironia, Mann crea nello stesso tempo una grandiosa allegoria della storia tedesca, e riflette sul profondo significato dell’arte, della musica, della filosofia, della scienza, e sul destino dell’uomo.

TRATTEGGI D’AUTORE Thomas Mann (1875-1955) è considerato uno dei massimi rappresentanti della letteratura tedesca. Vincitore del Nobel per la Letteratura nel 1929, è autore di alcuni capolavori del Novecento quali I Buddenbrook, La montagna incantata e Morte a Venezia. Grande appassionato di musica, in particolare di quella wagneriana, a partire dagli anni Trenta iniziò a criticare la collusione tra l’arte tedesca e il nazionalsocialismo allora in piena ascesa. Le sue ostilità nei confronti di Hitler lo costrinsero a lasciare la Germania e a trasferirsi negli Stati Uniti d’America, dove continuò a tenere conferenze e radiomessaggi rivolti contro il nazismo. Dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, fece ritorno in Europa e si stabilì in Svizzera, a Zurigo. Nonostante le onorificenze attribuitegli, non tornò mai a vivere in Germania. Nel suo romanzo Doctor Faustus, la follia e l’annientamento di Adrian divenne metafora del popolo tedesco che, siglando un patto infernale con il nazismo di Hitler, aveva firmato la sua condanna e la sua rovina. Pubblicato per la prima volta a Stoccolma nel 1947, questo corposo romanzo suscitò subito un grandissimo clamore, sia per il suo intreccio ricco di storia, politica, religione, riferimenti artistici e simboli misteriosi, sia per la sua accorata analisi della catastrofe umana, sociale e politica che aveva sconvolto la patria dello scrittore. 31


IL (FOLLE) CONNUBIO ARTE E MALATTIA Adrian Leverkühn è un giovane pianista tedesco che ha siglato un patto con il demonio: ventiquattro anni d’ispirazione creativa, che lo porteranno a comporre opere musicali sublimi, in cambio della propria anima e della dannazione eterna. Tratto dal mito del Faust, questo capolavoro di Thomas Mann non ripercorre in senso letterale le vicende della figura faustiana di Goethe, ma ne rappresenta una rivisitazione, mettendo al centro del romanzo la biografia di un musicista della Germania di fine Ottocento.

La leggenda del Faust ha origini molto antiche. Secondo gli studiosi, essa trae spunto

da un personaggio controverso realmente esistito, un certo Johannes Georg Faust, di professione alchimista, mago e astrologo. Nel cuore del Rinascimento tedesco, a ponte tra il Quattrocento e il Cinquecento, quest’uomo di formazione umanista suscitò parecchio scalpore già durante la sua esistenza, finendo per assumere ben presto i contorni di una figura leggendaria, quasi mitologica. Appassionato di magia e di dottrine occulte, era famoso per le sue presunte molteplici doti: dalla capacità di predire il futuro alla taumaturgia, dalle abilità nel campo della medicina a quelle della chiromanzia, dalla metereologia alla negromanzia e alla fisiognomica. La sua fama correva per l’Europa, procurandogli da un lato l’epiteto di scaltro cialtrone, dall’altro gli elogi di sapiente e guaritore. Accusato in più occasioni di sodomia e pedofilia, fu spesso costretto a scappare in fretta e furia dalle città in cui “lavorava” lasciandosi alle spalle debiti insoluti e miracoli a metà. Il suo corpo fu rinvenuto privo di vita a Staufen nel 1540, in condizioni talmente pietose da poter escludere una morte naturale. A partire dal 1604, la figura del Faust entrò definitivamente nella leggenda grazie all’opera del drammaturgo inglese Christopher Marlowe, intitolata The Tragical History of Doctor Faustus (La tragica storia del Dottor Faust), la quale ispirò l’ancora più celebre versione del Faust di Johann Wolfgang von Goethe - una pietra miliare della letteratura mondiale, a cui lo scrittore lavorò per ben sessant’anni, dal 1772 al 1831.

Nel romanzo di Goethe, Faust rappresenta il dramma dell’uomo che spinto dalla sete

della conoscenza stringe un patto con il diavolo. Mefistofele si propone, infatti, di svelare al giovane studioso i misteri e la bellezza del mondo, riscattandolo da tutti gli insuccessi e le frustrazioni che hanno segnato fino a quel momento la sua vita intellettuale. Faust, inizialmente titubante, finisce per accettare quando il demonio lo tenta con un vero e proprio patto infernale: Mefistofele esaudirà tutti i desideri di Faust, ma il giorno in cui gli farà sperimentare un godimento così intenso da fargli pronunciare la frase “Attimo, sei così bello, fermati!”, potrà afferrare la sua anima e trascinarla all’Inferno per l’eternità. Soggiogato dalla proposta, Faust accetta e si avventura per il mondo alla scoperta di tutti i piaceri e le meraviglie che esso ha da offrirgli.

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Dopo una vita di dissolutezza e dopo una lunga scia di morti, Faust, ormai vecchio e stanco, inizia a rimpiangere di aver sprecato la propria esistenza inseguendo i godimenti che la magia, sotto la guida del demonio, gli ha procurato. Tra le vittime della sua cupidigia, configura anche Margherita, un ragazza dall’animo candido, che grazie all’intervento di Mefistofele Faust era riuscito a sedurre per poi abbandonarla, sola e incinta. Ripudiata dalla società a causa del suo peccato carnale, la giovane finisce per impazzire di dolore e, in preda alla follia, annega suo figlio. Accusata d’infanticidio, Margherita muore sulla forca, ma invoca il perdono di Dio e per questo la sua anima viene salvata dagli angeli. Durante la vecchiaia, Faust, accecato dall’angoscia per ciò che è stata la sua vita sulla Terra e per ciò che lo aspetta dopo la morte, decide di dedicare le sue ultime energie a opere di utilità pubblica, trovando gioia e conforto al pensiero di un’umanità libera e laboriosa. Proprio allora, nel liberarsi dall’influsso del demonio e nel riscoprire la felicità di fare qualcosa per il prossimo, Faust finisce per pronunciare la fatidica frase “Attimo, sei così bello, fermati!”. Ritenutosi vincitore, il diavolo reclama lo spirito di Faust per trascinarlo all’Inferno, ma grazie all’intercessione di Margherita, il vecchio Faust (ormai redendo) viene salvato da un corteo di angeli che lo portano in Paradiso. L’opera di Goethe si conclude dunque con un inno all’amore come forza salvifica e creatrice, capace di elevare l’uomo e d’innalzarlo verso il Cielo.

A

differenza del protagonista goethiano, il novello Faust di Thomas Mann, avvolto nel suo genio freddo ed egoista, nella sua intelligenza priva di cuore, termina la propria vita sconvolto dal disfacimento della mente e del corpo, senza possibilità di salvezza e di redenzione: simbolo 34


del crollo della Germania dentro l’inferno della follia hitleriana.

Adrian

Leverkühn nasce durante la fioritura del 1885, presso la tenuta di Buchel, un podere di campi e di prati, con un fitto bosco e una comoda casa padronale. In questo paesaggio bucolico, sotto le cure amorevoli della madre e la guida bonaria del padre (appassionato di botanica, farfalle e animali marini esotici), il piccolo Adrian trascorre un’infanzia tranquilla, in compagnia del suo compagno di giochi Serenus Zeitblom, la voce narrante del romanzo. Quando giunge l’età di scegliere quale direzione dare alla propria esistenza, mentre il fratello risulta chiaramente destinato ad essere l’erede della fattoria, Adrian sembra destinato, agli occhi di tutti, a diventare il primo erudito della famiglia. Sembra chiamato, come afferma Zeitblom, a qualcosa di superiore. Nel suo portamento, nei suoi lineamenti, nel suo rigore morale, nel suo modo di esprimersi e di muoversi è infatti già scritto un futuro lontano dalla semplice vita dei campi. E così, all’età di dieci anni, il giovane Adrian lascia la casa paterna per frequentare il ginnasio che sorge in città, ospite di uno zio rimasto vedovo, ben lieto di godere della compagnia del nipote. Tuttavia, se la condotta del ragazzino appare irreprensibile, è altrettanto vero che nel suo animo giunge ben presto ad annidarsi quello che Oscar Wilde definiva “il solo peccato imperdonabile”: la noia. L’ingegno superiore di Adrian lo porta ad essere così brillante negli studi da non trovarvi alcun piacere. Nessuna sfida intellettuale, nessuno sforzo mentale e di conseguenza nessun entusiasmo, soltanto il tedio di chi non deve conquistarsi nulla. E nulla ha per lui importanza. Tutto gli è ugualmente indifferente, secondario. Dietro la sua facilità d’imparare si celano una freddezza costituzionale, una propensione all’ironia, al riso e al distacco che lo allontanano dal comune sentire. 35


La vita interiore di Adrian resta immutata finchè, nei lunghi pomeriggi di città, per

vincere l’ozio che incombe, il ragazzo non inizia a strimpellare sul vecchio pianoforte dello zio, scoprendo per la prima volta il potere della passione. Da lì a poco, comincia a prendere lezioni di pianoforte, mostrando la sua precoce genialità nel campo musicale. Terminati gli studi liceali, Adrian professa la sua volontà di iscriversi a Teologia, per seguire la carriera accademica, ma dopo nemmeno un anno abbandona gli studi teologici (o per usare una sua espressione “butta alle ortiche la Sacra Scrittura”) per dedicarsi al suo vero, grande richiamo: la musica. Come ci confida lo stesso Zeitblom, egli avverte nella scelta dell’amico una fatalità, che mi riempie il cuore di gioia e allo stesso tempo me lo cinge di angoscia, un sentimento paragonabile soltanto con quello stiramento del ventre che il bambino prova sull’altalena lanciata in alto e nel quale si mescolano il giubilo e la paura del volo. Capace di captare almeno in parte la natura insondabile del giovane pianista, il narratore intuisce che il passo di Adrian tra le braccia della musica è necessario, rettificante, inevitabile, eppure, allo stesso tempo, a un livello subconscio, percepisce anche il pericolo che tale passione può rappresentare per una personalità gelida e puramente intellettuale come quel giovane compositore.


La vita di Adrian Leverkühn prende la direzione che lo getterà nel dramma faustiano la

sera in cui, dopo avere dedicato un’intera giornata alla visita della città di Lipsia, stanco e affamato, chiede a uno strano facchino d’indicargli una trattoria dove riposarsi e mangiare. E il facchino, con una strizzatina d’occhio, conduce l’ignaro visitatore presso una casa in una straducola buia e deserta. Adrian suona il campanello, la porta si apre e una signora tutta agghindata, dalla guance color uva passa, fa accomodare il nuovo cliente in una stanza adorna di specchi e divani di seta, su cui sono appollaiate sei o sette ragazze in abiti succinti e trasparenti, bracciali ai polsi, lunghi capelli sciolti e uno sguardo lucido, carico di languore. Con grande stupore, Adrian capisce di essere stato trascinato in un bordello e per nascondere la propria agitazione si dirige macchinalmente verso il pianoforte, l’unico oggetto a lui familiare in quel luogo dove il piacere che regna sovrano non viene dall’intelletto, bensì dalla carne. Ma mentre si accinge a suonare i primi accordi, ecco che una bella ragazza bruna e dagli occhi scuri, un’esmeralda come lui la soprannomina, gli si avvicina e con la mano gli accarezza la guancia. A quel tocco sconosciuto e bruciante, Adrian risponde con lo sgomento di chi scopre per la prima volta il calore ustionante del fuoco e, sconvolto, fugge dal bordello gettandosi in strada. Nonostante il tono della vicenda si trasformi ben presto in una buffonata da raccontare all’amico Serenus con piglio ironico e scanzonato, il narratore non esita a metterci in guardia da quello che una simile esperienza possa aver davvero significato per il musicista. Nella dimensione puramente spirituale, intellettuale e orgogliosa del protagonista, si è insinuato il desiderio, con il suo oscuro richiamo. Ed egli, essere umano prima ancora che genio, non può che soccombere alle leggi della natura. Il ricordo del contatto della pelle femminile contro la sua guancia brucia per giorni e giorni nella mente di Adrian. La superbia dello spirito aveva subito il trauma dell’incontro con l’istinto privo di anima. E Adrian non può fare altro che tornare nel luogo dove tale incontro fatale è avvenuto.

Dopo un anno di resistenza, in cui l’orgoglio dello spirito tenne testa alla ferita rice-

vuta, Adrian cede e si ripresenta sulla soglia del bordello da cui era fuggito soltanto una manciata di mesi prima. Chiede della ragazza bruna, ma gli viene detto che non lavora più lì. Tuttavia, come sempre accade, il desiderio, quando sufficientemente forte, trova la strada per diventare realtà. E così, con il pretesto di alcuni eventi musicali, il pianista si mette in viaggio fino a Presburgo, dove adesso risiede la “sua” Esmeralda. La sciagurata creatura, affetta dalla sifilide, accoglie Adrian con una punta di stupore e commozione. Senza dubbio ella ricordava la fugace visita d’allora, a Lipsia. Il suo avvicinarsi, quel modo di sfiorare la guancia di lui con il braccio nudo poteva essere stato l’espressione umilmente tenera della sua sensibilità per tutto ciò che distingueva lui dalla solita clientela. Dalle labbra di Adrian ella seppe che quel viaggio lo aveva fatto apposta per lei e gliene fu grata, invitandolo però a guardarsi dal suo corpo. La sventurata preven37


ne l’uomo che la voleva, compiendo un atto di libera elevazione spirituale al di sopra della sua pietosa esistenza fisica, un atto di distacco umano, di commozione, di (mi sia concessa la parola) amore. E dunque, quale ostinazione, quale volontà di tentare Iddio, quale spinta a comprendere il castigo nel peccato e, infine, quale profondo e segreto desiderio di concepimento diabolico, di uno scatenato e letale mutamento chimico della sua natura, indusse l’ammonito a respingere il monito e a voler possedere quella carne? Non è trascorsa nemmeno una settimana da quell’unione infernale, che Adrian manifesta i primi sintomi d’infezione locale. Ma come spesso accade, le ulcere luetiche guariscono in fretta e la malattia sembra svanita nel nulla. La vita riprende perciò come sempre, tra musica, composizione e concerti. Però attenzione. La sifilide sembra guarita, non lo è. E mentre Adrian prosegue la sua carriera musicale, i batteri si annidano silenziosi dentro il suo cervello.

Passa altro tempo, siamo nel 1012, e il musicista si reca per una viaggio in Italia, in compagnia dell’amico traduttore Rüdiger Schildknapp. Durante il soggiorno nella città di Palestrina, una sera in cui è a casa da solo, Adrian siede accanto alla finestra chiusa, alla luce della lampada, e legge Kierkegaard, nel passaggio in cui il filosofo parla del Don Giovanni di Mozart. Ad un certo punto, si sente colpire da un gelo tagliente, come quando uno se ne sta in una stanza al calduccio, in pieno inverno, e all’improvviso si spalanca la finestra, lasciando entrare il vento gelido. Ma quel gelo non proviene da nessuna apertura alle spalle dell’uomo, quel gelo gli arriva dritto in faccia. Sorpreso, alza lo sguardo dal libro e lo vede. Seduto nell’angolo del divano, con le gambe accavallate, i capelli rossicci e la punta del naso curva all’ingiù. Mefistofele. Il demonio.

Nel lunghissimo dialogo tra Adrian Leverkühn e l’emissario dell’Inferno, il cui fred-

do intrinseco gli consente di sopportare senza pena il calore delle fiamme eterne, scopriamo il tema centrale dell’opera di Thomas Mann. Ecco dunque che Mefistofele propone ad Adrian il celebre patto: ventiquattro anni di furore creativo in cambio della sua anima immortale. Ma scopriamo anche che Adrian, attratto dalla figura dell’Anticristo sin dalla tenera età, attendeva da sempre questo momento. Scopriamo che il suo tentativo di dedicarsi allo studio delle Sacre Scritture era la volontà di provare a domare il proprio orgoglio, lo spirito superbo, la tendenza al riso (infernale). Scopriamo, infine, che il diavolo non tenta i comuni mortali, ma solo coloro che per predisposizione naturale possono percepire la sua esistenza e possono accettare lo scambio che propone loro. La natura fredda di Adrian, infatti, il suo essere estraneo ai sentimenti e alle relazioni umane profonde, lo rende capace di accettare la dannazione dello spirito, i tormenti indicibili dell’Inferno, in cambio dell’estasi artistica sulla Terra, l’unica cosa che dia senso alla sua vita. E tuttavia Mefistofele chiede di più. Non solo l’anima di Adrian sarà sua per l’eternità e potrà straziarla a suo piacimento, fino a condurla, come tutte le anime dannate, verso una tortura che è insieme dolore atroce

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e voluttà. Quello che il demonio gli prospetta è una vita meravigliosa dal punto di visto intellettuale, ma totalmente vuota dal punto di vista degli affetti.

Adrian: Sicché, voi volete vendermi tempo? Mefistofele: Tempo? Soltanto tempo? No, mio caro, questa non è merce del diavolo. Non così meriteremmo il premio che la fine sia poi nostra. Quale specie di tempo, questo conta! Tempo grande, tempo folle, tempo indiavolato, pieno di baldoria e di tripudio... e anche un pochino miserabile, anzi molto miserabile, lo confesso, e non solo lo confesso, ma lo metto in rilievo con orgoglio, perché così è giusto ed equo, perché questa è la natura e la maniera degli artisti. La quale, com’è noto, tende sempre agli eccessi in ambedue le direzioni ed è normalissimamente un po’ esorbitante. Il pendolo oscilla sempre fra l’allegria e la melanconia, ed è una cosa comune e, per così dire, alla maniera moderata borghese, alla maniera norimberghese, se la confrontiamo con ciò che noi possiamo fornire. Perché noi forniamo gli estremi in questa direzione, esaltazioni e illuminazioni, esperienze di libertà scatenata, di sicurezza, di leggerezza, di tale potenza e trionfo che il nostro uomo non crede ai propri sensi; e per soprammercato vi è compresa l’enorme ammirazione per ciò che ha fatto, ammirazione che lo potrebbe far rinunciare perfino a ogni ammirazione esteriore; ad ogni ammirazione altrui; forniamo inoltre i brividi della venerazione per se stesso, anzi del delizioso orrore di se stesso, per cui egli si ritiene un portavoce privilegiato, quasi un mostro divino. E intanto si scende di altrettanto in basso, onorevolmente in basso, non solo nel vuoto e nel deserto e nella tristezza impotente, ma anche nel dolore e nel malessere… dolori del resto familiari, che ci sono sempre stati, che fanno parte della costituzione, salvo che sono molto onorevolmente rafforzati dalla illuminazione e dalla nota sbornia. Sono dolori che si accettano con piacere e con orgoglio in cambio degli enormi godimenti, dolori ben noti dalle fiabe, quei dolori che provava la sirenetta, trafitture inferte alle sue belle gambe umane, quando le acquistò al posto della coda. Tu conosci, è vero? la sirenetta di Andersen? Quella sarebbe una bella per te! Basta che tu dica una parola e te la porto in letto.

Dal

lungo discorso di Mefistofele veniamo anche a conoscenza del vero ruolo di Esmeralda, una sventurata creatura messa sulla strada di Adrian proprio per instillare in lui il demone della malattia. Non ti annoiavi a morte nella tua pudica intelligenza? Così abbiamo fatto in modo che tu cadessi nelle nostre braccia, voglio dire, in quelle della mia piccola Esmeralda e che tu te la pigliassi l’illuminazione, l’afrodisiaco del cervello al quale aspiravi così arditamente con il corpo, con l’anima e con lo spirito. Tempo hai preso da noi, tempo geniale, esaltante. E d’ora innanzi, Adrian potrà godere del piacere dello spirito e tutt’al più, se lo vorrà, quello della carne. Ma l’amore gli è vietato, in quanto l’amore riscalda. La tua vita dev’essere fredda, perciò non devi amare alcuna creatura umana. Non cre-

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di? L’illuminazione (ovvero la sifilide) lascia intatte le tue energie spirituali fino all’ultimo, anzi, in certi momenti, le esalta fino all’estasi luminosa. Un raffreddamento totale della tua vita e dei rapporti con gli uomini è nella natura delle cose, anzi, è già nella natura tua e noi non t’imponiamo alcunchè di nuovo. I piccolini (i batteri della sifilide che hanno raggiunto il cervello) non fanno di te niente di nuovo e di diverso, ma solo rafforzano ed esaltano ciò che tu sei. Freddo ti vogliamo, tanto freddo che le fiamme della produzione artistica basteranno appena a scaldarti. In esse ti rifugerai dal gelo della tua vita...

Siglato il patto con in demonio, Adrian Leverkühn vive davvero ventiquattro anni di

gloria musicale, acclamato e applaudito come un artista geniale. Ma proprio come previsto da Mefistofele, la sua vita privata è attraversata da lutti e dolori. Dopo aver perduto l’unica donna che avrebbe desiderato sposare (avendola spinta senza rendersene conto tra le braccia di un altro uomo), egli è destinato a conoscere il suo dolore più grande: la morte per meningite fulminate del suo unico nipotino, il figlio di sua sorella, l’unico essere umano verso cui Adrian aveva sviluppato un vero sentimento d’affetto. E sarà proprio la morte terribile, piena di sofferenza e di agonia, del piccolo Nepomuk a minare per sempre, in modo definitivo, la mente del compositore. Adrian incolpa per se stesso per quanto accaduto, maledice il proprio patto con il demonio, certo che sia stato Mefistofele a uccidere il nipote allo scopo di privare lui, Adrian, del calore di un sentimento umano. Sempre più corroso dalla sifilide, sempre più braccato dai suoi fantasmi interiori, egli arriva a riunire i suoi amici e colleghi con la scusa di far sentire loro la sua ultima opera musicale, ma una volta tutti insieme nella stessa stanza, inizia a raccontare del suo incontro con il diavolo, dell’origine del suo genio creativo, dei suoi amplessi infernali con una femmina mostruosa, metà donna e metà pesce. Racconta di come spesso l’ispirazione gli giunga da motivetti cantati da bambini demoniaci, che sorridono con arguzia, mentre i loro capelli sollevati emanano ondate di aria calda e dai piccoli nasi escono vermiciattoli gialli. Racconta che dall’unione con la sirena era nato un figlio, un bambino in carne ed ossa, ma che egli dovette ucciderlo con le proprie mani perchè gli era stato espressamente vietato di amare alcun essere umano. Di fronte a un tale fiume di parole incomprensibili, deliranti e scabrose, il pubblico, allibito e disgustato, lascia la casa di Adrian, giudicandolo pazzo. L’amico Zeitblom assiste inorridito e impotente alla caduta di Leverkühn, al suo crollo sul piano esistenziale, sociale e fisico. Da quel momento, il malato non si riprende mai più e dopo un periodo di tempo confinato a letto, ormai demente, muore nel 1940. In quello stesso anno, la Germania, al colmo dei suoi orrendi trionfi, è in procinto di conquistare il mondo.

Il romanzo di Faust ci impone una serie di riflessioni, prima tra tutte la stretta con-

nessione tra genio e malattia mentale. Per raggiungere determinate vette creative, è necessario un sovvertimento della psiche? O detto in altri termini, una mente “norma-

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le” sarebbe in grado di esprimere la medesima grandezza artistica? La follia è insita nella natura del genio? E la sofferenza psicologica è il prezzo da pagare per la propria genialità? A leggere la biografia di tanti artisti e intellettuali viene da pensare che spesso una quota di dolore, di allontanamento dai binari per così dire, possa essere un ingrediente importante per la capacità di tradurre in arte alcuni aspetti dell’esperienza umana. E sicuramente il dolore, in tutte le sue forme, è un aspetto centrale della vita. Esso ci porta infatti a interrogarci sul senso profondo dell’esistenza e sul senso stesso del dolore. Qual è il suo scopo, ammesso che ne abbia uno? Se essere un artista non è sinonimo di essere una persona psicologicamente sofferente, è pur vero che il dolore e la malattia inducono a stati riflessivi, introspettivi e meditativi che possono accrescere la creatività. Allo stesso tempo, l’arte diventa sovente uno strumento per indagare se stessi, il mondo, per scoprire il lato nascosto delle cose e per provare a dare un significato pieno alla vita. In tal senso, l’arte diventa addirittura terapeutica.

Ma qui nasce il secondo spunto di ri-

flessione offertoci da Thomas Mann. Quale arte può aiutare davvero gli esseri umani? L’arte musicale di Adrian è elevata, ma fredda, superba, razionale. Non c’è (quasi) cuore nelle sue composizioni. Può quest’arte toccare le corde più interiori dell’uomo, può avvicinarlo al suo Sè più profondo? La musica del protagonista del ro41



manzo può essere letta come la decadenza dell’arte, un’arte razionale, sterile, astratta, un’arte che richiede un nuovo Rinascimento per recuperare la sua nobile funzione.

E tuttavia, nell’ultima opera di Adrian

Leverkühn, questo protagonista insieme fragile e dannato, possiamo forse scorgere anche il germoglio della speranza.

Ascoltate questo finale, ascoltatelo con me: i gruppi di strumenti si ritirano l’uno dopo l’altro e quello che rimane è soltanto il sol sopra il rigo d’un violoncello, l’ultima parola, l’ultimo suono svanente che si spegne adagio nel pianissimo. Poi non c’è più nulla – silenzio e notte. Ma il suono che ancora vibra nel silenzio, quel suono svanito che soltanto l’anima ancora ascolta, ed era la fine della tristezza, ora non lo è più, muta di significato, è quasi un lume nella notte. Le ultime parole dell’amico Serenus sulla musica di Adrian Leverkühn riaccendono in noi la speranza, con quell’ultima nota che come la fiamma tremula di una candela vibra nell’oscurità della notte, illuminandola con il suo tenue chiarore. Forse l’arte non è del tutto perduta, forse l’anima del compositore, nell’ultimo istante della sua vita, ha trovato la pace e il perdono. Non sapremo mai se l’incontro di Adrian con Mefistofele sia avvenuto realmente o se sia stato il frutto di un’allucinazione legata alla sua malattia, non sapremo mai se il genio creativo del compositore fosse d’ispirazione infernale o fosse enfatizzato dai sintomi neurologici della sifilide. Ma possiamo sperare. Sperare nella salvezza dello spirito, nella redenzione dell’uomo, nel ruolo dell’arte come forza motrice, come ponte verso una dimensione superiore, anche quando tutto sulla Terra sembra perduto.

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Faust e Margherita di Harry Clarke (1889 -1931) artista e illustratore irlandese


Misero, due anime albergano nel mio petto, e vi si guerreggiano continuamente. (Faust di Johann Wolfgang von Goethe)

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Manuela Bassetti

INCUBI D’INCHIOSTRO

I BAFFI

di Emmanuel Carrère «Che ne diresti se mi tagliassi i baffi?». Agnès, che sfogliava una rivista sul divano, diede in una risata leggera, poi rispose: «Sarebbe una buona idea». Pur non riuscendo a esprimerlo, il sentimento della rarefazione dei gesti possibili lo ossessionava; e gli sembrava di averlo già fatto; certo che l’aveva già fatto, passare dal soggiorno alla camera da letto, e centinaia, migliaia di volte, ma le altre volte non era la stessa cosa, non c’era quella vertigine da giostra impazzita che andava a sbattere contro un fermacarro e ripartiva in senso contrario senza che lui potesse scendere o tirare il fiato. Titolo originale: La Moustache Casa editrice italiana: Adelphi Anno di pubblicazione in Italia: 2020

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QUARTA DI COPERTINA È quasi un capriccio, uno scherzo, quello di tagliarsi i baffi, da parte del protagonista di questo inquietante romanzo. Ma ci sono scherzi (Milan Kundera insegna) che possono avere conseguenze anche molto gravi. Il nostro non più baffuto eroe si troverà infatti proiettato di colpo – lui che voleva solo fare una sorpresa alla moglie – in un universo da incubo: perché tutti quelli che lo conoscono da anni, e la mo­glie per prima, affermano di non averli mai visti, quei baffi, e che dunque nella sua faccia niente è cambiato. Il mondo co­mincia allora ad apparirgli «fuor di squa­dra», e il confine tra la realtà e la sua im­maginazione sempre più sfumato. Del­le due l’una: o è pazzo, o è vittima di un mostruoso complotto, ordito dalla moglie con la complicità di amici e colleghi, per convincerlo che è pazzo. Non gli resta che fuggire, il più lontano possibile. Ma ser­virà? O non è altro, la fuga stessa, che il punto di non ritorno? Per nessun lettore sarà facile ripensare a questo libro – in cui ritroviamo le atmosfere visionarie e para­noiche di quel Philip K. Dick sul quale Emmanuel Carrère ha scritto con illumi­nante finezza – senza un brivido di turba­mento.

TRATTEGGI D’AUTORE Emmanuel Carrère, classe 1950, è uno scritore, sceneggiatore e regista francesce. Le sue opere ruotano intorno a tematiche che ricordano i capolavori inquietanti e fantascientifici dell’autore americano Philip K. Dick, di cui Carrère scrisse una mirabile biografia intitolata Io sono vivo, voi siete morti. Affascinato dal tenue confine tra realtà e illusione, sogno e incubo, sanità e psicosi, Emmanuel Carrère non fa mistero di utilizzare la scrittura anche come forma di autoterapia contro i demoni che si agitano nella sua complessa e poliedrica personalità, al cui interno di affacciano la tendenza alla depressione e al narcisismo. L’ideazione suicidaria, le ossessioni patologiche, la furiosa ricerca di una più profonda coscienza di sè tornano di continuo nei suoi romanzi, mostrando il volto dell’autore dentro il volto dei suoi emblematici e allucinati personaggi. E se per Philip K. Dick si è parlato di “fantascienza dell’anima”, nelle opere di Emmanuel Carrère non si può non ritrovare lo stesso morboso bisogno di scandagliare, vivisezionare, estrapolare fino in fondo l’interiorità dell’essere umano.

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QUANDO LO SPECCHIO VA IN FRANTUMI Che ne diresti se mi tagliassi i baffi? L’incipit

di questo breve romanzo dai contorni distopici sta tutto racchiuso in una domanda innocente, che il protagonista, immerso nella vasca da bagno, rivolge ad Agnès, sua moglie da cinque anni. Lui, architetto parigino, i baffi li porta da almeno un decennio. Ma perché non provare l’ebbrezza di una nuova versione di sé? In fondo Agnès cambiava regolarmente pettinatura e senza preavviso; ogni volta lui protestava, le faceva delle parodie di scenate, dopodiché, non appena cominciava ad abituarsi, lei si stufava e tornava a casa con un nuovo taglio. Perché non lui allora? Sarebbe stato divertente. Così, mentre la moglie esce di casa per fare la spesa, il protagonista decide di farle una sorpresa e di rasarsi per davvero i baffi. Ridacchiando come un bambino che sta per combinarne una delle sue, prende un bicchiere per i risciacqui, lo depone sul bordo della vasca e, stando in equilibrio precario davanti allo specchio, inizia a tagliare, lasciando cadere ciuffi di peli scuri dentro il fondo del bicchiere. Infine, stende la crema da barba e passa due volte il rasoio, finché il labbro superiore non risulta ancora più liscio delle guance appena rasate. Non appena portato a termine lo scherzo pensato per sorprendere Agnès, tuttavia, una leggera inquietudine inizia a impossessarsi di lui. E se sua moglie avesse disapprovato quel gesto? Se avesse manifestato in modo palese che quel nuovo look non gli donava per niente? Poco male – prova a consolarsi. Nel giro di pochi giorni i baffi sarebbero ricresciuti e tutto sarebbe tornato alla normalità. Eppure, non riesce a scrollarsi di dosso quella strana ansia, come se avesse commesso chissà quale delitto e stesse per essere smascherato.

Mentre lui è ancora preda dei suoi rimuginii, ecco che la porta di casa si apre ed en-

tra Agnès, carica di borse della spesa. Il momento del fatidico confronto è arrivato. Eppure, proprio allora, nella realtà del protagonista si genera una frattura insanabile. Sì, perché Agnès non mostra il ben che minimo accenno di stupore. Non un gridolino, non un sopracciglio che si solleva, nemmeno una smorfia di contrarietà. Agnès non sembra accorgersi di nulla. Al contrario, intima al marito di sbrigarsi, altrimenti faranno tardi per la cena a casa dei loro amici di sempre, Serge e Véronique. L’atteggiamento della moglie, il suo voler a tutti i costi fingere di non avere notato nulla di nuovo sul volto del marito, all’inizio sconcerta il protagonista. Perché Agnès si comporta così? Poi ecco la spiegazione più semplice. Talmente semplice che lui si dà dello sciocco per non esserci arrivato prima. 48



Agnès, da sempre dotata di uno spiccato senso dell’umorismo, ha a sua volta architettato uno scherzetto ai danni del marito, fingendo appunto che nulla sia successo. Non solo, è stata talmente astuta da avere coinvolto anche Serge e Véronique, chiamandoli per tempo e proponendo loro di stare al gioco. E difatti, anche durante la cena, nessun cenno al taglio dei baffi. Nessuna esclamazione di sorpresa, nessun commento, nemmeno di sfuggita.

All’inizio il protagonista è divertito e ammirato dalla presenza di spirito della moglie,

ma alla lunga inizia a irritarsi. In fondo, ogni gioco è bello finché dura poco. E adesso che la serata è finita e stanno rientrando a casa, gradirebbe che Agnès smettesse di recitare e si decidesse ad affrontare l’argomento. Se soltanto parlasse, potrebbero ridere insieme del loro reciproco scherzo. Potrebbero finalmente assaporare quella complicità giocosa che caratterizza il loro legame. Ma Agnès non dà proprio l’impressione di voler uscire dal perimetro della finzione e lui inizia davvero ad averne abbastanza del comportamento puerilmente ostinato di sua moglie.


Con le mani ancora sul volante, il giovane architetto sbotta e urla alla moglie di smetterla. Lei cade - o finge di cadere - dalle nuvole. Smetterla di fare cosa? Inizia un piccolo diverbio. I baffi, basta fare finta che non sia successo niente in merito ai baffi. Ma cosa c’entrano i baffi, quali baffi? Marito e moglie discutono, ma adesso ognuno sembra parlare una lingua incomprensibile all’altro. Perché lei persevera in questa assurda commedia? Di cosa diamine sta parlando lui?

Arrivano al loro appartamento. Il dialogo tra sordi prosegue. Nell’aria aleggiano sen-

timenti contrastanti: rabbia, smarrimento, sconcerto. Alla fine, la rivelazione: Sai bene che non hai mai avuto i baffi! Eccola lì la verità, servitagli su un piatto d’argento. O perlomeno, il piatto che gli porge sua moglie. Sì, perché è chiaro che uno dei due è pazzo. Oppure uno dei due finge. Non c’è una terza spiegazione. A vederla, lei sembra davvero spaventata. Si raggomitola su se stessa, scoppia in lacrime. Ma è davvero così atterrita davanti alla presunta follia che si è impossessata di suo marito o si tratta di una recita impeccabile? Lui corre giù in strada, a rovistare tra i sacchetti della spazzatura, in cerca dei ciuffi di pelo che ha buttato via solo poche ore prima nel cestino della pattumiera. La prova della sua sanità mentale. La prova che la pazza, o la bugiarda, è sua moglie. Trova i resti della rasatura pomeridiana, risale in casa, li sbatte sotto il naso di Agnès. Eccoli i miei baffi, eccoli! Sa di apparire fuori di sè, ma non gli importa. Suo moglie lo guarda come si guardano i pazzi. Quelli sono solo peli raccattati dal bidone dell’immondizia - peli che potrebbero appartenere a chiunque. Non vogliono dire nulla. Non sono i baffi di suo marito.

Da quel momento, il protagonista e Agnès si allontanano inesorabilmente, come due linee che divergono l’una dall’altra, in direzioni sempre più opposte e lontane. Dapprima provano qualche forma di riconciliazione. Un amplesso amoroso, il proposito di chiedere aiuto a uno psichiatra, il giurarsi a vicenda che mai e poi mai avrebbero dubitato l’uno dell’altra. Tuttavia, dentro di loro dubitano eccome. Il pazzo è l’altro, non può essere altrimenti. O forse non è follia, forse è soltanto un terribile machiavellico complotto. Forse Agnès ha un amante ed è in combutta con lui per sbarazzarsi dell’ingombrante marito. Quale piano migliore, dopotutto, del convincerlo che è impazzito? Logorarlo mentalmente fino a spingerlo al suicidio, ecco il fine ultimo di tutta questa messinscena. O forse peggio: ucciderlo e poi fare credere che si sia tolto la vita in seguito a un crollo nervoso.

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Tutto ebbe inizio una sera (avrebbe raccontato al funerale Agnès tra i singhiozzi) quando iniziò a farneticare di essersi appena rasato i baffi, lui che i baffi non li aveva mai portati… E chissà come, tutti le avrebbero creduto.

Come in un incubo pirandelliano, in cui i con-

torni reali delle cose si fanno sempre più sfumati e irriconoscibili, il protagonista inizia a cercare furiosamente delle prove che dimostrino in modo inconfutabile l’esistenza del suo volto baffuto. Gli album fotografici, le testimonianze di amici e colleghi, le conferme dei suoi genitori. Ma un pezzo alla volta, sua moglie erode le certezze e i ricordi della sua vita. Lui tira fuori dal portafoglio la carta d’identità e Agnès afferma, contro ogni evidenza, che in quell’immagine non vi siano tracce di baffi. Lui vuole andare a prendere le foto che hanno scattato insieme a Giava, ma lei giura tra le lacrime che non sono mai stati in viaggio a Giava. Lui chiede di telefonare a Serge e Véronique, ma lei, scuotendo la testa con amarezza, afferma che non esiste nessuna coppia di loro amici che si chiamano Serge e Véronique. Non sono stati a cena da nessuno la sera prima. Sono andati al cinema, solo loro due, marito e moglie. I genitori di lui? Beh, sua madre. Suo padre è morto già da un anno. E no, non possono aver parlato insieme al telefono recentemente.

In

pochi minuti, tutti coloro che hanno fatto parte della vita del protagonista precipitano nel nulla. Defunti - o mai esistiti. E se anche lui avesse chiamato suo padre, o Serge, o Véronique, se fosse andato a trovarli, la fiducia che ne avrebbe ricavato sarebbe stata distrutta da Agnès la sera stessa. L’avrebbe preso tra le braccia, ripetendo pacatamen-

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te che suo padre era morto, avrebbe simulato una crisi di nervi […] Perfino un confronto, per esempio una cena con Agnès e suo padre, una volta rientrati, finalmente soli, non sarebbe servito a niente. Non avrebbe smesso di chiedersi se stesse perdendo la ragione, se vedesse dei fantasmi, se gli stessero mentendo e perché.

Di

colpo, eccolo con le spalle al muro: nemmeno la più elementare delle prove sarebbe sufficiente a salvarlo dal marchio della pazzia. E se accusasse la moglie di tramare contro di lui, lei (sempre con quella sua aria avvilita e costernata) lo tratterebbe per l’ennesima volta come un folle. Si dimostrerebbe affranta, spaventata, impotente e nel frattempo lo avvolgerebbe nella sua diabolica ragnatela, fino a stritolarlo psichicamente. Inutile negarlo, sua moglie ha già vinto: scacco matto.

Quale

soluzione gli resta, dunque, se non la fuga? Un posto lontano da Parigi, dove Agnès e il suo amante non possono trovarlo. Un posto dove nessuno sa se aveva i baffi oppure no. Dove nessuno può puntargli l’indice contro e sentenziare: ecco un pazzo! Afferra le carte di credito, poi, senza bagagli né passato, si precipita in aeroporto e compra un biglietto di sola andata per il primo volo disponibile. Direzione: Hong Kong. Atterrato sul suolo cinese, colui che fino a pochi giorni prima era un ordinario uomo francese, si perde in un peregrinare senza meta e senza scopo, nell’estremo tentativo di annullarsi dentro una sorta di non-esistenza, dentro una sorta di oblio privo di dolore.

Ma (il grande ma che ci proietta dentro il finale

del romanzo) proprio mentre si trova a Macao, dopo una giornata trascorsa in spiaggia sotto

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il solleone, accade l’imprevedibile. Rientrato in albergo con l’intenzione di rinfrescarsi, scopre che la chiave della sua stanza non è più appesa alla bacheca della reception. Si rivolge all’anziano cinese che è di turno e la risposta che riceve gli procura un brivido ghiacciato lungo la schiena bruciata dal sole. La signora è già di sopra. La signora…Agnès…sua moglie. Sbalordito, il protagonista sale le scale dell’hotel, arriva di fronte alla porta della sua camera e scopre quello che più temeva: non è chiusa a chiave. Spinge la porta ed entra nella stanza. Distesa sul letto, immersa nella luce dorata del tramonto, Agnès legge pigramente una rivista. Senza sollevare lo sguardo, con noncuranza, lo saluta e gli chiede se alla fine ha comprato l’incisione che voleva acquistare come souvenir del viaggio. Lui borbotta qualcosa sul prezzo troppo alto, poi resta in silenzio ad osservare il blu del mare. Quando parla, lo fa con voce quasi normale. Vado a lavarmi - dice alla moglie. Quindi varca la soglia del piccolo bagno, costellato degli oggetti di Agnès: il suo spazzolino da denti, i barattoli delle creme di bellezza, i prodotti struccanti. Senza fiatare, lui si sveste, prepara l’occorrente per la rasatura ed entra nella vasca da bagno.

Immerso nell’acqua tiepida, sistema lo specchio in modo da potersi guardare in faccia

e si accinge a rasarsi con cura il mento e le guance. Nel riflesso, spiccano i baffi folti e scuri, ormai ricresciuti. Stende uno strato di schiuma da barba sopra il labbro superiore e passa il rasoio lì dove ci sono i suoi baffi nuovi di zecca. Si osserva con attenzione nello specchio. Riprende in mano il rasoio e passa di nuovo la lama tagliente sul rettangolino di pelle delicata tra il naso e la bocca. Aumenta la pressione, fino a sentire il sangue colare. Il dolore lo fa vacillare, ma stringe i denti e prosegue nel suo minuzioso lavoro. Man mano che brandelli di pelle si staccano e cadono in acqua, il sangue schizza sul suo corpo nudo e sulle piastrelle di maiolica. Eppure, nulla lo distrae. Con le gambe piegate dagli spasimi e i piedi contratti contro le pareti della vasca, continua imperterrito a dilaniare le carni, a maciullare a casaccio quello che resta del suo giovane volto. Sforzandosi di non urlare per non rompere il silenzio in cui si ode soltanto il quieto fruscio delle pagine girate da Agnès, arriva all’osso. Ormai non vede più, è accecato dal dolore, ma può ancora immaginare il bagliore madreperlaceo della mascella messa a nudo, la poltiglia nerastra dei nervi tagliuzzati, il fiotto rosso del sangue che gli riempie la gola. Quando capisce che ormai sta per soffocare, con le ultime forze che gli rimangono in corpo, si accinge a finire il compito che si è prefissato. Solleva il braccio e affonda la 54


lama nella gola, da un orecchio all’altro, con la mente tutta tesa nello sforzo di portare a termine quell’ultimo gesto. Poi, mentre il corpo sussulta ancora una volta, la mente finalmente si placa, nella certezza che adesso è tutto finito, adesso tutto può finalmente rientrare nell’ordine.

Così si conclude il libro di Emmanuel Carrère, la cui trama inizia con uno scherzo ba-

nale, nato tra una coppia di sposi assolutamente ordinaria, precipita dentro un inquietante universo pirandelliano e corre verso un finale allucinato e psicotico, che ricorda da vicino i mondi sconcertanti creati dalla penna visionaria di Philip K. Dick.

Il protagonista, la cui assenza di un nome proprio ci fa capire che potrebbe trattarsi di

un qualunque uomo (forse addirittura di noi stessi), perde di punto in bianco la possibilità di riconoscersi nello sguardo dell’altro. Ciò che gli occhi di sua moglie e dei suoi amici o colleghi gli restituiscono, non è ciò che vede lui. Ma dove sta la realtà? In ciò che vediamo noi oppure in ciò che ci rimandano gli altri?

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Come in un gioco di specchi, gli esseri umani sono abituati a cercare conferme delle proprie percezioni e credenze dentro i rimandi provenienti dalle altre persone e dalla società, ma quando lo specchio si frantuma e il rispecchiamento non è più possibile, a cosa aggrapparsi? Ci si può sempre fidare delle proprie percezioni o esse possono essere fallaci e menzognere? Ci si può fidare fino in fondo delle persone che ci circondano, anche quando la loro verità sembra essere opposta alla nostra? Se i nostri familiari, i nostri amici o i nostri colleghi ci dicono che un determinato oggetto è bianco, mentre noi lo vediamo nero, possiamo ignorare ciò che i nostri occhi vedono e credere ciecamente a ciò che ci viene indicata come l’unica realtà possibile?

L’epopea

del protagonista ci conduce dentro un vertiginoso viaggio, non più di formazione, come avveniva nei grandi romanzi ottocenteschi, bensì di disintegrazione – un viaggio in cui il protagonista perde, tassello dopo tassello, tutti gli strati che costituiscono la sua persona, intesa non solo come corpo e psiche, ma anche come intreccio di relazioni, memorie e scopi. Man mano che la narrazione procede, la pelle esistenziale che riveste il protagonista, i muscoli, i nervi, l’adipe – ogni cosa che metaforicamente parlando struttura la sua persona – si sfalda e si distacca, finché ciò che resta è soltanto l’esoscheletro, la messa a nudo del suo nucleo più profondo: la coscienza del sé. E allora, l’immagine dell’uomo senza nome che, dentro la vasca da bagno, davanti allo specchio, taglio 56


dopo taglio, si lacera le carni fino ad arrivare all’osso, altro non è che la trasposizione letteraria di questa progressiva destrutturazione che ci porta infine, spogliati di tutto, a guardarci allo specchio e chiederci con una punta di sgomento: chi sono io davvero? In cosa consiste la mia identità? Come posso arrivare a conoscere il mio vero Sé? Ma soprattutto, è davvero possibile conoscere il proprio Sé? O come recita il titolo del capolavoro di Pirandello, non siamo altro che Uno, Nessuno e Centomila? Ognuno di noi è una personalità coesa oppure tutti noi siamo i mille volti con cui ci vedono gli altri e il modo in cui vediamo noi stessi allo specchio non è che una delle migliaia di maschere che collezioniamo durante la nostra esistenza? Ciò che vediamo noi, di noi stessi, è più reale di ciò che vedono gli altri di noi? O viceversa, immagine che ci restituiscono gli altri è più reale di quella che percepiamo noi? E se non fosse così, se tutte le percezioni, tutti i rimandi, interni ed esterni a noi, fossero ugualmente veri, ugualmente reali, potremmo ancora parlare di verità, di realtà? Oppure tutto sarebbe relativo, facendo crollare il muro che separa la realtà dalla follia, la veglia dal sogno, il sano dal pazzo?

Il protagonista, per tutta la durata del romanzo, è sempre stato in vacanza a Macao,

insieme alla moglie, e altro non si è trattato che di un episodio psicotico, una rottura con lo stato di realtà, che ha fatto precipitare l’uomo in un delirio allucinatorio dall’esito fatale? Oppure Agnès ha davvero architettato un piano tanto astuto quanto diabolico per liberarsi del marito, prima spingendolo sull’orlo della follia e poi, inseguendo le tracce lasciate dalle carte di credito, facendosi trovare in albergo, recitando fino in fondo la parte della moglie devota, così da recidere gli ultimi fili che tenevano unita la psiche del marito e indurlo al suicidio? L’insondabile Agnès, colei che ci viene descritta come una donna capace di mentire spudoratamente (per esempio, se si dimenticava di telefonare a un’amica, Agnès non si scusava né accampava giustificazioni, ma sosteneva con assoluta fermezza di avere chiamato, elencava tutti gli argomenti di conversazione sostenuti, giurava e rigiurava che le cose fossero andate proprio così, fino a confondere l’amica, fino a instillarle il dubbio che fosse lei a non ricordarsi di avere parlato insieme al telefono) ebbene, l’insondabile Agnès è una moglie affidabile o una mente machiavellica? Il protagonista è vittima di un terribile complotto o è vittima della propria pazzia? Non lo sapremo mai. Emmanuel Carrère non ci dà alcun indizio per sciogliere la matassa, per azzardare un epilogo che non sia unicamente il frutto delle nostre ipotesi personali, prive di alcuna possibilità di essere provate e pertanto destinate a fallire. L’autore non ci offre alcuna soluzione perché il focus del romanzo non sta nello stabilire se Agnès sia colpevole o innocente, se il protagonista sia sano o folle: il focus del romanzo sta proprio nel dirci che forse non è possibile stabilire alcunché.

Sollevando

quel velo di comode certezze con cui siamo soliti guardare il mondo,

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Carrère ci indica l’esistenza di un altro mondo – più inquietante, distopico, schizofrenico. Un mondo dove tutto è relativo, dove non esistono appigli sicuri, dove la realtà si struttura soltanto negli occhi di chi osserva le cose e pertanto, a milioni di sguardi diversi, corrispondono altrettanti milioni di realtà diverse. Come si può sopravvivere, dunque, in un mondo così? Anche in questo caso la risposta ci viene negata, perché il protagonista, di fronte a un simile scenario, non sceglie la vita, bensì sceglie la morte. Ma se noi lettori, per un attimo, provassimo a immaginare di vivere già in una società del genere, in cui i mezzi d’informazione di massa, la pubblicità, la propaganda, ci riversassero addosso ogni giorno le loro verità e noi ogni giorno fossimo costretti a decidere quale realtà abbracciare, a quali percezioni e convinzioni fare affidamento - se ogni giorno ci venisse chiesto di credere se un determinato oggetto è bianco o nero – come potremmo sopravvivere in mezzo a questo sconcertante caleidoscopio di prospettive?

Scopo ultimo del romanzo di Carrère non è quello di insegnarci come vivere in un

mondo così, ma di renderci consapevoli che può esistere un mondo così e che spetta a noi porci questa domanda: come posso sopravvivere?, come posso non perdermi né annullarmi? Il protagonista ci ha accompagnato, passo dopo passo, fino sull’orlo dell’abisso, ci ha condotti oltre le nostre placide sicurezze, per mostrarci quel mondo sotterraneo, eppure potente, sopra cui tutti camminiamo ogni momento. Il suo compito è concluso, il nostro è appena cominciato: uscire dalla vasca da bagno e cercare noi le nostre risposte.

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PRISMA FILOSOFICO

A cura di Edoardo Gagliardi

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DIALOGO FILOSOFICO CONVERSAZIONE TRA UN FILOSOFO E UNA PSICOANALISTA Il mondo è davvero entrato nel XXI secolo?

La domanda può sembrare ovvia, così come la risposta. Non siamo forse nel 2021 con tutti gli annessi e connessi? In realtà potrebbe non essere così: il fatto di essere ufficialmente nel 2021 non vuol necessariamente dire che mentalmente, spiritualmente e culturalmente gli esseri umani, così come la società, siano nel XXI secolo. Per dipanare la questione, Manuela Bassetti e Edoardo Gagliardi si confrontano sul tema e provano a suggerire possibili risposte.


Come potreste definire il XX secolo? EG: Il Novecento è stato spesso definito il secolo breve (dal titolo di un saggio, il Secolo breve di Eric Hobsbawm), in realtà direi che si è trattato di un secolo composito, ovvero inquadrabile in diversi atti che poi hanno segnato profondamente la storia dell’umanità. Nel saggio citato lo storico fa terminare il secolo nel 1991, ma in realtà dopo quella data è successo ancora molto e non è neanche detto che il Novecento sia terminato con l’avvento dell’anno 2000. Forse a questo punto penso sia necessario fare un ribaltamento e provare ad ipotizzare che il XX secolo non sia davvero terminato nel 1999 ma abbia continuato la sua corsa anche successivamente, tanto che oggi possiamo dire di essere ancora completamente nel XX secolo. MB: Dal punto di vista psicologico e sociale, possiamo immaginare il XX secolo come una freccia scoccata tra il XIX secolo e il nuovo millennio. In meno di cento anni, l’umanità è passata dalle diligenze trainate dai cavalli ai jet supersonici, dal telefono a manovella alle e-mail e ai cellulari, dalle enciclopedie cartacee alle informazioni che viaggiano sul web. Una delle caratteristiche del XX secolo consiste dunque nell’accelerazione del progresso tecnologico e scientifico, tanto che tra le parole chiave per descrivere il Novecento userei il termine velocità. Mi sembra interessante notare che il XX secolo sia cominciato proprio con l’elogio della velocità, uno dei punti cardine del Manifesto Futurista di Marinetti (1909), e sia terminato con la creazione di una società tecnologica sempre più iperconnessa e veloce. In relazione al concetto di velocità, nel Novecento si erge il tema del tempo e in particolare la scissione sempre più marcata tra le due dimensioni temporali dell’esistenza: il tempo del mondo esterno e il tempo dell’interiorità. Il tempo esteriore della modernità si è fatto sempre più rapido e incalzante, man mano che ci si è avvicinati al nuovo millennio. Sia la vita privata che quella professionale sono state scandite da ritmi sempre più frenetici, in cui le ore e i minuti si accavallano, determinando una rincorsa affannosa e spesso svuotata di significato. Come un moderno Crono, il tempo del mondo esterno ha cominciato a divorare quello più lento, riflessivo e introspettivo della vita psichica. Da ciò ne è derivato un progressivo, ma inesorabile scollamento dell’essere umano dal proprio Sé più profondo. Scollamento che ha raggiunto il suo acme agli albori del nuovo millennio, trascinandosi dietro sacche di solitudini esistenziali e di malesseri psicosomatici sempre più diffusi in tutti gli strati della società occidentale. Quello che a mio avviso è mancato nel Novecento è stata proprio la capacità (o la volontà) d’integrare i cambiamenti indotti dall’innovazione tecnologica e scientifica con la dimensione più interiore e spirituale dell’uomo.

In che cosa consisterebbe il fatto che la società di oggi sia o meno immersa nel XX secolo?

EG: Sicuramente può apparire strano affermare di essere ancora nel XX secolo, ma è

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opportuno fare delle precisazioni. Dal punto di vista della tecnica e di quello che si può definire progresso scientifico, non vi è dubbio che si siano fatti passi avanti, ad esempio, dagli anni Cinquanta del Novecento ad oggi. Le nostre case sono piene di oggetti che erano impensabili in passato. Le nostre vite sono state rivoluzionate dai collegamenti aerei che hanno permesso di avvicinare continenti e persone. Per cui, da questo punto di vista non metto in dubbio il fatto che vi sia stato un passaggio, cosa che tuttavia è visibile nella progressione dei secoli: il XVI secolo era più avanti nella tecnica rispetto al XV secolo. Ma al di là di questo la mia riflessione vuole concentrarsi in particolare sulle strutture mentali ed il modo di ragionare e guardare al mondo che abbiamo oggi. Ecco, in questo senso, io non vedo ancora un cambiamento radicale che ci possa far dire di aver abbandonato le strutture del XX secolo in favore di una nuova prospettiva. Penso che a dare avvio ad una mutazione profonda sarà certamente la tecnica, o meglio la tecnologia, la quale sarà in grado di intervenire anche sul modo di pensare e di guardare al mondo ed alle relazioni personali. Tutto questo sta già accadendo oggi, ma in buona parte gli esseri umani rimangono ancora legati a modi di pensiero che appartengono al secolo passato. Accanto alla tecnologia io aggiungere gli eventi, catastrofici o epocali, che avranno un peso non indifferente sulla possibilità di una mutazione profonda del modo di strutturare e pensare la realtà ed il mondo. Le pandemie (per usare un tema fin troppo ricorrente ed abusato) potrebbero giocare un ruolo chiave in tal senso. Tali eventi potrebbero innescare evoluzioni o involuzioni nel pensiero umano e questo significherà anche un possibile cambiamento pratico della società e del mondo circostante. MB: A questa domanda, di così ampio respiro, si potrebbe rispondere assumendo diverse prospettive e punti di vista. Mi limiterò dunque a dare la mia interpretazione partendo da uno sguardo di natura psicologica. A mio avviso ciò che contraddistingue l’avvento del nuovo millennio è la marcata diffusione della tecnologia nella popolazione generale, mentre alla fine del Novecento essa apparteneva ancora in gran parte a determinati ambienti e ruoli professionali. Questa massiccia immissione dei mezzi tecnologici ha modificato radicalmente le nostre consuetudini sociali e comunicative, incidendo sulle nostre modalità relazionali e affettive. L’iperconnessione, la possibilità di comunicare pressoché con tutti in tempo reale, l’abbattimento delle distanze geografiche, hanno creato un senso di appartenenza e di vicinanza che tuttavia risulta essere in gran parte illusorio. Se infatti la tecnologia e i social consentono di raggiungere una platea di persone sempre più vasta, va anche registrato che nella maggior parte dei casi i legami che si possono instaurare all’interno di queste realtà sono più fugaci e superficiali rispetto a quelli del passato. In ambito sociale, l’essere umano del XXI secolo ha mantenuto le categorie di pensiero del secolo precedente (“amicizia”, “amore”, “incontro”...) ma esse appaiono sempre più svuotate del loro significato originario. Nel XXI secolo gli amici sono i contatti sui social network; l’amore viene promesso ed elargito sui siti web; gli incontri tra persone assumono i contorni delle chat

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room, delle riunioni virtuali, degli apertivi su piattaforme online. Dunque, il XXI secolo parla ancora la lingua del Novecento, ma ne ha in gran parte stravolto il significato. Il contenitore (le parole) è sempre lo stesso, ma ciò che è cambiato è proprio il contenuto in esso racchiuso. L’analisi di una tale trasformazione linguistica è fondamentale per comprendere le dinamiche psico-sociali che caratterizzano l’umanità del nuovo millennio e per non rimanere imbrigliati in una visione del mondo che non è più esaustiva dell’attualità in cui siamo immersi.


Provando ad ipotizzare, giocando anche di fantasia, è possibile che il nuovo secolo recuperi degli atteggiamenti, dei valori o delle pratiche da secoli precedenti il XX?

EG: Credo che non sia un’ipotesi da scartare. In fondo in ogni secolo troviamo elementi di secoli passati che, sincreticamente, si legano a nuovi elementi peculiari del nuovo secolo. Mi viene da pensare al fatto che, oggi, sono in molti a sentire la necessità di un nuovo Rinascimento. Certo, è ovvio che non si può tornare esattamente a quel Rinascimento, che è stato quello che è stato, perché è venuto fuori in un determinato contesto. Quello che però è possibile è che elementi di quel secolo possano essere recuperati nel nostro, nel bene e nel male. Intendo dire nel male, quando si tende a commercializzare tutto quello che passa nel tritacarne della società dei consumi. Questo non può non creare un depotenziamento dei valori e delle pratiche proprie del Rinascimento. Al contrario, nel bene, quando vi è un recupero profondo e autentico del passato. Si tratta però di un’operazione non facile, perché più ci si distanzia da

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una stella e più essa appare piccola, sfocata, fino a diventare invisibile. Il rischio è che l’uomo del futuro, che è già qui in parte, perda completamente la capacità di guardare ai secoli passati. MB: In questi ultimi due anni, la chiusura a singhiozzo degli spazi abitualmente dedicati alla vita sociale (ristoranti, cinema, teatri…) ha portato alla riscoperta degli spazi privati, in particolare della casa, come luogo da vivere e da condividere. Personalmente mi piacerebbe se il XXI secolo, oltre a valorizzare i luoghi classici della cultura e della socialità, portasse le persone a incontrarsi di nuovo nelle case, facendo rinascere, come nell’Ottocento, i cosiddetti salotti in cui trovarsi per discorrere di arte e di letteratura, per fare musica insieme, per scambiarsi opinioni riguardanti il cinema, il teatro, la società, la politica. In un mondo in cui lo scambio comunicativo è sempre più affidato alla rete e alla tecnologia, auspicherei il ritorno di una forma di aggregazione e condivisione più intima, accogliente, dai ritmi più lenti e rilassati. Il recupero dell’ospitalità, della convivialità e del dialogo tra menti pensanti sarebbe un antidoto contro quella solitudine esistenziale che affligge ormai milioni di persone, nelle grandi metropoli come nei piccoli borghi. Da un punto di vista filosofico, invece, riporterei alla luce il concetto kantiano del sublime, quel senso di sgomento, fascino e inquietudine che ci coglie di fronte alla potenza della natura e ai suoi straordinari spettacoli. Laddove la tecnologia e la scienza spingono l’uomo a dimenticare la sua dimensione effimera e fragile, e lo portano a illudersi di potersi sedere al posto degli dèi, il recupero del sentimento del sublime ci restituisce il senso del limite, ci ricolloca dentro un universo molto più grande di noi, dove regnano potenze (naturali e spirituali) misteriose e insondabili. Questo riportare l’essere umano dentro la sua dimensione finita e vulnerabile non significa volerlo sminuire o deprimere. Al contrario. Significa innanzitutto riscoprire quel senso di umiltà che è alla base del rispetto, sia verso la propria umanità che verso tutte le creature che condividono questo viaggio sulla Terra. In secondo luogo, è proprio nel riconoscere di essere parte di un tutto immensamente più grande, e nel rivolgere lo sguardo verso l’assoluto, che l’uomo può elevarsi dalla sua condizione mortale e può sfiorare il senso dell’eterno.

Parliamo

della società dei consumi. Quanto questa può influenzare (o ha influenzato) il modo di vivere delle società umane nel corso dei secoli? EG: Si tratta di una questione fondamentale. In primo luogo, la società dei consumi, altrimenti detta di massa, non è sempre esistita. Direi che si tratta di un prodotto della seconda metà dell’Ottocento, quando la rivoluzione industriale si allarga in maniera considerevole. Da quel momento si comincia a vedere come le masse diventino sempre di più uno degli attori sociali di riferimento. La massa ha una duplice funzione: quella di consumatrice e quella a cui viene assegnato il ruolo di decisore delle fortune (o sfortune) della democrazia. Prima di questo momento le masse erano inquadrate 67


in una rigida divisione della società in sfere o classi che difficilmente potevano essere messe in discussione. E questo anche dopo la Rivoluzione francese che, apparentemente, avrebbe dissolto il vecchio ordine sociale. In realtà il vecchio modo di concepire la realtà ed il mondo ha continuato a mantenersi per lungo tempo, fino appunto all’avvento del consumo di massa. L’avvento del consumismo ha introdotto il concetto di vendita ed acquisto, non solo (e non tanto) nel mondo delle arti pratiche, cosa che già accadeva nel passato. La novità stava nel fatto che all’interno della struttura vendita e acquisto entravano anche le arti dell’intelletto, le relazioni interpersonali ed il modo di pensare. Questa fu una vera e propria rivoluzione. La si può notare proprio nel mondo dell’intellettuale, nel momento in cui questo da dotto si trasforma in un mercante come gli altri, il cui scopo è piazzare la propria merce. La dipendenza dal dover ad ogni costo massimizzare i profitti, associata al desiderio di accrescere potere e visibilità, ha di fatto reso schiavi gli individui, in particolare del XX e XXI secolo. Rendersene conto è difficile perché si tende a pensare che la struttura di pensiero del consumismo sia qualcosa di legato esclusivamente al modo di operare dell’economia e delle aziende su base capitalista. In realtà le cose sono più complesse di quanto possa apparire. Il consumismo ha progressivamente permeato la società, entrando nella mente degli individui e ha ridefinito la struttura del pensiero. Oggi è difficile poter dire di essere fuori da questo modo di funzionare, anche quando, apparentemente, si afferma di non averci nulla a che fare. MB: La nascita dei grandi magazzini a Parigi, durante la Belle Époque, può essere letto

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come l’inizio della moderna società dei consumi, intesa come una società in cui, grazie anche alle sirene della pubblicità, viene instillato negli individui il desiderio di beni e oggetti non indispensabili, i quali trasformano le persone in una massa, per l’appunto, di “consumatori”. Tuttavia, ciò che a mio avviso resta un concetto basilare, rispetto alla società dei consumi (che è nata nell’Ottocento, è cresciuta durante il Novecento ed è approdata nel nuovo millennio sfruttando a pieno le potenzialità offerte dalla tecnologia) è proprio il concetto di desiderio. L’etimologia della parola desiderio è alquanto evocativa: essa deriva dal termine latino de-sidera, che significa letteralmente “mancanza di stelle”. Il desiderio, pertanto, si configura innanzitutto come una mancanza. Si desidera ciò che ancora non si possiede – e questo è molto intuitivo. Anche nella società dei consumi, gli individui (sollecitati dalla pubblicità) desiderano beni che ancora non possiedono: l’ultimo modello dell’i-phone, un’auto nuova, un vestito alla moda… Eppure, in questa accezione del concetto di desiderio non è presente il secondo punto focale, ovvero il riferimento agli astri. Il desiderio non è mancanza in senso assoluto, è mancanza di qualcosa di specifico: le stelle. E le stelle sono ciò che è distante da noi, ciò che ci costringe a sollevare lo sguardo per poterlo ammirare. I cosiddetti desideri indotti dalla società dei consumi sono rivolti a beni per lo più materiali (o comunque facilmente acquistabili, come un pacchetto vacanze). Essi sono per loro natura intercambiabili, sostituibili, sempre pronti ad essere rimpiazzati da altri beni nuovi fiammanti. Nella società dei consumi gli individui si muovono in una dimensione orizzontale, in cui all’ottenimento di un bene segue subito il desiderio di un altro bene, in un’orizzontalità

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potenzialmente infinita. Ma il vero desiderio è quello che ha per obiettivo un bene non prontamente acquistabile: un progetto di vita, uno scopo esistenziale oppure un oggetto materiale il cui raggiungimento richiede sia un impegno mentale ed emotivo, sia un tempo d’attesa (come il bambino che mette i soldini nel salvadanaio per potersi comprare alla fine il giocattolo tanto sognato). Ecco dunque che il desiderio, nella sua accezione più profonda, è una tensione interiore verso qualcosa, il cui perseguimento determina un cammino, un andare verso, e con ciò forgia il carattere della persona, le insegna valori come la pazienza e la determinazione, la costringe a guardare dentro se stessa per porre ordine tra i propri piani di vita, le proprie priorità, le proprie scelte. Il desiderio nella sua connotazione più autentica crea un asse verticale, in cui l’essere umano scende nelle profondità del proprio Sé e, per coloro che hanno una visione spirituale dell’esistenza, lo innalza verso una dimensione superiore. Il dilagare della società dei consumi ha causato una progressiva perdita della verticalità psichica e un’orizzontalizzazione del desiderio, svuotandolo della sua energia creativa e riducendolo a puro possesso di merci o a puro godimento pulsionale immediato. Tale fame consumistica, dal punto di vista psicologico, ha portato allo sviluppo di una società da un lato sempre più vorace e istintiva, dall’altro all’emergere di un senso di inappagamento, frustrazione e depressione cronica che caratterizzano il moderno male di vivere. In assenza di progetti di vita fondanti, infatti, il divorare continuamente beni di consumo non può che lasciare un senso d’insaziabilità e un buco esistenziale che a loro volta alimentano la ricerca dello sballo o l’immersione nel virtuale come estremo tentativo di anestetizzare l’angoscia del vuoto.

La vostra rivista rivolge, tra le altre cose, lo sguardo in particolare alle arti ed alla creatività. Quale ruolo potrebbe avere l’arte nel XXI secolo?

EG: Pur non avendo la sfera di cristallo si può provare a fare qualche ipotesi. Direi che, nel modo in cui è iniziato questo secondo decennio del XXI secolo, per l’arte non si prefigura un grande futuro. L’appiattimento pandemico ha provocato una sorta di sterilizzazione della creatività, anche in concomitanza con chiusure e distanziamenti imposti che non hanno favorito le relazioni e la circolazione umana, elemento fondamentale per la creazione artistica e la crescita delle arti. Si spera quindi che questa situazione sia solo temporanea, anche se ormai dura da due anni, e che si possa tornare a parlare di arti nel pieno senso della parola. Ma non tutte le situazioni negative vengono per nuocere, anzi, nel mondo delle arti accade spesso che i periodi di maggiore creatività siano proprio quelli in cui le crisi attraversano la società. Quando le contraddizioni del mondo emergono e a volte portano allo scontro sociale (anche solo sul piano dialettico), le arti trovano una fortissima spinta. In questo senso ho in mente il cinema, la letteratura, le arti figurative, la musica. La storia ci insegna che nei periodi di maggiore compressione delle libertà le arti hanno saputo raggiungere vette creative molto alte. Il vero problema semmai è nelle limitazioni strutturali di pensiero 70


che caratterizzano gli esseri umani, sono queste forme di controllo (o autocontrollo) che creano i maggiori appiattimenti di creatività in un dato periodo storico. Il paradosso è proprio questo: nel momento in cui vi sembra essere un’apparente libertà per le arti, queste sembrano incapaci di esprimersi come è accaduto nel passato. Perché? Perché il regime non è più esteriore ma interiore. MB: In termini psicoanalitici, affiderei all’arte una valenza demiurgica. Come anticipato nelle risposte precedenti, la società dei consumi, l’abuso della tecnologia, la virtualizzazione dei legami hanno portato ad uno scollamento dell’essere umano dal proprio nucleo esistenziale più profondo. Questo ha generato una sofferenza collettiva, un malessere psicologico che permea il tessuto sociale e che può assumere diversi connotati: dalla violenza, all’isolamento, allo sballo. Non tutte le persone sono depresse, naturalmente, ma a livello sociale esiste un velo di depressione cronica che serpeggia in tutte le classe sociali e in tutte le generazioni. La caratteristica più saliente della depressione è l’assenza di speranza, il non riuscire a vedere oltre il buio in cui si è immersi, l’impossibilità a immaginare un futuro migliore. L’arte, con il suo bagaglio di archetipi, metafore, simboli e modelli, con il suo spirito creativo ed evocativo, restituisce all’essere umano la possibilità di pensare altri mondi possibili, altre mete ideali verso cui tendere. In questo senso, l’arte assume una funzione demiurgica per l’uomo del nuovo millennio. Lo traghetta verso luoghi interiori ove costruire un nuovo senso di sé, verso dimensioni relazionali ove creare nuove forme di condivisione, più autentiche e più vicine ai reali bisogni dell’essere umano.

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Edoardo Gagliardi

WU-WEI AZIONE E NON AZIONE NELLA FILOSOFIA TAOISTA La filosofia cinese è uno strano oggetto agli occhi dell’osservatore occidentale. Per

lungo tempo infatti la filosofia ha sempre vissuto di una centralità europea e anglosassone fin troppo autoreferenziale. Fortunatamente la filosofia è molto di più della pur ricca storia che l’Occidente è abituato a conoscere. Se si vogliono trovare le ragioni di una mancata e parziale ricezione della filosofia cinese nel mondo occidentale, queste possono essere rintracciate almeno in due elementi: 1) la scarsa conoscenza della lingua e della cultura cinese da parte di molti studiosi che si sono avvicinati alla sua filosofia; 2) la produzione di avventate e a volte palesemente fantasiose traduzioni dei testi di riferimento del pensiero cinese. In Italia, ad esempio, sappiamo che Julius Evola si cimentò con una traduzione del Tao Te Ching, il Libro della Via e della Virtù (Carabba,1923), il testo più famoso del taoismo cinese e in generale il più tradotto al mondo dopo la Bibbia. Evola, come molti altri, non operò la traduzione dal testo originale cinese ma da altre lingue europee. Questo, aggiunto alla scarsa conoscenza della filosofia taoista, produsse una traduzione che esprimeva più la visione del mondo di Evola che la filosofia di Lao Tzu, il supposto autore del testo originale cinese. Testimonianze di una certa conoscenza del pensiero taoista in Europa arrivano anche da Hegel, il quale in alcune lezioni fece riferimento al taoismo e al Tao Te Ching, affermando di aver visto in prima persona il testo pubblicato in Austria, a Vienna. Il fatto però che il Tao Te Ching (Il libro della Via e della Virtù) e altri testi circolassero

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in Europa già dalla metà del XIX secolo non vuol dire che le traduzioni fossero impeccabili e che la conoscenza della filosofia taoista fosse profonda e completa. Il taoismo, che è l’oggetto proprio di questo articolo, ha per lungo tempo anche sofferto la messa in ombra da parte di un’altra filosofia, quella confuciana. Le ragioni di un tale processo vanno ricercate soprattutto nella valenza più morale e politica del confucianesimo rispetto al taoismo, che pure mantiene una sua peculiare visione etica della vita.

Naturalmente, è bene ricordarlo ai lettori, termini come “etica”, “morale”, “politica”, non vanno intesi qui nel senso occidentale, ma contestualizzati nell’ambito della cultura orientale, in questo caso cinese. Infine, non meno rilevante ai fini della comprensione del rapporto tra filosofia orientale e occidentale, è la tradizionale divisione che in Occidente si fa della religione e la filosofia. In Oriente filosofia e religione, pur rimanendo in molti casi due ambiti separati, mostrano in realtà molte più connessioni (compenetrazioni, per usare un termine taoista) di quante ne possano avere nel pensiero occidentale.

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In Cina poi, ma non solo, in alcuni casi la filosofia precede la religione. Non è questa la sede per una ricostruzione sul dibattito tra taoismo filosofico e taoismo religioso, basterà dire però che in Cina questi due ambiti condividono molte continuità, nonostante il fatto che molti studiosi abbiano messo in evidenza anche i punti di divergenza tra il taoismo filosofico e religioso, e che comunque il primo si fa nascere prima di quello più propriamente religioso. Alla luce di quanto appena detto può risultare più chiaro il motivo per cui in Occidente la filosofia cinese rappresenta un oggetto misterioso, certamente esotico, di difficile collocazione con gli strumenti metodologici del pensiero filosofico occidentale. Detto questo, lo scenario non è del tutto negativo, perché il lettore interessato e che vive in Europa può disporre oggi di notevoli testi e studi che gettano una luce ampia e variegata sul taoismo, tanto quello filosofico che religioso, la sua storia e la sua essenza.

Fatta questa doverosa premessa, si può ora spostare l’attenzione su uno dei concetti che il taoismo offre a chi intenda percorrere le sue vie paradossali (si capirà perché utilizzo questo aggettivo): il wu-wei. In Italiano il termine può essere tradotto con “non-azione”, “inazione”, “azione senza sforzo”, “non agire”. Il taoismo però non invita a non agire, piuttosto ad agire non-agendo. Qui si incontra il primo paradosso del taoismo. Come è possibile agire non-agendo e soprattutto perché si dovrebbe agire in questo modo? Per comprendere il concetto di wu-wei e cercare di rispondere alle domande poste, si può operare una comparazione tra il modo principalmente in voga di pensare in Occidente e quello taoista.

Nell’Occidente contemporaneo, ma con radici profonde nella cultura filosofica e religiosa di questa parte del mondo, l’azione è una prerogativa dell’uomo. Non si può ottenere nulla se non si agisce. Agire significa quindi mettere in atto delle azioni (fisiche e mentali) che possono e devono operare una modifica tale da portare ad un risultato che è diverso dallo stato che esisteva prima che l’azione avesse inizio.

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L’azione ha due opzioni, il successo o l’insuccesso e su questo si basa l’ossessione di buona parte della mentalità in Occidente: il successo di un’azione va ben oltre il raggiungimento di uno scopo, esso determina in qualche modo anche l’essenza dell’individuo. Il successo è sinonimo di vittoria, mentre l’insuccesso di sconfitta. L’azione in tal senso si inserisce in un più ampio contesto di competizione tra gli esseri umani che non di rado diventa dis-umanizzante. Va inoltre ricordato che nel pensiero occidentale l’azione si situa in un orizzonte che è prettamente umano, politico e sociale, ovvero che non ha nessuna connessione con la Natura. Si agisce perché si vuole ottenere un risultato che ha valore per l’uomo, in un contesto in cui i valori sono solo una costruzione contingente umana. Appare chiaro, anche ad uno sguardo superficiale, come sia lontano questo modo di pensare con quanto viene professato dal taoismo. Lo scopo della filosofia taoista è la gioia e la felicità che può ottenersi solo comprendendo il funzionamento del Tao, la fonte da cui scaturisce la realtà, il regno delle diecimila cose. Il valore del Tao sta nel riconciliare gli opposti in un livello superiore di coscienza. Conviene porre l’attenzione sugli opposti: maschile, femminile; luce, buio; notte, giorno; umido, secco. Queste sono solo alcune delle coppie di opposti presenti nel taoismo. Il simbolo del Tao illustra in maniera chiara il funzionamento degli opposti.

Gli opposti non sono due entità separate che si susseguono l’una all’altra, ma esse si

compenetrano, ovvero nell’una è già presente l’altra. Questa è una delle verità del Tao. Comprendere questo processo di formazione della Realtà e della Natura è la chiave per capire la non-azione, il wu-wei taoista: solo chi comprende e vive in accordo con il Tao può mettere in atto un’azione che ha alla propria base il non-agire. Quello che agli occhi occidentali potrebbe apparire come un paradosso per il taoismo è una prassi. Per questo motivo la non-azione taoista non è una fuga dalla realtà, una rinuncia alla vita; al contrario, la non-azione è il massimo dell’azione in accordo con la Natura e la Realtà stessa delle cose.

Nel Tao Te Ching si legge: Perciò il Saggio non fa niente, e così non rovina niente; egli non trattiene niente, e così non perde niente. Vibrando insieme al Tao e comprendendo il suo intimo funzionamento, il saggio taoista non fa niente, non agisce, eppure fa e agisce. Allo stesso modo non parla, eppure parla, non conosce, eppure conosce. Il Tao si esprime per apparenti paradossi, proprio perché nel Tao gli opposti si compenetrano e, grazie a questa configurazione,si arriva a comprendere la Verità. Nel pensiero occidentale la Verità si possiede, si ottiene attraverso un processo di acquisizione, di trasmissione del sapere. Nel taoismo si agisce per sottrazione. Non è aggiungendo che si comprende ma sottraendo, come spiega ancora il Tao Te Ching:

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Senza uscire dalla porta conosce il mondo! Senza guardare dalla finestra, vedere la Via del cielo! Più lontano si va, meno si conosce. Perciò il Saggio conosce senza viaggiare; egli nomina le cose senza vederle; egli compie senza azione. In questo passo si ricorda ai lettori che affannarsi ad acquisire, ad ottenere, a cercare, non ha senso, perché il vero saggio è colui che non cerca, eppure comprende; che non viaggia eppure conosce il mondo; che sa dare un nome alle cose senza vederle. Il saggio taoista riesce a squarciare il velo che copre come una nebbia la realtà, riesce a risalire alla sorgente del Tutto che è il Tao, da dove Tutto scaturisce, e comprendendone il funzionamento egli si allinea alla Realtà e alla Natura. In questo modo non si ha bisogno di agire, perché si è intimamente connessi con lo scorrere degli opposti compenetrati.

Laddove

la schizofrenia occidentale spinge l’individuo a fare sempre di più per incrementare le proprie ricchezze, per aumentare le conoscenze da spendere sul mercato delle idee, per raggiungere la visibilità nel tempio del consumo mediatico-comunicativo, il taoismo invita invece alla non-azione. Nel primo caso si tratta di un individuo sclerotizzato e scollegato dalla propria intima essenza, schiavo (consapevole o meno) della falsa realtà umana; nel secondo caso di un essere umano che ha raggiunto finalmente l’illuminazione: Colui che si applica allo studio aumenta ogni giorno. Colui che pratica la Via diminuisce ogni giorno. Diminuendo sempre di più si arriva al non-agire.

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Non agendo, non esiste niente che non si faccia. Non è affastellando nozioni che l’uomo arriva alla libertà e a comprendere il Tao. Il taoismo è provocazione: il saggio invita a mettere da parte la “cultura” (umana) per ricollegare la propria essenza con la Realtà e la Natura guidata dal Tao, dalla Via. Proprio non-agendo che tutto si compie.

Va

sottolineato ancora che il taoismo non è un invito alla semplice ignoranza, oppure a lasciare che tutto scorra mentre l’essere umano si ritira in qualche luogo sperduto lontano da tutto e tutti. Nel linguaggio paradossale del taoismo l’ignoranza assume un valore positivo: se ignorare vuol dire abbandonare la costruzione umana della realtà fittizia, ebbene non c’è nulla di meglio che potenziare al massimo la propria ignoranza. Ignorare vuol dire anche evitare che preziose energie vadano spese per allontanarsi dalla Via e volgersi all’inutile accumulo di conoscenze senza nessuna utilità per il raggiungimento dello scopo fondamentale del taoismo, ovvero ottenere la gioia e la felicità: Pratica il non-agire, bada a non fare niente, assapora il senza-sapore; considera il piccolo come il grande, il poco come il molto!

Il taoismo rappresenta una delle più grandi

opposizioni al pensiero occidentale dominante, quello per cui il “fare”, l’“ottenere”, il “guadagnare”, diventano gli imperativi di una vita quotidiana asfittica e sterile. Il taoismo per essere compreso nella sua ricchezza richiede all’individuo (in particolare occidentale) un’opera di distacco dal proprio modo di pensare e dalle strutture cognitive apprese, soprattutto quelle impartite da un 77


processo educativo e culturale che tende a scollegare anziché riunire, che offusca lo sguardo anziché far vedere la Realtà. Solo nel wu-wi, nella non-azione consapevole, si realizza la vera Realtà, quella che permette al saggio (uomo o donna) di riconoscere che il Tutto è il Tao e il Tao è il Tutto.

Bibliografia Chung-yuan Chang, Creativity and Taoism. A Study of Chinese Philosophy, Art and Poetry, London, Singing Dragon, 2011. Jan Julius Lodewijk Duyvendak (cura di), Tao Te Ching, traduzione italiana Anna Devoto, Milano, Adelphi, 2013. Isabelle Robinet, Storia del taoismo dalle origini al quattordicesimo secolo, traduzione italiana Marina Miranda, Roma, Astrolabio-Ubaldini, 1993. Russel Kirkland, Il taoismo. Una tradizione ininterrotta, traduzione italiana Giorgio Mantici, Roma, Astrolabio-Ubaldini, 2006.

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IL SALOTTO DI MANU & EDO Incontri, interviste, curiosità

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MUSICA Dalla musica sacra alla musica da camera, dalla musica sinfonica alle musiche di scena per il teatro, dalle colonne sonore per il cinema ai musical: un viaggio nel mondo artistico del Maestro Stefano Burbi, direttore d’orchestra e autore di oltre 900 composizioni.

“Uno dei compositori italiani contemporanei più prolifici e interessanti. Riesce ad esprimersi in modo universale, ma allo stesso tempo moderno. Con uno stile classico eppure attuale, arriva dritto al cuore dell’ascoltatore.”


Stefano, tu sei sia direttore d’orchestra che compositore: due figure misteriose, quasi leggendarie, per coloro che non conoscono da vicino il mondo della musica. Come potremmo descrivere questi due ruoli professionali, così da aiutare il pubblico a comprenderli meglio?

In realtà si tratta di due figure professionali come tante altre, benché vengano mitiz-

zate dalla letteratura romantica e post romantica. Cos’hanno in più, rispetto ad altre tipologie di lavoro? Direi la passione, magari un po’ di talento e soprattutto la relazione con il pubblico. Nel caso del compositore, egli cerca di esprimere se stesso, la propria sensibilità artistica e umana, ma spesso deve farlo attraverso lavori di pubblica utilità. Mi spiego meglio. Se un teatro mi commissiona un brano da eseguire durante un concerto, io devo adattare la mia sensibilità al tema che mi hanno assegnato. Esiste quindi la ricerca di un equilibrio tra estro creativo ed esigenze contingenti. Il direttore d’orchestra, invece, è una figura completamente diversa, perché il suo compito è quello d’interpretare l’opera di un altro compositore e lo fa non direttamente, ma attraverso l’espressione di altri musicisti. Il direttore cerca di proporre all’orchestra la sua idea musicale utilizzando dei movimenti che possono apparire fuori da ogni logica, ma che in realtà fanno riferimento a uno schema ben preciso, il quale serve ad orientare l’orchestra stessa. Tuttavia, nonostante i gesti siano importanti, io dico sempre che non si dirige soltanto con le mani, bensì con il cuore e con il carisma. In definitiva, possiamo affermare che il direttore d’orchestra e il compositore sono due figure in un certo qual modo complementari. Quando dirige Beethoven o Mozart, il direttore d’orchestra deve un po’ mettersi nei panni del compositore e decidere come dev’essere eseguita quella determinata musica. Viceversa, il compositore, quando scrive un suo brano, spera che verrà eseguito come lui ce l’aveva in mente.

Perché

spesso spetterà a un altro direttore d’orchestra interpretare ciò che il compositore ha scritto..

Esatto. In realtà, nel mio specifico caso, essendo io sia direttore che compositore, il

più delle volte posso eseguire la mia musica come desidero. Tuttavia, capita che siano altri direttori a dirigere le mie opere e a interpretarle a modo loro.

E ti è mai successo, in questo caso, di pensare che un direttore abbia interpretato

la tua musica in modo totalmente diverso rispetto a come tu l’avevi immaginata?

Assolutamente sì. Mi è capitato un paio di volte ed è stata un’esperienza interessante. In tutta onestà, quando ciò accade, per un compositore è un evento più affascinate o più fastidioso?

No, fastidioso direi di no. Per me è qualcosa d’intrigante, anche se poi quando mi tro83


vo a dirigere io quella stessa musica, recupero l’idea originaria con cui l’avevo creata. Ma in sé, resta un’esperienza curiosa e interessante vedere la propria opera rivisitata dalla mente e dalla sensibilità di un’altra persona.

In precedenza, avevi fatto riferimento al carisma come qualità necessaria per dirigere un’orchestra. Quanto conta in effetti questa dote umana, oltre al talento professionale, per poter essere un bravo direttore?

Il carisma conta moltissimo. Il direttore d’orchestra dev’essere innanzitutto un ottimo

comunicatore. Egli deve possedere una buona tecnica e un buon gesto, così come un carattere capace di adattarsi alle varie situazioni umane, perché non è sempre facile relazionarsi con i musicisti. Tuttavia, egli deve avere in primis l’autorevolezza necessaria per fare accettare la sua idea musicale all’intera orchestra. Volendo, potremmo sostituire il termine “carisma” con la parola tedesca ausstrahlung, parola che sta a indicare gli strali che escono fuori. Questi strali altro non sono che l’energia che il direttore riesce a trovare in se stesso, per poi trasmetterla all’orchestra, la quale a sua volta, per vibrazione, la trasmette pubblico. In termini psicoanalitici, potremmo definirlo un lavoro di transfert. Per questo motivo uno stesso brano, eseguito da una stessa orchestra, risulta totalmente diverso se sul podio c’è un direttore o se ce n’è un altro.

Il carisma rimane un’energia che il direttore rivolge soprattutto agli orchestrali o è un fattore importante anche nel rapporto con il pubblico?

Il carisma è, in generale. O ce l’hai o non ce l’hai. E quando è presente, lo percepiscono tutti, dai musicisti al pubblico. Non solo, esso traspare anche nella vita privata. Non a caso i grandi direttori d’orchestra erano uomini carismatici anche fuori dal palcoscenico e dal teatro.

Quando si pensa alla composizione musicale, non possono non venire in mente i

grandi nomi del passato: Verdi, Beethoven, Mozart, Hendel, tanto per citarne alcuni. Come si rapporta un compositore di oggi nei confronti di questi “big” della musica classica e operistica? C’è il timore, a volte, che le proprie opere possano essere considerate delle “copie” delle grandi opere del passato?

Noi compositori di oggi abbiamo un problema: siamo vivi! E finché siamo vivi, ci cal-

colano il giusto, più o meno. Quando siamo morti, invece, ci tributano tutti gli onori. Ti faccio un esempio. Moltissime persone dicono: “Ah, se avessi conosciuto Mozart o Beethoven!” Poi vai a leggere l’epistolario di chi li ha frequentati davvero e trovi commenti come “Sono stato sulla carrozza con Mozart, che noia! Un uomo pedante e spiacevole, sempre a tamburellare sul tavolino della carrozza!” oppure “Beethoven, oh mamma mia! Sempre sporco e con quel brutto carattere!” Quindi difficilmente se avessimo conosciuto questi artisti di persona, nella vita quotidiana, li avremmo am-

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mirati tanto quanto li ammiriamo oggi, perché ne avremmo visto anche i lati negativi. Questo deve insegnarci a non mitizzare nessuno. Per quanto riguarda i compositori attuali, ognuno ha il suo stile, la sua personalità e non bisogna avere paura di essere visti come degli imitatori delle opere dei grandi artisti. Certamente ciascun compositore è anche frutto della lunga storia della musica. Prendi Mozart: quando è entrato in contatto con il mondo di Bach, ha cominciato a produrre le sue prime fughe, prendendo ispirazione proprio da Bach stesso. Non solo, Mozart ha ripreso anche temi musicali che erano di autori suoi contemporanei. Tieni conto che a quei tempi il plagio non era reato, per cui era all’ordine del giorno. I compositori di allora si copiavano realmente a vicenda. Noi compositori contemporanei invece cerchiamo di non plagiare nessuno e di creare musiche che siano davvero nostre, anche se ovviamente guardiamo alla tradizione. Tuttavia, non c’è, e non ci deve essere, un timore reverenziale verso i grandi nomi del passato.

Oltre alla cultura musicale, quali altri fattori intervengono nella composizione di un brano?

L’arte della composizione riguarda sicuramente l’artista, ciò che alberga dentro di lui, ma anche l’occasione. Per esempio, se ti commissionano la musica di un film, non sarai tu a decidere se comporre una musica triste o allegra, dipenderà dal tipo di film, se è una commedia o un film drammatico. Devi adattare il tuo mondo interiore al contingente. Lo stesso vale quando ti commissionano un brano per un concerto d’orchestra: devi adattarti al tipo di orchestrazione che ti viene richiesta.

Questo

aspetto della committenza risulta spesso mancante nell’immaginario collettivo. Si presuppone che l’artista, e dunque anche il compositore, tenda sempre a lavorare pungolato dal demone della creazione..

L’estro creativo c’è, indubbiamente. Esiste l’impulso interiore che ti porta a scrivere

anche musiche che nessuno ti ha commissionato, ma non esiste la figura del compositore scapigliato che, come una furia, comincia a scrivere sul pentagramma! Nella realtà, c’è la nascita di un’idea, la quale magari prende vita a partire da uno stato interiore, affettivo. Poi però il compositore la sviluppa quando è freddo come il ghiaccio, in maniera tecnica e razionale, e non in maniera così irrazionale ed emozionale come si potrebbe immaginare. Quando si ascolta la musica emerge una componente partecipativa molto intensa, ma quando si compone la parte emozionale dev’essere subordinata a quella tecnica.

Il

direttore d’orchestra lavora a stretto contatto con il pubblico. Viceversa, il compositore scrive la propria musica in assenza di ascoltatori. Esiste comunque, anche per quest’ultimo, un rapporto con il pubblico?

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Il pubblico è sempre presente nella mente del musicista. È fondamentale che ci sia.

Come compositore, io cerco sempre di creare dei lavori che spero facciano vibrare le corde di chi ascolterà la mia musica. Naturalmente anche come direttore cerco di creare dei suoni belli, che possano essere apprezzati dal pubblico. Tra l’altro il direttore è l’unico personaggio del mondo dello spettacolo che può permettersi di dare le spalle al suo pubblico.

E come ci si sente a dare le spalle al pubblico, a non poter vedere le espressioni sul volto di chi assiste allo spettacolo?

Quando faccio il direttore, io sono innanzitutto un suggeritore. Me ne sto dentro la buca del teatro ed è l’orchestra ad essere la vera protagonista attraverso i miei suggerimenti. Allo stesso tempo, pur essendo di spalle, avverto le vibrazioni e le emozioni che provengono dal pubblico, così come l’intensità della sua partecipazione e del suo calore.


Il direttore d’orchestra è spesso citato come simbolo di leadership. Quali sono

gli aspetti di leadership più significativi, dal tuo punto di vista, per essere un valido direttore?

Il direttore è il primus inter pares. A mio avviso non deve essere colui che impone

con la forza, bensì colui che propone la sua idea musicale. A volte succede, durante le prove, che un musicista proponga un altro modo di eseguire un fraseggio e che questo modo risulti addirittura più convincente di quanto tu direttore l’avessi in mente. Questo avviene soprattutto con gli strumenti a fiato, che spesso hanno all’interno della partitura dei momenti solistici. Può capitare che un orchestrale esegua una frase musicale secondo la propria sensibilità e tu dici: “Ah, però! Mi piace, falla così.” Magari tu avevi immaginato quel fraseggio in modo diverso, ma ascoltando la sua idea ti sembra migliore e la accogli. Per questo, non è corretto dire che il direttore dirige sempre l’orchestra, a volte è lui che si fa dirigere. È una specie di suonare e far suonare, di seguire il flusso che si viene a creare. A volte sei tu che guidi l’orchestra, a volte è l’orchestra che ti suggerisce qualcosa e tu l’assecondi. Una sorta di sinergia, in cui entrambe le parti hanno valore.

A

differenza della letteratura, del cinema e delle altre arti visive, la musica è composta da un flusso di note e non possiede né parole né immagini. Stante questa sua peculiarità, secondo te, la musica è pura esperienza estetica ed emozionale, oppure essa è in grado di trasmettere degli insegnamenti etici e dei valori morali, al pari delle altre forme d’arte?

Questa è una domanda davvero interessante. Platone nella sua utopistica repubblica

dei filosofi avrebbe emarginato gli artisti in quanto venditori di finzione e di disordine. In particolare, lui criticava la musica dionisiaca perché istigava al disordine morale, la considerava una musica parossistica e orgiastica. (Un po’ com’è stata considerata la musica rock nel Novecento? Bravissima, proprio così! Una musica che spingeva agli istinti peggiori…o migliori, dipende dai punti di vista! Ma per Platone no, per lui il nomos era importante.) In realtà la musica ha un suo ethos, una sua precisa connotazione anche morale ed etica: le armonie. Esistono la tonalità maggiore e minore. Arpeggi e accordi che possono dare una sensazione ascendente, di gioia e di speranza, oppure una sensazione discendente, di tristezza e di oscurità. Da ciò deriva che ogni musica possiede un suo carattere ben determinato.

E questo carattere musicale, come tu lo definisci, come può tradursi in un messaggio etico o morale per chi ascolta?

Per rispondere a questa domanda, ti faccio l’esempio della quinta sinfonia di Beetho-

ven, che rappresenta la lotta dell’uomo contro il fato, inteso come avversità. I primi tre

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tempi della sinfonia sono connotati da toni cupi e drammatici, mentre l’ultimo tempo diventa in tonalità maggiore ed è un vero e proprio trionfo, un’esplosione di gioia. In questa progressione dal buio alla luce, dalla tragicità alla gaiezza, il pubblico può percepire, a un livello non verbale, quasi subconscio se vuoi, un messaggio di speranza, di rinascita. In questo senso, la musica può trasmettere principi importanti, tra cui la catarsi, la redenzione e il riscatto dell’uomo.

Mi sembra una visione molto bella della musica, che le assegna un ruolo fondamentale in questo secolo così complesso dal punto di vista umano e sociale. Per concludere la nostra intervista, ti chiedo un ultimo sguardo sulla musica nel suo rapporto con le altre forme d’arte. Quale sono le connessioni più rilevanti dal tuo punto di vista?

Sicuramente mi viene in mente il legame con la poesia. Musica e poesia sono una

cosa sola. I lirici greci, infatti, erano soliti accompagnare i loro versi con la lira. Pensiamo all’opera, che sono parole in musica. La pittura è anche musica e la musica è anche pittura, colore. Tu considera che le tonalità musicali sono come la tavolozza del pittore, con tutte le sue varianti cromatiche. Abbiamo poi il cinema con le colonne sonore. E la letteratura, tanto che molte opere e molti poemi sinfonici sono tratti proprio da opere letterarie. A sua volta, la musica è fonte d’ispirazione non soltanto per la letteratura e la poesia, ma per le arti in generale. Quando si ascolta un brano musicale, Il chiaro di luna di Beethoven, per esempio, si può ricevere l’ispirazione per un verso poetico, per un racconto o per il soggetto di un quadro. La musica crea suggestioni, stati emozionali e spinte interiori che possono tradursi in altre espressioni artistiche.

In chiusura, mi viene in mente il curioso aneddoto per cui si dice che Freud detestasse la musica e si tappasse le orecchie ogni volta che entrava in un locale in cui c’era un’orchestra che suonava. Nonostante questo stretto rapporto tra musica, interiorità ed emozioni (tant’è che esiste la musicoterapia), il padre della psicoanalisi non la sopportava!

Ma sai, la musica può essere anche destabilizzante sul piano emotivo. Sì, è vero. Chissà, forse la musica metteva Freud in contatto con mondi interiori che non voleva esplorare. In fondo, la musica avvicina l’Io a parti del Sè che risiedono in profondità e non tutti sono pronti a tale contatto.

È

un’interpreatazione molto plausibile. Schumann, per esempio, aveva un disturbo davvero particolare: davanti a certi impasti orchestrali sveniva. Anche il direttore d’orchestra Franco Ferrara, che era un direttore eccezionale, dovette ritirarsi perché durante i concerti ad un certo punto sveniva sul podio. Un disturbo misterioso, le cui origini restano oscure, ma che potrebbero affondare le radici in ambito psicologico ed

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emozionale, proprio in relazione al forte potere evocativo della musica.

Questo dimostra come la musica, a distanza di migliaia di anni dalla sua nascita,

presenti ancora dei segreti da scoprire, dei misteri che restano insondabili, anche nel suo stretto rapporto con la psiche umana e con ciò che abita nel nostro inconscio. Grazie Stefano per questa bella chiacchierata e per questa conclusione ricca di fascino. Noi de La Nuova Decade ti auguriamo il meglio per la tua carriera e per tutti i tuoi progetti futuri, che sappiamo essere molti e come sempre di grande valore, artistico e umano.

Grazie a te, Manuela, per essere venuta a trovarmi. È stato un vero piacere stare in tua compagnia e il tempo è volato. Complimenti per la vostra rivista.

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ARTE Le Nevralgie Costanti (Mirko Rossi), nasce in febbraio nel 1978. “Le sue figure viaggiano tra mondi paralleli, si nascondono nel buio, urlano e si agitano. Hanno subito esperimenti biogenetici e ora sono in continua mutazione.”

Le Nevralgie Costanti è un artista dalle tante sfaccettature: le sue creazioni vanno dal disegno alla stampa digitale, dalla realizzazione di funzine alla creazione di t-shirt. Appassionato di musica, si dedica alla produzione musicale mediante la sua etichetta Makadam Circus, collabora inoltre con vari musicisti creando le copertine dei loro album discografici. In veste di disegnatore ha partecipato a numerose esposizioni, tra cui collettive, mostre personali e gallerie, non soltanto in Italia, ma anche all’estero, in particolare in Francia, Germania, Irlanda, Spagna e Slovenia.

Come redazione de La Nuova Decade ringraziamo Le Nevralgie Costanti per averci donato una delle sue illustrazioni, dal titolo Dissolvenza. Siamo davvero lieti di questa collaborazione con Mirko, le cui opere sprigionano un’intensità emotiva e simbolica che non può lasciare indifferenti. Inoltre, i temi legati al suo lavoro sono strettamente connessi al mondo della psicoanalisi e della filosofia, armonizzandosi perfettamente con i contenuti della nostra rivista. Non possiamo dunque che ringraziarlo per questo dono prezioso e invitarvi a conoscere più da vicino il talento di questo poliedrico artista.

Il suo sito internet è lenevralgiecostanti.weebly.com



Mirko Rossi, nome d’arte Le Nevralgie Costanti, è una mente inquieta e introspettiva,

la cui voglia di approfondire le varie dimensioni della realtà lo hanno portato ad avvicinarsi al mondo del romanticismo ottocentesco, nonché a quello dell’esoterismo e della parapsicologia. Parimenti, i suoi disegni contengono rimandi alla genetica, alla medicina, alla biologia. Nella sua visione della realtà sembra pertanto non esserci un netto confine tra corpo e psiche, immanente e trascendente, organico e spirituale. Non soltanto, anche il dualismo vita e morte appare tutt’altro che risolto e scontato.

Le figure che emergono dalle opere de Le Nevralgie Costanti sono creature vulnerabi-

li, in continua dissolvenza, insieme umane e non umane. Le loro sembianze appaiono a tratti aliene, a tratti fetali. Potrebbero provenire da altri universi - forse interiori. O potrebbero essere state espulse da un gigantesco utero a noi sconosciuto – da ciò il grido di dolore, di abbandono, di frattura che sembra accompagnarle. Nel loro inarcarsi, contorcersi, ergersi, abbracciarsi, queste creature esprimono tutta la fragilità del corpo e della materia. La loro carni sono aperte, lacerate, bucate. Attraverso queste soluzioni di continuità spuntano grovigli di nervi che assomigliano a radici nodose e a cavi elettrici. Gli squarci della pelle lasciano intravedere organi mostruosi, che sembrano appartenere più a strutture aliene che umane; le aperture del cranio mettono in risalto circuiti inquietanti, a metà tra la neurobiologia e gli impianti tecnologici. Il mondo artistico di Mirko Rossi ci pone di fronte a un grande interrogativo, perché per provare a rispondere se le sue figure siano umane oppure no, dobbiamo prima chiederci cosa faccia di un essere umano un essere umano. La sua configurazione fisica? La fisiologia dei suoi organi? Le facoltà mentali? La capacità di sentire mediante i sensi? La capacità di provare ed esprimere emozioni? Quello che è certo è che i corpi tratteggiati da Le Nevralgie Costanti vibrano di sensazioni, in primis quella del dolore. Nella loro postura, seppur elegante, si possono rintracciare i segni degli spasimi, delle contratture, della sofferenza nervosa. Dai petti squarciati, dalle membra disarticolate, dalla materia organica che va letteralmente in pezzi non può non arrivare allo spettatore un senso di morte, di perdita del sé, di liquefazione di quello strato di pelle che ci avvolge, ci definisce, ci impedisce di dissolverci nel tutto e nel nulla.

Come nei pazienti traumatizzati, in cui il dolore psichico porta a sensazioni di disso-

ciazione, di frammentazione del sé, di annullamento della propria persona dentro un horror vacui in cui si perde il contatto con la coscienza, allo stesso modo le creature di Mirko Rossi sembrano esprimere il trauma di esistere, lo shock di confrontarsi con il dolore che è insito nella vita stessa, l’incombere della morte che ogni giorno, come un invisibile ticchettio dell’orologio, si fa strada dentro le nostre carni, tra i fasci di muscoli, le corde dei nervi, la rete dei vasi sanguigni. In questi organismi semi alieni che pulsano, palpitano, fremono, si gioca l’eterna bat-

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taglia tra la vita e la morte. Si cercano dei confini che possano salvare il Sé, trattenerlo, riunirlo. In qualche illustrazione ci si avvicina addirittura all’altro, portatore della medesima fragile caducità, per cingerlo in un abbraccio che è insieme salvezza e resa. A metà tra eros e thanatos, queste figure umanoidi si avviluppano in una stretta che sembra voler proteggere se stessi e l’altro dalla dissoluzione; si compenetrano in una sorta di amplesso mentale prima ancora che fisico, come a cercare nell’unione perfetta il ricongiungimento di quelle parti del sé andate perdute; si lasciano cadere dentro una molle arrendevolezza, una sorta di ultimo, estremo e lacerante contatto prima della disgregazione totale.

Organismi

umani, transumani, post umani, alieni: qualunque cosa rappresentino i corpi de Le Nevralgie Costanti, sono un simbolo della precarietà, della vulnerabilità, dell’incessante trasformazione a cui è soggetta la materia di cui è composto il nostro universo. Panta rei - verrebbe quasi da commentare. Ma in questo processo alchemico, in questo ciclo infinito di vita e di morte, Mirko Rossi inserisce un’ulteriore tema: quello della rinascita. Proprio come simboleggiato dall’illustrazione che ci è stata donata, nell’attimo stesso in cui l’essere, così com’era, si dissolve, stanno già germogliando dentro di esso nuove forme di vita – ancora abbozzate, ancora sconosciute, ancora da esplorare. Eppure, già pronte per crescere, espandersi, esistere a pieno. Se dunque dalla morte biologica passiamo a considerare la morte metaforica, intesa come la fine di un’epoca della nostra vita, ecco che anche se portiamo dentro di noi il lutto psicologico – esistenziale che tale fine comporta, nello stesso tempo, quasi senza accorgercene, siamo già colmi del nuovo che avanza. Un nuovo che ha le sembianze di piccole gemme, sottili ramoscelli, boccioli non ancora sbocciati. Ma già carichi della loro energia vitale, della loro potenzialità, del loro essere un ponte verso il futuro.

E allora, le creature de Le Nevralgie Costanti, nonostante i tratti onirici e inquietanti

che creano scenari da incubo, sono portatrici di un messaggio di speranza, messaggio che può essere colto solo quando si riesce a guardare oltre il terrore di vivere, oltre il dolore che è sempre in agguato, oltre quel salto nell’ignoto che un giorno tutti dovremo affrontare. La speranza di poter ricominciare ogni volta che una fase della nostra vita si conclude; la speranza di poterci evolvere e rinnovare ogni volta che gli eventi ci allontanano dalla strada che ci è familiare e ci costringono ad affrontare strade a noi sconosciute; la speranza di possedere sempre la forza e il coraggio di cambiare rotta ogni volta che sentiamo che è arrivato il momento di farlo, per non smettere di essere protagonisti del nostro destino.

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BLOG LETTERARIO “Leggere è andare incontro a qualcosa che sta per essere e ancora nessuno sa cosa sarà.” (Italo Calvino)

Come autori de La Nuova Decade abbiamo avuto il piacere di essere intervistati da Domizia Moramarco, ideatrice del blog letterario Mi libro in volo, laureata in filosofia, editor e autrice presso Letteratura Alternativa Edizioni. Questa interessante intervista, che potete leggere in versione integrale sul blog di Domizia (www.milibroinvolo.it),ci ha permesso di raccontare sia la nascita del nostro progetto letterario, sia la mission su cui si fonda la nostra rivista culturale. Abbiamo inoltre avuto occasione di raccontare come lavoriamo dietro le quinte, come sono suddivisi i nostri ruoli di direttore editoriale e di direttore responsabile, nonchè con quale spirito collaborativo e creativo venga realizzato ciascun numero. Un posto speciale è stato riservato alla spiegazione delle immagini che compongono la grafica della rivista. Per nostra scelta, si tratta di opere d’autore, il cui potere suggestivo, simbolico, onirico o surreale è in grado di amplificare il potere evocativo delle parole e di sottolineare i principali nuclei tematici presenti negli articoli. La scelta d’inserire opere d’arte nella rivista consente inoltre a quest’ultima di configurarsi come un oggetto da collezione per tutti gli appassionati di arte e letteratura.

Ringraziamo dunque Domizia Moramarco per questa bella opportunità e vi invitiamo a scoprire la prima intervista de La Nuova Decade!



Per i nostri lettori, ecco un breve estatto dell’intervista. Ci fa piacere sottolineare come La Nuova Decade si rifaccia alle riviste cartacee tradizionali che hanno fatto la storia del 900. Il connubio tra classico e moderno vuole essere per noi una sfida: rilanciare uno stile editoriale e un modello di lettura che appartengono alla tradizione, senza perdere di vista le opportunità offerte dalla tecnologia, così da rendere La Nuova Decade un vero ponte culturale tra passato, presente e futuro.

Dal blog Mi libro in volo intervista del 12.01.2022

Che significato ha per voi il titolo La Nuova Decade e in cosa si distingue dalle altre riviste online?

Con il titolo La Nuova Decade intendiamo porre l’accento sulla decade che stiamo

vivendo (2020-2030) e sul nuovo secolo appena iniziato. In particolare, è nostro desiderio mettere in evidenza gli aspetti peculiari di questo decennio così da contribuire a caratterizzarlo, esattamente come è avvenuto per le decadi precedenti, tanto che ancora oggi si fa riferimento agli anni Sessanta, Settanta, Ottanta e così via come veri e propri nuclei storici, culturali e sociali, ciascuno caratterizzato da elementi specifici e in un certo senso irriproducibili. Allo stesso tempo, occupandoci soprattutto di letteratura, psicoanalisi e filosofia, ci piace l’idea di realizzare un ponte tra passato, presente e futuro, attingendo a queste discipline, nate nei secoli precedenti, e rilanciandole nel nuovo Millennio, così da poterle utilizzare come lenti privilegiate sia per osservare la realtà attuale, sia per provare a immaginare la realtà futura. Per quanto riguarda la nostra rivista, ciò che la contraddistingue maggiormente è il fatto di essere una rivista nel senso più classico del termine. Pur sfruttando una piattaforma online al fine della diffusione dei contenuti, La Nuova Decade si rifà alle grandi riviste che hanno fatto la storia del Novecento. Essa, infatti, è sfogliabile come una rivista cartacea e contiene articoli lunghi e approfonditi, ciascuno frutto sia del nostro background professionale, sia di continuo studio e aggiornamento. Per concludere, potremmo riassumere che La Nuova Decade è un prodotto online soltanto per quanto riguarda il sopporto informatico che ne consente la distribuzione, ma per tutto il resto, dallo stile di scrittura, all’impaginazione, alle scelte grafiche, si configura come una rivista tradizionale, in quanto il nostro desiderio era proprio quello di rilanciare questa forma editoriale e di lettura. 96


Come sono suddivisi, invece, i vostri ruoli all’interno della redazione degli articoli, e come è strutturata la rivista?

Un altro aspetto peculiare della nostra rivista è che la redazione è composta soltanto

da due persone, le quali rappresentano le due anime del progetto. Benché ci relazioniamo con personalità terze, come gli ospiti delle nostre interviste o gli artisti che ci donano le loro illustrazioni, Manuela ed Edoardo restano, per scelta, gli unici autori degli articoli de La Nuova Decade, la quale diventa così lo specchio del nostro sguardo sul mondo e della nostra personale sensibilità. Per quanto concerne i nostri ruoli, Manuela è il Direttore Editoriale della rivista e, in quanto medico psicoterapeuta, si occupa soprattutto delle tematiche inerenti la letteratura e la psicoanalisi, mentre Edoardo, filosofo e giornalista, è il Direttore Responsabile della rivista e si dedica principalmente agli argomenti di natura filosofica. Come si evince dalla suddivisione dei nostri ruoli, La Nuova Decade comprende due grandi aree, quella dedicata all’analisi di opere narrative, sia classiche che contemporanee, per investigare in chiave psicoanalitica ciò che contraddistingue l’essere umano (la sua interiorità, le sue relazioni interpersonali, il rapporto da conscio e inconscio), e quella dedicata alla filosofia, che attraverso articoli di saggistica e dialoghi filosofici a due voci, cerca di fare luce sulle tante sfaccettature che definiscono l’essenza dell’uomo, nonché la realtà in cui siamo immersi. Accanto a questa struttura di base, ci piace inserire nei vari numeri anche contenuti diversi, in grado di stimolare la nostra curiosità e quella dei lettori, per cui si possono trovare interviste a personaggi del mondo dell’arte, brevi excursus storici o cinematografici e altre novità che per il momento non sveliamo per non perdere l’effetto sorpresa. Sebbene i nostri due ruoli possano sembrare distinti, in realtà lavoriamo insieme in modo creativo e collaborativo. Entrambi partecipiamo alla realizzazione della linea editoriale, entrambi portiamo idee e proposte per i numeri da realizzare, pertanto il nostro è un rapporto ideativo assolutamente alla pari e di continuo scambio. Infine, riteniamo interessante il fatto di rappresentare all’interno della rivista sia una voce femminile che una voce maschile, le quali, lungi dal voler apparire contrapposte, desiderano dialogare insieme, senza che nessuna delle due prevalga sull’altra, a testimonianza che maschile e femminile sono due dimensioni entrambe preziose, specialmente quando entrambe portano il proprio contributo, anche sul piano culturale, in modo dialogico e armonioso.

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La Nuova Decade dà appuntamento ai suoi lettori con il terzo numero della rivista che uscirà il 15 marzo 2022.

Chiunque volesse lasciarci un feedback o un commento, potrà scriverci sulle pagine ufficiali della rivista. Saremo lieti di leggere i vostri messaggi! Manuela Bassetti, medico e psicoterapeuta Edoardo Gagliardi, filosofo e giornalista

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Il piacere di tutta la lettura è raddoppiato quando si vive con un’altra persona che divide gli stessi libri. (Katherine Mansfield)

Marchio editoriale l’inconscio®

lanuovadecade@gmail.com


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