La Nuova Decade

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LA NUOVA DECADE SUGGESTIONI DI LETTERATURA PSICOANALISI E FILOSOFIA

NUMERO 1

ANNO 2021

MESE NOVEMBRE

PERIODICO BIMESTRALE


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La Nuova Decade

Proprietario e Direttore editoriale

Marchio editoriale l’inconscio®

Direttore responsabile

E-mail

Autori

Periodicità bimestrale

Manuela Bassetti

P.IVA 08216650963

Edoardo Gagliardi

lanuovadecade@gmail.com

Manuela Bassetti, Edoardo Gagliardi

Copertina

Progettazione grafica

Illustrazione di Arthur Rackham, 1917

Manuela Bassetti, Edoardo Gagliardi

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Non si raggiunge l’illuminazione immaginando figure di luce, ma portando alla coscienza l’oscurità interiore. (Carl Jung)

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EDITORIALE di Manuela Bassetti

CONI DI LUCE E D’OMBRA Letteratura, psicoanalisi e filosofia – tre diversi sguardi sull’essere umano. Tre diverse pro-

spettive da cui indagare i moti interiori dell’anima, la poliedricità delle relazioni interpersonali, il complesso rapporto dell’individuo con la società, l’arte e la cultura. Ma anche con le leggi della natura, con il senso del tempo e del limite, con la dimensione della fragilità e della finitezza, con il bisogno dell’assoluto - un oltre che ci trasporti al di là della mera materialità dell’esistenza, per avvicinarci a una visione della vita più profonda e più ricca di significato.

Se la letteratura e la filosofia affondano le loro radici nella storia dell’umanità, la psicoanalisi

ci appare una disciplina recente (L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud uscì proprio nel 1900, diventando metafora di un sipario che si apre sul secolo della Crisi dell’Io), eppure, da Omero a Shakespeare a Dostoevskij, ovunque possiamo rintracciare tematiche e suggestioni di stampo psicoanalitico. Mentre la psicoanalisi intesa come disciplina scientifica, come terapia per l’isteria e la nevrosi, nasce dunque tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, la psicoanalisi intesa come analisi della psiche, come indagine della natura umana nelle sue infinite sfaccettature, presenta origini antichissime, parimenti alla letteratura e alla filosofia.

Con la rivista La Nuova Decade ci poniamo la sfida di riunire letteratura, psicoanalisi e filo-

sofia sotto un unico cielo, interpretandole come rami diversi della stessa branca umanistica. In particolare, ai lettori desideriamo offrire l’opportunità d’intraprendere un duplice viaggio: nel mondo dei libri e in quello del pensiero filosofico – mondi affini per la loro capacità di parlare dell’essere umano e all’essere umano.

Come autori, il nostro sguardo vuole restare innanzitutto uno sguardo di apertura, curiosità,introspezione: lungi dal pretendere di fornire una verità precostituita ed esaustiva, ci auguriamo di trasmettere ai lettori nuovi spunti di riflessione, nuovi interrogativi, nuove prospettive da cui osservare se stessi, sia in relazione al proprio universo interiore, sia in relazione alla multiformità della realtà esterna.

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In ciascun numero della rivista, percorrendo la trama di opere letterarie sia classiche che contemporanee, vengono scandagliati aspetti psicoanalitici differenti: il legame con il proprio passato, terra di memorie e di fantasmi; le dinamiche all’interno della famiglia, teatro di amore e di ferocia; i chiaroscuro della pubertà e dell’adolescenza, epoche di grandi trasformazioni corporee e psicologiche; l’incontro-scontro tra le diverse generazioni, palcoscenico di battaglie, distacchi e riconciliazioni; la presa di contatto con le parti più profonde del Sé – le parti più oscure, segrete e misteriose.

La scelta di partire dalla letteratura per parlare di psiche e psicoanalisi deriva dalla nostra

convinzione che i libri, oltre ad essere una piacevole compagnia, possano essere una vera e propria palestra di vita. Attraverso l’analisi psicologica dei personaggi, degli eventi che si dipanano lungo le storie, delle suggestioni offerte dalla mente dell’autore, ciascun lettore è chiamato a compiere un viaggio dentro di sé, approdando verso nuovi stadi di consapevolezza, facendo esperienza del rispecchiamento e della condivisione dei propri stati emotivi e dei propri pensieri, scoprendo nuove possibilità di resistenza, rinascita e riscatto dalle difficoltà della vita. La letteratura diventa così arte nel senso più nobile del termine: aiuta a trovare una chiave per vivere, a comprendere la realtà che sta attorno a noi e dentro di noi, a portare in superficie ciò che giace nelle profondità dell’animo.

Sorella della psicoanalisi per il suo investigare la complessità dell’essere umano, fin nel profondo della sua essenza, anche la filosofia trova spazio tra le pagine della rivista. Ad essa è affidato il compito di proporre ai lettori riflessioni e intuizioni sulle importanti interconnessioni tra il dentro e il fuori: tra l’interiorità dell’individuo e tutto ciò che lo circonda – il tempo della Storia; le arti figurative; l’altro inteso sia come ciò che è separato da noi, sia come ciò che è specchio e riflesso di alcune parti di noi.

In questo primo numero de La Nuova Decade, abbiamo scelto di dare ampio rilievo a un tema psicoanalitico e filosofico per noi estremamente affascinante e suggestivo: il tema dell’ombra.

Ripercorrendo la storia del cinema e addentrandoci nella letteratura gotica orrorifica dell’e-

poca romantica, proviamo a camminare nel regno delle ombre intese come simbolo dell’inconscio, ovvero della componente più arcana e insondabile della psiche umana. Proprio a questo luogo di tenebre e di mistero fanno riferimento capolavori indiscussi della letteratura mondiale, tra cui Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert Louis Stevenson e Memorie dal sottosuolo di Fëdor Dostoevskij. Parimenti, sia l’archetipo junghiano dell’ombra quale lato oscuro della nostra personalità, sia la metafora dell’ombra come il doppio che alberga dentro di noi (il nostro Io più primitivo, pulsionale e irrazionale che abita al di sotto della coscienza) sono stati ampiamente utilizzati nel mondo del cinema per realizzare film cult intramontabili, di cui vogliamo ricordare, a puro titolo esemplificativo, La notte dei morti viventi di George A. Romero e Lettera da una sconosciuta di Max Ophüls.

In conclusione di questo primo editoriale, diamo dunque il benvenuto ai nostri lettori e auguriamo loro buon viaggio tra le pagine della rivista. 6



LA NUOVA DECADE UN PONTE TRA PASSATO, PRESENTE E FUTURO La scelta del nome della rivista, La Nuova Decade, nasce dal desiderio di porre l’accento su due aspetti per noi molto stimolanti e ricchi d’interesse.

Innanzitutto

l’espressione “nuova decade” vuole essere un riferimento alla decade temporale in cui siamo entrati da poco, con tutte le sue complessità, le sue contraddizioni e le sue attrattive. La rivista vuole porsi, dunque, come uno sguardo al nuovo decennio appena cominciato, un decennio in cui si fa sempre più forte il bisogno di recuperare valori che restituiscano all’essere umano la sua vera essenza. All’interno di questo nucleo di valori, restano per noi fondamentali la consapevolezza di sè e della realtà che ci circonda, così come la cultura, non intesa nella sua accezione più accademica, bensì nel suo essere un prezioso strumento attraverso cui leggere il mondo e approfondire il significato della vita.

In secondo luogo, questo nuovo decennio è anche espressione del ventunesimo se-

colo, il quale, pur essendo ancora ai suoi albori, avanza ogni giorno. Ecco dunque che nella rivista, occupandoci delle strette interconnessioni tra letteratura, psicoanalisi e filosofia, riprendiamo discipline e tematiche antiche, nate nel passato, ma le proiettiamo dentro il nuovo millennio.

Il nostro desiderio è quello di provare a costruire un ponte culturale tra passato, pre-

sente e futuro, una sorta di filo conduttore che si dipana tra le maglie della storia dell’uomo. Allo stesso tempo, desideriamo raccogliere le suggestioni letterarie, psicologiche e filosofiche che caratterizzano sia questo nuovo decennio che l’inizio di questo nuovo secolo, contribuendo a diventare portavoce dello spirito dei nostri tempi. Edoardo Gagliardi

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SOMMARIO NOVEMBRE 2021 FREUD TRA LE RIGHE IL CLASSICO DEL MESE Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij VOCI AMERICANE Ho fatto la spia di Joyce Carol Oates PERLE TASCABILI Il ballo di Irène Némirovsky IN FORMAZIONE L’età incerta di Leslie Poles Hartley BRIVIDI D’AUTORE L’ombra e altri oscuri racconti di Edith Nesbit

PRISMA FILOSOFICO IL CINEMA DELLE OMBRE Viaggio nel bianco e nero APPENDICE FILOSOFICA Per saperne di più

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FREUD TRA LE RIGHE

Psicoanalisi nella letteratura

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PICCOLA GUIDA DI LETTURA PER CHI HA GIÀ LETTO I LIBRI, PER CHI LI LEGGERÀ E PER CHI NON LI VUOLE LEGGERE!

Negli articoli dedicati a questa sezione della rivista, vengono narrate le trame dei

romanzi e dei racconti selezionati, al fine di mettere in luce le tematiche psicoanalitiche presenti in ciascuna storia. Siccome la disamina psicologica dei libri comprende l’intero arco della narrazione (incluso il finale), la scelta di come avvicinarsi a tali articoli può essere variabile, a seconda delle preferenze e dei gusti del lettore.

A coloro che hanno già letto i libri, e che pertanto ne conoscono già la trama, basterà leggere gli articoli proposti, i quali ci auguriamo possano offrire nuovi spunti di riflessione e d’introspezione, nonchè nuove prospettive di lettura e di approfondimento.

Coloro che invece non hanno ancora letto i libri descritti negli articoli, possono

leggere quelli di loro interesse prima di cominciare l’articolo ad essi dedicato, così da assaporare il piacere della narrazione senza spoiler, e soltanto in seguito andare a scoprirne le chiavi di lettura psicoanalitiche. Vicerversa, coloro che non hanno il tempo o la voglia di avventurarsi per intero nei libri proposti, possono tranquillamente leggere da subito gli articoli, come se fossero essi stessi dei brevi racconti, in cui il lettore può comunque fare esperienza della storia nella sua completezza. Se poi riuscissimo a farvi innamorare di qualche libro, per cui vi venisse il desiderio irrefrenabile di leggerlo tutto, non potremmo che esserne felici!

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Manuela Bassetti

IL CLASSICO DEL MESE

DELITTO E CASTIGO di Fëdor Dostoevskij

“Gli uomini veramente grandi, credo, debbono provare su questa terra una grande tristezza.” “A te, a te sola! Io ti ho scelta. Non verrò a chiederti perdono, ma verrò soltanto a dirtelo. Da molto tempo ti ho scelta per dirti la verità.”

Casa editrice italiana: Mondadori – Nuova ed. Anno di pubblicazione in Italia: 2021

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QUARTA DI COPERTINA Spinto

da considerazioni filosofiche, oltre che dalla miseria, Rodiòn Romànovič Raskòl'nikov, ex studente, massacra a colpi di scure un'anziana usuraia e la sorella di lei: un delitto orribile che lo condanna al rimorso e alla nevrosi, ma che è anche l'inizio di un percorso di perdizione e redenzione nel quale è centrale l'amore per la dolce Sonja. Questa la vicenda di Delitto e castigo, un romanzo nel quale confluiscono le grandi questioni che agitavano la Russia di metà Ottocento e tormentavano l'animo di Dostoevskij: i problemi sociali (la fame, l'alcolismo, la prostituzione, l'usura, l'inurbamento), così come i grandi temi etici (il bene e il male, l'autorità e la giustizia, la libertà, il potere dell'uomo sull'uomo...). Tutti questi argomenti si intrecciano, tra le pagine di Delitto e castigo, su un piano onirico e malato. Una dimensione visionaria, popolata di fantasmi, che è ben rappresentata anche nel cosiddetto Diario di Raskòl'nikov, qui aggiunto in appendice: alcune pagine della tormentata prima stesura del romanzo, in cui il protagonista rievoca in prima persona il momento del delitto.

TRATTEGGI D’AUTORE Fëdor Michajlovic Dostoevskij, uno dei più grandi scrittori russi di tutti i tempi, ebbe

un’infanzia e un’adolescenza molto tormentate, segnate dalla morte precoce della madre e dalla morte violenta del padre, probabilmente ucciso dai propri contadini. A ventotto anni, a seguito della sua adesione al circolo socialista di Petrasevskij, venne arrestato e condannato a morte. Dopo una finta esecuzione intimidatoria, la sua pena capitale venne commutata nella deportazione in Siberia e nella condanna a quattro anni di lavori forzati. I traumi della giovinezza e il lungo esilio in Siberia, durato un intero decennio, rappresentano i principali fantasmi che aleggiarono nell’anima inquieta di questo straordinario scrittore, fantasmi che ricompaiono, sublimati e scandagliati, nelle sue opere principali, al cui centro spiccano l’eterno conflitto tra il Bene e il Male, così come le contrastanti, abissali passioni che agitano il cuore degli esseri umani.

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DELLA COLPA E DEL PERDONO Scrivere di Dostoevskij significa innanzitutto scrivere della grande Russia assolutista

di Nicola I e di Alessandro II, lo zar che promosse l’emancipazione dei servi della gleba. Quella di Dostoevskij fu una Russia sterminata, in cui, al di sopra del vasto popolo delle campagne, si agitavano fermenti sociali e culturali, oltre che ribellioni e spinte rivoluzionarie. In particolare, a Mosca e a San Pietroburgo, iniziò a svilupparsi il giornalismo, che tentava coraggiosamente di sfuggire alla censura per sostenere la causa liberale e socialista, nonché per rivendicare il diritto all’indipendenza. Proprio in questo contesto tormentato e innovativo, si sviluppò il cosidetto realismo, una tendenza letteraria che cercava nella scrittura la rappresentazione della verità, anche come impegno sociale e civile. Accanto alla descrizione della realtà delle cose, nelle opere dei grandi scrittori russi realisti (Turgenev, Dostoevskij, Tolstoj…) possiamo trovare un’attenta analisi psicologica dei fatti e dei personaggi, tanto da destare l’ammirazione del padre della psicoanalisi Sigmund Freud. Tuttavia, man mano che la produzione letteraria di Dostoevskij si snodava nel corso della sua vita, la dimensione prettamente realista lasciava sempre più spazio a romanzi filosofici e introspettivi, dominati dalla ricerca spirituale, così come dall’intensità e dalla drammaticità della condizione umana, alla perenne ricerca di una via di salvezza dal dolore e dalla miseria interiore.


I grandi romanzi della maturità di Dostoevskij (di cui Delitto e castigo è il capostipite)

traggono origine anche dalle sofferte vicende dello scrittore: il tracollo finanziario, il matrimonio infelice, la morte dell’amato fratello, la distruttiva passione per il gioco che gli costerà la fuga all’estero per scappare dai creditori. Eppure, è proprio in mezzo a un tale disastro esistenziale che Dostoevskij produrrà le sue opere più memorabili, sostenuto anche dalla seconda moglie, Anna Grigor’evna Dostoevskaja, la quale ebbe un ruolo straordinario nella sua vita turbolenta, non soltanto perché lo aiutò a scrivere i suoi romanzi, diventando la sua lettrice e confidente, ma anche perché lo aiutò ad affrontare i suoi demoni e i suoi fantasmi. E proprio di demoni e fantasmi è permeato l’indimenticabile Delitto e castigo, un romanzo di stampo moderno - poliziesco, psicologico, metafisico. Un romanzo che apre alla grande stagione novecentesca della crisi dell’Io, dove in contrapposizione alla filosofia positivista che aveva attraversato l’Ottocento europeo, si mettono in luce i contrasti, le irrazionalità, le scissioni dell’animo umano. Pubblicato nel 1866, qualche decennio prima che a Vienna uscisse L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud, il romanzo di Dostoevskij portava già alla ribalta le oscure profondità della psiche umana, i suoi anfratti più reconditi e misteriosi, la potenza delle pulsioni e l’insondabilità dell’inconscio, con una maestria e una sensibilità senza eguali.

Protagonista assoluto è il giovane Rodiòn Romànovič Raskòl’nikov, un ex studente

universitario, poverissimo, che vive in una misera stanzetta in subaffitto nei bassifondi di Pietroburgo. Espulso dall’università proprio a causa delle sue ristrettezze economiche, sopraffatto dall’indigenza e dallo sconforto, Raskòl’nikov scivola sempre di più verso l’apatia e l’autocommiserazione, finendo per trascorrere le giornate a rimuginare sulla sua tragica condizione. E a nulla valgono le premure della madre e della sorella, così come i saggi consigli dell’amico Razumichin: il giovane Rodja si sente in trappola nella sua vita di stenti, non vede via d’uscita da quell’orribile stanzetta che ha l’aspetto più di un armadio che di un’abitazione.

Come Dostoevskij ci racconta fin dalle prime pagine del libro, Raskòl’nikov (straordi-

nariamente bello, capelli castano scuro e splendidi occhi neri) non è affatto un pauroso o timido per natura, anzi tutt’al contrario; ma da un po’ di tempo in qua si trova in uno stato d’animo teso e irritabile, affine all’ipocondria. Si è a tal punto sprofondato in se stesso e isolato da tutti che ha paura d’incontrare chicchessia, e delle sue faccende personali, anche delle più urgenti, ha del tutto smesso, né ha più voglia, di occuparsi. Ecco, dunque, che nel giovane ex studente inizia ad affiorare quell’annichilimento, quello svuotamento interiore che lascerà spazio all’insinuarsi di una nuova, seducente lettura filosofica della realtà. Rafforzato dal clima rivoluzionario che sta attraversando la Russia, Raskòl’nikov infatti comincia a teorizzare l’esistenza di due categorie di uomini: quella degli uomini or-

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dinari e quella degli uomini straordinari. I primi devono vivere nell’obbedienza e non hanno alcun diritto di violare la legge, proprio in quanto persone insignificanti e prive di speciali qualità. I secondi, al contrario, sono individui fuori dall’ordinario, portatori di un destino eccezionale, e proprio in virtù della loro straordinarietà hanno il diritto di trasgredire le leggi fino a commettere dei delitti, in quanto ad essi non si applicano le regole del vivere comune.


“Mi limito a credere nella mia idea fondamentale; cioè appunto che gli uomini, per legge di natura, generalmente si dividono in due categorie: una inferiore che è quella degli uomini ordinari, cioè, per così dire, materiali, che serve unicamente a procreare altri individui simili, e un’altra che è quella degli uomini veri e propri, i quali, cioè, hanno il dono o il talento di dire, in seno al loro ambiente, una parola nuova. Esistono, si capisce, infinite sfumature, ma i tratti caratteristici delle due categorie sono abbastanza netti: la prima categoria, vale a dire il ‘materiale’, è composta in linea di massima da persone per loro natura conservatrici e per bene, che vivono nell’obbedienza e amano obbedire. Secondo me, costoro hanno anche il dovere di essere obbedienti, perché questo è il loro compito e non v’è in esso assolutamente nulla di umiliante per loro. Quelli della seconda categoria, invece, violano tutti la legge, sono dei distruttori, o per lo meno sono portati ad esserlo, a seconda delle loro attitudini. I delitti di questi uomini, naturalmente, sono relativi e assai disparati: per lo più essi chiedono, con le formule più svariate, la distruzione del presente in nome di qualcosa di meglio. Ma se a uno di loro occorre, per realizzare la sua idea, passare anche sopra un cadavere, sopra il sangue, secondo me egli, nel suo intimo, in coscienza, può permettersi di farlo: ciò, notate bene, a seconda anche dell’idea e della sua importanza. Ed è soltanto in questo senso che io parlo di un loro diritto a delinquere.”

Questa è la teoria che comincia a riverberare nella mente di Raskòl’nikov, il quale si

sente fatalmente irrigidito in una dimensione senza apparente soluzione: non è abbastanza altolocato per aspirare a una carriera in grado di farlo uscire dalla sua miseria, è troppo istruito e raffinato per accettare di far parte della plebe priva di speranza e di ambizioni. La sua nuova visione filosofica della realtà gli suggerisce dunque un’accattivante, azzardata tentazione: perché non fuggire dalla povertà e dallo squallore della propria esistenza dimostrando a se stesso di essere parte di quel ristretto gruppo di persone elitarie, destinate a grandi cose? Perché non effettuare quel rito d’iniziazione che gli consentirebbe di saltare la barricata, di smettere di essere un pidocchio come tutti gli altri per diventare invece come Napoleone, come coloro che sono chiamati ad essere i condottieri dell’umanità? E quale prova esigere da se stesso per dimostrarsi all’altezza di tale appartenenza, se non quella di andare oltre la legge? Se gli uomini straordinari sono chiamati ad oltrepassare le regole comuni (a uccidere quando necessario) pur di guidare l’umanità verso vette più alte, non dovrebbe forse anche lui, Raskòl’nikov, mostrarsi capace d’infrangere la legge, di commettere un delitto, in nome di un beneficio superiore?

In un climax di tensione emotiva prossima al delirio, il giovane ex studente, nella completa solitudine della sua stanza, inizia così ad architettare il suo crimine a fin di bene: assassinare una vecchia usuraia (uno dei tanti pidocchi della società) per rubarne i soldi, così da tenerne una parte per sé e donare il resto alla persone più bisognose. Come una sorta di tragico Robin Hood, Raskòl’nikov cerca nel suo delitto una motiva-

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zione altruistica, in grado di sublimare la motivazione più concreta ed egoista: impossessarsi del denaro altrui, a costo di uccidere, così da riabilitarsi dalla propria miseria.

Più ci pensa, più la scelta gli sembra sensata: quante ope-

re di bene potrebbe fare, quante persone potrebbe salvare regalando loro un po’ di soldi, allontanandole dalla fame, dall’alcol, dalla prostituzione? L’inutile vita di una vecchia usuraia (avara, malvagia, miserabile) in cambio di decine di vite degne di essere salvate. Alla fine, Raskòl’nikov non ha più dubbi: questa è la strada che lo condurrà verso la dimensione napoleonica dell’esistenza. Questo è il mezzo per staccarsi una volta per tutte dalla massa cenciosa, sottomessa dei pidocchi e aderire all’élite degli uomini straordinari. E così, dalle fantasticherie solitarie, il giovane Rodja passa all’azione, con un surplus inaspettato. Dopo essersi insinuato nella casa della vecchia usuraia e averle fracassato il cranio con un’accetta, viene infatti sorpreso dalla mite, dolce sorella di lei. Colto in flagrante, terrorizzato all’idea di essere incriminato, il neo assassino altro non può fare che reiterare il proprio crimine, massacrando la sua seconda, inconsapevole vittima.

Ma

(ecco il grande ma che spezza la catena delirante e grandiosa di cui si era nutrita per settimane la mente di Raskòl’nikov) la sorella dell’usuraia è stata una vittima innocente. La sua morte non ha avuto come fine un bene superiore, la sua morte è stata soltanto un brutale, vano omicidio. E a nulla valgono gli ori e i gioielli su cui Rodja riesce a mettere le mani. Anzi, una volta afferrato il malloppo, il suo contenuto diventa subito di fuoco. Atterrito al pensiero di essere scoperto con addosso la refurtiva, Raskòl’nikov corre a casa, con l’intento febbrile di nascondere i gioielli in un buco della tappezzeria. Eppure, anche da quel misero cantuccio, il bottino sporco di sangue continua a gridare la propria presenza, finché Raskòl’nikov, stravolto dall’angoscia, non attraversa mezza città per sotterrare i gioielli al di sotto di un anonimo sasso, dove li abbandonerà per sempre. In un battibaleno, tutte le sue considerazione filosofi-

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che sono spazzate via dalla realtà: nel suo gesto non vi è stato nulla di straordinario, nessuna ascesa nell’olimpo dei grandi dell’umanità, nessuna liberazione dalla sua vita miserrima. Tutto ciò che resta, nella vita reale, è un duplice omicidio con cui si è macchiato per sempre le mani. Annichilito, braccato, sconvolto dalla sua nuova condizione di assassino, Raskòl’nikov precipita in un febbricitante deliquio. Seguono giorni, settimane in cui fatica a uscire dalla sua stanza, in preda agli incubi e a uno stato semicomatoso in cui pare rifugiarsi dalla verità dei fatti.

Per la prima volta, nella sua psiche, emerge quel laceran-

te, insopportabile conflitto interiore che lo porterà sull’orlo della follia. Per la prima volta, tutte le parti del suo sé, come in un canto corale, iniziano a intonare la loro voce. Perché Raskòl’nikov, come tutti gli esseri umani, è portatore di molteplici aspetti del sé: sensibile e generoso, orgoglioso e caparbio, cinico ed egoista, raffinato e colto. La sua parte più nobile e delicata prova orrore per il sangue e la violenza, rifugge dal male, ma ad essa fa da contrappeso una parte più pulsionale, oscura, feroce. Nel momento in cui la solitudine portata all’estremo gli impedisce di avere un confronto con la realtà, ecco che questa parte, con le sue seduzioni, inizia a prendere il sopravvento: all’inizio come una semplice fantasia, poi come un pensiero sempre più ossessivo e conturbante. Eccitata dall’idea onnipotente che il fine giustifica sempre il mezzo, la mente di Raskòl’nikov si lascia conquistare dalla sua idea autodistruttiva, finendo per credere ciecamente ad essa.

Nell’abisso della solitudine interiore, nel distacco dal re-

sto del mondo, ecco quindi che il protagonista precipita in una spirale che lo porterà sul baratro della perdizione. Come scriveva Friedrich Nietzsche nel suo Al di là del bene e del male, “se guardi a lungo l’abisso, l’abisso guarderà dentro di te”. Accarezzare le oscurità, le forze distruttrici che abitano dentro ciascuno di noi, può rivelarsi un gioco pericoloso. Il Male ci tenta. Il cattivo della storia ha sempre il suo fascino. Non esiste un animo angelico che non possieda in sé anche i luoghi dell’inferno.

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E tuttavia, Raskòl’nikov scopre presto il prezzo della sua scelta: la rottura completa

con la società - la madre, la sorella, gli amici. Non è possibile tornare ad essere il ragazzo di prima, non è nemmeno possibile fingere di esserlo. Dopo essere andato oltre la legge, dopo aver rinnegato l’etica per un fine grandioso, Raskòl’nikov sente di non poter più appartenere al mondo in cui vivono i suoi affetti. Si autoesilia dall’amore della famiglia, si chiude in un mutismo ostinato e rabbioso, respinge con furore qualsiasi tentativo di avvicinamento da parte di chi gli vuole bene. Nel suo animo si agitano sentimenti contrastanti e feroci: la delusione per essersi rivelato un pidocchio spaventato come tutti gli altri, il senso di colpa e il rimorso, l’orgoglio che gli impedisce di chiedere aiuto, la paura di essere scoperto e che lo fa arretrare dagli altri come un animale braccato. Le sue elucubrazioni mentali, sviluppatesi in un contesto di sconforto e alienazione, l’hanno portato ad un livello ancora più estremo, più doloroso di solitudine. Una solitudine cercata e voluta, la solitudine di chi si sente irrimediabilmente diverso, indegno, imperdonabile.

Nei suoi interminabili incubi febbrili, nelle sue nottate dentro i locali più sordidi della

città, nelle sue angosciose passeggiate lungo le strade di una Pietroburgo livida e afosa, Raskòl’nikov non trova pace. Più morto che vivo, si strascina come un sonnambulo, vaga senza meta per poi tornare e ritornare sul luogo del delitto, come spinto dall’inconscio desiderio di essere riconosciuto e smascherato, così da porre fine alla sua insostenibile pena. Eppure, una parte di lui lotta per mantenere celato il suo inconfessabile segreto, lotta per sopravvivere, prova sollievo quando al suo posto viene incriminato un innocente. Lacerato, diviso, spezzato nel suo centro, Raskòl’nikov appare un uomo perduto. Soltanto la morte sembra una possibilità attraente, come una sirena che lo chiama con il suo eterno canto fatale.

Ma

(il secondo grande ma di questo straordinario viaggio dentro l’animo umano) quando ormai tutto sembra irrimediabilmente finito, quando non resta che accettare la propria infelice condizione, quando si arriva a credere che nulla potrà più cambiare, che la scelta compiuta equivale a una condanna da cui è impossibile liberarsi per il resto della vita – ecco allora giungere una possibilità di salvezza. Il castigo indotto dalla colpa (castigo che per Dostoevskij non è rappresentato tanto dalla prigione quanto da un’esistenza alienante, priva della profonda condivisione con gli altri esseri umani) può essere trasformato in perdono soltanto dall’Amore. Ed è proprio l’amore, simboleggiato dalla figura della dolce Sonja, ad essere quella forza vitale capace di trasformare la vita di una persona, di condurla al di là del proprio dolore.

Nell’incontro con Sonja, anch’essa una reietta della società, una ragazza che si prosti23


tuisce per mantenere il padre ubriacone e i fratelli, Raskòl’nikov scopre poco alla volta il segreto della salvezza. Incattivito, chiuso in se stesso, dominato dalle proprie inquietudini, Rodja all’inizio rifiuta con disprezzo e furore le delicate premure di Sonja. Nessuno deve avvicinarlo, nessuno deve conoscere la verità sul suo conto, nessuno deve provare orrore per lui. La compassione, poi, è fuori discussione. Per un assassino come lui non ci può essere alcuna pietà, alcuna forma di redenzione. Eppure l’amore non si dà per vinto, nemmeno quando brutalmente scacciato, nemmeno quando sdegnosamente deriso, perché Sonja intuisce il bisogno drammatico, schiacciante, che si cela dietro la rabbia scostante di Raskòl’nikov. E con infinita pazienza, semplicemente resta. Non chiede, non impone, non esige. Minuta ma dalla forza interiore straordinaria, Sonja offre unicamente la sua capacità di accogliere, di comprendere, di amare al di là delle debolezze dell’altro. Il crimine di Raskòl’nikov, che era nato dalla gelida elucubrazione della ragione, può essere perdonato soltanto attraverso il ricongiungimento con la dimensione del cuore. Tutto il suo percorso di colpa e di espiazione altro non si è rivelato che una tormentosa infinita solitudine, un esilio interiore, un’impossibilità di connettersi profondamente agli altri: nel legame con Sonja, nell’incontro con qualcuno in grado di reggere la verità del suo essere, la redenzione è finalmente possibile.

Io volli, Sonja, uccidere senza tante casistiche, uccidere per me, per me solo! Non per

aiutare mia madre ho ucciso, sciocchezze! Non ho ucciso per farmi, acquistata ricchezza e potenza, il benefattore dell’umanità. Sciocchezze! Ho ucciso semplicemente; per me stesso ho ucciso, per me solo, e che poi avrei beneficato qualcuno, oppure, per la vita intera, come un ragno, avrei acchiappato tutti quanti nella mia ragnatela e a tutti avrei succhiato il sangue, questo a me, in quel momento, doveva essere indifferente!... E non il denaro, soprattutto, mi occorreva, Sonja, quando ho ucciso; non tanto il denaro quanto un’altra cosa... Tutto questo ora lo so...Comprendimi: forse, pur andando per quella medesima strada, non avrei mai più commesso un assassinio. Altro avevo bisogno di sapere, altro mi spingeva: avevo allora bisogno di sapere, e di sapere al più presto, se io fossi un pidocchio, come tutti, o un uomo. Avrei potuto passar oltre o non avrei potuto? Avrei osato chinarmi e prendere, o no? Ero una creatura tremante o avevo il diritto? Ma dimmi, ho forse ucciso la vecchia? Me stesso ho ucciso, non la vecchia! Mi sono bravamente accoppato da me, per sempre!

La confessione di Raskòl’nikov a Sonja segna il punto di rottura: da quel momento in

avanti Rodja inizierà il lungo, faticoso cammino di ricongiungimento con il proprio Io più profondo, di ricucitura di tutte le sue parti scisse e frammentate. Sostenuto dall’amore puro di Sonja, Raskòl’nikov riuscirà a confessare anche pubblicamente il suo duplice delitto, accettando di scontare la pena materiale in un carcere della Siberia prima di tornare, riabilitato, nel mondo degli uomini.

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Nessun cambiamento, nessuna redenzione, ne-

suna rinascita può avvenire senza l’assunzione di responsabilità delle proprie azioni, senza l’accettazione di una quota di sofferenza e di fatica in vista di un destino migliore. Dostoevskij ci insegna che evolvere, migliorare, riscattarsi, non è mai a costo zero: ogni scelta che facciamo, ogni passo che compiamo richiede coraggio. Non nel sangue e nel delitto, infatti, ma nella forza e nel coraggio di cambiare il proprio destino risiede la straordinarietà dell’uomo.

Tra

le pagine di questo monumento della letteratura mondiale, emerge potente il tema della colpa. E su questo aspetto il personaggio di Raskòl’nikov è spaventosamente, meravigliosamente complesso.

Nel suo soffrire, fino ad ammalarsi di una febbre

cerebrale che lo porterà in fin di vita, il giovane assassino non dimostra un pentimento nel senso più profondo del termine. Per la maggior parte del tempo, il suo senso di colpa è soltanto sfiorato dal rimorso: quello di cui si colpevolizza è soprattutto l’incapacità di sostenere le implicazioni del suo delitto. Il suo uccidere per mostrarsi al di sopra della morale comune si è rivelato un gesto vano: non si è innalzato al di sopra degli altri uomini, ma si è scoperto essere un vigliacco tremebondo, un pidocchio come tutti gli altri. Per questo senso di fallimento, più che per l’assassinio in sé, Raskòl’nikov sente di meritare il castigo e non trova pace. La colpa, intesa come bussola morale, resta un’emozione quasi inaccessibile fino all’incontro con Sonja. Nello sguardo aperto e compassionevole di lei, Rodja per la prima volta intuisce una possibilità di perdono talmente pura da non richiedere neppure il suo pentimento. Ed è proprio nel perdono disinteressato, in questa dimensione luminosa e salvifica, che può sorgere in lui una

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nuova consapevolezza di sé e del suo gesto.

Un sentimento che egli da tempo più non conosceva affluì in un’ondata nella sua ani-

ma e di colpo lo raddolcì. Egli non vi fece resistenza: due lacrime sgorgarono dai suoi occhi e rimasero sospese alla ciglia.

Soltanto nello sguardo compassionevole dell’altro, Raskòl’nikov coglie la possibilità di un pentimento sincero, l’unico capace di liberarlo dal suo tormento interiore e di restituirgli una seconda occasione di vita. Soltanto quando la colpa cessa di crogiolarsi nelle proprie mancanze e nei propri fallimenti, per arrivare a cogliere una dimensione più ampia, che abbraccia l’etica e la morale, allora può diventare un’emozione vitale, seppur dolorosa: essa diventa lo strumento per evolvere, migliorarsi, ritrovare la speranza di un graduale rinnovamento e una graduale rinascita.

Per alcuni lettori, il finale di Delitto e castigo appare fin troppo stucchevole e sdolci-

nato. L’amore che vince su tutto: un lieto fine da fiaba per bambini. Tuttavia, occorre andare oltre le apparenze e cercare di capire cosa voglia comunicarci davvero lo scrittore attraverso la figura di Sonja e la sua complessa storia d’amore con Raskòl’nikov.

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Rodja e Sonja sono due facce della stessa medaglia: entrambi vivono nella miseria,

entrambi sono dei reietti e degli emarginati, entrambi conoscono la sofferenza e il dolore. Ma il primo è colui che soccombe e che si perde, colui che arriva a compiere scelte sbagliate, che s’inganna credendo di scorgere la felicità laddove non ci può essere; la seconda è colei che resta forte, integra, incorruttibile. Né la povertà né il suo lavoro riescono a sporcare l’animo di Sonja, la quale, come una figura luminosa e titanica, si erge al di sopra dello squallore di cui è circondata, rimane intimamente pura e inaccessibile al compromesso. Questa ragazza vestita di cenci, esile, a prima vista fragile e anonima, rivela di possedere una bellezza incontaminata, una bellezza che nasce da dentro e si riverbera in tutto il suo essere, trasfigurandola. Come una creatura soprannaturale, Sonja risorge dalla miseria attraverso la sua forza interiore, attraverso la sua capacità di raggiungere il cuore dell’altro, attraverso la sua capacità di cogliere la verità che nell’altro si cela. Senza condanna, senza giudizio, senza tentennamenti.

Che avete fatto? Che avete fatto di voi? – disse disperatamente e, balzata in piedi,

gli si gettò al collo, lo abbracciò e lo strinse forte forte con le mani. - No, ora non c’è uomo al mondo più infelice di te.

Nel momento stesso in cui Raskòl’nikov le confessa il suo tormento, Sonja non in-

dietreggia, non vacilla, non si spaventa, ma comprende. Sente il dolore dell’altro, il suo smarrimento, e lo accoglie senza alcuna incertezza. Questa è la vera grandezza di Sonja, questa è la salvezza di cui parla davvero il romanzo di Dostoevskij: l’incontro con chi è in grado di ascoltare il nostro dolore senza averne paura. Non importa quanto si possa essere indipendenti e forti, ogni essere umano ha bisogno di poter confidare a qualcun altro il proprio dolore – le proprie fatiche, le proprie frustrazioni, le proprie insicurezze. Nessuno è un’isola, nemmeno chi crede di esserlo. E se nel mondo esiste qualcosa di prossimo al divino, per Dostoevskij è proprio l’incontro con un’anima così. Raskòl’nikov dovrà percorrere in prima persona il suo percorso di redenzione, spetterà a lui e soltanto a lui trovare dentro di sé il coraggio di cambiare, ma è grazie al supporto di Sonja, alla sua capacità di restargli accanto senza timore, che egli potrà attingere a quella forza interiore che è alla base del cambiamento. Se è vero che non possono essere gli altri a salvarci, è altrettanto vero che nessuno si salva completamente da solo. La via della salvezza è come un viaggio lungo e complesso, in cui a volte ci si salva spiccando il volo in solitaria, ma altrettante volte ci si salva perché l’altro ci sostiene mentre stiamo per cadere. A volte ci salva il nostro intuito, a volte la mano dell’altro che ci aiuta a rialzarci. E sopra ogni cosa, ci salva la Verità. Il coraggio della Verità.

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Manuela Bassetti

VOCI AMERICANE

HO FATTO LA SPIA di Joyce Carol Oates

“Via. Va’ all’inferno, topaccio! Non avrai altre occasioni per fare la spia. È vero, non ti sarà data un’altra occasione. C’è solo quell’unica, la prima.” “La famiglia è uno speciale destino. La famiglia in cui nasci e dalla quale non ci può essere scampo.”

Titolo originale: My life as a rat Casa editrice italiana: La nave di Teseo Anno di pubblicazione in Italia: 2020

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QUARTA DI COPERTINA Violet Rue Kerrigan ha dodici anni ed è la più giovane di una numerosa famiglia proletaria di origini irlandesi che vive a South Niagara, una piccola e tranquilla cittadina nello stato di New York. È la preferita del padre, Jerome, un uomo duro che governa la famiglia con pugno di ferro. Una sera i due fratelli maggiori, Jerome Junior e Lionel, investono ubriachi un diciassettenne afroamericano, lo colpiscono con una mazza da baseball e lo lasciano agonizzante sul ciglio della strada. Violet sa quello che hanno fatto, ma tutti, persino il prete, le intimano di tacere. Quando Violet, involontariamente, racconterà tutto al preside e alla polizia, portando così all’incriminazione dei fratelli, verrà cacciata di casa perché colpevole di un peccato imperdonabile: ha tradito la sua famiglia. L’esilio a casa di una zia, un’adolescenza difficile tra bullismo, sensi di colpa e abusi porteranno Violet a fare i conti con la sua educazione familiare e con il suo essere donna, fino a scoprire che la violenza può attecchire ovunque e che se vorrà salvarsi, dovrà trovare in se stessa una forza che non sapeva di avere. Joyce Carol Oates scrive un romanzo toccante e implacabile sulla ferocia dei sentimenti, un ritratto impietoso della società americana che racconta, attraverso un personaggio femminile indimenticabile, le emozioni del nostro tempo con la potenza travolgente della grande letteratura.

TRATTEGGI D’AUTORE Joyce C. Oates è un’autrice statunitense estremamente prolifica. Ha scritto romanzi, racconti, poesie, libri per bambini, saggi di critica e drammi teatrali. Nata nel 1938 da una famiglia cattolica di origine ungherese, è cresciuta in una fattoria nello stato di New York, stringendo un forte legame con la nonna materna. Lasciata l’America rurale della sua infanzia, ha frequentato la Syracuse University e in un secondo tempo la University of Wisconsin. Dopo la laurea, ha vissuto prima a Detroit, poi in Ontario e infine si è stabilita nel New Jersey, dove ha insegnato all’università di Princeton dal 1978 al 2014. L’America dei suoi romanzi (vincitori di prestigiosi premi letterari) non è l’America del grande sogno americano, bensì quella delle aree industriali in rovina, della provincia degradata e abbandonata a se stessa, dove alla ferocia di un paesaggio senza poesia si mescola la ferocia dei rapporti umani, delle apparenze e dei segreti familiari.

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IL CASTIGO DELLA VITTIMA Violet Rue era una bambina felice, cresciuta in una famiglia affollata e rumorosa. Lei

era la più piccola, la preferita di papà, quella a cui tutti volevano bene perché era una brava bambina, dolce, affettuosa, discreta.

Chi è la preferita di papà? Violet Rue. La piccola Violet Rue! Un bacio ruvido sul nasino, uno strillo di gioia infantile. E poi papà che la sollevava con le braccia vigorose, facendo finta di lanciarla in aria.

Come sta la mia bambina? Non ha paura vero? Anche se Violet Rue aveva il terrore dell’altezza non lo dava mai a vedere, perché a

papà non piacevano le bambine fifone. E Violet Rue non avrebbe fatto mai nulla per dispiacere il suo papà.

Ultima di sette fratelli, era arrivata come un dono inaspettato quando ormai sua madre era convinta di avere già dato tutto e anche di più.

Tua madre era entusiasta! Una bambina da amare, una femminuccia da adorare! Papà non si stancava mai di raccontarle la gioia con cui la moglie Lula aveva appreso

la notizia che una nuova vita stava crescendo dentro di lei. Sì, perché la madre di Violet era davvero entusiasta, era al settimo cielo per quella gravidanza tardiva. Trentasette anni, un corpo distrutto prima del tempo – gonfio, pesante, flaccido. Lei, che prima di restare incinta del primo figlio era stata una vera bellezza americana e che adesso, gravidanza dopo gravidanza, stava sprofondando in un torpore floscio, avvolta dal grasso e dalle vene varicose che le risalivano sulle gambe come edera rampicante.

Tua madre era entusiasta! Poter essere amata senza riserve da una bambina, un’altra volta, quando era convinta

che un’altra volta non ci sarebbe più stata…ovvio che Lula fosse entusiasta. Ovvio che Lula fosse distrutta. Oh Dio, oh Gesù no - ma come aveva fatto a ricascarci? Si era appena ripresa dalla sesta gravidanza, quella che si era ripromessa essere l’ultima. E invece eccola punto a capo. Caviglie gonfie, pressione alle stelle e il medico che le consigliava d’interrompere la gestazione, troppo rischiosa nel suo stato. Eppure, Lula si mostrava a tutti entusiasta, pronta ad accogliere il volere di Dio, distesa per mesi a letto con il terrore

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di avere un aborto spontaneo e di morire in un lago di sangue. D’altra parte, non era questo il suo dovere di femmina, come quello dei maschi era di andare in guerra senza discutere? Alle donne un compito, agli uomini un altro – non c’era nulla da obiettare, nulla di cui parlare. Senza contare che erano una famiglia cattolica e tanto bastava per non sfiorare nemmeno l’argomento. Semplicemente, Lula aspettava quell’ultima figlia, fiaccata nel suo letto matrimoniale: sempre più grossa, sempre più boccheggiante, sempre più disgustosa agli occhi del marito che non riusciva più nemmeno a guardarla. Ma quando era nata Violet Rue, che gioia! L’ultima di quello che papà chiamava il suo plotone militare, la mascotte dei suoi fratelli maggiori. Già, perché Violet adorava i suoi fratelli maschi, così chiassosi, selvatici, impulsivi, dispotici. I suoi fratelli cresciuti nel garage di casa, dove il padre (pugile dilettante e peso massimo) li costringeva ogni giorno a boxare con lui.

Colpiscimi!

Prova a beccarmi moscerino. Dai! Ehi: tu non ti arrendi finché non lo dico io.

E

i suoi fratelli che per quanto rapidi non riuscivano mai a evitare il fulmineo diretto destro del padre. Mai, neanche una volta. E Violet e le sue sorelle che ridacchiavano di quei colpi, perché erano così divertenti, anche se forse non c’era molto da ridere davanti a quei piccoli nasi dal moccio insanguinato, a quei toraci, pallidi e ossuti, tempestati di pugni.

Non male ragazzo! Ecco

la magica frase pronunciata da papà Jerome verso chi, tra loro, riusciva a non stramazzare sul pavimento di cemento. Dunque, cosa si era disposti a fare per ottenere l’approvazione di papà? Quella fugace radiosità sul suo bel volto ferino? Probabilmente qualsiasi cosa. Probabilmente anche morire.

Nella famiglia Kerrigan il mondo era diviso con l’ac32


cetta: maschi da una parte, femmine dall’altra. E l’amore di Jerome per i suoi figli era profondamente diverso a seconda che si trattasse di figli maschi o di figli femmine. Jerome adorava le sue bambine. Riversava su di loro un amore protettivo, controllante, quasi coercitivo. Erano le sue figlie, ma non aveva verso di loro nessuna curiosità di scoprire chi fossero veramente o chi sarebbero potute diventare. Bastava che fossero di bell’aspetto e che prendessero buoni voti a scuola, anche se per lui la cultura era roba da femmine e non aveva mai letto un libro in vita sua. La vita vera, la fottuta vita vera degli uomini, non prevedeva pagine piene di parole, bensì sudore della fronte, lavori manuali e serate nei locali dalla clientela solo maschile (pub, saloon, roadhouse). Locali dove bere e fumare in santa pace, lontano dallo sguardo vigile e infastidito delle mogli. Locali dove ridere a crepapelle e guardare le partite di football in televisione. Locali dove parlare della guerra del Vietnam con altri reduci come lui. Dio, e chi le voleva le donne in posti come quelli? Con i figli maschi l’amore di Jerome era l’opposto: feroce, esigente, tagliente. Un amore che passava attraverso lo scherno e le umiliazioni, perché in fondo nei figli lui non faceva che rivedere pezzi di se stesso. Quei pezzi che andavano aggiustati, corretti, migliorati. Quei pezzi sbagliati, fonte di imbarazzo e di vergogna. Quei pezzi da estirpare, punire, proprio come suo padre (quel dannato vecchiaccio) aveva fatto con lui, caricando il braccio e colpendo.

Mettere in riga i figli, ecco cos’aveva imparato Jero-

me dal suo vecchio bastardo, affinché capissero chi comandava in quella scalmanata famiglia. Ma Violet Rue sapeva che papà non avrebbe mai picchiato le sue bambine: soltanto una scrollata decisa che faceva ondeggiare la testa e sbatacchiare i denti. Mentre i ragazzi, loro sì che li si doveva mettere in riga a suon di colpi, ma solo con la mano aperta e mai con il pugno, la cinghia o il bastone, come la stessa Violet ci tiene a specificare, perché papà non era cattivo, papà era orgoglioso di noi e ci voleva bene 33


anche quando doveva metterci in riga.

Se c’era una regola che Jerome Kerrigan aveva ereditato dalla sua numerosa famiglia cattolica irlandese emigrata a Niagara Falls era che la famiglia è tutto. In famiglia ci si aiuta l’uno con l’altro, ci si spalleggia e ci si sostiene. Si può litigare, ma si deve restare uniti e proteggersi a vicenda. All’interno della famiglia non si abbandona nessuno, non si imbroglia né si mente, ma soprattutto non si tradisce. Mai. Andare fuori dalla famiglia, oltrepassare quel sacro confine che separa noi dagli altri: questo per Jerome era considerato imperdonabile. Jerome sarebbe morto per la sua famiglia e si aspettava che i suoi familiari fossero pronti a fare lo stesso. Perché la famiglia è tutto e se vai fuori dalla famiglia, se la tradisci, non sei più nessuno.

Perdonare un affronto per Jerome era qualcosa di raro. Dimenticarlo ancora di più.

Tanto riusciva ad essere generoso con amici e parenti, tanto non volevi finire sulla sua lista dei brutti di figli puttana, né desideravi contrariarlo, leggergli negli occhi il suo disgusto e la sua furia. Lo sapeva bene sua moglie Lula, specialmente quando il marito rientrava a casa alticcio, dopo aver trascorso la serata a bere con i reduci del Vietnam (e, ad essere onesti, Jerome rientrava a casa quasi tutte le sere alticcio). In quelle occasioni Lula restava immobile, guardinga, attenta a non irritarlo, perché sapeva quanto sia pericoloso provocare un marito che ha bevuto. Anche Violet Rue sapeva che non bisognava infastidire papà con le domande e i cicalecci, specialmente se il suo fiato sprigionava l’odore fiammante dell’alcol. Nello sguardo di Lula, che senza fiatare riusciva a comunicare ai figli di non disturbare il padre ubriaco, c’era sempre un monito che era anche una supplica: vostro padre vi ama, ma non mettete mai alla prova questo amore. Eppure Violet Rue arriverà un giorno a chiederselo: i tuoi genitori amano davvero te, per come sei tu, o amano il figlio che è loro e che a loro appartiene?

In questa prima parte del romanzo ci viene dunque presentata l’infanzia di Violet Rue.

Un’infanzia felice, come la protagonista tiene a precisare. Eppure, dietro la sua spensieratezza di bambina, strisciano già delle ombre che gettano una luce livida sulla casa dei Kerrigan. La più scura di queste ombre riguarda il rapporto tra la dimensione maschile e quella femminile. Non un rapporto di complementarietà e di equilibrio, bensì di netta contrapposizione e di supremazia del maschile sul femminile. Jerome è un uomo duro, autoritario, che ha interiorizzato il codice d’onore tramandatogli dalla sua famiglia: guai lasciare che il proprio nome venga trascinato nel fango. Guai ad essere disonorato e denigrato. E guai a cedere le redini del proprio nucleo familiare, a costo di picchiare i figli e di mettere in un angolo la moglie. La virilità di Jerome non passa mai attraverso l’autorevolezza, bensì attraverso la bru-

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talità, l’istinto, la rozzezza. È una virilità feroce, possessiva, priva della capacità di vedere l’altro, il quale si riduce a un mero prolungamento del proprio Io. La parte femminile in Jerome viene totalmente negata e rimossa, in quanto disprezzata. Non soltanto. Attraverso la forza fisica e la mortificazione emotiva, egli s’impegna a spegnere qualsiasi traccia del femminile anche nei suoi figli maschi, che cresceranno a loro volta autoritari, brutali e privi di empatia. A sua volta, il ruolo della donna, accentrato nella figura di Lula, appare in tutta la sua passività e sottomissione. La madre di Violet è come un guscio vuoto, privata del suo afflato vitale, impegnata unicamente a crescere i figli, gestire la casa e tenere a bada gli sbalzi d’umore del marito. Non esiste alcuna realizzazione personale, alcuna dimensione privata. Lula è moglie e madre, non può e non deve essere altro. Incapace di una vita propria, perduta la sua originaria bellezza (l’unico valore riconosciutole in quanto donna, l’unica parte di lei che l’aveva legata al marito) ecco che Lula sprofonda in un vortice di frustrazione e apatia, oscillando tra una tacita accusa nei confronti dei figli (colpevoli di averle mangiato la vita e la bellezza) e un attaccamento cieco agli stessi, attaccamento che le impedisce di coglierne i tratti personologici più

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distruttivi. E così Lula è pronta a giustificare ogni nefandezza commessa dai suoi ragazzi, venendo meno al proprio ruolo educativo e di guida morale.

Nella casa di Violet Rue la funzione genitoriale non viene mai esercitata attraverso il

dialogo e l’ascolto. Essere genitore per i Kerrigan significa unicamente punire i figli o, al contrario, giustificarli agli occhi del mondo (come avviene per i due figli maggiori, accusati di aver aggredito sessualmente una ragazza disabile e difesi a spada tratta da Jerome e da Lula, i quali definirono l’episodio una semplice ragazzata). E allora l’amore dei genitori, a casa Kerrigan, rinuncia a qualsiasi dimensione altruistica e progettuale, per ripiegarsi su se stesso, diventando un amore possessivo, investito dei bisogni e dei desideri narcisistici dei genitori: il desiderio, da parte di Jerome, di fare dei figli dei “veri uomini” e delle figlie “le sue belle bambine”; il bisogno di Lula di colmare attraverso tutti i suoi figli quel vuoto interiore che la divora dentro fino a farla diventare lo spettro di se stessa. Di fronte a un amore così non ci può essere scampo. Perché è un sentimento famelico e malsano, che impedisce all’oggetto amato di crescere, evolvere, migliorare. Lo cristallizza nel suo ruolo di contenitore delle proiezioni narcisistiche dei genitori. Lo costringe a restare bloccato, finché, impossibilitato a maturare, inizia a marcire. E di-


fatti i figli maggiori di Lula e Jerome, cresciuti sotto i colpi da pugile del padre e sotto lo sguardo passivo-aggressivo della madre, finiranno per mostrare il loro volto più marcio e perduto.

Aveva dodici anni, Violet Rue, quando, al culmine di una notte di bagordi, insieme ad

altri amici, i suoi fratelli maggiori, Jerome Junior e Lionel, massacrarono di botte Hadrian Johnson, un loro compagno di scuola afroamericano che stava tornando a casa in bicicletta. Prima lo speronarono con l’auto fino a farlo cadere, poi lo presero a calci e pugni, infine gli spaccarono il cranio con la mazza da baseball che Jerome Junior teneva in macchina. Un regalo di loro padre, Jerome Kerrigan - una tentazione troppo forte. Perché come potevano trattenersi dal non usarla? Ma nessuno voleva uccidere nessuno, questo è chiaro. Si era trattato soltanto di un incidente, di uno scherzo finito male. Volevano soltanto divertirsi un po’. Se non fosse stato per quella mazza che sbatacchiava con insistenza sul tappetino del sedile posteriore. Come un richiamo. E questa volta no, non avrebbero sbagliato colpo, questa volta il colpo sarebbe andato a segno e nessuno avrebbe riso dei fratelli Kerrigan. Non sapevano che era di Hadrian Johnson quel corpo agonizzante. Ovvio che non lo sapevano. Erano ubriachi, credevano di aver investito un daino. E di certo non sapevano chi fosse arrivato dopo di loro e avesse pestato a morte il ragazzo nero. Questo è quello che dissero alla polizia Jerome Junior e Lionel. Questo è quello che ripeterono ai genitori, i quali scelsero di credere (o finsero di credere) loro ancora una volta, perché la famiglia è tutto: non si va mai fuori dalla famiglia, qualunque cosa accada.

Ma (uno di quei ma nella vita che cambia tutte le carte in tavola) la notte dell’aggres-

sione Violet Rue aveva visto i suoi fratelli lavare via il sangue dalla mazza da baseball, prima di seppellirla non lontano da casa. Incuriosita dai rumori provenienti dal garage, era scesa dal letto e aveva sbirciato i movimenti nervosi e su di giri di Jerome Junior e di Lionel. Poi si era fatta coraggio ed era andata loro incontro, elettrizzata all’idea di condividere con i suoi adorati fratelli un qualche tipo di mistero.

Ehi ragazzi, dove siete stati fino a quest’ora? Così aveva chiesto, orgogliosa della sua audacia di ragazzina. E in cambio di un sorso di birra, aveva promesso di mantenere il segreto sulla loro avventura notturna: una rissa con altri ragazzi a Niagara Falls.

Niente di speciale, però meglio non farlo sapere a papà, sei d’accordo, vero, Violet? Soltanto

quando era iniziata a circolare la voce dell’assassinio di Hadrian Johnson, Violet Rue aveva cominciato a dare un senso diverso a quanto aveva visto quella notte nel garage di casa.

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Non lo dico a papà. Non lo dico a nessuno. Questo aveva giurato ai suoi fratelli. E Violet Rue voleva mantenere la sua promessa,

proprio come le avevano insegnato. Non si va mai fuori dalla famiglia – per nessun motivo. Se non che diventava ogni giorno più difficile fare finta di nulla. E lo sguardo di Lionel diventava ogni giorno più freddo e minaccioso. Perché Lionel sapeva che se la loro sorellina avesse parlato, se avesse fatto la spia, se si fosse comportata da topo traditore, lui e Jerome Junior sarebbero stati arrestati. E allora quale migliore soluzione che spingere la cara sorellina giù dalle scale del cortile, dando la colpa allo strato di ghiaccio invernale, nella speranza che la cara sorellina si rompesse la testa? Soltanto che Violet non si era fracassata il cranio come Hadrian Johnson, si era rotta un ginocchio.

A scuola, ancora febbricitante e terrorizzata, in un momento di debolezza, aveva con-

fessato tutto al preside e poi alla polizia: aveva raccontato, quasi senza rendersene conto, della mazza da baseball insanguinata, della spinta di Lionel giù dai gradini ghiacciati, della paura di tornare a casa. Parole che una volta pronunciate non potevano più essere ritratte, parole che avrebbero segnato l’inizio di un esilio lungo tredici anni.

Colpevole. Colpevole del reato peggiore: aver tradito la propria famiglia.

Spia maledetta. Topastro schifoso. Un atto imperdonabile agli occhi dei Kerrigan, in particolare agli occhi del padre. La sua preferita, Violet Rue. La sua adorata bambina diventata di colpo una faccia da topo, una delatrice, una rinnegata. La sua piccola Violet Rue era uscita dal cerchio magico della famiglia, aveva spezzato quel sacro vincolo di omertà e di protezione su cui Jerome Kerrigan aveva fondato il suo regno familiare. Quale punizione per una simile colpa? L’allontanamento della figlia traditrice, l’espulsione definitiva dalla famiglia. Fu così che Violet Rue venne mandata a vivere da una coppia di zii senza figli, dove ebbe iniziò il suo lungo percorso di condanna ed espiazione.

Che cosa hai fatto Violet? Come hai potuto? Le parole della madre come coltelli.

Non c’è posto per te a casa. Papà non vuole neanche vedere la tua faccia. Anche le sorelle stavano dall’altra parte della barricata. Soltanto Violet Rue era oltre il confine: sola, disprezzata, ripudiata.

Ed ecco che nella seconda parte del romanzo comincia la discesa di Violet negli inferi. Una spirale di senso di colpa e bisogno di autopunizione. Gli attacchi di narcolessia che la facevano cadere in un sonno simile all’oblio, gli abusi sessuali da parte del professore di matematica e poi dello zio. Infine, crescendo, la relazione umiliante e distruttiva con un ricco chirurgo nella cui casa lavorava come

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donna delle pulizie per mantenersi all’università. Un continuo, sfibrante oscillare tra l’istinto di sopravvivenza e il bisogno di punirsi, perché nel mondo in cui era cresciuta l’unica colpevole era lei. Era lei che aveva rovinato la vita dei suoi familiari, era lei che aveva commesso un delitto, non i suoi fratelli assassini. E non aveva neppure importanza che all’epoca fosse una ragazzina terrorizzata e confusa, perché non esisteva nessuna pietas romana, nessun sentimento di vera compassione, nell’universo dei Kerrigan.

E dunque, ecco che nella protagonista di questo libro avviene quello che molte volte si verifica nella psicotraumatologia: l’inversione di ruolo, il passaggio dalla posizione di vittima a quello di presunto carnefice. Colei o colui che ha subito un abuso, emotivo o fisico, assume su di sé la colpa dell’altro, finendo per sentirsi lui stesso (o lei stessa) spregevole e disprezzabile. Ma com’è possibile che la psiche di un soggetto traumatizzato finisca per barattare inconsciamente il proprio ruolo di vittima con quello, più abietto, di colpevole? Com’è possibile arrivare ad assumersi in pieno la responsabilità del torto subito? 39


In chiave psicologica, le motivazioni che stanno alla base di questa incredibile inversione di ruolo possono essere molteplici e spesso tra loro intimamente intrecciate.

A un primo livello troviamo i dogmi interiorizzati sin da bambini in ambito familiare.

Nel caso del personaggio di Violet Rue, il codice d’onore trasmesso dal padre Jerome ai figli impone che non si possano mai tradire gli interessi della famiglia, senza eccezione alcuna. Il senso di giustizia, l’etica, la morale, sono tutti concetti secondari rispetto allo slogan dominante: la famiglia è tutto, qualunque cosa accada. E anche la condizione di vulnerabilità della figlia, una dodicenne impaurita e persino aggredita dal proprio fratello, non rappresenta un’attenuante agli occhi del padre, perché il suo codice d’onore, il suo bisogno che il proprio nome e quello della famiglia non vengano mai trascinati nel fango, è ancora più potente e più viscerale dell’amore che prova per Violet. Jerome Kerrigan non è in grado di comprendere il peso emotivo che schiaccia la figlia, non è in grado di sentire il suo dolore, così come non è in grado di farlo la madre, da sempre succube del marito fino ad averne assimilato a pieno il punto di vista. All’interno di un sistema educativo di questo genere, in cui i valori trasmessi non sono il dialogo, la vicinanza emotiva, l’ascolto, bensì la cieca obbedienza alla fedeltà del sangue, è comprensibile che colui che si azzarda a venire meno a tale tacito giu-


ramento, non può che avvertire un profondo senso di condanna e di colpa, frutto di un’insanabile lacerazione interna: dover scegliere tra seguire la propria etica o il restare fedele alla propria famiglia.

A un secondo livello, ma profondamente intrecciato con il primo, troviamo i senti-

menti della vittima nei confronti dei suoi carnefici. Quando gli abusi e le violenze psicologiche vengono perpetrati dai membri della famiglia, entrano in gioco meccanismi psichici complessi, poiché coloro che fanno del male sono anche coloro che la vittima ha sempre amato. E allora il confine tra bene e male, tra odio e amore, tra giusto e sbagliato si fa estremamente sfilacciato e confuso. Come diventa possibile per la vittima continuare ad amare l’artefice della sua sofferenza? Una strategia inconscia per “salvare” i carnefici amati è quella di renderli innocenti ai propri occhi. E per farlo la vittima deve necessariamente cominciare a pensare che quello che è accaduto è colpa sua, che è lei l’unica vera responsabile di tutto il male commesso, che è stata lei a portare gli altri ad agire in quel modo. Così se Violet Rue non avesse fatto la spia, i suoi genitori non si sarebbero mai trovati nelle condizioni di doverla cacciare per sempre da casa. Non hanno sbagliato i suoi genitori, ha sbagliato lei. Lei ha bisogno di essere perdonata e riaccettata. Ecco dunque che il dolore, seppur grande, della propria presunta colpa risulta emotivamente


più accettabile della consapevolezza che le persone amate si sono rivelate immeritevoli di questo amore. Per un figlio, ammettere che i propri genitori sono stati abusanti o violenti, significa dover rinunciare per sempre all’idea di una mamma e di un papà amorevoli. Significa riconoscere nella propria vita una lacuna incolmabile, un vuoto con il quale venire a patti può richiedere un tempo lunghissimo (a volta tutta la vita). Per questo motivo, per non perdere l’immagine di sé come di un bambino amato, la psiche arriva a capovolgere la narrazione dei fatti: non sono mamma e papà ad essere stati cattivi, sono io ad essere stato indegno del loro grande amore. È proprio questo sentimento profondo d’indegnità e di vergogna che porta la vittima a cercare inconsciamente delle modalità di punizione. L’autolesionismo, l’abuso di sostanze, la caduta nelle maglie di relazioni psicologicamente devastanti altro non sono che la strada per autodistruggersi, per infliggersi un castigo che possa fare espiare il proprio errore, la propria indegnità. Si creano così dei vortici perversi e malati, in cui ad ogni caduta si aggiunge un ulteriore carico di colpa e di vergogna, che trascina la vittima verso i bassifondi dell’anima e talvolta anche della società.

A cosa aggrapparsi dunque per frenare questa scivolata lungo l’orlo del baratro?

Durante i tredici anni trascorsi lontano da casa, Violet Rue aveva sempre sperato nel perdono. La sua esistenza, dai dodici ai venticinque anni, altro non era stata che una lunga attesa. L’attesa del giorno in cui i suoi genitori avrebbero telefonato per riavvicinarsi a lei, per invitarla a tornare.

Ehi Violet Rue! Ci sei mancata da matti. Ma Violet non aveva bisogno del perdono della sua famiglia: aveva bisogno del per-

dono di se stessa. Per smettere di sentirsi un topo schifoso e riappropriarsi della sua dignità di essere umano. Per restituire a ciascuno la propria parte di responsabilità. Violet Rue potrà ricominciare a vivere soltanto quando smetterà di cercare la salvezza nel ritorno a casa, nel recupero di un paradiso perduto, di un’epoca che non potrà mai più rivivere. Dovrà fare un lungo cammino Violet Rue per riprendere in mano la sua vita, ma non sarà il cammino a ritroso verso la sua casa d’infanzia, bensì il cammino a ritroso dentro se stessa. Per guarire da un trauma occorre innanzitutto accettare ciò che è avvenuto e che non si può più cambiare. Soltanto accettando la propria storia di vita, le proprie ferite, la propria sofferenza, si può mettere una linea di separazione tra il passato e il presente. Perché accogliere ciò che è stato significa riuscire a lasciarlo andare, svuotarlo di quella rabbia e di quel dolore che impediscono di avere abbastanza energie per andare avanti. L’accettazione è il primo passo di quella lunga, meticolosa ricostruzione di sé che permette di separarsi dai fantasmi del passato, per riappropriarsi di quella libertà interiore che è alla base del vero cambiamento.

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Manuela Bassetti

PERLE TASCABILI

IL BALLO

di Irène Némirovsky “Anche gli adulti, dunque, soffrivano per cose futili e passeggere? E lei, Antoinette, li aveva temuti, aveva tremato davanti a loro, alle loro grida, alla loro collera, alle loro vane e assurde minacce…” “Un odio da zitella a quattordici anni? Eppure sa che avrà anche lei la sua parte; ma ci vorrà tempo, un tempo infinito, e nell’attesa questa vita meschina, piena di umiliazioni, la scuola, la dura disciplina, la madre che grida…”

Titolo origianale: Le bal Casa editrice italiana: Adelphi Anno di pubblicazione in Italia: 2005

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QUARTA DI COPERTINA Il ballo ha la perfezione esemplare di un piccolo classico, poiché riesce a mescolare, pur nella sua brevità, i temi più ardui: la rivalità madre-figlia, l’ipocrisia sociale, le goffe vertigini della ricchezza improvvisata, le vendette smisurate dell’adolescenza – che passano, in questo caso eccezionale, dall’immaginazione alla realtà. Perché è proprio una vendetta, quella della quattordicenne Antoinette nei confronti della madre: non premeditata, e per questo ancora più terribile. In poche pagine folgoranti, con la sua scrittura scarna ed essenziale, Irène Némirovsky condensa, senza nulla celare della sua bruciante crudeltà, un dramma di amore respinto, di risentimento e di ambizione.

TRATTEGGI D’AUTORE Irène Némirovsky è ad oggi considerata una del- le più amate e più grandi scrittrici del Novecento. Nata a Kiev, in una famiglia dell’alta borghesia ebraica, da bambina visse in prima persona l’efferatezza dei pogrom che sconvolsero più volte la città durante l’impero zarista. Nel biennio 1917-1919, fuggì con tutta la famiglia in Francia, a Parigi, dove scoprì il jazz, la vita sregolata degli artisti e soprattutto la passione per la scrittura. In breve tempo, divenne una giovane brillante scrittrice, il cui fascino elegante e mondano ammaliava la critica del tempo, che la portò alle vette del successo e della fama. Tuttavia, la vita della Nèmirovsky non fu né lunga né facile. E nella spietata crudezza di tutti i suoi scritti, dove alla bellezza dei paesaggi naturali e degli interni domestici fa da contrasto l’assoluta ferocia dei sentimenti umani, non si possono non ritrovare le innumerevoli tracce della sua autobiografia. Irène fu un bambina e poi un’adolescente trascurata, vissuta nel lusso di un mondo familiare in cui il padre era perennemnete immerso negli affari, mentre la madre era perennemente preoccupata di mantenersi giovane e bella per non perdere i favori dei suoi tanti corteggiatori. Privata dell’affetto genitoriale, intrisa di un risentimento profondo e incancellabile verso la famiglia d’origine, Irène cercò nei libri una strada per evadere dalla solitudine e dal dolore, riuscendo a dar vita ad opere letterarie di una potenza e di una raffinatezza fuori dal comune. Eppure, non ancora sazio, il destino si abbattè tragicamente sull’esistenza di questa straordinaria scrittrice, che trovò la morte a soli 39 anni nel campo di concentramento di Auschwitz. Ma come sempre accade per i talenti immortali, le sue parole restano più vive e più luminose che mai.

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PROPRIO TU, MADRE! La trama di questo racconto è in apparenza molto semplice e lineare. Nella scintillante

Parigi degli anni Venti, la quattordicenne Antoinette Kampf vive in un appartamento lussuoso, insieme ai suoi genitori, Alfred e Rosine, alla tata inglese Miss Betty e all’anonima schiera di domestici. La famiglia Kampf è appena entrata a far parte della ricca società parigina, grazie alle speculazioni finanziarie del padre. La madre Rosine, stretta in un matrimonio ormai stantio, ossessionata sin da ragazza dall’ambizione economica e dal desiderio di essere corteggiata, decide di organizzare un ballo per aprire le porte della propria nuova casa alla crème de la crème di Parigi. La giovanissima Antoinette, a sua volta desiderosa di schiudersi al mondo, si sente elettrizzata all’idea di partecipare al suo primo vero ballo, ma la madre, decisa a mantenere per sé il ruolo di regina della serata, vieta alla figlia di prendere parte alla festa, anticipandole che per quella notte avrebbe dormito nello sgabuzzino (la sua cameretta, infatti, sarebbe stata destinata alla zona bar). Antoinette, furibonda e ferita di fronte all’ennesimo atto d’insensibilità materna, dopo aver ricevuto l’incarico di spedire gli inviti per il ballo, in uno scatto d’ira adolescenziale, li straccia e li getta nella Senna. La sera della festa i signori Kampf aspettano inutilmente l’arrivo degli ospiti e - ignari del gesto della figlia - finiscono per litigare, rinfacciandosi a vicenda le possibili cause del fallimento della serata. Sconvolta dall’umiliazione, Rosine si accascia in lacrime sul divano del salotto, consolata unicamente dalle carezze di Antoinette, sul cui viso nascosto dalla penombra si allarga, tuttavia, un freddo e trionfale sorriso.

Nonostante

l’apparente semplicità della storia, in essa si possono rintracciare due piani di lettura molto più profondi e strettamente intrecciati tra loro. Il primo riguarda la dimensione autobiografica di cui è permeato il racconto: nella figlia rifiutata e incompresa non si può non rivedere la Némirovsky adolescente, così come nella figura materna imperiosa, ossessionata dal mito dell’eterna giovinezza, e nella figura paterna distante, tutta presa dal lavoro e dagli affari, non si possono non rivedere i genitori della scrittrice. Il secondo piano riguarda le profonde trame psicoanalitiche che legano i vari personaggi, il loro mondo interiore e le loro relazioni interpersonali. In particolare, i temi più intensi che la Némirovsky mette sotto la sua impietosa lente d’ingrandimento sono il complesso rapporto madre figlia e soprattutto la contrapposizione gioventù vecchiaia, contrapposizione analizzata nel delicatissimo momento in cui avviene il passaggio transgenerazionale e il genitore è chiamato a rinunciare alla propria giovinezza per passare il testimone ai figli dentro l’inarrestabile corrente della vita.

Antoinette Kampf ci viene descritta come una ragazzina lunga e magra, con il volto

pallido di quell’età, tanto smunto da apparire agli occhi degli adulti come una macchia

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rotonda e chiara, priva di lineamenti, le palpebre socchiuse, cerchiate, la boccuccia serrata. Ella è in quella fase dell’età in cui il corpo infantile inizia a trasformarsi per assumere i contorni del futuro corpo adulto, un’età fisicamente ingrata, in cui l’aspetto si fa spesso sproporzionato: le gambe e le braccia ancora sottili, da bambini; le mani e i piedi già grandi ma impacciati; la prima peluria, la voce che cambia, i lineamenti non definiti, l’andatura goffa e incerta. E ai cambiamenti repentini del corpo si accompagnano quelli della psiche: i rossori intensi e improvvisi, i vertiginosi sbalzi d’umore, il continuo oscillare tra la ricerca della solitudine e la voglia di relazionarsi con gli altri. I sogni ad occhi aperti, la fretta di crescere, la curiosità verso quel mistero proibito che si cela dietro il mondo inarrivabile e segreto degli adulti. Ma allo stesso tempo, una sorta di acuta e inconfessabile nostalgia per l’infanzia perduta, per quel regno ovattato e sicuro da cui il trascorrere del tempo, traditore, ci ha espulsi per sempre.


Antoinette

è un’adolescente uguale a tutte le adolescenti della storia dell’umanità: sensibile, impulsiva, sognatrice, sperduta di fronte all’ignoto della vita. E, come tutte le adolescenti, avrebbe bisogno di specchiarsi nella figura materna per poter iniziare a costruire la nuova immagine di sé – quella di futura giovane donna. Ma Rosine Kampf è colei che in psicoanalisi si definisce una madre imprevedibile: basta un nonnulla (un sospiro, un gesto, uno sguardo della figlia) per mandarla su tutte le furie. Lungi dall’essere una figura accogliente, in cui Antoinette può trovare calore e sicurezza, Rosine è scostante, iraconda, emotivamente inaccessibile. Il cuore materno di Rosine non è un luogo in cui la figlia può cercare ristoro dalle fatiche di diventare grande, perché è interamente occupato da Rosine stessa, dai suoi bisogni narcisistici insoddisfatti, dalle sue paure irrisolte, dalla sua invidia nei confronti della giovinezza altrui. Così la figlia, nel momento in cui comincia a sbocciare in un corpo di donna, ecco che diventa per la madre una rivale, una specie di Biancaneve destinata a destituire la matrigna nel ruolo della più bella del reame. Pertanto, come la matrigna della fiaba arriva a concepire di uccidere Biancaneve per liberarsi dell’acerrima avversaria, così Rosine cerca inconsciamente di liberarsi della figlia relegandola dentro un ruolo invisibile. E l’amore filiale, calpestato, respinto, rinnegato (come accade spesso ai grandi amori feriti) si trasforma con il tempo in un odio implacabile.

Antoinette a volte odiava gli adulti al punto

che avrebbe voluto ucciderli, sfigurarli, oppure gridare: «Mi hai scocciato!» battendo i piedi; ma fin dalla più tenera infanzia aveva paura dei genitori. Un tempo, quando era più 48


piccola, la madre la prendeva spesso sulle ginocchia e se la stringeva al cuore, coprendola di baci e di carezze. Ma questo Antoinette l’aveva scordato. Mentre nel più profondo di se stessa aveva serbato il suono, lo scoppio di una voce irritata che diceva dall’alto: «Questa marmocchia mi sta sempre tra i piedi... Mi hai di nuovo macchiato il vestito con le tue scarpe sudicie! Via, in castigo, ti servirà di lezione, mi hai sentito? Stupida!». E un giorno... Per la prima volta, quel giorno, aveva desiderato morire... All’angolo di una strada, durante una scenata, quella frase piena d’ira, gridata così forte che i passanti si erano girati: «Vuoi una sberla? Sì?» e il bruciore di uno schiaffo... In mezzo alla strada... Aveva undici anni, era alta per la sua età... I passanti, gli adulti, pazienza... Ma proprio in quell’istante alcuni ragazzi che uscivano da scuola l’avevano guardata ridendo: «Te la passi male, bellezza...». Oh, quei sorrisetti di scherno che la perseguitavano mentre camminava, a testa bassa, per la strada scura d’autunno... Le luci danzavano attraverso le lacrime.

L’adolescenza

è un vero e proprio periodo di transizione, caratterizzato da un’estrema vulnerabilità emotiva. Ciò che si agita dentro il Sé in evoluzione, infatti, può raggiungere una tale intensità da lasciare smarrito l’adolescente, confuso di fronte ai cambiamenti fisici e psichici di cui è portatore. A livello mentale, in questo periodo della vita si sviluppano e si rinforzano il pensiero astratto; si ampliano e si approfondiscono le riflessioni su se stessi, sugli altri e sul mondo; si accresce la capacità di ragionare su temi esistenziali complessi, come il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, l’individuo e la società, l’amicizia e l’amore, il rancore e il perdono. Nella sfera della psiche subentrano in modo dirompente nuovi concetti immateriali, come il senso del Tempo, della Vita 49


e della Morte. Con l’avvento dell’adolescenza, i ragazzi iniziano infatti a cogliere tutti gli aspetti limite dell’esistenza umana: il fatto che il tempo scorre inesorabilmente, che gli anni che ci lasciamo alle spalle non potranno mai tornare indietro, che si possono percorrere delle strade ma ciò implica rinunciare inevitabilmente a delle altre. Che si può essere amati, ma anche rifiutati. Che si può desiderare qualcosa, ma non per questo ottenerla. E da ultimo, che la vita ha per tutti una fine. Di fronte alla nascita di questo nuovo bagaglio di consapevolezza, meraviglioso e terribile al tempo stesso, l’adolescente deve imparare a utilizzare le proprie risorse cognitive ed emotive, così da poter affrontare le grandi sfide della vita. Allo stesso tempo, egli è chiamato a rinunciare per sempre all’onnipotenza – illusoria ma rassicurante – dell’infanzia, in cui tutto il microcosmo familiare ruotava intorno ai suoi bisogni e ai suoi legittimi desideri. Crescendo, ogni ragazzo e ragazza imparerà a sue spese che là fuori, in quella giungla chiamata mondo, è molto più difficile realizzare i propri desideri, che si resta spesso inascoltati, che non sempre vale il detto “chi dà riceve” e che pochissime persone ci ameranno (forse) incondizionatamente. E a loro volta, i genitori stessi perderanno agli occhi dei figli quell’aura di onnipotenza, forza e immortalità che li aveva accompagnati nel loro sguardo di bambini: i genitori diventeranno esseri umani come tutti gli altri, esseri umani che sbagliano, che non hanno tutte le risposte, che non possono sempre proteggerci dal dolore e dalle delusioni. Esseri umani che invecchiano e che muoiono.


E così l’adolescenza, questo slancio straordinario e vertiginoso verso l’età adulta, si apre in realtà anche con un duplice lutto. Il lutto del ragazzo che deve dire addio alla magia protettiva dell’infanzia e il lutto del genitore che, nel riconoscere la giovinezza del figlio, deve necessariamente prendere commiato definitivo dalla propria. Se il genitore non riesce a compiere questo rito di passaggio, se egli stesso non ha risolto i suoi fantasmi adolescenziali, se non riesce a lasciare andare la propria gioventù per offrire uno spazio al figlio sul palcoscenico della vita, ecco che allora gli equilibri familiari crolleranno, i diversi ruoli generazionali finiranno per entrare in collisione e divamperà una battaglia per la sopravvivenza psichica ed emotiva. Il figlio lotterà per affermare il proprio diritto a crescere, a diventare protagonista del suo tempo, ad affermarsi come individuo in ambito sociale, professionale e affettivo. Il genitore lotterà per non perdere quello che resta della sua forza, della sua supremazia sulla prole, della sua gioventù intesa come vigore e comando.

Nel racconto della Némirovsky, Rosine Kampf è ossessionata dalla paura d’invecchiare e di dover dire addio ai suoi sogni di gioventù, in gran parte rimasti irrealizzati. Ciò la rende feroce nel suo egoismo, nel suo bisogno di attaccarsi disperatamente al proprio narcisismo per non perdere la speranza di vedere un giorno avverarsi tutti i suoi desideri, simboleggiati dalla corte di un uomo che possa farla sentire ancora bella e viva.

Ah, la vita era proprio fatta male! Il suo viso dei vent’anni… Le guance in fiore… E le

calze rattoppate, la biancheria coi rammendi… Adesso i gioielli, gli abiti, e le prime rughe … E queste andavano insieme a quelli… Bisognava affrettarsi a vivere, mio Dio, a piacere agli uomini, ad amare. I soldi, i bei vestiti e le belle auto, a che servivano se non c’era un uomo, un amante bello e giovane? Quanto l’aveva atteso quest’amante! […] Ma lei non aveva smesso di attendere. E ora, era l’ultima possibilità, gli ultimi anni prima della vecchiaia, quella vera, senza rimedi, irreparabile. […] La vita cominciava, finalmente! Quella sera stessa, chissà?

Rosine Kampf è una (non) madre cinica, fredda, crudele. Ma è anche un personag-

gio profondamente tragico e per questo a suo modo commuovente. Nella società di quel tempo, le mogli dell’alta borghesia spesso contraevano matrimoni socialmente utili, dove tuttavia la passione si raffreddava velocemente come il caffè in una tazzina dimenticata sul tavolo. Prive della possibilità di realizzarsi pienamente come persone, esse trascorrevano gran parte del tempo investendo la propria esistenza su abiti, gioielli e cosmetici al fine di sfoggiare la propria bellezza durante le cene, i balli, le serate a teatro. Tutto il loro mondo emotivo si riduceva a spiccare nell’alta società, esibire perle e diamanti, essere corteggiate da uomini ricchi e gigolò, suscitare invidia e gelosia nelle altre donne. Ma si sa, la giovinezza è per tutti una meteora. E dunque la loro vita bruciava rapidamente come un fuoco d’artificio che s’illumina nel cielo, divampa

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abbagliando gli occhi ammirati degli spettatori e poi subito si spegne lasciandosi dietro soltanto il buio della notte. Riflettendo su ciò, possiamo comprendere come per queste donne ogni anno che passava fosse fonte di terrore e di angoscia. Un capello bianco, una piccola ruga, un rilassamento della pelle – ogni dettaglio preannunciava l’inizio della fine, la morte sociale, l’interminabile scialba vuota vecchiaia. E qualsiasi giovane donna, più fresca, più luminosa, più desiderabile di loro, era una nemica da annientare (poco importa se la ragazza in questione fosse un’estranea o la loro stessa figlia, il sangue del loro stesso sangue). Nella lotta per la vita, non c’era spazio per l’umanità, per il sentimento, per l’empatia. C’era soltanto un istinto di sopravvivenza feroce, primitivo, pronto a tutto. Una sopravvivenza naturalmente non fisica, ma psicologica, emotiva, sociale.

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Quando Antoinette, nella sua innocenza ancora infantile, chiede alla madre il permesso di partecipare al ballo, scatena in Rosine l’odio verso la giovane rivale, verso colei che potrebbe rubarle la scena, proprio in virtù della sua freschezza e leggiadria.

Roba da non crederci! Questa bambina, questa mocciosa, venire al ballo, figurarsi. Aspetta un po’ bella mia, ti farò passare io tutte le idee di grandezza…Chi ti ha messo questi grilli per il capo? Sappi, mia cara, che io comincio soltanto adesso a vivere, capisci, io, e che non ho intenzione di avere fra i piedi una figlia da marito.

Il desiderio ferino della madre di continuare a vivere, di non essere costretta a dividere il suo posto nel mondo con la figlia già cresciuta (una figlia da marito), di non vedersi usurpare gli ultimi brandelli di quella felicità anelata e mai completamente raggiunta, la porta a ricacciare nell’oscurità e nell’oblio la giovane Antoinette, la quale a sua volta sente che per lei è arrivato il momento di sbocciare e reclama il suo diritto a vivere.

Sporchi egoisti! Sono io che voglio vivere, io, io... Sono giovane, io... Mi derubano, si

prendono la mia parte di felicità sulla terra. […] La schiavitù, la prigione, ripetere giorno dopo giorno gli stessi gesti alle stesse ore… Alzarsi, vestirsi, gli abitini scuri, gli stivaletti pesanti, le calze a coste, glieli fanno mettere apposta, come una livrea, perché nessuno in strada segua sia pure per un momento con lo sguardo quella ragazzetta insignificante che passa […] E i desideri cattivi… L’invidia vergognosa, disperata, che rode il cuore nel vedere due innamorati passeggiare al crepuscolo, abbracciati, vacillando dolcemente, come ebbri… Un odio da zitella a quattordici anni? Eppure, sa che avrà anche lei la sua parte; ma ci vorrà tempo, un tempo infinito, e nell’attesa questa vita meschina, piena di umiliazioni, la scuola, la dura disciplina, la madre che grida…

Al centro del racconto, ecco ergersi dunque le due verità, portate alla luce dalle crude

parole delle due donne: Rosine che grida il suo bisogno di non morire ancora, di non spegnersi nella lenta agonia di una vecchiaia priva di emozioni e di palpiti; Antoinette che scalpita per cominciare a vivere, per uscire dall’ombra in cui si è sempre sentita relegata, per allungare finalmente la mano verso i suoi sogni adolescenziali così vividi e dolorosamente intensi. Nella loro gabbia fatta di rabbia, gelosia, rivalità, nessuna della due donne mente: entrambe portano sul palcoscenico della vita il loro dramma quotidiano, la loro parte di verità – la paura della vecchiaia e la veemenza della giovinezza. Ma Rosine, incapace di venire a patti con il tempo, abdica al suo ruolo materno, rivendicando per sé e soltanto per sé il diritto a vivere, amare ed essere amata. E Antoinette, figlia odiata e ripudiata, questo non può perdonarglielo.

Nessuno le voleva bene, nessuno al mondo… Ma non vedevano dunque (ciechi, im-

becilli) che lei era mille volte più intelligente, più raffinata, più profonda di tutti loro, di tutta quella gente che osava educarla, istruirla… Arricchiti volgari, ignoranti… Una 53


bambina di quattordici anni, una ragazzetta, è un qualcosa di spregevole e di infimo, come un cane… Con che diritto la mandavano a dormire, la punivano, la ingiuriavano? “Ah, vorrei che morissero!” Antoinette ricominciò a piangere, ma più piano, assaporando le lacrime che le scorrevano agli angoli della bocca e all’interno delle labbra; d’un tratto la invase uno strano piacere: per la prima volta in vita sua piangeva così, senza smorfie né sussulti, in silenzio, come una donna… In seguito avrebbe pianto, per amore, le stesse lacrime… Ascoltò a lungo i singhiozzi risuonarle nel petto come un’ondata profonda e bassa del mare… La sua bocca bagnata di lacrime aveva un sapore salmastro… Accese la lampada e si guardò con curiosità allo specchio. Aveva le palpebre gonfie, le guance rosse e chiazzate. Come una bambina che sia stata picchiata. Era brutta, brutta… Singhiozzò di nuovo. “Vorrei morire. Dio, fammi morire… Santa Vergine, perché mi hai fatto nascere insieme a loro? Puniscili, ti prego. Puniscili, e poi muoio contenta…”

Le poche pennellate con cui Irène Némirovsky dipinge i pensieri febbrili di Antoinette

descrivono con assoluta maestria quell’andirivieni tipico dell’adolescenza, quel sentirsi adulti e un attimo dopo bambini. Quel percepire il proprio corpo in chiave matura, sensuale, per poi vedersi di nuovo piccoli, brutti, sgraziati. Quella sensazione d’indefinitezza, tipica di tutte fasi di transizione, che smuove sentimenti tra loro contrastanti: da un lato il desiderio di andare avanti, di raggiungere la riva opposta, sfidando la furia delle correnti e la paura dell’ignoto, mossi da un impulso profondo, un bisogno di evolvere, di andare oltre, di trovare finalmente se stessi nell’accezione più profonda del termine; dall’altro lato la voglia di tornare indietro, di non uscire dal proprio nido che, per quanto stretto, è comunque un rifugio familiare, un qualcosa di già conosciuto, che tiene al riparo dagli imprevisti e dai rischi della vita.

In Antoinette la repressione materna fa scattare nella ragazza soprattutto il bisogno di

crescere, di essere vista e considerata, di liberarsi dal giogo materno. E questo bisogno continuamente negato finisce per alimentare il suo desiderio di vendetta: una specie di vertigine si impossessò di lei, un bisogno selvaggio di commettere una bravata, di fare del male. Serrando i denti, prese le buste, le accartocciò tra le mani, le lacerò e le buttò tutte insieme nella Senna.

La bravata della figlia, che segna l’epilogo del racconto, mette in luce tutta la verità della situazione, come un ultimo lampo folgorante, il quale illumina la scena con una luce cruda e vivida, da cui nessun personaggio può trovare riparo. E allora, in questa dimora lussuosa, sfarzosamente addobbata per ricevere gli ospiti, ecco che i coniugi Kampf si additano e si insultano a vicenda, credendo di essere stati snobbati dall’alta società a causa delle loro umili origini. Rosine rinfaccia al marito di essere soltanto un arricchito, un pavone dalla lurida vanità, che nessun parigino altolocato vorrebbe mai frequentare; Alfred umilia la moglie dicendole che in fondo lui l’aveva raccattata

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quand’era giovane soltanto per la sua bellezza, perché potesse fargli fare bella figura in mezzo alla gente, pur sapendo che razza di sgualdrina fosse. E così, dinnanzi al crollo delle ultime apparenze, fino a quel momento tenute in vita per non perdere quella bolla di rispettabilità e di ipocrisia da sempre richieste alle ricche famiglie borghesi, e dinnanzi al fallimento della serata, su cui Rosine aveva investito tutti i suoi sogni irrealizzati, la donna perde il suo piglio imperioso, la sua alterigia, e dopo essersi strappata di dosso tutti i suoi i gioielli (nessuna ricchezza potrà comprarle né la gioventù né la felicità), si affloscia sul divano, attonita e svuotata.

Allora,

soltanto allora, ecco emergere dall’ombra Antoinette, che aveva assistito di nascosto a tutta la scena. Lei, la vera artefice della disfatta materna. Lei che, negando alla madre quel ballo, si era presa la sua rivincita e la sua vendetta. E qui, proprio in queste ultime righe del racconto, la Némirovsky ci offre ancora una volta la spietata bellezza della sua scrittura e la sua capacità di leggere nel cuore e nei gesti dei suoi personaggi.

Antoinette osserva il volto della madre, un vol-

to inondato di lacrime, che scioglievano il trucco mescolandosi ad esso; un volto grinzoso, contratto, paonazzo, infantile, comico… commovente… Ma Antoinette non era commossa, provava soltanto una specie di disprezzo, di indifferenza sdegnosa. All’improvviso si sentì ricca di tutto il suo avvenire, di tutte le sue giovani forze intatte, e pensò: “Come si può piangere così per un motivo del genere? E l’amore? E la morte? Un giorno morirà… L’ha dimenticato?”

Di fronte alle lacrime materne, in Antoinette ado-

lescente divampa per la prima volta la consapevolezza della fragilità degli adulti. Ciò che ancora restava della sua infanzia (la visione dei genitori

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come creature onnipotenti, invincibili, inarrivabili) si frantuma definitivamente davanti ai suoi occhi, lasciandole la coscienza del mondo adulto come di un mondo fatto di vulnerabilità, insicurezze, disillusioni. Un mondo non meno fragile di quello dei bambini. Davanti a una simile presa di consapevolezza, Antoinette si affranca per sempre dal suo continuo senso d’inferiorità e si percepisce finalmente forte, vitale, vincitrice.

Anche gli adulti, dunque, soffrivano per cose futili e passeggere? E lei, Antoinette, li aveva temuti, aveva tremato davanti a loro, alle loro grida, alla loro collera, alle loro vane e assurde minacce. Si sporse con cautela dal suo nascondiglio. Ancora per pochi istanti, dissimulata nell’ombra, guardò la madre, che non singhiozzava ma rimaneva tutta raggomitolata su se stessa, lasciando che le lacrime le scorressero fino alla bocca senza asciugarle. Poi si mise in piedi e le si avvicinò: “Mamma”. La signora Kampf sussultò. “Che cosa vuoi, che ci fai qui?” esclamò irritata. “Vattene, vattene immediatamente! Lasciami in pace! Non posso più stare un minuto tranquilla in casa mia?” Antoinette, un po’ pallida, non si muoveva, e restava lì a capo chino. Alle sue orecchie quegli scoppi di voce suonavano ormai flebili e svuotati di ogni forza, come un tuono in teatro. Stese lentamente la mano, la posò sui capelli della madre, li accarezzò con dita leggere, un po’ tremanti: “Povera mamma…”

Con un gesto di superiorità - il gesto di chi accarezza un animale ferito - Antoinette

poggia una mano sulla testa della madre. Dopo un breve, antico impulso di stizza e di superbia, Rosine finisce per accettare la mano consolatrice della figlia e si abbandona al proprio dolore, dimostrando la sua incapacità a vedere nell’animo di Antoinette – le sue sofferenze precedenti e il suo attuale trionfo.

“Ah! Figlia mia, mia piccola Antoinette: tu sei felice: non sai ancora quanto è ingiusto

il mondo, cattivo, subdolo... Queste persone che mi sorridevano, che mi invitavano, mi ridevano alle spalle, mi disprezzavano, perché non ero del loro ambiente, branco di cani, di...Ma tu non puoi capire, poverina! E tuo padre!... Ah! Guarda, non ho che te!” concluse di colpo, “non ho che te, mia povera piccolina”. La strinse tra le braccia. Dato che aveva il piccolo viso muto incollato contro le perle, non la vide sorridere. Disse: “Sei una brava ragazza, Antoinette”. Era l’attimo, l’istante impercettibile in cui si incrociavano sul cammino della vita: una stava per spiccare il volo, l’altra per sprofondare nell’ombra. Ma non lo sapevano. Eppure, Antoinette ripeté piano: “Povera mamma... “

Nel

sorriso trionfale della figlia, si attua il muto passaggio di testimone tra le due generazioni. Dopo anni di lotte e di battaglie, Rosine esce sconfitta dalla legge del tempo, mentre Antoinette si staglia superba e vittoriosa, già distante da quella madre che fino alla sera prima aveva considerato una nemica imbattibile.

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Ma - c’è una ma che aleggia sul finale del racconto. Ed è il destino di Antoinette.

Nell’amore filiale respinto, nell’amore materno negato, s’inscrive una ferita narcisistica che difficilmente si rimargina, a meno che la persona non faccia un lungo lavoro interiore volto a risanare le conseguenze emotive di questo vissuto di rifiuto. In assenza di un percorso di consapevolezza e di guarigione, il trionfo di Antoinette non può che essere transitorio, esattamente come lo è stato a suo tempo quello di Rosine. In balia del risentimento, del bisogno di affermazione, dell’anelito a vivere, il rischio è che Antoinette possa trasformarsi a sua volta in una nuova Rosine, perpetrando il dramma dell’amore negato di generazione in generazione. Sappiamo bene infatti quanto i fantasmi dei genitori si tramandino ai figli, a meno che i figli non si rivelino abbastanza forti e consapevoli da spezzare questa specie di maledizione in cui le colpe dei genitori ricadono sui figli, come in una sorta di eterna riattualizzazione dell’Edipo Re. La Némirovsky stessa, nonostante il suo talento indiscusso come scrittrice, fu innanzitutto una donna divorata dai suoi demoni infantili e familiari, dalla sua ricerca di un riscatto che però non può avvenire nel mondo esterno, nelle nuove relazioni o nel successo professionale, ma soltanto nella presa di contatto con le proprie parti ferite, nell’elaborazione intima e personale del proprio vissuto e finanche nel perdono, inteso non necessariamente come riconciliazione, ma come capacità di lasciare andare la rabbia e il dolore, per diventare finalmente adulti nel senso più nobile, equilibrato e liberatorio del termine.


Manuela Bassetti

IN FORMAZIONE

L’ETÀ INCERTA di Leslie Poles Hartley

“Il passato è una terra straniera; fanno le cose in modo diverso laggiù.” (incipit) “Sanguinare da molte ferite può essere più pericoloso che sanguinare da una sola, ma il dolore quando è meno localizzato è più facile da sopportare per la mente.”

Titolo origianale: The Go-Between Casa editrice italiana: Neri Pozza Anno di pubblicazione in Italia: 2020

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QUARTA DI COPERTINA Apparso per la prima volta nel 1953 a Londra, L’età incerta catturò subito l’attenzione della critica non soltanto per il suo formidabile incipit, tra i più riusciti nella storia della letteratura inglese, ma per la potenza della sua scrittura e l’abile intreccio dei suoi temi: la fine dell’età vittoriana, i turbamenti dell’adolescenza e le disillusioni dell’età adulta, il rapporto tra memoria e passato. È la storia di Leo Colston che, rovistando sul fondo di una scatola rossa, dove da ragazzo teneva i suoi colletti di Eton, si imbatte nel suo Diario per l’anno 1900 e si ritrova, così, catapultato nella terra straniera del suo passato. Precisamente a Brandham Hall, un’imponente dimora georgiana della rinomata famiglia dei Maudsley dove, nell’estate di quell’anno, l’ultimo del lungo regno della regina Vittoria, Leo, tredicenne, viene invitato dal suo compagno di classe, Marcus Maudsley. Di un anno più giovane, Marcus è un ragazzo precoce nella sua raffinatezza, in possesso di quel savoir-faire che ai giovani del suo rango concede sempre un’aria vincente. Ragazzo della middle class, a Brandham Hall Leo continua a nutrire per lui un naturale sentimento di estraneità. Sentimento che muta, invece, completamente di segno una volta che il giovane Colston si ritrova al cospetto di Marian Maudsley, sorella di Marcus e promessa sposa di Lord Trimingham, un uomo estremamente elegante coi suoi panama e i suoi vestiti di lino bianco. La giovane rampolla dei Maudsley ama, tuttavia, l’aitante Ted Burgess, il fattore di Brandham Hall, con cui intrattiene una relazione clandestina. Turbato e soggiogato dalla bellezza di Marian, Leo accetta di divenirne il personale Mercurio, il messaggero d’amore tra lei e il fattore, in un gioco pericoloso dall’esito fatalmente sciagurato. Romanzo che, con la sua originale trattazione dell’eterno conflitto tra ragioni del cuore e convenzioni sociali, appartiene di diritto al canone della narrativa inglese del secondo Novecento, nel 1970 L’età incerta fu portato sullo schermo da Joseph Losey, in una felice versione cinematografica interpretata da Julie Christie e Alan Bates.

TRATTEGGI D’AUTORE Leslie P. Hartley (1895 – 1972) fu un celebre scrittore inglese oltre che un affermato critico letterario. Tra le sue opere principali figurano romanzi, racconti, poesie e ghost stories. Leggendo la sua biografia, troviamo come curiosità gli studi di Storia Moderna presso il Balliol College di Oxford e il suo lungo soggiorno a Venezia nel periodo compreso tra le due guerre mondiali.

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L’ARTE DEMIURGICA DEL PASSATO Siamo

negli anni Cinquanta e Leo Colston è un solitario sessantenne, tutto dedito al suo lavoro di critico letterario. Una sera d’inverno, nel riordinare alcune scartoffie, ritrova per caso una vecchia scatola rossa, in cui sua madre, tanti anni prima, aveva riposto i piccoli tesori della sua infanzia: due ricci di mare scheletrici, due calamite ormai arrugginite, dei mozziconi di ceralacca, un piccolo lucchetto, alcuni negativi arrotolati a una bobina…

Le reliquie non erano esattamente sporche ma non erano nemmeno pulite; avevano

la patina del tempo: mentre le tenevo in mano per la prima volta dopo cinquant’anni, mi assalì il ricordo, tenue come la forza delle calamite, ma tuttavia chiaro, di quel che ciascuna aveva significato per me. Tra noi stava accadendo qualcosa: il piacere intimo del riconoscimento, il brivido quasi mistico di averle possedute un tempo: mi vergognavo di provare quelle sensazioni a sessant’anni suonati. Era come un appello al contrario: gli abitanti del passato pronunciavano il loro nome, e io rispondevo: “Presente!”

Ma proprio sul fondo di quella scatola, ecco apparire un oggetto della cui esistenza

Leo Colston sembra essersi completamente dimenticato: un vecchio diario dalla copertina di cuoio molle e rossastro, con i bordi dorati ormai tutti arricciati. Una sorta di ritrosia, quasi un meccanismo di difesa inconscio, spinge Leo a non voler toccare il diario, tantomeno aprirlo. Eppure, mentre il suo sguardo vaga sul resto della stanza, come a voler sfuggire al richiamo di quelle vecchie pagine, ecco che ogni altro oggetto che lo circonda sembra esalare il potere snervante del diario e trasmettere il suo messaggio di delusione e sconfitta. Alla fine, vinto dall’assalto del passato, che reclama a gran voce di essere riportato in vita, Leo si arrende, prende in mano il diario e lo apre. Scopre così che quegli eventi, riportati con una calligrafia giovane e chiara (ormai anch’essa perduta), risalgono al 1900, il primissimo anno del nuovo, ultimo secolo. E proprio di fronte a questa piccola scoperta, attorno a Leo si sprigiona tutto il potere del tempo, della memoria, di ciò che è sepolto e all’improvviso risorge, trasfigurato dalla luce accecante del ricordo.

Il primo anno del Novecento, con la sua cifra tonda, il suo essere simbolo spartiacque

di un prima e un dopo, suscita una seduzione elettrizzante sulla mente del neo adolescente Leo Colston. Come tanti ragazzini della sua età, egli è appassionato di quei fenomeni magici, imperscrutabili e superstiziosi che ammantano la realtà di sfumature misteriose e affascinanti: lo zodiaco, gli incantesimi, la magia bianca e la magia nera. A dodici anni, in procinto di compierne tredici, Leo abita infatti quella dimensione fugace e irripetibile dell’esistenza in cui si sono ormai abbandonati i giochi puerili dell’infanzia, ma si conserva ancora una visione immaginifica, creativa del mondo. E 60


all’interno di questa visione, l’anno 1900 incarna l’inizio di una nuova era, con tutto il suo carico di promesse, ambizioni e fulgide speranze.

L’anno 1900 aveva un’attrattiva quasi mistica per me; non vedevo l’ora che arrivasse.

“Novecento... Novecento...” salmodiavo rapito tra me e me; e mentre il vecchio secolo si avviava alla conclusione, cominciavo a domandarmi se sarei vissuto per vedere il successivo. Ne avevo motivo: ero stato malato e avevo una certa familiarità con l’idea della morte, ma più grande ancora era la paura di perdere qualcosa di infinitamente prezioso, l’alba dell’Età dell’Oro. Perché pensavo che questo sarebbe stato il nuovo secolo: il mondo intero avrebbe realizzato le speranze che nutrivo per me stesso.

Comincia così a delinearsi la vera protagonista di questo raffinatissimo romanzo: l’o-

scillazione dell’esistenza. Ogni aspetto del libro (il cui titolo originale è proprio The Go-Between, cioè L’intermediario) riporta una forma di “terra di mezzo”, un essere a ponte, un oscillare tra due poli, siano essi psichici, temporali o concreti. Il ruolo di Leo Colston come messaggero tra i due amanti; la continua alternanza tra i ricordi del passato e la materialità del presente; il cambio di secolo, portatore dell’uscita da un’epoca, quella vittoriana, e l’ingresso in un’altra, quella edoardiana; la vibrazione tra due età della vita: l’adolescenza, epoca di enigmi e di possibilità, e l’età adulta, irrimediabilmente infarcita delle conseguenze del passato, dell’(im)possibilità a riscattarci rispetto a ciò che ci è accaduto e ci ha plasmato. Il capolavoro letterario di Hartley è dunque innanzitutto un viaggio della memoria, una riflessione sul passato che pur passando non passa mai fino in fondo, resta vicino anche se lontano nel tempo, ci definisce come persone, ci struttura, ci modella simili a malleabili statuette di pongo. E ancora, è una denuncia delicata ma ferrea contro le convenzioni sociali del tempo, così asfissianti e feroci da distruggere la vita di chi prova a sfidarle; è la descrizione del percorso che tutti gli esseri umani, crescendo, sono chiamati a compiere, alla ricerca della propria identità e del proprio posto nel mondo; è la rappresentazione del confronto che ogni adolescente si trova a realizzare, sia rispetto ai suoi coetanei, sia rispetto al compatto e insondabile mondo degli adulti; è la presa di coscienza, a volte spaventosa, del potere delle emozioni nonché delle conseguenze delle nostre azioni.

Per il Natale dei suoi dodici anni, Leo Colston riceve in dono dalla madre un diario

dentro cui annotare i fatti più significativi della sua giovane vita. Accolto da Leo come un piccolo tesoro, esso comincia a riempirsi di date e di eventi riguardanti merende, gite, giochi e lazzi con i compagni di scuola. Insomma, quell’universo di minuscoli avvenimenti a cui ripensiamo, una volta diventati adulti, con un misto di tenerezza e superiorità, quasi un po’ stupiti nel riconoscere che c’è stato un periodo della nostra vita in cui tutti questi dettagli hanno avuto un’importanza vitale. Come il protagonista stesso racconta, il suo atteggiamento verso il diario era duplice

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e contraddittorio: ne ero estremamente orgoglioso e volevo che tutti lo vedessero e leggessero quello che avevo scritto, e allo stesso tempo tendevo alla segretezza e non volevo che nessuno lo vedesse. Passavo ore a valutare i pro e i contro delle due alternative. Pensavo all’accoglienza festante che avrebbe incontrato il diario mentre passava di mano in mano tra l’ammirazione generale. Pensavo all’accrescimento del mio prestigio, e pensavo che avrei potuto approfittare, discretamente ma efficacemente, della possibilità di pavoneggiarmi. Dall’altro lato c’era il piacere intimo di rimuginare sul diario in segreto, come un uccello che cova le sue uova, creandomi, perdendomi in rêverie zodiacali, riflettendo sul glorioso destino del ventesimo secolo, ebbro in modo quasi sensuale delle premonizioni di ciò che stava per accadermi. Quelle gioie erano legate alla segretezza; sarebbero svanite se le avessi rivelate o avessi tradito la loro fonte.

Nei pensieri del giovanissimo Leo, arricchiti da una piacevole dose di ironia e di in-

genuità, l’autore mette a fuoco l’ennesima oscillazione psicologica a cui è soggetto l’essere umano: la volontà di mostrare agli altri ciò che per noi è importante, ciò di cui andiamo fieri, ciò che ci rappresenta davvero, e dall’altro il fascino potente, voluttuoso, quasi demiurgico della segretezza. Questo bisogno di spazi esistenziali intimi, riservati, inaccessibili, che esplode proprio durante l’adolescenza (vedi il famoso cartello “vietato entrare!” appeso sulla porta della cameretta di milioni di adolescenti), in realtà perdura per tutta la vita e crea quello che possiamo chiamare, prendendo spunto da un’altra famosa opera letteraria, il nostro giardino segreto.

Ma quando il destino ci mette lo zampino, non c’è nulla da fare. E una mattina ap-

parentemente come tutte le altre, ecco che alcuni suoi compagni di scuola riescono a rubare il diario di Leo e leggerne il contenuto. Ciò che i ragazzini non possono perdonare al giovane Colston non è il fatto in sé di avere tenuto un diario segreto, bensì di avere usato parole troppe pretenziose, da primo della classe, come la parola espugnato per descrivere la sconfitta della squadra avversaria durante un incontro sportivo.

Incontro ultimo, definitivo e finale. Lambton House ESPUGNATO 2-1!!! McClintock ha segnato entrambi i goal!!!!

Da quel momento, il mansueto Leo Colston diventa il bersaglio preferito del branco,

ovvero una folla di scolari scalmanati che piombano su di lui, ogni giorno, nelle ore più disparate, per metterlo al tappeto e dargliene di santa ragione, urlando con aria trionfale: sei espugnato, Colston, sei espugnato? Di fronte a un tale decadimento nella feroce gerarchia scolastica (il ruolo del bullizzato è decisamente in fondo alla scala sociale), Leo sente di non poter né ricorrere alla forza fisica (sarebbe una partita persa in partenza) né all’aiuto degli adulti (fare la spia con i professori è assolutamente contrario al codice d’onore vigente tra i ragazzi), per-

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ciò non gli rimane che ricorrere all’astuzia, per scongiurare non tanto le botte quanto il terribile rischio di essere espugnato, emarginato, dal gruppo dei pari. Come un moderno Davide contro Golia, il piccolo Colston attinge al proprio ingegno e alla propria fantasia per sconfiggere l’avversario, preparando il terreno per quella che lui stesso definisce una vendetta poetica. Nell’isolamento della sua stanza, si ferisce un dito e, dopo aver intriso la penna di sangue, trascrive nelle pagine del diario due maledizioni inventate di sana pianta e indirizzate ai capibranco Jenkins e Strode. Il giorno seguente, ripone il diario nell’armadietto della scuola, avendo cura di lasciarlo volontariamente socchiuso, come per dimenticanza. E quale può essere l’effetto immediato di un simile progetto, se non un acuirsi dei tormenti da parte dei suoi persecutori, Jenkins e Strode in primis?

Nel giro di poche ore fui aggredito e le botte che presi quella volta furono le peggiori che mi fossero mai toccate. “Sei espugnato, Colston, sei espugnato?” Gridava Strode, mentre mi stava a cavallo nel mezzo della mischia. “Chi è il vendicatore adesso?” E mi premeva le dita sugli occhi.

Insomma, lì per lì, una colossale disfatta, tanto che per la prima volta da quando non

è più un bambino, Leo Colston versa lacrime amare sulla sua bruciante impopolarità. Ma proprio quando tutto sembra volgere al peggio, il destino - che, come un folletto, si diverte a stuzzicare e stupire gli esseri umani – fa una giravolta su se stesso e cambia nuovamente le carte in tavola. Quella notte stessa, durante la loro ennesima bravata, Jenkins e Strode cadono dal tetto, finendo entrambi in ospedale per una commozione cerebrale che li porta in fin di vita. In quei lunghi giorni di trepida attesa (guariranno? moriranno?), il malcapitato Colston diventa tutto d’un tratto una vera e propria celebrità, una specie di eroe che non soltanto è riuscito a sbaragliare i suoi persecutori, ma addirittura a liberare l’intera scuola dalle angherie dei due bulli, i quali torneranno docili come agnellini.

“Sei espugnato, Colston, sei espugnato?” No, non lo ero; avevo vinto e la mia vittoria,

per quanto ottenuta con metodi non ortodossi, rispondeva al principale requisito del nostro codice: avevo vinto da solo, o in ogni caso senza chiedere l’aiuto di un altro essere umano. Non c’era stato inganno.

Agli occhi di qualsiasi adulto, le circostanze in cui si è verificata la vittoria del giovane Leo non possono che ritenersi fortuite, ma in quel limbo di vita dove realtà e fantasia sono ancora sottilmente intrecciate, dove il magico e il superstizioso non hanno ancora perso del tutto la loro attrattiva, ecco che in quel limbo dell’età, il succedersi dei fatti assume un contorno molto più intrigante e il dodicenne Leo Colston non può esimersi dall’accarezzare l’idea - tanto irreale quanto seducente - di essere davvero in grado di piegare il corso degli eventi al suo volere.

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È a questo punto della storia che la trama del romanzo subisce una brusca deviazione, allontanando il protagonista (e il lettore) dalle vicissitudini, tutto sommato ordinarie, della Southdown Hill School per trasportarlo nella ricca dimora di Brandham Hall, un luogo che per Leo Colston diventerà il simbolo stesso di quel fascino, quel mistero, quel tripudio di aspettative che egli proietta nel nuovo secolo – e indirettamente nel proprio avvenire.

L’invito

a trascorrere l’estate presso Brandham Hall arriva da Marcus Maudsley, un compagno di scuola di Leo, probabilmente il più facoltoso e raffinato dell’istituto, il quale finora non aveva intrattenuto alcun rapporto particolare con il giovane Colston, ma che era rimasto colpito dalla sua crescente popolarità. Inebriato dalla voglia di evadere dalla quotidianità, Leo Colston accetta entusiasta l’invito di Marcus e benché tra i due ragazzi non nasca una vera amicizia, s’instaura tra loro un legame scherzoso, fatto di prese in giro, ricerca dei soprannomi più bizzarri e spregevoli, racconti e pettegolezzi - da parte di Marcus – sugli adulti che vanno e vengono da quella lussuosa dimora. Se la vita domestica di Leo era infatti scandita dalla semplicità e dall’affetto di sua madre, la vita di Brandham Hall è un susseguirsi caleidoscopico di colazioni sfarzose, sontuosi tè delle cinque, interminabili partite di cricket e spettacolari serate di musica e balli.

All’interno di questo vortice di adulti, gentili e raffinati ma emotivamente distanti, Leo e Markus si muovono in una dimensione tutta loro: a parte qualche parola di cortesia,


nessuno sembra interessarsi a quelli che appaiono ancora come due bambini. Ma tutto cambia nel momento stesso in cui appare sulla scena Marian, la sorella maggiore di Marcus. Soggiogato dalla sua bellezza conturbante, dalla sua impazienza schietta e sbarazzina, dai suoi modi aperti e affettuosi, Leo per la prima volta scopre il potere dell’attrazione.

Totalmente inesperto dell’universo dei sentimenti,

il protagonista avverte una tensione interiore che lo spinge a ricercare la compagnia di Marian, a gioire per ogni piccola attenzione che lei gli rivolge, a cercare in ogni modo di compiacerla, farla sorridere, rubarle uno sguardo di complicità, eppure non riesce a dare un nome a quello che prova, si muove a tentoni in questo nuovo regno fatto di emozioni per lui completamente nuove e misteriose. Dal canto suo, la bella Marian non ha un comportamento del tutto sincero: il suo interesse per il piccolo Colston nasce infatti dal suo bisogno che l’amichetto del fratello trasporti le sue missive a Ted Burgess, l’uomo di cui è segretamente innamorata, nonostante il fidanzamento ufficiale con Lord Trimingham, un conte elegante, colto, ma dal volto brutalmente sfigurato. Come all’interno di un famoso cliché, la fanciulla di straordinaria bellezza è promessa sposa di un uomo ricco ma fisicamente deturpato, mentre ama, ricambiata, un altro uomo, giovane, aitante ma di estrazione sociale inferiore (il fattore della tenuta). Eppure, il capolavoro di Hartley non si basa su una storia d’amore scontata e dall’esito prevedibilmente infausto, bensì trae spunto da questo nucleo letterario romantico per costituirsi come romanzo di crescita e formazione, come storia di un’educazione sentimentale che non può non precipitare in tragedia nel momento in cui il mondo adulto abdica ai suoi compiti di guida, lasciando l’adolescente da solo, in balia di emozioni che non può comprendere fino in fondo e, di conseguenza, di azioni che non può valutare né dominare. 66


Nella sua ingenuità, frutto anche di quei tempi (un

dodicenne di oggi sarebbe probabilmente più sveglio), Leo Colston non intuisce la vera natura che si cela dietro il rapporto tra Marian Maudsley e Ted Burgess. Nel trasportare in gran segreto le loro reciproche lettere, immedesimandosi nel ruolo dell’alato Mercurio e quindi giocando ancora una volta con una fantasia che è retaggio dell’infanzia da poco abbandonata, Leo non comprende la portata della sua missione, i rischi che un simile amore può comportare per le convenzioni sociali dell’epoca, così come non comprende quanto anche lui venga sempre più invischiato in questo triangolo sentimentale. Sì, perché se a un livello cognitivo Leo non riesce a cogliere il contenuto delle missive che porta nascoste dentro le tasche dei calzoni, la sua parte emotiva, appena sbocciata, si sente sempre più attratta dal mistero proibito che aleggia nell’aria. E allo stesso tempo, in chiave perfettamente freudiana, egli proietta sui due amanti le sue figure interiori: la figura materna, dolce protettiva candida, verso la quale ogni bambino prova amore e che costituisce il primo modello femminile su cui costruire l’immagine della donna ideale; la figura paterna, forte autorevole virile, in cui ogni bambino s’indentifica e che allo stesso tempo rappresenta una figura rivale nella battaglia per accaparrarsi l’amore della madre. In un perfetto esempio di triangolazione adolescenziale edipica, dunque, Leo Colston s’innamora platonicamente di Marian, mentre vede in Ted l’uomo che vorrebbe un giorno diventare, lo ammira e lo stima pur avvertendo nei suoi confronti una gelosia di cui non comprende fino in fondo l’origine.

Ted mi piaceva. Quando ero con lui la sua sempli-

ce presenza fisica gettava su di me un incantesimo e creava un ascendente che non ero in grado si spezzare. Sentivo che lui era l’uomo che volevo essere da grande. Allo stesso tempo ero invidioso di lui, invidioso del potere che esercitava su Marian, 67


anche se ne capivo poca la natura, invidioso di qualunque cosa che lui aveva e io no. Stava tra me e la mia immagine di lei. Nei miei pensieri volevo umiliarlo, e a volte lo facevo, ma mi identificavo anche con lui, e quindi non riuscivo a non pensare alla sua umiliazione senza provare dolore, perché non potevo ferire lui senza ferire me stesso.

Ecco, quindi, che con l’affacciarsi dell’adolescenza, caratterizzata dai suoi moti psichici

e dalle sue oscure pulsioni, così come dall’innata tendenza a specchiarsi in nuovi adulti attraverso i quali costruire la propria identità, il tragico gioco del romanzo si compie. Leo Colston perde sempre più interesse per i giochi con Marcus e si lascia sempre più coinvolgere dal suo ruolo di messaggero alato. Piano piano finisce per interrogarsi ossessivamente sulla relazione segreta tra Marian e Ted, sul ruolo di Lord Trimingham nei confronti di Marian, sulle molteplici espressioni che vede accendersi sul volto dei tre personaggi (felicità, collera, angoscia, trepidazione…) senza mai riuscire a dare a ciascuna di esse un vero significato. Egli prova a leggere e decifrare il mondo degli adulti attraverso i suoi occhi ancora acerbi, usando le sue conoscenze limitate, la sua visione della realtà semplice e ingenua, le sue esperienze infantili vissute tra le mura della scuola. E la verità del mondo degli adulti (con la sua complessità, la sua crudezza, le sue contraddizioni, i suoi giochi pericolosi e le sue forze magnetiche) lo travolgerà verso quella perdita dell’innocenza che segna per sempre la fine dell’epoca più fatata della vita.

Come tutto il resto era stato sminuito e aveva perso qualità! Questa relazione era di-

ventata il termine di paragone che faceva sembrare ridicole le altre cose. I suoi colori erano più brillanti, le sua voce più potente, il suo potere di attrazione infinitamente più grande. Era un parassita delle emozioni. Nient’altro poteva viverle accanto o avere un’esistenza indipendente, finché questa relazione era in vita. Aveva creato un deserto e non avrebbe permesso di esistere a niente e a nessun’altro: voleva attenzione solo per sé. Non la conoscevo con il nome di passione. Non capivo la natura del legame che teneva uniti i due, me ne capivo bene il meccanismo. Sapevo che cosa avrebbero sacrificato e abbandonato, sapevo fino a che punto si sarebbero spinti…sapevo che non si sarebbero fermati di fronte a nulla. Mi rendevo conto che possedevano qualcosa che io non potevo avere; non capivo che ne ero invidioso: qualunque cosa fosse quello che donavano l’uno all’altra, e non davano a me, io ne ero invidioso. Ma nonostante l’esperienza non potesse dirmi cosa fosse, il mio istinto cominciava a darmi qualche indizio.

L’epilogo della storia corre sempre più rapido. Man mano che il dodicenne Leo, come

una giovanissima luna satellite, gravita sempre più vicino al centro misterioso, vivido e pulsante della fatale passione tra Marian e Ted, nell’universo degli adulti comincia a sorgere qualche sospetto. Le lunghe assenze di Marian, la sua cortese freddezza verso Lord Trimingham, quell’andirivieni bisbigliato e sommesso… E data la rigida, im-

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placabile separazione delle classi sociali vigente a quel tempo, il solo vago sospetto, agli occhi della famiglia Maudsley, rappresenta già un principio di orrore a cui porre immediatamente rimedio. Lord Trimingham cerca di convincere Ted Burgess ad arruolarsi nell’esercito; Marian, sconvolta dalla notizia, è fuori di sé dalla rabbia e dal terrore; Ted, presagendo l’avvicinarsi delle nozze ufficiali di Marian, sta per abbandonare il suo habitat naturale, quello dei boschi e dei campi, per andare a fare la misera vita del soldato: agli occhi di Leo Colston tutto questo scompiglio è un errore del destino, perchè i suoi idoli non posso cadere, non possono diventare semplicemente degli esseri umani che soffrono. E allora che fare per salvare i suoi beniamini? Per riportare la serenità a Brandham Hall, quel luogo simbolo dei fasti del nuovo secolo e del suo stesso avvenire? Per Leo la risposta è ancora una volta da ricercare nella sua acerba esperienza di vita, nelle sue scarse conoscenze del mondo: se un incantesimo lo aveva salvato dalle an-


gherie dei compagni di scuola, un incantesimo può porre fine al legame tra Marian Maudsley e Ted Burgess – una sorta di oblio dei sentimenti. Marian sarà felice di sposare Lord Trimingham e Ted non desidererà più arruolarsi. Un incantesimo ripristinerà l’ordine delle cose: un incantesimo potente, oscuro, segreto, in grado di opporsi all’enorme forza attrattiva che Leo capisce tenere insieme i due amanti.

A questo punto della storia, tra il mondo adolescenziale di Leo Colston e quello adul-

to impersonificato dai personaggi di Brandham Hall, si genera la frattura definitiva e insanabile, quella stessa frattura che si collocherà anche dentro il giovane Leo e ne plasmerà l’intero destino. Nel cuore della notte, Leo fugge di nascosto dalla sua stanza per avventurarsi in campagna e sradicare una pianta di belladonna (la pianta ossimorica per eccellenza, simbolo insieme di bellezza e di morte). Tornato di soppiatto in camera con i fiori, le bacche e le radici dell’arbusto velenoso, allestisce una sorta di piccolo altare pagano, su cui porre i fatali ingredienti, e - in uno stato di esaltazione quasi febbrile – invoca l’incauto sortilegio. Infine, esausto, si addormenta profondamente. Al risveglio, per la prima volta da quando è arrivato a Brandham Hall, il cielo si presenta fosco e carico di pioggia: è la fine della torrida, azzurra estate del 1900. Ed è la fine delle fantasie infantili di Leo. Quel giorno stesso, che coincide con il tredicesimo compleanno del protagonista e per il quale è stata organizzata una festa, l’ennesima scomparsa della figlia fa esplodere il sospetto definitivo nella mente della signora Maudsley, la quale, trascinando


con sé - sotto una pioggia fitta e gelata - un terrorizzato Leo Colston, si precipita nella serra della tenuta, dove coglie in flagrante Marian e Ted. Gli ultimi ricordi che Leo conserva di quella spaventosa giornata sono proprio le urla incessanti di Mrs. Maudsley e la notizia che, una volta giunto a casa, Ted Burgess si è sparato con il suo fucile da caccia. Da quel momento, il diario - fedele testimone di quella lunga estate - resterà bianco. Nessun’altra pagina verrà mai più scritta.

Durante il crollo che seguì io ero come un treno che attraversava una serie di tunnel; a

volte alla luce, altre volte al buio, a volte ero consapevole di chi ero e di dov’ero, altre del tutto ignaro. […] Non recuperai la memoria di ciò che era accaduto a Brandham Hall dopo la rivelazione nella serra. Rimase uno spazio vuoto, come il mio ritorno a casa. Non ricordavo e non volevo farlo. Il dottore disse che per me sarebbe stato un bene liberarmi di quel peso, e mia madre provò a farmi ricordare, ma non le avrei raccontato niente neanche se avessi potuto. Quando si offrì di dirmi ciò che sapeva le gridai di smettere. “Ma tu non hai nulla di cui vergognarti” diceva, “assolutamente nulla, mio caro. In ogni caso, è finita.” Non le credevo, e la capacità di diffidare, così difficile da acquisire, è altrettanto difficile da sradicare. Non credevo che fosse tutto finito, e non credevo di non avere nulla di cui vergognarmi. Al contrario, mi sembrava di dovermi vergognare di tutto. Io li avevo traditi tutti. Ted, Marian… Ignoravo quali fossero state le conseguenze, e non desideravo saperlo; ne valutavo la gravità dall’intensità delle urla di Mrs. Maudsley, che erano gli ultimi suoni uditi dal mio orecchio mentre ero ancora cosciente. L’eco del suicidio di Ted mi arrivò privo di voce, come in sogno. Conoscevo il suo destino, e mi dispiaceva per lui. Mi ossessionava. […] Non pensai che mi avessero trattato male. Non ero in grado di accusare un adulto. Si erano manifestate un certo numero di circostanze e dovevo affrontarle, proprio come a scuola avevo dovuto affrontare la persecuzione di Jenkins e Strode. Quella volta avevo vinto. Stavolta non c’ero riuscito: ero stato io ad essere espugnato, e per sempre. A scuola un incantesimo mi aveva salvato, e anche a Brandham Hall ero ricorso a un incantesimo. L’incantesimo aveva funzionato: non potevo negarlo. Aveva spezzato il rapporto tra Ted e Marian. Aveva sradicato la belladonna, e l’aveva fatta esplodere proprio tra le braccia di Ted. Ma si era rivoltato contro di me. Nel distruggere la belladonna, avevo distrutto anche Ted, e forse me stesso. Mi vidi entrare nella vita di Ted, un ragazzo sconosciuto, un visitatore venuto da lontano, e mi sembra che da quel momento in poi egli potesse considerarsi spacciato. E anch’io… i nostri destini erano collegati, non potevo far del male a lui senza farlo a me stesso. […] Gradualmente la mia paura costante di udire qualcosa a proposito di Brandham Hall si trasformò in indifferenza: una progressiva atrofia della curiosità sulla gente, che presto si estese anche in altre direzioni. In effetti, in quasi tutte. Ma mi venne in aiuto un altro mondo, il mondo dei fatti. Accumulai fatti: fatti che esistevano indipenden71


temente da me, fatti a cui i miei desideri privati non potevano aggiungere o sottrarre nulla. Ben presto arrivai a considerare questi fatti come verità: le uniche verità che mi interessasse riconoscere. Pascal le avrebbe condannate perché erano verità senza amore: davano poco all’esperienza o all’immaginazione, ma a poco a poco presero il posto di entrambe. La vita dei fatti si dimostrò un sostituto non disprezzabile dei fatti della vita, tra cui l’amore stesso. Ted non mi aveva detto a parole di cosa si trattava, ma me l’aveva mostrato, e l’aveva pagato con la vita. Da allora, non ne avevo più sentito il desiderio.

Attraverso questo lungo monologo interiore, Leslie Hartley descrive magistralmente

l’impatto che alcuni eventi hanno sulla vita di ciascuno di noi, in particolare la prospettiva da cui leggiamo tali eventi e il significato che ad essi attribuiamo. L’allora tredicenne Leo Colston non si rende conto che l’errore originario non risiede nel suo comportamento, bensì in quello degli adulti, che per i loro scopi personali hanno trascinato un ragazzino dentro un gioco più grande di lui. Colui che era poco più che un bambino, era stato costretto a schiantarsi contro le verità della vita prima che avesse avuto il tempo di sviluppare le risorse psichiche ed emotive adatte a comprenderle e fronteggiarle. A Brandham Hall, un luogo scandito dalle etichette e dalle regole, le uniche regole che non gli erano state insegnate, le uniche necessarie per comprendere la partita che stava avvenendo sotto i suoi occhi, erano proprio le regole del cuore. E sprovvisto di una tale padronanza, Leo non aveva potuto far altro che ricorrere alla sua di conoscenza, seppur infantile: quella dell’immaginazione e della fantasia. Ma di fronte alla tragedia reale, l’illusione della fantasia non basta a contenere la portata dei fatti, non basta a tenere insieme tutti i pezzi della storia. E allora ecco che di fronte all’inspiegabile, emerge (potente, spietato e distruttore) il senso di colpa. Leo Colston incolpa se stesso, a un livello tra il cosciente e il subcosciente, di essere l’artefice della morte di Ted, per aver interferito nel suo legame con Marian. Ted, il suo alter ego adulto, il suo modello di riferimento che improvvisamente viene a mancare. Spazzato via dalle convezioni sociali, dall’amore impossibile, dalla violenza delle emozioni. Da un incantesimo finito male. In un contesto di perfetta immedesimazione tra adolescente e adulto, Leo Colston vede nella distruzione di Ted Burgess anche la sua. E per difendersi sia dal senso di colpa che dal pericolo mortale delle emozioni, Leo sceglie la strada neutrale, sterile dei fatti. Per il resto della sua vita, esclude ogni slancio vitale, ogni sentimento, ogni scintilla di passione: abbandona il sogno di fare lo scrittore per recensire le opere scritte da altri, rinuncia all’amore e in generale alle relazioni umane, spegne ogni impulso a desiderare qualcosa per sé, immergendosi unicamente nel lavoro come bolla asettica e protettiva.

Tuttavia, a sessant’anni suonati, ecco che una sera d’inverno la Vita bussa inaspet-

tatamente alla porta, per chiedere il conto delle scelte compiute. Dopo decenni di

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assoluta amnesia, le parole del diario riportano alla luce quel passato che sembrava sepolto, ma che invece ha condizionato per sempre le decisioni di Leo, come una bussola invisibile eppure implacabile. Sei espugnato, Colston, sei espugnato? Dalle trame dell’esistenza, dalla vertiginosa giostra degli uomini, dal rischio (terribile) di sentirti vivo, forse addirittura felice? Con il diario tra le mani, un Leo Colston ormai anziano è per la prima volta costretto a scrutare non i fatti esteriori, bensì quelli interiori. Davanti allo specchio. Dentro se stesso.

Il mio segreto - la spiegazione di ciò che sono – giace lì, nel diario. Mi prendo molto

sul serio, certo. Importa a qualcuno chi sono adesso e chi ero allora? Ma ogni uomo è importante per se stesso, prima o poi. […] Grazie alla mia tattica di sotterramento ero riuscito a scendere a patti con la vita, e l’accordo aveva funzionato, a condizione che non ci fosse riesumazione. Quindi, mi ero chiesto, le mie energie migliori erano state dedicate all’arte necrofora?

L’Io che siamo stati, ad un certo punto della vita, riaffiora per chiederci il resoconto

della strada percorsa. Per sapere quante promesse abbiamo mantenuto e quante ne 73


abbiamo tradite. Con quanto coraggio o con quanta codardia abbiamo vissuto. Con cosa siamo stati disposti a scendere a patti e con cosa no. Nel tempo della resa dei conti, il nostro piccolo Io vuole sapere se può essere fiero di noi, di ciò che siamo diventati, o se l’abbiamo deluso. E così il dodicenne Leo Colston, dopo cinquant’anni di assenza, si materializza nella stanza del sessantenne Leo Colston: sei espugnato, Colston, sei espugnato?

Se il mio piccolo io dodicenne, a cui ero molto affezio-

nato, fosse venuto a rimproverami (“Perché sei venuto su così sciocco? Perché hai passato tutto il tuo tempo in biblioteche polverose, catalogando i libri degli altri, invece di scrivere i tuoi?”) che cosa avrei potuto dirgli? Avrei dovuto avere una risposta pronta. “Bè, sei stato tu ad abbandonarmi, e ti dirò come. Sei volato troppo vicino al sole, e ti sei bruciato. Mi hai fatto diventare una creatura di cenere.” E lui avrebbe potuto replicare: “Ma tu hai avuto mezzo secolo per superarlo! Mezzo secolo, metà del ventesimo secolo, l’epoca gloriosa, l’età dell’oro che ti avevo affidato!” A quel punto avrei dovuto chiedere: “Il ventesimo secolo ha fatto molto meglio di me? Quando avrai lasciato questa stanza spenta e senza gioia (devo ammetterlo) e avrai preso l’ultimo autobus per la tua casa del passato, chiediti se hai trovato tutto così luminoso come lo immaginavi. Chiedi a te stesso se hai realizzato le tue speranze. Sei espugnato, Colston, sei espugnato, e altrettanto può dirsi del tuo secolo, il tuo prezioso secolo in cui avevi sperato tanto.” “Ma tu avresti dovuto tentare. Non avresti dovuto fuggire. Io non sono fuggito da Jenkins e Strode, li ho sconfitti. Tu hai fatto qualcosa?” “Questo” dissi “toccava a te farlo, e non l’hai fatto.” “Ma l’ho fatto: ho formulato un incantesimo.” “Perché un incantesimo, quando servivano maledizioni? Tu non volevi fare del male a Mrs. Maudsley o a sua figlia o a Ted Burgess o a Trimingham. Non ammettevi che ti avessero ferito, ti ostinavi a non considerarli nemici. Insistevi nel pensare che fossero angeli, anche se angeli ca74


duti. Se non riesci a pensare a loro in modo positivo, non pensarci affatto; per il tuo bene non pensare a loro – questa è stata la tua ultima richiesta e io l’ho rispettata. Forse non ha funzionato. C’era stata pochissima gentilezza in tutta la faccenda, te l’assicuro, e se tu l’avessi capito e avessi invocato le maledizioni, invece di implorarmi, con il tuo respiro morente, di pensare a loro con gentilezza…” “Prova adesso, prova adesso, non è troppo tardi.”

Nel dialogo serrato tra le due età della vita di Leo Colston, si erge titanico il senso del

disincanto, della disillusione che investe sia il Novecento, teatro in un pugno di anni di due sanguinose guerre mondiali, sia la giovinezza intesa come un luogo di speranze e di trepide attese. Ma è o non è troppo tardi per riscattarsi dal proprio passato? Dopo la lettura del diario, Leo torna nel villaggio di Brandham Hall per conoscere il destino dei suoi abitanti. E così scopre che, dopo il suicidio di Ted, Marian ha sposato Lord Trimingham. Marcus è morto in guerra, così come l’unico figlio di Marian. Il nipote, Edward, a conoscenza del passato della nonna, non riesce a perdonarle i pettegolezzi che gravitano attorno alla sua persona e soprattutto non riesce a liberarsi dall’irrazionale, subconscia convinzione di aver ereditato la maledizione della famiglia e di essere destinato alla rovina qualora dovesse lasciarsi andare alle emozioni. Così, esattamente come Leo Colston, vive ritirato dal mondo dei sentimenti e delle relazioni umane. Nel loro incontro dopo quasi mezzo secolo di distanza, una Marian ormai invecchiata e irriconoscibile chiede a Leo di raccontare al nipote come sono andate veramente le cose, quale amore sincero ci fosse tra lei e Ted Burgess, come nessuno dovrebbe avere paura di vivere a pieno la propria vita.

Ma Edward è giovane - è giovane - ha la stessa età che aveva Ted quando sei venuto a Brandham Hall. Ha tutta la vita davanti. Digli di liberarsi di questi sciocchi scrupoli. Ce lo devi, Leo, tu ce lo devi; e farà bene anche a te. Digli che non esiste incantesimo o maledizione eccetto un cuore che non ama.

Leo Colston, inizialmente riluttante all’idea di reincarnare il ruolo di Mercurio in quella

stessa famiglia che aveva così brutalmente segnato il suo destino, alla fine si lascia convincere e torna a fare da messaggero tra Marian e suo nipote. E così il cerchio si chiude, o meglio, si ripiega su se stesso. Nella visione esistenziale di Leslie Hartley, dagli echi del passato non ci si affranca mai. Gli scheletri non giacciono in polverosi armadi, bensì camminano accanto a noi. E noi siamo destinati a rimettere in scena, come all’interno di un diabolico copione, sempre lo stesso ruolo. Ancora e ancora e ancora. Sei espugnato, sei espugnato? Non c’è lettore a cui il capolavoro di Hartley non ponga questa domanda. Sei espugnato? A ciascun lettore l’ardua risposta.

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Manuela Bassetti

BRIVIDI D’AUTORE

L’OMBRA

E ALTRI OSCURI RACCONTI di Edith Nesbit

“Quando venne una mezza dozzina di loro a prelevare il vecchio dalla Casa Infestata, lo trovarono ostinatamente muto, ma che guaiva un po’, accovacciato contro la grata chiusa del caveau. Il padrone era muto come l’uomo. Da allora non ha mai più parlato.”

Casa editrice italiana: Caravaggio Editore Anno di pubblicazione in Italia: 2020

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QUARTA DI COPERTINA “Non tollerai di restare da sola con un’ombra, perché in qualsiasi momento avrei potuto vedere qualcosa che si rannicchiava e sprofondava e giaceva come una pozza nera, e poi lentamente trascinava se stessa nell’ombra più vicina.” In questa raccolta sono stati selezionati cinque sinistri racconti di Edith Nesbit, un’autrice molto ammirata da J.K. Rowling: L’ombra, La casa infestata, Il mistero della villetta bifamiliare, La storia d’amore dello zio Abraham e Numero 17. Conosciuta in prevalenza come scrittrice di romanzi e racconti per l’infanzia, Nesbit scrisse anche ventuno racconti del terrore, la maggior parte dei quali riuniti nelle due raccolte del 1893, Grim Tales e Something Wrong e successivamente in Fear (1910). Il libro è impreziosito dalle illustrazioni di Daniele Serra – una per ognuno dei cinque racconti di cui è composta la raccolta.

TRATTEGGI D’AUTORE Edith Nesbit (1858-1924) fu una poetessa e una scrittrice inglese. Oltre alla letteratura, si appassionò della vita politica del paese e fondò la Società Fabiana, contribuendo alla nascita del Labour Party. Tra le sue principali amicizie spiccavano personalità come George Bernard Shaw, Herbert Wells e Oscar Wilde, tutti assidui frequentatori del salotto letterario di cui Edith Nesbit era animatrice. Famosa in campo letterario soprattutto per i suoi romanzi per l’infanzia, le si riconosce una netovole capacità di scrittura, in cui gli elementi avventurosi e un po’ magici si mescolano con quelli realistici, e in cui spiccano sia il senso dell’umorismo che un’approfondida analisi psicologica dei personaggi e delle trame. I suoi racconti dell’orrore sono ricchi di suggestioni gotiche e soprannaturali. Ambientati in antiche dimore vittoriane, cimiteri crepuscolari e misteriose stanze d’albergo, infestati da ombre inquientanti, fantasmi sensuali e padroni di casa dalla furia omicida, rappresentano delle piccole perle per tutti coloro che amano le nebbiose e spettrali atmosfere alla Tim Burton.

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IL FASCINO DEL PERTURBANTE I cinque racconti di questa raccolta, il primo dei quali (L’ombra) dà il titolo al libro,

proiettano il lettore in un’Inghilterra vittoriana, dalla tinte notturne e conturbanti. Diligenze trainate da cavalli, il cui rumore degli zoccoli risuona dentro strade buie e caliginose, debolmente rischiarate dalla luce soffusa dei lampioni; festose serate danzanti in cui giovani fanciulle si riuniscono per raccontarsi storie di fantasmi; uomini dal temperamento schivo e solitario, adocchiati da spettri femminili languidamente in attesa. E poi candelabri d’argento cui sui danzano tremule fiammelle; lanterne che brillano nell’oscurità della notte; spicchi di luna dorata sopra un mare di tetti e comignoli; lo scalpiccio di passi che riecheggiano nel silenzio di un cimitero al tramonto. Insomma, un vero tripudio di pennellate gotiche.

Ma cosa attira tanti lettori verso questo tipo di storie dall’ambientazione crepuscolare e sottilmente inquietante?


Dal

punto di vista psicoanalitico, possiamo ritrovare in questo genere letterario il cosiddetto fenomeno del perturbante - nome che deriva dal titolo di un saggio di Sigmund Freud del 1919 (Das Unheimlich) e che successivamente è diventato un termine che rientra nello spettro emozionale del terrifico, dello spaventoso, di ciò che fa tremare. In particolare, perturbante è quell’esperienza che fa traballare le nostre certezze, che mette in discussione il modo abituale con cui interpretiamo il mondo, producendo un senso di spaesamento e d’inquietudine. Per comprendere a fondo questo stato affettivo, occorre rifarsi all’origine filologica del termine tedesco Heimlich, il quale sta a indicare ciò che è familiare, intimo, domestico, ma che ha anche un secondo significato, meno comune, che è quello di nascosto, tenuto segreto – ovvero, secondo l’accezione psicoanalitica freudiana, ciò che è rimosso. Il contrario di tale termine, Unheimlich (che Freud indica appunto come perturbante) sta dunque a indicare ciò che è estraneo, non familiare, ma anche ciò che non è più nascosto, ciò che è stato riportato alla luce, ciò che è stato svelato. L’Unheimlich in chiave psicologica è pertanto lo svelamento del rimosso, la rivelazione di ciò che era prima segreto. Non tutto quello che ci è estraneo e ignoto crea quel senso di paura e smarrimento che dà origine al sentimento del perturbante: perché ciò avvenga occorre appunto che l’evento perturbante evochi qualcosa che è familiare, ma che si trova da tempo sepolto al di sotto della nostra coscienza. Una sorta di familiare divenuto estraneo – un dualismo emotivo, un’ambivalenza psichica. È infatti proprio la riemersione di parti rimosse, la riaccensione di sentimenti dimenticati che produce la vertigine del perturbante, quel senso di mancamento, di perdita dell’equilibrio.

Come Freud spiega molto bene nel suo saggio del 1919, le arti letterarie e figurati-

ve possono essere fonte di stati d’animo perturbanti di grande intensità, soprattutto quando contengono elementi che richiamano il soprannaturale, come spesso avviene nelle opere che appartengono al genere horror. Che si tratti di libri o di film, il genere horror porta lo spettatore a contatto con aspetti che abitano nel suo subconscio, comprese le sue paure ataviche, i suoi scheletri nell’armadio, le sue angosce infantili. Tutto questo bagaglio psichico ha un aspetto di familiarità, in quanto si tratta di emozioni che la persona ha sperimentato in una fase precoce della propria vita, ma che poi crescendo ha spostato nel regno dell’inconscio, dove abitano i nostri fantasmi, i nostri mostri, il lupo cattivo che se non ci addormentiamo viene di notte a portarci via. E allora, vedere scritto nella pagine di un libro o proiettato su uno schermo ciò che ci terrorizza a un livello profondo e inconscio, fa sì che riconosciamo nell’opera horror proprio quello svelamento del rimosso che genera il senso del perturbante, il quale produce a sua volta una sorta di piccolo trauma emotivo.

Il

piacere che molti lettori o cinefili ricavano dal genere orrorifico si fonda su una tendenza psicologica molto ben illustrata dalla psicoanalisi: la coazione a ripetere. La

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nostra psiche tende sempre a rimettere in scena gli eventi, le emozioni, le tracce relazionali del passato, trasferendole nel presente, tanto che molte delle nostre esperienze adulte altro non sono che una ripetizione inconscia e coatta delle nostre esperienze infantili. In questo continuo riemergere del passato si gioca anche la tendenza a rivivere i traumi emotivi, i quali vengono continuamente rimessi in atto come a voler cercare (illusoriamente) la soluzione nel tempo presente di qualcosa che è accaduto nel passato. Da ciò deriva, almeno in parte, l’attrazione che il genere horror suscita in molte persone, in quanto, producendo quel senso d’angoscia che deriva dal perturbante, determina la riattivazione di quei piccoli traumi emotivi che chiedono di essere riportati alla luce e almeno temporaneamente esorcizzati.

Il

perturbante (il rimosso che riemerge) disturba, ma allo stesso tempo affascina. Esso è quello che Freud definisce l’accesso all’antica patria, alla nostra parte più remota, profonda, ancestrale. Se da un lato pone l’accento su aspetti terrifici e angosciosi (verso i quali ciascuno di noi tenta di difendersi attraverso la costruzione di barriere psichiche come la rimozione o la negazione), dall’altro il perturbante consente di attribuire nuovi significati proprio a quelle parti più primitive, pulsionali e arcaiche che vengono riportate alla luce e che dunque possono essere almeno parzialmente comprese ed elaborate. Da questo punto di vista, ci si può spingere ad affermare che l’avvicinamento alle arti contenenti elementi perturbanti può avere non soltanto un ruolo catartico ma in alcuni casi persino terapeutico. Non è un caso che anche in psicoterapia i pazienti non di rado ricorrano ad espedienti artistici, come la scrittura o la pittura, per creare delle opere raffiguranti i propri demoni interiori, portando sulla carta o sulla tela il sentimento del 80


perturbante e dell’orrorifico.

Un

tema molto presente nello spettro del perturbante è il tema del doppio, spesso declinato nella forma del sosia o del gemello (chi non ricorda l’inquietante apparizione delle due gemelle di Shining, film cult di Stanley Kubrick?) In chiave psicoanalitica, il doppio rappresenta quella parte di noi che giace al di fuori di noi, ovvero al di fuori della nostra coscienza. Il doppio è lo svelamento della presenza di un altro Io, di un altro ego che appartiene al regno del rimosso. E riconoscere la presenza di questo misterioso coinquilino ha un effetto generalmente contrastante, spaventa e attrae allo stesso tempo, facendo così la fortuna di molte storie appartenenti al genere horror o paranormale. Ma il doppio non è soltanto un doppio in carne ed ossa, come avviene nel caso del sosia o del gemello: il doppio può essere rappresentato anche dalla nostra immagine riflessa nello specchio o dalla nostra ombra proiettata sull’asfalto. L’ombra in particolare (di cui ricordiamo il celebre racconto di Edith Nesbit) è una perfetta metafora delle nostre parti oscure, segrete, rimosse. L’ombra siamo noi, ma non siamo noi: è un noi al di fuori di noi, un noi altro da noi. Simbolo di ciò che resta isolato rispetto alla nostra coscienza, di ciò che è diviso dall’Io, essa contiene paure, angosce, memorie infantili primitive estromesse dalla morale adulta e dalle convenzioni sociali (come l’innamoramento edipico verso i genitori o la rivalità omicida verso il fratellino appena arrivato in famiglia). Eppure, l’ombra non è soltanto la botola segreta sotto la quale strisciano i nostri serpenti interiori, bensì è anche uno scrigno intimo, in cui sono custoditi elementi preziosi, quali la creatività, la fantasia, l’immaginazione. Nell’ombra non abita soltanto il lupo cattivo delle fiabe, ma anche il nostro bambino interiore, la nostra parte più emozionale, sensi81


bile e giocosa. Tale luogo psichico rappresenta pertanto una risorsa per l’Io, per la nostra componente più razionale e matura. Attraverso l’integrazione di aspetti creativi e adulti, di immaginazione e logica, noi possiamo infatti costruire un modello di vita più ricco e più pieno.

Tutti noi possediamo un’ombra che ci segue, passo dopo passo, lungo la strada dell’e-

sistenza. Ciò che fa la differenza è il modo in cui ci rapportiamo con la nostra ombra, il significato che le attribuiamo, quanto siamo in grado di accettarla e incorporarla nel nostro universo psichico. Se la rifiutiamo, se cerchiamo di tenerla a distanza, se cerchiamo di fuggirla correndo via da essa, non solo non riusciamo a liberarcene in quanto proiezione di noi, ma la rendiamo una sorta di nemica contro cui combattere inutilmente ad armi impari. Se viceversa impariamo a guardarla come una risorsa, come un luogo misterioso, sì terra di fantasmi spaventosi ma anche di gemme preziose, possiamo convivere con essa, con il nostro altro Io, con il nostro doppio - oscuro, pulsionale, istintivo, ma anche straordinariamente vitale e benefico.

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PRISMA FILOSOFICO

A cura di Edoardo Gagliardi

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Edoardo Gagliardi

IL CINEMA DELLE OMBRE VIAGGIO NEL BIANCO E NERO “Spazio privo di luce per interposizione di un corpo opaco”. Così esplica il termine

ombra il dizionario etimologico della lingua italiana. Per fare in modo che ci sia un ombra è necessario quindi che vi sia un corpo che si frappone alla luce. Per analogia si potrebbe ipotizzare che le ombre all’interno dell’essere umano siano provocate da un qualcosa, un corpo (seppure immateriale) che si colloca tra la fonte di luce e la vista interna.

Nell’immaginario

collettivo le ombre sono state, e vengono tutt’ora, evocate dalle arti. Letteratura, pittura e cinema hanno attinto a piene mani al mondo dell’interiorità, alle paure umane, per far apparire le ombre. Soprattutto il cinema, che di fatto è un’arte delle ombre, mette l’individuo a confronto con le sue ombre interiori.

Il bianco e il nero del cinema dei primordi giocava con la luce per creare le ombre, quelle che avrebbero reso peculiare il cinema di Georges Méliès; un cinema che è al tempo stesso una rievocazione del sogno (Le voyage dans la Lune, 1902) impossibile di un approdo extra-terrestre.

Ben presto ci si rese conto che il cinema poteva fare molto di più con quelle ombre, ovvero le poteva creare per disturbare, spaventare, evocare. Così il Nosferatu (Nosferatu, eine Symphonie des Grauens, 1922), di Friedrich Wilhelm Murnau, presenta l’ombra del vampiro che diventa icona della paura. Nosferatu sembra perdere le ca-

Ombra, in https://www.etimo.it/?term=ombra

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ratteristiche di essere simil-umano per diventare ombra, non già di sé stesso, ma dello spettatore. La parte oscura del cinema che esce dallo schermo e invade la vita; ma essa non fa altro che estrapolare dalla vita dell’individuo quell’ombra che è già presente nelle profondità dell’animo. Se così non fosse il cinema non potrebbe essere quella macchina orrorifica che, orgogliosamente, si vanta di essere.

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Nel cinema della paura l’ombra diviene espressione, cifra stilistica. Non solo spaventa

ma seduce: il volto vellutato dell’attrice, seminascosto dal gioco di luci, che guarda in macchina e ammicca al lato nascosto dello spettatore. Perché la seduzione fa appello alle forze oscure dell’interiorità, le chiama fuori e le porta nel cono d’ombra al riparo dalla luce. Non è un caso che la notte sia il momento dell’ombra per eccellenza. Quando il sole (simbolo di vita) scompare e arriva il buio. Ma per vedere è necessaria una qualche forma di luce, un appiglio; accade così che l’incontro della luce e del buio crei l’ombra.


Dracula (1931) di Tod Browning è il film ombra per un duplice motivo: 1) presenta la figura del vampiro, elemento simbolo dell’oscurità (infatti odia la luce); 2) pur odiando la luce, Dracula esiste solo grazie ad essa che crea l’ombra nell’incontro con la sua parte corporale. Il cinema non può sbarazzarsi della luce, della vita, ma necessita di essa per creare le ombre con cui spaventa lo spettatore.

L’ombra è anche la metà oscura, quella extra-corporale che arriva da pianeti lontanis-

simi (o forse, semplicemente, interiori). Ne L’invasione degli ultracorpi (1956) di Don Siegel, delle presenze non meglio specificate copiano perfettamente gli esseri umani, con la differenza di essere estremamente più aggressive di questi ultimi. In questo caso il doppio rappresenta l’ombra nascosta degli esseri umani, paradossalmente creduto essere di provenienza aliena (estranea), ma in realtà perfetta copia, un doppio difficilmente distinguibile, che tuttavia scatena la sua violenza proprio contro gli uomini.

Le ombre però possono non solo essere copie, esse possono addirittura essere tra gli

umani, esattamente come loro. Ne La notte dei morti viventi (1968), l’ombra nascosta dell’individuo si esprime nell’apparente calma di un mondo popolato solo da esseri umani. Ma questi sono proprio i nemici, quelli che una volta avevano le fattezze di un Dracula, un Nosferatu o di un ultra-corpo, e oggi invece sono la persona della porta accanto. Le ombre dis-umane che ritornano, i morti che non sono morti ma vivono per nutrirsi delle forze vitali degli esseri umani. Una metafora della rinascita, dove si annulla il confine tra la normalità e l’a-normalità. Se non fosse per i segni esteriori del corpo, difficilmente si potrebbe distinguere uno zombi da un essere umano. Ma lo zombi è forse già liberato dalle sue ombre interiori, le ha già proiettate al di fuori; mentre l’essere umano ne è ancora prigioniero. La morale in tal senso è lo spartiacque che separa il mondo dei vivi e quello dei non-vivi, ma risvegliati. Anche qui la luce diventa fondamentale: a volte protegge l’umano dall’inumano, ma resta necessaria per vedere il lato oscuro dell’ombra che si allunga dallo schermo alle profondità della mente dello spettatore.

Il filosofo Soren Kierkegaard ha speso la sua esistenza cercando di spiegare che la fede è un salto nell’abisso. Si è capaci di credere solo se si è pronti a saltare nelle profondità dell’oscuro, illuminato solo dalla luce tenue delle possibilità della fede. L’abisso è il regno delle ombre, così come lo è il cinema: sagome in movimento che invitano a raggiungerle. Ma lo si può fare soltanto saltando nell’abisso. Kierkegaard, come in un film, portò alla luce le sue ombre attraverso i numerosi personaggi che seppe magistralmente tracciare con la sua penna, caratteristica questa non di poco conto, visto che la lista dei filosofi che sanno pensare bene e sanno scrivere

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non è molto ricca. Se si mettesse in scena la vita del filosofo danese lo si dovrebbe fare in un film di ombre, quelle che affollavano la sua interiorità. Nel gioco di ombre kierkegaardiane non è facile comprendere quale di queste abbia priorità rispette alle altre. Come il cinema, così la vita del filosofo è una rassegna di ombre, realizzate grazie alla luce che entra dal piccolo spiraglio della fede. Lo spettatore che guarda un film deve avere fede in ciò che vede, un patto non scritto con lo schermo e con le proprie ombre interiori. Fino a che punto è disposto a farlo? Fino a che punto è pronto a saltare nell’abisso?

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Edoardo Gagliardi e Manuela Bassetti

APPENDICE FILOSOFICA PER SAPERNE DI PIÙ George Méliès fu un illusionista e un prestigiatore parigino. Dopo aver assistito all’in-

novativo spettacolo offerto dal cinematografo dei fratelli Lumiere, Méliès restò a tal punto affascinato dalle potenzialità creative della nuova arte nascente - il cinema - che decise di trasformare il suo teatro (il teatro Robert-Houdin) in un luogo di proiezione di cortometraggi di sua produzione. Per la realizzazione dei suoi film, Méliès faceva ricorso proprio alle sue abilità in campo illusionistico, in particolare all’uso delle lanterne magiche e delle ombre cinesi. Non è certo un caso che le sue prime opere in campo cinematografico furono i cosiddetti film di magia, brevi filmati in cui venivano rappresentate sparizioni di oggetti o di persone e altri trucchi da prestigiatore. Dotato di una mente fantasiosa, eccentrica e rivoluzionaria, Méliès si cimentò nella produzione di un numero sempre maggiore di cortometraggi, di cui inizialmente era sia produttore che sceneggiatore, scenografo, attore e regista. Al culmine della sua carriera, il suo studio cinematografico arrivò a produrre migliaia di film, la cui fama approdò anche oltre oceano, in particolare negli Stati Uniti d’America. Ai film comici e di magia, si aggiunsero ben presto commedie sentimentali e film a sfondo sociale. Inoltre, Méliès fu il primo regista a realizzare filmati a scopo pubblicitario commissionatigli da alcune aziende francesi. Il suo film più famoso in assoluto resta tuttavia Le Voyage dans la Lune, il quale si ispira sia al romanzo Dalla Terra alla Luna di Jules Werne che al romanzo I primi uomini sulla Luna di H. G. Wells, e che è tutt’oggi considerato il primo film di fantascienza

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della storia del cinema. Come per la maggior parte delle opere di Méliès, in Le Voyage dans la Lune il tema del viaggio lunare è caratterizzato da una vena surreale, grottesca e ironica, atta a stemperare la solennità dell’avventura. A salire sul razzo che li porterà nella spazio è infatti un gruppetto di buffi astronomi, i quali, dopo essersi schiantati sulla faccia della Luna, vengono fatti prigionieri dai Seleniti e riescono a tornare sulla Terra soltanto dopo una lunga, rocambolesca e comica fuga. Benché con l’avanzare del ventesimo secolo il cinema di Méliès finì per essere giudicato troppo rudimentale e quindi abbandonato, i suoi film fantascientifici e fantasmagorici restano un’icona della storia del cinema e continuano ad affascinarci per la loro capacità di mettere in scena mondi magici e irreali proprio grazie alla trasposizione in campo cinematografico delle tecniche e dei trucchi che fino a pochi anni prima appartenevano unicamente al mondo del teatro, dell’illusionismo e del gioco delle ombre.


Nosferatu

il vampiro, del regista tedesco Friedrich Wilhelm Murnau, è considerato uno dei primi, se non addirittura il primo, vero film horror. Murnau, che allora era un giovane regista, fondò la sua opera cinematografica sull’esperienza del perturbante – i suoi film avevano lo scopo d’inquietare lo spettatore, di metterlo a confronto con le proprie pulsioni inconsce e le proprie paure ataviche.


Per stimolare nel pubblico sentimenti di angoscia e di terrore, Murnau ricorre ampiamente al gioco del chiaroscuro e al dualismo tra luce ed ombra. Si può infatti affermare che il suo universo artistico sia innanzitutto un universo popolato da ombre, le quali - stagliandosi sullo schermo - diventano metafora delle ombre e delle oscurità che albergano dentro il mondo interiore di ciascuno spettatore. Il suo capolavoro, Nosferatu il vampiro, porta sullo schermo una rivisitazione del celebre romanzo di Bram Stoker (l’intramontabile Dracula): il giovane e ingenuo Hutter, che lavora presso un’agenzia immobiliare in Germania, si reca fino in Transilvania, presso il castello del conte Orlok, per far firmare a quest’ultimo un atto di compravendita riguardante una casa sita nella stessa città tedesca di Hutter. Una volta giunto nella terra dei Carpazi, il giovane agente immobiliare viene subito a contatto con le superstizioni che aleggiano tra la gente del posto – si vocifera infatti che il castello del conte Orlok sia dominato da forze oscure e malevole. Intenzionato a portare a termine il lucroso affare, Hutter non si lascia scoraggiare dalle dicerie popolari e si addentra nella dimora del suo misterioso cliente. Soltanto quando sarà troppo tardi, egli si renderà conto che le voci popolari non mentivano e che il suo pallido acquirente altri non è se non Nosferatu, un terribile vampiro assetato di sangue, capace di spargere il morbo della peste ovunque si rechi. Per mettere in risalto la natura oscura, occulta e inumana del vampiro, il regista si avvale soprattutto della tecnica del controluce. In particolare, nelle scene più cruente e ricche di simbolismo, Murnau non mostra Nosferatu nella sua forma corporea, carnale, riprendendo direttamente l’attore che lo impersona, bensì ne mostra unicamente l’ombra proiettata sulla parete della stanza. Questo sdoppiamento tra vampiro e la sua ombra colpisce l’inconscio dello spettatore, mettendo in risalto due aspetti esistenziali molto significativi. In primo luogo, enfatizza la presenza di una realtà altra rispetto alla realtà luminosa della ragione e della logica – una realtà più misteriosa, onirica, irrazionale, arcana. In secondo luogo, accende i riflettori sulla parte ombra la parte oscura e pulsionale – che vive dentro la psiche dell’essere umano. Nosferatu diventa dunque la metafora del mostro che sonnecchia in ciascuno di noi, delle nostre componenti più primitive e irrazionali, così come il terrore crescente di Hutter diventa simbolo del nostro sgomento, della nostra paura nei confronti di ciò che giace al di sotto della nostra coscienza. Come esempio di espressionismo tedesco, il film di Murnau è stato interpretato anche come un capolavoro visionario. Nosferatu è un personaggio mostruoso, animalesco, capace di esportare la peste mortale in tutta Europa. Il suo essere portatore di una malattia fatale diventa così la metafora di ciò che presto dilagherà in tutti i paesi europei: la tragedia della Seconda guerra mondiale e il nazismo di Adolf Hitler. In base a questa lettura del film, il cinema si fa arte nel senso più alto del termine - arte capace di captare ciò che si muove nei sotterranei della società e della politica, anticipando gli eventi della Storia e mettendone in risalto tutti i chiaroscuro.

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Dracula di Tod Browning è un film indimenticabile, quello che oggi potremmo defi-

nire un colossal, almeno secondo i parametri dell’epoca in cui venne realizzato. Il celebre vampiro di Bram Stoker è interpretato da Bela Lugosi, il quale ha regalato al suo personaggio lo status di leggenda. Di origine ungherese, l’attore conferisce a Dracula un atteggiamento teatrale, elegante, sensuale e lugubre al tempo stesso. Il suo accento europeo (era appena nato il cinema sonoro) aumenta il fascino arcano e aristocratico del Conte sanguinario, mentre il gioco di luce ed ombre che guizzano davanti al volto tenebroso di Bela Lugosi contribuisce a mettere in risalto la duplice natura del vampiro: creatura seducente, erotica, irresistibile e creatura macabra, demoniaca, fatale. Nel film di Tod Browning, la notte e le sue creature spettrali diventano dunque metafora di quella seduzione arcana e primordiale che sottende al sentimento del perturbante – quel misto d’inquietudine e di attrazione che si prova dinnanzi a ciò che è oscuro, cupo, irrazionale. In altre parole, dinnanzi a ciò che alberga nel regno dell’inconscio, ciò che è altro rispetto al nostro Io cosciente.

L’invasione degli ultracorpi è considerato un vero e proprio film cult del genere fantascientifico e viene ancora oggi acclamato come uno dei capolavori del cinema degli anni Cinquanta. Nella cittadina americana di Santa Mira accadono fatti terrificanti: creature di origine aliena, dopo essere cresciute all’interno di giganteschi baccelli, assumono le fattezze degli abitanti della città – delle perfette copie degli esseri umani e tuttavia disumane, in quanto prive di qualsiasi sentimento, incapaci di provare emozioni ed empatia. Dopo aver assorbito, nel cuore della notte, tutte le informazioni presenti nel cervello degli originali, le copie extraterrestri uccidono gli umani e ne prendono subdolamente il posto, finché la grande maggioranza degli abitanti di Santa Mira non è sostituita dagli ultracorpi. Soltanto l’intervento del dottor Miles, inizialmente creduto pazzo dalle autorità a cui si è appellato, riuscirà a porre fine alla terribile minaccia aliena. Prodotto con una budget limitatissimo, il film di Don Siegel contiene pochissimi effetti speciali, mentre la sua regia (scarna ed essenziale) sfrutta il gioco del non visto, delle ombre proiettate sulle pareti per evocare il senso di angoscia nello spettatore. Non soltanto. Sfruttando il dualismo tra luce e buio, tra giorno e notte, il regista crea un effetto agghiacciante sulla psiche del pubblico: nell’oscurità più assoluta avviene lo scambio tra copie aliene e originali umani, mentre alla vivida luce del giorno la sostituzione è già avvenuta, l’orrore è già tra gli abitanti di Santa Mira (e nella mente dello spettatore). La luce del giorno - spietata, nuda, rivelatrice - accende i riflettori su una delle paure più ancestrali dell’umanità: il terrore dell’altro, non necessariamente l’altro che è al fuori di noi, quanto l’altro che è dentro di noi. Come Freud sosteneva, il nostro Io non è padrone in casa sua, ma deve condividere il proprio spazio psichico con un coinquilino misterioso, oscuro, primitivo – una perfetta

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copia di noi stessi, eppure irrazionale, pulsionale, insondabile. Un altro che ci appare estraneo, alieno, esattamente come gli ultracorpi sconosciuti e inconoscibili di Don Siegel. Un altro che si manifesta proprio di notte, nelle nostra dimensione onirica e nei nostri incubi più segreti, e che talvolta si sostituisce a noi anche alla vivida luce del giorno, prendendo il sopravvento sulla nostra razionalità, rendendoci alieni a noi stessi, lasciandoci sgomenti e spaesati, proprio come lo era il dottor Miles di fronte all’impossibilità di riconoscere i suoi amici in quei corpi privi di anima. E tuttavia, se gli ultracorpi extraterrestri potevano essere cacciati dalla Terra, il nostro altro interiore non può essere né bandito né sconfitto. Per questo le ombre di Don Siegel spaventano e affascinano lo spettatore: lo costringono a guardare in faccia il suo doppio, non più seminascosto dalla sfumata, dolce luce del crepuscolo, bensì chiaramente visibile sotto la fredda e feroce luce del mezzogiorno.


La notte dei morti viventi di George Romero è uno dei grandi classici del cinema horror degli anni Sessanta. A causa delle radiazioni emesse da una sonda spaziale di ritorno da Venere, i defunti resuscitano ed escono dalle loro tombe, trasformandosi in zombie privi di ricordi e sentimenti, il cui unico impulso è quello di aggredire gli esseri umani ancora vivi per poi cibarsi della loro carne. Chiunque venga ferito o ucciso da una di queste creature infernali è a sua volta destinato a diventare un morto vivente, un non-morto affamato di membra umane, ancora calde di vita. Immerso in un bianco e nero essenziale, e per questo ancora più raggelante, il film di Romero pone l’accento su ciò che sembrava sepolto per sempre e che invece, inesorabilmente, ritorna: il nostro passato?, i nostri fantasmi?, i nostri scheletri nell’armadio? Oppure le nostre paure, anche quelle che credevamo sconfitte? Chi sono davvero gli zombie di Romero: i mostri nascosti sotto il letto?, il lupo cattivo delle fiabe?


Ninna nanna, ninna oh, questo bimbo a chi lo do? Ninna nanna, ninna oh, questo bimbo a chi lo do? Se lo do alla Befana me lo tiene una settimana. Se lo do al Bove Nero. me lo tiene un anno intero. Se lo do al Lupo Bianco me lo tiene tanto, tanto. Sembra ancora di sentirla, questa voce femminile che canticchia nella notte e che ci inchioda sotto le coperte, terrorizzati dall’arrivo delle Befana, del Bove Nero e del Lupo Bianco che ci portano via, lontano dalla nostra casa, dai nostri genitori, dal nostro luogo sicuro. Sono forse loro gli zombi che resuscitano? Le nostre angosce infantili la paura dell’abbondono, della solitudine, della morte - angosce che seppelliamo in fondo a un cassetto, ma che non passano mai, nemmeno quando siamo adulti, perché sono le eterne paure dell’uomo dinnanzi all’ignoto e al dolore? Qualunque cosa siano gli zombie di Romero, è peculiare che il loro peggior attacco avvenga nel cuore della notte, in un mondo popolato di ombre e di tenebre: un mondo che è metafora del nostro inconscio, dove la luce della ragione arriva solo sottoforma di pallidissimi raggi lunari, i quali illuminano debolmente e fugacemente anfratti bui e inaccessibili. Ed è proprio in questo luogo psichico di tenebra e di mistero che l’assedio delle pulsioni, delle memorie ancestrali, dell’irrazionale nei confronti del nostro Io cosciente diventa più intenso e feroce. Il Cinema, dunque, si fa Arte e l’Arte si fa rivelazione e svelamento: emerge il perturbante, il cuore dello spettatore freme e si agghiaccia, ciò che giaceva sepolto riemerge in tutta la sua potenza. Nel buio di una sala cinematografica, per un attimo, l’insondabile diventa visibile. Pura magia, pura follia. Soren Kierkegaard (1813 - 1855), filosofo danese, è tutt’oggi considerato uno dei padri dell'esistenzialismo. In particolare, contribuì a sganciare la filosofia dall'impianto rigidamente logico-razionalista derivante dal pensiero illuminista ed hegeliano. Con Kierkegaard l'interiorità umana iniziò a giocare un ruolo fondamentale nella formazione dell'individuo e tale prospettiva filosofica fu strettamente connessa con le vicende umane e personali del filosofo. Nella sua vita privata, fu fautore di una religiosità fatta di profonda fede personale, lontana dalle apparenze di una sterile religione dei rituali. Va ricordato inoltre per essere uno dei pochi filosofi "letterati": non di rado nelle sue opere si scorge una capacità di scrittura non comune. Famosi sono soprattutto i suoi

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molteplici personaggi, tutti aspetti diversi della sua poliedrica personalità. Descritto nell’articolo precedente come un filosofo delle ombre, in effetti Kierkegaard ebbe un’esistenza caratterizzata dalla presenza di numerose tenebre, rischiarate unicamente dalla luce delle fede, intesa non come indagine razionale, bensì come un vero e proprio salto nell’abisso, l’unico in grado di restituire un bagliore nell’oscurità della vita. Tra le ombre che incombettero sul filosofo, possiamo citare la cupa figura paterna, che educò i suoi sette figli (di cui Soren era il più piccolo) secondo una visione religiosa rigida e pessimista, basata non tanto sulla speranza, quanto sul senso del peccato. Lacerato tra i richiami e i piaceri della vita mondana da una parte, e il desiderio di dedicarsi alla vita spirituale dall’altra, Kierkegaard non riuscì mai a trovare un vero equilibrio e trascorse la sua esistenza spaccato dentro questo profondo, insanabile dualismo. Di natura riflessiva e meditabonda, spesso scelse la strada dell’autoisolamento per sottrarsi ai suoi spettri interiori: non soltanto fuggì da numerosi aspetti della vita di società, ma fuggì anche dal sentimento dell’amore, i cui lati carnali e passionali inquietavano il filosofo, incapace d’integrarli dentro la dimensione più spirituale dell’esistenza. E così, pur essendo ricambiato dalla donna amata, dopo anni di amore platonico, Soren decise di rompere il fidanzamento e di dedicarsi unicamente alla strada della filosofia e delle fede in Dio. Di salute cagionevole sin da bambino, Soren morì a soli quarantadue anni, forse per l’aggravarsi di una qualche forma d’invalidità. Quello che resta della sua vita (vita che non fu ricca di eventi esteriori, ma che fu tumultuosa nel suo mondo interiore) è un ampio lavoro sia filosofico che letterario, testimonianza di quanto possa essere difficile conciliare tutte le diverse sfaccettature di cui è composto l’essere umano e di quanto possa essere lungo e complesso il lavoro psicologico che porta ciascuno di noi a integrare le proprie luci e le proprie ombre. Soren Kierkegaard affidò alla fede cristiana l’unica via per la salvezza, l’unico chiarore possibile nella vita dell’uomo. Eppure, non smise mai di essere anche profondamente incarnato: non dimenticò mai del tutto la donna amata e perduta, non smise mai d’interrogarsi sul senso dell’angoscia e della sofferenza, che sono esperienze profondamente umane, di cui lui stesso non riuscì mai a liberarsi. Lungi dal voler dare un giudizio definitivo sulla figura di questo poliedrico filosofo, ci chiediamo tuttavia se al posto di dare strenua battaglia alle nostre ombre interiori, proiettando la luce soltanto in una dimensione separata dall’uomo, non si possa invece tentare una conciliazione di tutti i nostri chiaroscuro. Siamo fatti di demoni, di fantasmi, ma anche di emozioni positive, di slanci vitali, di creatività. Non rinnegando la nostra complessa e contraddittoria umanità, bensì accogliendola e accettandola, forse possiamo davvero trovare la strada per affrontare la paura e il dolore che sono parte della vita, esattamente come lo sono i momenti di condivisione e di felicità.

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La Nuova Decade dà appuntamento ai suoi lettori con il secondo numero della rivista che uscirà il 15 gennaio 2022.

Chiunque volesse lasciarci un feedback, un commento o un riscontro, potrà scriverci sulle pagine ufficiali della rivista. Saremo lieti di leggere i vostri messaggi! Manuela Bassetti, medico e psicoterapeuta Edoardo Gagliardi, filosofo e giornalista

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Quando stai male, quando ti senti sopraffatto, quando sei certo che non ce la farai, apri un libro e leggilo tutto. E se ancora non stai meglio prendine un altro e ricomincia. (Stephen King)

Marchio editoriale l’inconscio®

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