IL TEMPO� CHE SFUGGE ALLA STORIA Una strategia di riappropriazione per l’Ex Istituto Marchiondi Spagliardi di Vittoriano Viganò
Tinto Miriam 798641
Relatore: Gennaro Postiglione Correlatore: Filippo Bricolo
Politecnico di Milano A.A. 2017-2018 Architettura e Società | Corso di laurea Magistrale in Architettura degli Interni
“Non ho mai pensato seriamente che esistessero progetti totali per salvare il mondo e l’umanità e ancora meno sono stato in grado di progettare un mio sistema personale... Mi sento sempre più nel mezzo di un immenso deserto di ruderi e mi sembra che tutto quello che faccio, qualunque progetto mi venga in mente, diventi subito un rudere, diventi una presenza solitaria della quale io stesso capisco sempre meno la ragione, sempre meno capisco le connessioni con il resto... Forse non mi resta altro che camminare tra i ruderi e forse, disegnando, non ho altro destino che quello di produrre ruderi, voglio dire produrre progetti che calino senza spiegazioni in mezzo a milioni di altri progetti di cui non conoscerò mai e mai più le logiche, né i collanti, né le connessioni” Ettore Sottsass - Rovine, Design Gallery Milano 1992
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Abstract
Il lavoro di ricerca e progetto nasce dal paradosso dell’abbandono più che ventennale di un capolavoro – due volte vincolato1 - dell’architettura moderna. Manufatto segnato da grande fortuna critica e annoverato tra i rari esempi di brutalismo italiano2, l’Ex Istituto Marchiondi Spagliardi di Baggio è stato recentemente oggetto di diverse ipotesi di intervento di recupero destinate purtroppo a fallire, anche a fronte di una ormai eccessiva insostenibilità economica dell’operazione3. Se normalmente si pensa a rovine e macerie come prodotti del conflitto bellico, è corretto pensare al presente del Marchiondi non solo come prodotto di un conflitto amministrativo ma anche come risultato di un gap nel dibattito teorico, pratico e culturale italiano intorno al recupero dell’architettura moderna e contemporanea d’autore. Il complesso progettato da Vittoriano Viganò infatti non è che un caso tra tanti, nella vasta costellazione di episodi a questo analoghi4. Per citarne alcuni, il convento dei padri passionisti di Glauco Gresleri a Casalecchio di Reno, o la colonia Enel di Giancarlo De Carlo a Riccione, come anche il complesso Marchesi di Luigi Pellegrin a Pisa, il Teatro Popolare di Sciacca di Giuseppe e Alberto Samonà, la Casa dello Studente di Giorgio Grassi e Antonio Monestiroli a Chieti, ma anche la suggestiva chiesa di Ludovico Quaroni a Gibellina, la stazione di San Cristoforo di Aldo Rossi e Gianni Braghieri a Milano, il palasport di Vittorio Gregotti a Cantù. “La rovina è il tempo che sfugge alla storia: un paesaggio, una commistione di natura e di cultura che si perde nel passato ed emerge nel presente come un segno senza significato, o, per lo meno, senza altro significato che il sentimento del tempo che passa e che dura contemporaneamente”5: proprio nel senso del tempo e nell’attuale realtà materiale di questo manufatto risiede il senso stesso della sua emblematica identità. È perciò utile considerare la “rovina come materia appartenente al flusso del presente”6 e quindi oggetto non di restauro ma di progetto architettonico (o di paesaggio). In quest’ottica risulta cruciale un approccio in cui è proprio il progetto architettonico, e più in generale “l’architectural thinking” a guidare la “riparazione” dei luoghi su cui esso si innesta, agendo innanzitutto sull’ecosistema, ma, contestualmente (o conseguentemente), anche sul sistema sociale, culturale ed economico7. L’approccio trans-disciplinare gioca un ruolo decisivo sia nell’analisi del sito, ma anche nella formulazione di nuove strategie di intervento che operino a partire dalla microscala sino alla scala territoriale, paesaggistica e addirittura globale. L’attenzione per il sistema naturale di riferimento e i suoi equilibri rappresenta 1. Piva A., a cura di, A come Asimmetria, Gangemi Editore, Roma, 2008 2. Banham R. The New Brutalism: ethic or aesthetic Reinhold publishing corporation, New York, 1966 3. Menzietti G. , Amabili resti dell’architettura. Frammenti e rovine della tarda modernità italiana, Quodlibet Studio, Macerata, 2017 4. ibid. 5. Augé M. , Le temps en ruines, Editions Galilée, Paris, 2003 6. Ugolini A. , a cura di, Ricomporre la rovina, Alinea editrice, Torino, 2010 7. “Repair”, B+W, purpose for the Australian Pavilion 2018 at the 16th International La Biennale di Venezia Architettura
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un tema topico e sempre più sentito; in questo caso in particolare è impossibile ignorare l’influenza che la presenza della vegetazione ha, a livello estetico, percettivo e storico sull’identità del luogo. La natura aperta del progetto di Viganò porta a immaginare un’operazione rigenerativa che sia capace di allargare gli orizzonti oltre il recinto del lotto su cui sorge il complesso. La peculiarità della città diffusa (costituita da spazi aperti, vuoti, strade, aree dismesse e spazi incolti) come contesto di intervento, suggerisce di evitare di estrarre ed importare qui le forme della città storica, densa e consolidata, ma piuttosto di assecondare il dato per cui l’azione caratterizzante di questi spazi è lo spostarsi, l’attraversare8. Lo stesso Viganò, trovandosi a progettare in un contesto per lui inusualmente rarefatto, si fa ispirare dal tema lecorbuseriano della promenade architecturale, acuendone il senso tramite la complessità di un’architettura pensata per una percezione mai statica, ma in continuo movimento9: diversi padiglioni si attestano su una spina che introduce a un crocevia di inesauribili promenades, prospettive mai centrali, viste frammentarie, continue alternanze tra aperture e chiusure, sovrapposizioni ed accavallamenti caratterizzati da una scansione ritmica letteralmente ossessiva. Ciò che si intende sostenere, è un intervento dall’economia minuta, finalizzata a sottrarre questo spazio dall’ossessione produttivista e speculativa della città contemporanea ed eludendo un sistema di “spettacolarizzazione dello spazio in cui si impone ai lavoratori di produrre anche durante il tempo libero. Se il tempo dello svago si trasformava sempre più in tempo del consumo passivo, il tempo libero doveva essere un tempo da dedicare al gioco, doveva essere un tempo non utilitaristico ma ludico”10, e allo stesso modo, “passare dal concetto di circolazione come supplemento del lavoro e come distribuzione nelle diverse zone funzionali della città alla circolazione come piacere e come avventura”11. Chiave di volta del progetto è perciò l’adozione di un’idea di tempo libero/liberato/perso che vede l’antiproduttivismo come forma passiva/attiva di auto-costruzione del welfare dal basso. La riattivazione intende esser messa in atto tramite una trasformazione progressiva, per mezzo di un programma di riappropriazione incrementale di questo luogo inscrivibile nel concetto foucaultiano di “spazio altro”12, ovvero isolato dalla rete dei processi di relazioni e trasformazioni urbane che si sono, nel tempo, attorno ad esso succedute. Considerando il restauro e la rifunzionalizzazione integrale ormai insostenibile su più fronti, si sceglie di mirare al mantenimento e messa in sicurezza della rovina, e alla riconnessione del piano terra del complesso al tessuto urbano, là dove, rimuovendo il posticcio recinto di proprietà, verranno ristabilite le naturali connessioni con il circostante. Episodi puntuali e specifici saranno ossatura per la costruzione di un paesaggio dominato dall’imperatività del rapporto uomo-natura. Per concludere, il progetto nasce senza dubbio come pretesto per lanciare una critica implicita alla condizione attuale del’Ex Istituto Marchiondi e al suo stato di rovina, che “più che a rammentarci la caducità di ogni cosa, diventa sempre più il simbolo che ci chiama a un incondizionato e vigile principio di responsabilità”13. 8. Careri F. , Walkscapes, Camminare come pratica estetica, Einaudi, Torino, 2006 9. Popper F. L’arte della cinetica. L’immagine del movimento nelle arti plastiche dopo il 1860 Einaudi, Torino, 1960 10. Huzinga J. Homo ludens (1939), trad it. Homo ludens, Einaudi, Torino, 1946 11. Constant, Un’altra città per un’altra vita, in “Internationale Situazionite, 3 (1959) 12. Foucault M. , Spazi altri. I luoghi delle eterotopie. Mimesis edizioni, Milano, 1994 13. Tortora G. , a cura di, Semantica delle rovine, manifestolibri, Roma 2006.
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Indice dei contenuti
01 . origine genesi e genealogia 11 02 . cronologia cronostoria 35 cronache 55 03 . stato attuale inquadramento urbano 81 mappatura della rovina: degrado generale 89 schedatura degli episodi di degrado puntuali 94 04 . lettura architettura 129 natura 152 05 . le rovine del moderno sulla rovina 163 06 . strategia 185 07. il progetto 201 08. appendice 249 Intervista a Marco Dezzi Bardeschi 24.11.2015 251 Conferenza @ Padiglione Architettura 30.07.2015 258 Conferenza @ Padiglione Architettura 26.11.2015 272 P. Panza: “le rovine del 900 in cerca di futuro� 280 Alberto Grimoldi 282 Franz Graf 283 09. conclusioni 284 10. allegati video 291 11. bibliografia 293
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Ex Istituto Marchiondi Spagliardi Genesi e genealogie
“Egregio professore, mi è testè pervenuta comunicazione dall’Istituto Spagliardi che l’Onorevole Commissione Giudicatrice ha voluto benevolmente assegnare al mio progetto il primo premio. Desidero esprimere egregio professore, il mio più vivo ringraziamento di collega ed Suo ex allievo per la bontà del giudizio fatto sul mio elaborato e la fiducia accordatami”1 Il 30 Aprile 1954 il giovane Vittoriano Viganò scrive al maestro Giovanni Muzio, componente insieme a Renzo Gerla, e Luigi Moretti, della commissione di valutazione dei progetti per la nuova sede dell’Istituto Marchiondi-Spagliardi di Milano. Muzio, già professore di Urbanistica al Politecnico di Milano, figura chiave del Novecento e personaggio di grande autorità e cultura, difensore fino ai limiti del possibile dell’autonomia e della specificità del sapere tecnico, ha certamente avuto un ruolo decisivo nell’assegnazione dell’incarico, per questo Vittoriano gli scrive per ringraziarlo per il giudizio positivo. Il concorso informale per un planivolumetrico e alcuni sviluppi di dettaglio viene lanciato il 19 gennaio 1954, in un momento di consolidata emergenza per l’Istituto. La vecchia sede era già vuota da più di un decennio, usata come carcere politico2 durante la Seconda Guerra Mondiale e, in seguito, distrutta sotto i bombardamenti di Milano. “Il trasloco dell’Istituto era già previsto dal 1938, scrissero i giornali”3. I bombardamenti, in ogni caso, si erano dimostrati “un paravento provvidenziale per legittimare la ricostruzione di un edificio considerato obsoleto per la mutata destinazoine, dedicato com’era da tempo ai ragazzi caratteriali, e liberare un’area diventata appetibile per l’edilizia privata, trasportando in periferia una funzione considerata molto meno pregiata”4. Nonostante le proposte di Viganò per il ridisegno dell’area, sulle macerie dell’antico convento francescano nel lotto di via Quadronno, prenderà posto un celebre condominio progettato da Angelo Mangiarotti nel 1960. Si vara così un progetto la cui realizzazione è destinata a lasciare a bocca aperta pubblico e critica, sia per l’imprevedibile risultato (nessun progetto di un Viganò non ancora trentacinquenne lasciava presagire l’opera costruita5) ma anche per l’apparente inclassificabilità dell’oggetto, le cui genealogie vanno ricercate tanto nella doxa architettonica del periodo e del momento storico, quanto nei suoi simili, nei suoi precedenti e nei modi d’esistenza dell’oggetto (costruttivo, funzionale, spaziale). È grazie alla ricostruzione di queste genealogie che si può meglio comprendere ragioni, logiche e unicità di un progetto tanto vivisezionato 1. Lettera di V. Viganò a Giovanni Muzio del 30 Aprile 1954, Archivio del Moderno 2. Graf F., Tedeschi L. (2008). L’Istituto Marchiondi Spagliardi di Vittoriano Viganò. Mendrisio: Mendrisio Academy Press. 3. ivi 4. ivi 5. ivi
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DISPOSITIVO
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LE LAMELLE FRANGISOLE
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quanto affascinante, nella sua incomparabile forza plastica. “La nuova sede del Marchiondi si può spiegare anche attraverso i soli riferimenti al panorama internazionale di quegli anni. Le fonti, la biografia dell’autore, rimandano a conoscenze dirette, a citazioni meditate e consapevoli. Una tale apertura al nuovo” Da evidenziare primo tra tutti i precedenti, il progetto (in questo caso perdente), per la nuova sede dell’Umanitaria di Milano. È con questo progetto di concorso, elaborato con i colleghi Vittorio Gandolfi e Ruggero Farina Morez, che vengono messe in campo istanze anticipatrici e rivelatorie del modernismo eclettico e informato che caratterizza i tre giovani architetti. Il dispositivo distributivo filiforme, che assicura indipendenza formale e funzionale ai diversi corpi di fabbrica è infatti già stato sperimentato da Walter Gropius sul finire degli anni Trenta con i progetti per il Centro artistico del Wheaton College6, per la scuola media Peter Thatcher7 e, a più grande scala per l’Università di Hua Tung8 e infine per l’Harvard Graduate Center9. Gropius si era fatto precedere a sua volta da Richard Neutra, con i suoi disegni per la Rush City Reformed e il Community Center. Impossibile ignorare le ricercate affinità della prima versione del progetto di Viganò per il Marchiondi con l’Usine Verte10 di Le Corbusier, con il suo corpo di ingresso concavo e la spina centrale che distribuisce tutti i volumi. Il tema delle sottili introflessioni si ritrova anche nel progetto di Le Corbusier per l’edificio di testa del blocco abitativo per residenze operaie a Zurigo (1932-1933) rimasto progetto, o ancora, l’Aero Club di J. F. Zévaco e colleghi a Casablanca e i più vicini Francesco di Salvo con il progetto per il Circolo degli Stranieri a Sorrento. Ritroviamo anche Amedeo Luccichenti e Vincenzo Monaco con il progetto per la palazzina al Parioli di Roma dove il corpo avanzato dei garage si curva e naturalmente anche il maestro di Viganò Gio Ponti, che proprio in quegli anni disegna Villa Arreaza (Caracas, 1956), concava sul lato di ingresso, dominato da un’ampia pensilina. Infine vale la pena citare l’abitazione di Meudon di André Bloc, fondatore della rivista L’Architecture d’Aujourd’hui, per il quale Viganò avrebbe presto progettato, contemporaneamente alla costruzione dell’Istituto Marchiondi, Casa La Scala, a San Felice sul Benaco. La rivista di Bloc aveva in quegli anni assiduamente pubblicato gran parte dei progetti sopracitati, poi divenuti riferimenti fondamentali per la progettazione dell’Istituto Marchiondi di Baggio. Nel passaggio dal primo al secondo progetto Viganò abbandona l’idea del volume introflesso. Ciò che invece permane è l’uso di fitte lamelle verticali. Nemmeno queste sono una novità: sono già state impiegate da Luccichenti11, Giordani12, Nizzoli13, e da innumerevoli architetti sudamericani pubblicati con solerzia da “L’architecture Aujourd’hui. Un ulteriore noto precedente di frangisole a lamelle incurvato è il prospetto Ovest dello Yacht Club di Oscar Niemeyer, costruito nel 1942; il tema del frangisole, agli inizi degli anni Cinquanta è di moda, e anche altre riviste di architettura, come Architectural 6. Norton, Mass. USA, 1937 7. Attelboro, Mass. USA 1947 8. Shanghai, Cina 1948 9. Cambridge, Mass. USA, 1949 10. Senza luogo, 1944 11. Laboratorio di Cellulosa a Roma 12. Fabbrica farmaceutica Milano 13. Prospetto Sud-Ovet di Palazzo Olivetti a Milano
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Review14, gli dedicano ampio spazio. L’effetto che queste soluzioni producono a seconda del punto di vista dell’osservatore, lasciano presagire una grande dimestichezza di Viganò con le ricerche nell’arte contemporanea che di lì a poco conduranno alla cosiddetta “arte cinetica”: dimestichezza che viene confermata dalle dichiarazioni dell’architetto stesso, riguardo alle ripercussioni di natura plastica di alcune sue soluzioni adottate in progetti precedenti agli anni di diffusione dell’arte cinetica in Italia. “Un certain jeu plastique changeant avec l’angle de vision”15, si ritrova nel condominio in Viale Piave a Milano (1945-1947), e ritorna, ossessivo, con i volumi aggettanti destinati agli spazi di servizio, nel progetto dell’Istituto Marchiondi, come Il Tema architettonico del convitto. La valenza plastica è tratta dai progetti di Terragni, Pingusson e ancora Le Corbusier, con i suoi studi preparatori per le diverse Unité, e ripreso da un ricco campionario di progetti selezionati da Viganò stesso per un numero monografico di “L’Architecture Aujourd’hui” dedicato all’architettura Italiana apparso nel 195216. Viganò progetta un’architettura che appartiene a chi la guarda, quindi i balconi aggettanti del condominio di Viale Piave sono progettati per essere visti dal basso: parliamo di fronti, non di facciate, anche nel caso dell fronte sud dell’Istituto i volumi aggettanti contenenti i servizi, dimostrano un’attenzione alla valenza plastica del progetto, mutata e maturata significativamente in corso di redazione. Celebri esempi di edifici con composizioni volutamente dissimetriche, e impaginazioni cosiddette “a bandiera” non mancano, sin da prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale: progetti quali le villette a schiera di Jacobus Johannes Pieter Oud17 o il piccolo Albergo Nord-Sud di André Lurçat18, avevano dato vita a un dibattito teorico destinato a portare, negli anni Cinquanta, all’introduzione della nozione di ritmo in architettura, nozione che ha conosciuto esplicitazioni varie e differenziate, più o meno utili al dibattito critico. A Milano, nell’anteguerra, Asnago e Vender si distinguono per le loro impaginazioni asimmetriche e gli sfalsamenti accurati, mentre nell’immediato dopoguerra Luccichenti costituisce ritmi alternati con sapienti accostamenti, nel progetto di abitazioni di via Pinturicchio a Roma o nel complesso di abitazioni in piazza delle MEdaglie d’oro, sul Monte Mario, in questo caso con l’uso delle linee diagonali. Vicini al convitto del Marchiondi sono le abitazioni di ATBAT Afrique, con Candilis e Woods e le variazioni sul tema degli architetti svizzeri Jean Hentsh e André Studer realizzate a Sidi Othman Casablanca per il Groupement Foncier Marocain, che compaiono sul numero 60 di “L’Architecture aujourd’hui” del giugno del 1955. Una doverosa parentesi, poi, riguarda l’impiego di scarti lateralifra piani paralleli scalati in profondità, pratica che pare una vera specialità dei razionalisti comaschi: Terragni, Cattaneo, Rho, e le composizioni di Mario Radice esplorano concetti percettivi e spaziali che attraverso la stratificazione contraddicono la bidimensionalità dell’opera. Come Viganò stesso ha ribadito a diverse riprese, l’importanza di questi antecedenti comaschi dipende proprio dal loro contributo all’esplorazione dello spazio e del movimento virtuale, 14. Numero di Gennaio del 1952 15. “L’Architecture Aujourd’hui”, giugno 1952, n. 41, p. 50 16. ibid 17. Weissenhof di Stoccarda, 1927 18. Calvi, Corsica, 1929
INFLUSSI CINEMATICI
IL RITMO
LA DINAMICITÀ
ARCHITETTURA E ARTE
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RISCOPERTA DE STIJL
INFLUENZE INDUSTRIALI
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nell’architettura e nella pittura, che nega la visione frontale e statica, dove l’immagine tettonica è protagonista. Si rivela segnante l’evidente dimestichezza di Viganò con l’arte contemporanea, dimostrata non solo dalla partecipazione alla rivista di André Bloc “Aujourd’hui. Art et architecture”, ma anche con l’adesione al gruppo Espace. Le genealogie dell’Istituto Marchiondi Spagliardi di Vittoriano Viganò si possono riassumere come “l’incrocio di più linee di ricerca, aventi un’origine comune nella cosiddetta architettura neoplastica”19. Molti dei dispositivi compositivi presenti nel convitto, appartengono Proprio al movimento De Stijl, di cui Viganò raccoglie gli esiti contraddittori grazie all’originalità del suo progetto. La sospensione dei sanitari ricorda “il dispositivo plastico-strutturale che Terragni inscena sul lato est della corte dell’Asilo Sant’Elia a Como: le travi che portano il tetto piano attraversano l’involucro spaziale del refettorio per raggiungere i pilastri esterni, staccati dall’edificio.”20 Radice e Rho hanno contribuito, ancora, con le loro decorazioni per la Casa del Fascio di Como e con l’allestimento della sala delle medaglie d’oro e del Sacrario dei caduti a Villa Olmo, a Como. Se vogliamo trovare invece precedenti all’angolo svuotato del convitto, è impossibile non pensare alla soluzione angolare dellascuola all’aria aperta di Cliostraat, ad Amsterdam,di Johannes Duiker, o alle soluzioni di Neutra nella Casa Tremaine21 o la Casa Reunion22. Per quanto riguarda il celebre e controverso incrocio trave-pilastro, che forma i gli onnipresenti triliti, è automatico pensare agli incastri di Rietveld per la sedia rosso-blu del 1918, per la sedia militare del 1930, ma anche ai parapetti della Casa Shröder23, ma anche al fissaggio del piano orizzontale della Table en sycomore et chêne di Eileen Gray (1923). Ma il più evidente riferimento De Stijl riguarda l’uso del colore: in tutto il progetto infatti l’attenzione per il colore di serramenti, pavimenti, soffitti e pareti richiama la vocazione neoplastica ai colori primari: rosso, blu, giallo, nero e bianco. Il dato più sorprendente, che argomenta l’interesse rinnovato per la cultura De Stijl, è senza meno il volume pubblicato da Bruno Zevi nel 1953 dal titolo: “Poetica dell’architettura neoplastica”. “Aggredire criticamente la scatola edilizia, possederne l’organismo, penetrarlo da tutti i lati esterni e interni, smontare e ricomporre solai, pareti, tetti, volumi, spazi per conoscere in modo totale l’architettura questo è l’insegnamento critico di Theo Van Doesburg, una ginnastica intellettuale escavatrice, giovevole nella visione di ogni monumento, antico e moderno.”24 Il linguaggio della costruzione, infine, riprende i temi e i materiali essenziali e “bruts” dell’architettura industriale a cui Viganò si è ispirato. I programmi industriali minimizzano le strutture portanti interne espellendole sulle
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19. Zevi B. , Poetica dell’architettura neoplastica, Libreria Editrice Politecnica Tamburini, Milano, 1953 20. Graf F., Tedeschi L. (2008). L’Istituto Marchiondi Spagliardi di Vittoriano Viganò. Mendrisio: Mendrisio Academy Press. 21. Montecito, 1948 22. Los Angeles,1949 23. Utrecht, 1925 24. Zevi B. (1953) Poetica dell’architettura neoplastica, Libreria Editrice Politecnica Tamburini, Milano
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facciate. Queste sono ampiamente vetrate per approfittare della luce naturale, ma protette dal sole grazie a dispositivi a lamelle orizzontali o verticali. Si ritrova negli elementi che compongono l’Ex Marchiondi una vasta quantità di richiami allle fabbriche di Emile Aillaud pubblicate da “L’Architecture d’Aujourd’hui” nel maggio del 1953. Nello stesso numero foto a colori dello stabilimento Renault di Flins mostrano la policromia rosso-gialla dei telai in acciaio contrapposte alle pareti blu degli interni. Come traspare dall’indagine sulle genealogie e le influenze sul progetto di Viganò per l’Istituto Marchiondi, emerge ancora una volta come la rivista “L’Architecture d’Aujourd’hui” sia stata una fonte primaria di ispirazione, per quanto riguarda la ricerca sul linguaggio dell’architettura contemporanea internazionale. Nei numeri tra il 1951 e il 1954 di questa rivista sono stati pubblicati gran parte dei progetti ispiratori, dalle sopracitatefabbriche di Emile Aillaud, allo stabilimento Renault a Flins di Zehrfuss, la sede della Compagnia elettrica di Caracas degli architetti Carbonell e Sanabria, il complesso scolastico Paul Bert a Le Havre di Guy Lagneau.
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R. Neutra, Rush City Reformed, 1930
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V. Viganò, vista a volo d’uccello del complesso. 1954
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La Usine Verte, Le Corbusier, 1944
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V. Viganò, modello del primo progetto di concorso, con il corpo di testa concavo 1954
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A. Lurรงat, Albergo Nord-Sud, Calvi
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V. Viganò, pianta del piano bagni del convitto
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J. Hentsch e A. Studer, blocco di abitazioni a Casablanca, 1955
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Prospetto sud del convitto
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J. Duiker, scuola all’aria aperta ad Amsterdam (Paesi Bassi), 1930
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Angolo Nord-Ovest del convitto
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D. Carbonell e T.J, Sanabria, edificio della compagnia, elettrica di Caracas (Venezuela), 1952
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Fronti Est di scuola media e scuola elementare (in primo piano)
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Cronologia degli eventi storia di un abbandono
Osservare l’avvicendarsi degli eventi svela quali contraddizioni e meccanismi abbiano portato l’Istituto Marchiondi al suo attuale stato di abbandono. Riflettere sulla rapida decadenza dell’istituzione e della sua funzione di riformatorio, significa ragionare sull’obsolescenza dell’architettura e delle stesse attività umane, alle quali sopravvivono una enorme quantità di rovine. Significa svelare le vicende burocratiche, istituzionali, sociali, economiche e le controversie che hanno impedito di salvare il manufatto da un processo di ruderizzazione ormai purtroppo difficilmente (o molto onerosamente) reversibile. L’ultimo ventennio, in particolare, ha visto l’alternarsi di varie proposte e tentativi di recupero, nessuno dei quali è stato infine portato a compimento. L’architetto Viganò spesso si riferiva al Marchiondi chiamandolo “il corpo del malato” sul quale prepararsi a operare una sorta di “accanimento terapeutico”. Egli stesso era stato nominato per occuparsi del recupero del complesso, pochi mesi prima della sua scomparsa, nel gennaio del 1996. L’impegno assiduo di figure sempre impegnate e presenti durante il passare di questi anni ha quantomeno garantito, in mancanza di effettivi interventi pratici, il mantenimento di un dibattito che dal 1996 a oggi non è mai stato abbandonato. Tra gli ultimi, i due incontri presso Padiglione Architettura a cura di Lorenzo degli Esposti dove è stata ancora una volta denunciata la realtà materiale in cui versa l’Istituto. Comprendere la storia recente del Marchiondi significa anche porre le basi per immaginare degli scenari di valorizzazione futuribili, non solo tramite una destinazione d’uso che non comprometta l’integrità delle incredibili qualità del manufatto ma anche tramite la definizione di un modello di governance plausibile e un programma che non mini la sostenibilità economica dell’intero intervento. L’Istituto Marchiondi Spagliardi è attualmente tutelato da due vincoli. Prima di vedere quali, è necessario comprendere se e come la presenza del vincolo abbia effettivamente garantito la tutela del manufatto. Va innanzitutto tenuto in considerazione che le attuali norme corrono il rischio di essere contraddette dagli effetti che possono da esse stesse derivare. Per poter tutelare un bene deve necessariamente trascorrere un certo periodo di tempo (tra i 50 e i 70 anni), e questo vuoto temporale rappresenta un ampio intervallo di rischio; conseguentemente è fondamentale che la generazione contemporanea alla costruzione del bene trasmetta alle generazioni future ciò che hanno ricevuto da quelle passate: come farebbero, altrimenti, le generazioni future a tutelare un’opera già alterata o addirittura distrutta?1 Inoltre, visto il
“MALEDETTI VINCOLI”
1 Carughi U., (2012) Maledetti vincoli. La tutela dell’architettura contemporanea, Umberto Allemandi & C. spa Torino
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THE END IS THE BEGINNING IS THE END
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valore strettamente ricognitivo (rispetto allo status materiale dell’opera) dello strumento della tutela, non è in nessun modo garantita l’incolumità del bene, ma solo il suo status giuridico, e quindi l’insieme dei diritti di chi è proprietario del bene o lo gestisce. Occorre sempre valutare i costi e i benefici che il blocco della tutela comporta nei riguardi del bene e i rischi ad esso connessi. Il primo rischio investe gli interessi di coloro che si succedono nella proprietà del bene durante i primi cinquant’anni dalla sua costruzione: nel caso dell’Istituto Marchiondi, che è stato acquistato nel 1985 dal Comune di Milano prima che i vincoli fossero apposti. Il Comune è tutt’ora proprietario del complesso; la preoccupazione potrebbe riguardare i possibili futuri acquirenti o gestori, che si troverebbero giustamente assoggettati alle norme del Codice e ai controlli dell’organo di tutela e alle numerose restrizioni di intervento o riconversione del manufatto. Il secondo fattore riguarda gli interessi collettività, (l’Istituto Marchiondi appartiene al Comune, quindi a tutti i milanesi!) che potrebbe non godere delle finalità di pubblico interesse di un bene, in seguito alla sua modificazione. Infine il terzo fattore di rischio sussiste per l’autore dell’opera, non che, nel nostro specifico caso, il mancato riconoscimento del vincolo avrebbe messo in discussione il valore professionale dell’architetto. Tuttavia quest’ultimo rischio è esorcizzato dalla legge 633 del 1941 “sul diritto d’autore” che consente all’autore ancora in vita (a esclusione degli eredi) di richiedere all’istituzione il riconoscimento del vincolo: questa richiesta viene tempestivamente rivolta in caso di pressioni di eventuali interessi economici che mirassero allo snaturamento del bene. L’istituto Marchiondi Spagliardi ha ottenuto il vincolo sul diritto d’autore il 30 Ottobre 1995, proprio pochi mesi prima della triste scomparsa del suo autore, il 5 gennaio 1996. Quello intorno al riconoscimento del primo vincolo e alla scomparsa di Vittoriano Viganò è un periodo in cui il dibattito raggiunge forse il suo picco di fervore: numerosissimi articoli di giornale gridano lo scandalo di un abbandono tanto crudele e vengono indetti seminari e visite. Come abbiamo visto, il riconoscimento del vincolo e “la dichiarazione di interesse storico-artistico rientra nella categoria degli accertamenti costitutivi per ciò che concerne lo status giuridico del bene, in quanto determina in tale condizione una novità; ma presenta anche ccaratteri di natura ricognitiva in relazione al suo status concreto che, invece, non subisce modifiche”.2 La gestione attuale dei vincoli fa pensare inoltre che questo sia un ambito di continua sperimentazione. Il più delle volte il decreto di dichiarazione d’interesse non viene apposto in caso di imminente rischio di modifiche irreversibili, ma viene presentato come titolo in base al quale l’amministrazione esercita la sua attività di controllo/monitoraggio. Nel caso del presente dell’Istituto Marchiondi Spagliardi la minaccia attuale non proviene da proposte di progetto snaturanti, ma dall’abbandono del manufatto, che, lasciato alle intemperie e dichiarato ormai inagibile, rischia di sgretolarsi progressivamente senza che nessun intervento di reale salvaguardia materiale sia stato mai messo in opera (fatta eccezione per il padiglione attualmente in uso, destinato a centro diurno per disabili, puntualmente restaurato e mantenuto in uso). Una soglia drammatica che segna la cronologia dei fatti si registra quando, riconoscendo l’eccessiva insostenibilità economica, ambientale, tecnica e 2. ivi.
cronologi a
funzionale dell’intervento, il Politecnico di Milano rinuncia formalmente a portare avanti l’opera di trasformazione dell’Istituto Marchiondi, le cui condizioni di degrado sembrano ormai irreversibili. Il progetto era nato da un protocollo di intesa per la riconversione di immobili abbandonati in residenze universitarie al quale aveva risposto l’Università di Milano in cordata con Comune, Politecnico, e alcune cooperative consorziate, individuando proprio il Marchiondi come possibile sede di un nuovo studentato. Si sono dimostrati ostacoli reali sia le condizioni materiali, nel 2009 già ritenute estreme, le dimensioni stesse del manufatto, che ovviamente comportano una notevole onerosità degli interventi, ma anche la presenza dei due vincoli (il vincolo dei Beni Architettonici sull’interesse storico-artistico era stato infatti riconosciuto ai sensi dell’art. 10 comma I D.Lgs n. 42 il 25 Aprile 2008) nonostante il parere favorevole della Soprintendenza rispetto al progetto definitivo elaborato dal Politecnico. Tuttavia questa vicenda non ha rappresentato che l’ultima mobilitazione volta al recupero dell’Istituto. Nel 1989, in seguito a una forzata convivenza tra studenti e intrusi che utilizzavano l’area abbandonata del complesso come ricovero, si tentò di affidare anche i padiglioni vuoti all’Istituto Odontotecnico C.F.P., che era già alla ricerca di spazio da destinare ad aula magna, sala riunuoni o aula per assemblee. La richiesta viene ignorata: è l’inizio della fine. “Sono dovuti passare quattro anni di disinteresse da parte dell’Amministrazione comunale, e di conseguente, progressivo quanto inevitabile degrado delle strutture accentuato dalle occupazioni illecite, per colpire l’attenzione dei quotidiani nazionali che, denunciandone nelle pagine dedicate alla città lo stato di abbandono, sottolineano il disinteresse da parte delle amministrazioni comunali verso il Marchiondi, considerato un simbolo del brutalismo italiano”3 Con Marco Formentini sindaco di Milano e Philippe Daverio assessore alla cultura, viene inaugurata una stagione di iniziative, coordinate da un ufficio apposito “Progetto Marchiondi” “con l’obiettivo di conferire all’Istituto un ruolo di centralità, come riconoscimento dell’importanza ribadita a livello internazionale ma da tempo affievolitasi nella città di Milano”.4 Si propongono numerose idee, ma se ne esce purtroppo con nulla di fatto. Tra il 1994 e il 1995 vengono organizzati due seminari nei quali si approfondiscono le opportunità di recupero e valorizzazione del complesso, proponendo di destinarlo a polo per la formazione e la ricerca per le arti applicate. Nel 2003 il Comune di Milano si era già dichiarato disposto a vendere e successivamente a cedere il suolo a privati per un periodo di 35 anni, con l’unico vincolo di rispettare la funzione educativa e didattica. A presentare l’interesse fu l’International School of Milan, le procedure burocratiche e le visite si erano susseguite fino a un cambio di strategia del Comune, che dopo aver dichiarato pronta un’asta per la cessione con la formula del diritto alla superficie nel 2005 aveva indetto un altro bando che avrebbe visto l’affidamento della struttura in concessione d’uso, cioè in vero affitto: l’International School of Milan rifiuta, ritenendo insistenibile l’operazione e virando su un’altra area. Diverse polemiche si erano accese, intorno all’incapacità di gestione dal punto di vista del marketing urbano e degli interessi pubblici e privati nella 3. A.a. V.v. Dal restauro alla conservazione. Terza mostra internazionale del restauro monumentale (Reggio Calabria 26 settembre 2008). Ediz. italiana e inglese. Vol. 2 4 ivi.
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tutela del patrimonio: si crede che il ripensamento delle amministrazioni possa esser dovuto al rischio di una eccessiva finalità privata del recupero. Una occasione concreta di salvezza materiale viene così lasciata sfumare. Nel 2006 il Comune indice un nuovo bando. A raccoglierlo è un solo concorrente, un Consorzio di cooperative impegnate nel sociale, che avrebbe trasformato l’istituto in un multi-centro in grado di rispondere alle esigenze di turismo culturale e giovanile, accoglienza per anziani e adulti bisognosi, centro convegni, struttura per aree sportive e aree per il tempo libero. Questa volta, è per ritardi nei finanziamenti e nei processi amministrativi che l’operazione viene annullata. Il progetto del Politecnico coordinato da Massimo Fortis, avrebbe infine proposto una struttura da 224 posti letto per studenti con servizi pubblici destinati al quariere, all’aggregazione giovanile e all’housing sociale. L’impianto originale viene completamente rispettato fino a riscontrare parere favorevole della Soprintendenza in seguito all’ottenimento del permesso di costruire. A monte però di una nuova stima di spesa, cresciuta dagli iniziali 18 a quasi 27 milioni di euro, il Politecnico rinuncia definitivamente nel marzo del 2013. A monte di tali considerazioni si vuole dare una risposta progettuale a una delle possibili strade aperte dal dibattito vivo, che riesca a concretizzare la possibilità di tramandare ai posteri questo imprescindibile manifesto dell’architettura moderna. Di seguito sono riportati alcuni elaborati grafici estratti dal progetto coordinato dal Professor Fortis (l’unico dei progetti ipotizzati ad aver raggiunto la fase definitiva e l’approvazione della Soprintendenza) e del rilievo del degrado preliminare al progetto di restauro elaborato dal professor Dezzi Bardeschi.
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Cronache
dal Corriere della Sera
In seguito a una indagine svolta all’interno degli archivi online del quotidiano Il Corriere della Sera, sono stati estratti alcuni articoli interessanti che vengono qui riproposti, per delineare un paesaggio di come, quando e quanto, al di fuori della produzione accademica e critica, si sia parlato dell’Istituto Marchiondi. Gli articoli selezionati sono stati pubblicati tra il 1954 e oggi. Sui quotidiani si imprime l’andamento del dibattito pubblico, si coglie quando e per quali leve culturali, politiche, o elettorali il tema del recupero del Marchiondi sia stato utilizzato e in che termini o in quali occasioni viene, nel corso degli anni, trattato l’argomento. Si evidenzia un grande entusiasmo della stampa, in seguito all’inaugurazione della nuova sede dell’Istituto Marchiondi, che, tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta invece comparirà nella cronaca nazionale e locale solamente in riferimento a rare evasioni di ragazzi (“Per fuggire dall’istituto, che non prevede particolari apparecchiature di sicurezza per prevenire le fughe, i ragazzi avevano solo dovuto rompere un vetro e scavalcare un muretto molto basso”, recita un articolo del Corriere della Sera del 3 Aprile 1962) o per scandali legati a maltrattamenti (gli educatori furono scagionati da tutte le accuse). Bruno Zevi tutto sommato non sbagliava di molto: i ragazzi effettivamente non scappano. Il ritratto che affiora è quindi stranamente idilliaco. La fine degli anni settanta e l’inizio degli Ottanta, si tratterà del Marchiondi solo in riferimento alle importanti riforme che in quegli anni hanno investito l’ambito assistenziale e hanno portato via via alla chiusura dei riformatori e allo scioglimento delle Opere di beneficienza lombarde. La fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta vedono apparire l’Istituto Marchiondi nella cronaca in riferimento ai primi tentativi di recupero e di alimentazione del dibattito intorno a quello che ormai conclatmatamente era diventato un simbolo per la città di Milano. Nel frattempo Vittoriano Viganò aveva ricevuto il premio per l’architettura dal Presidente della Repubblica. Concluso il breve commissariamento del Comune di Milano, la giunta Formentini torna a far parlare dell’Istituto. Dopo dieci anni di silenzio totale (a partire dal 1996, anno della scomparsa di Viganò l’Istituto Marchiondi compare sulla stampa solo all’interno di generiche rubriche sulle meraviglie dimenticate di Milano o dossier che denunciano lo stato di degrado di alcuni dei tanti capolavori abbandonati), nel 2006 si torna a parlare di Marchiondi e di un suo possibile salvataggio: si tratta del progetto per un polo sociale presentato dalla cordata di cooperative che aveva dimostrato il proprio interesse per lo stabile. Il progetto sfuma senza lasciare notizia. Nel 2009 torna l’ipotesi del recupero, e se ne parla solo in relazione agli sgomberi delle famiglie Rom - che nel triennio precedente si erano impossessati degli spazi - effettuati dalla giunta FI guidata da Albertini.
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Gli ultimi segnali di cronaca, dopo il decretato naufragio del progetto del Politecnico di Milano nel 2014, riguardano la campagna elettorale dell’attuale sindaco Beppe Sala, o le ossessive liste di agglomeramenti di degrado da sciogliere nel municipio 7, senza mai dimostrare reale coscienza della portata delle condizioni in cui ormai il Marchiondi, forse irreversibilmente, versa. Paola D’amico, Pierluigi Panza e Gian Antonio Stella sono firme che tornano negli archivi della cronaca, come anche è ricorrente l’interesse di Daverio e Sgarbi, personaggi pubblici che hanno sempre partecipato più o meno attivamente al dibattito. Il 31 marzo, sul Corriere della Sera, esce la notizia secondo la quale parte del ricavato della vendita all’asta dell’edificio di via Pirelli 19, battutto per il doppio della base di partenza e a una cifra che ha superato di quasi settanta milioni le aspettative, verrà convogliato a un fondo il recupero dell’Ex Istituto Marchiondi1. Non si può che auspicare che questo embrione di intenzione diventi occasione per un salvataggio nel rispetto della struttura, e non una definitiva e permanente manomissione, tradimento ultimo della natura storico-architettonica dell’Istituto Marchiondi Spagliardi.
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1. “I soldi per il Marchiondi dal tesoretto di Via Pirelli, Il Corriere della Sera, 31 marzo 2019
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Inquadramento Urbano
Tra Baggio e gli Olmi, la tangenziale Ovest
Baggio si configura storicamente come una entità indipendente da Milano. Sostenuta da sempre da una economia essenzialmente agricola, vive una svolta economica con l’introduzione in Italia del gelso, nella seconda metà del XV secolo. Da allora Baggio si dedica all’allevamento dei bachi da seta: grazie all’indotto portato da questa lavorazione gode di una notevole crescita. La cascina Monastero stessa, cuore del nucleo fondativo e fondata dai monaci Olivetani nel XIII secolo, si accresce proprio grazie alla fortuna della filanda mentre il parco di Baggio è noto come area storica per la coltivazione del gelso. Un forte taglio di cesura dalla vita rurale per Baggio è rappresentato dall’arrivo, con il piano Pavia-Masera del 1910, della nuova Piazza d’Armi, che ormai dal 1888, quando Parco Sempione era stato convertito in giardino pubblico, si trovava nell’area che sarebbe poi stata destinata alla nuova Fiera Campionaria. Proprio dall’aerodromo di Baggio il 15 aprile 1928 partì la spedizione del generale Umberto Nobile per la sua seconda e tragica spedizione alla conquista del Polo Nord con il dirigibile “Italia”. Amministrativamente Baggio fa parte del Comune di Milano dal 1923, quando, con un decreto reale firmato a Racconigi da Vittorio Emanuele III e siglato da Mussolini il 2 settembre 1923, fu annessa a Milano insieme ad altri dieci comuni limitrofi. Dalle ricerche catastali è interessante osservare la morfogenesi del nucleo, con particolare attenzione alla soglia che interessa gli anni della costruzione del Marchiondi. Viganò per la prima volta si deve confrontare con un sito tutt’altro che consolidato: nel disegno del complesso si confronterà intensamente con il tracciato del limite del lotto, più che con il costruito circostante, caratterizzato dalla rarefazione della frangia urbana verso l’aperta campgna. Risultano fondamentali i tracciati della via Mosca, importante via di comunicazione tra il centro di Baggio e la campagna, la via Noale, limite ideale di espansione dell’abitato verso la tangenziale, e la sua perpendicolare via Bagorotti, che si allunga verso la storica Piazza d’Armi di Via delle Forze Armate. Un altro dato interessante è, come vediamo di due estratti dalle mappature catastali, come la geometria del lotto, individuato nel 1953 per la costruzione del nuovo Istituto, si riveli immutata fin dal catasto Teresiano del 1722. L’attuale confine del Nucleo di Identità Locale ricalca invece lo storico confine comunale di Baggio. I tracciati dei fontanili risultano purtroppo non valorizzati o definitivamente interrati per quanto riguarda i tratti che attraversavano il nucleo storico, ma si riconoscono chiaramente come netti segni di riferimento per la morfogenesi di questo brano di città.
STORIA RECENTE DI BAGGIO
LETTURA CATASTALE
TRACCIATI, CONFINI
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Un estratto dal Catasto Teresiano, 1722
Catasto Lombardo-Veneto, 1865
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Le soglie di urbanizzazione danno l’idea sia di quale fosse il contesto in cui Viganò si è trovato a progettare, quello di una Milano postbellica che ha già affrontato il tema della ricostruzione (Viganò con Porcinai aveva in prima persona contribuito al progetto, lavorando al disegno degli spazi aperti) ma anche del progressivo aumento di densità abitativa dei quartieri adiacenti al complesso, soprattutto per quel che riguarda la nascita del quartiere Gli Olmi, oltre il raccordo con la Tangenziale. La sintesi delle trasformazioni metropolitane in corso, posiziona l’area di progetto all’interno di un sistema in verticale mutamento, dove il Marchiondi trova posto solo nelle mappature delle strutture abbandonate, spesso elaborazioni fini a sé stesse, e nelle guide architettoniche come monumento del moderno, sfuggendo inesorabilmente agli strumenti di pianificazione e attuazione che regolano le trasformazioni urbane. La più rilevante novità riguarda la previsione di una nuova fermata della linea 1 della metropolitana, attualmente con capolinea a Bisceglie e ora prevista all’intersezione tra Via Mosca e Via Parri. L’abbattimento dei tempi di percorrenza medi necessari per raggiungere Baggio (e viceversa, per raggiungere il centro città da Baggio) rendono possibile un riposizionamento dell’area in un’ottica meno locale e più metropolitana, appunto. Il tracciato della tangenziale rappresenta una barriera fisica e percettiva che potrà essere mediato dalla nascita di un nuovo nodo infrastrutturale come quello della fermata della metropolitana MM1 prevista, che sarà capace di redistribuire i flussi e ripensare il superamento dell’infrastruttura. Rispetto all’influenza dei vicini Ambiti di Trasformazione Urbana e Piani di Cintura Urbana possiamo dire che Baggio potrebbe risentire delle trasformazioni dell’ATU di Forze Armate, dove oggi viene combattuta una strenua battaglia da parte di comitati di cittadini per difendere l’ecosistema che in decenni di abbandono dell’area ha visto far nascere un parco, da poco segnalato anche su Google Maps come “Parco Forze Armate”. L’ATU prevede l’edificazione di nuove abitazioni e il mantenimento di un corridoio verde, ma il progetto non soddisfa le esigenze e le necessità, evidentemente poco ascoltate, dei cittadini che intendono resistere nel difendere il parco. Al contempo si attendono nuovi interventi per la valorizzazione dei Parco delle Cave - Bosco in città, per il quale sono stati stanziati 5 milioni che serviranno per realizzare nuovi percorsi ciclabili, illuminazione e servizi.
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Stato attuale
cosa resta dell’Istituto Marchiondi
Come abbiamo già accennato, l’Istituto Marchiondi versa in stato di abbandono quasi completo da più di vent’anni. Fatta eccezione per il padiglione di testa, un tempo destinato alla direzione, che ospita un centro diurno per persone con disabilità, infatti, tutta la struttura risulta inutilizzata dal 1996, o più. Non è semplice restituire analiticamente lo stato delle strutture, poiché ogni singolo padiglione è affetto da problematiche peculiari, date da una maggiore inferenza della vegetazione, o da una più cospicua percolazione di acqua, a un maggior numero di danni arrecati da atti di vandalismo. Tuttavia si è cercato di costruire sia un quadro che potesse dare l’idea dello stato generale delle strutture, attraverso una mappa intuitiva a gradazione cromatica, sia una mappatura di episodi singoli. Questa operazione è stata effettuata con l’impossibilità di accesso alla struttura, dichiarata ormai inagibile, e quindi analizzando fotografie già scattate in precedenti campagne di rilievo. Una prima mappatura quindi, è stata redatta assegnando a vari parametri un punteggio: valutando la condizione generale di stato di murature e strutture, serramenti e chiusure, infiltrazioni, presenza e grado di invasività della vegetazione, stato degli impianti, accessibilità e visitabilità degli spazi, e traducendo il punteggio in gradazione cromatica. Sono stati segnalati anche elementi di eccezionale pericolosità, come ad esempio passaggi esposti non protetti, soffitti e facciate pericolanti piani di calpestio particolarmente dissestato, aree inacessibili e infine con tre campiture vengono segnalati i solai con particolari problemi di percolazione di acqua e le coperture con una notevole presenza di vegetazione e il piano interrato allagato. Alla mappatura di episodi di danneggiamento che non sono riconducibili al generale stato di degrado del complesso si è quindi aggiunta una mappatura di episodi che possono essere schedati con puntualità. In questa fase i diversi spot sono suddivisi in 5 categorie che li raccolgono in base alla specificità del danno; le cinque categorie individuate non hanno un semplice intento catalogatore ma sono volte alla formulazione di soluzioni progettuali condivise e applicabili, tramite un’unica regola, a parti diverse della rovina. Queste categorie sono: Alcune mancanze sono dovute a prelievi fianlizzati alla messa in sicurezza, alla pulizia o allo svolgimento di ispezioni analitiche preliminari al progetto di recupero previsto nel 2009, probabilmente e ottimisticamente in vista di un ripristino di queste parti. Si tratta di “biopsie”, quindi, che riguardano principalmente i serramenti e sono evidenti nel caso della facciata continua della scuola media e del parlatorio. Altri casi di rimozioni preventive o preliminari si riscontrano nei passatoi nord della scuola elementare e in alcune porzioni del corridore.
STATO DI DEGRADO GENERALE
EPISODI
PUNTUALI
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DEMOLIZIONI
SUPERFETAZIONI
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STRATIFICAZIONI
VEGETAZIONE
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La seconda sezione della schedatura raccoglie interventi di demolizione parziale e selettiva, veri e propri sfondamenti di murature non portanti, passaggi probabilmente aperti dagli occupanti che si ritrovavano a voler accdere a spazi altrimenti compartimentati. La terza, invece, raccoglie tutto ciò che è riconoscibile come aggiunta successiva alla dismissione del complesso: in alcuni casi si tratta di semplici tavole da cantiere utilizzate dagli occupanti abusivi per compartimentare gli spazi, in sostituzione delle porte venute a mancare, in altri di vere e proprie murature. Gran parte di queste sono state erette successivamente all’abbandono del complesso, al fine di rendere impenetrabili le parti di edificio rimaste in disuso da parte di visitatori ed utenti del centro diurno per disabili. Sotto “erosioni” sono raccolti principalmente episodi riguardanti il deterioramento degli arredi fissi in laterizio interni ed esterni, resi inutilizzabili e vulnerabili dal progressivo sgretolamento dei materiali. Questa condizione materiale li rende particolarmente vulnerabili a qualsiasi interazione fisica. Negli anni di abbandono si sono stratificati eposiodi di graffitismo ad opera di occupanti e passanti. La presenza di piccoli graffiti, prevalentemente scritte a pennarello acrilico si riscontrano in tutte le sezioni complesso oggi in disuso: qui verranno considerate solo le maggiori, per estensione, tra quelle che sono state documentate nelle diverse campagne di rilevo fotografico. Alla schedatura segue la mappatura completa della vegetazione, ottenuta intersecando il rilievo delle specie arboree effettuato dal Politecnico di Milano con i dati SAT estratti dal portale GIS e alcuni dati ottenuti con delle ispezioni visive dall’esterno del recinto perimetrale. Al rilievo delle specie arboree si aggiunge una rappresentazione e differenziazione degli spazi aperti che sono mantenuti a prato e quelli che invece vedono la crescita incontrollata della vegetazione: anche in questo caso è chiaro come il confine imposto dall’abbandono e dalla gestione del centro diurno che occupa il padiglione che si affaccia su Via Noale abbia segnato una linea che coincide con l’asse trasversale di collegamento tra foresteria e convitto. A est il verde è curato e i campi mantenuti a prato, mentre oltre i muri in blocchi di cemento eretti per isolare il rudere lo spazio aperto è completamente saturato da un groviglio quasi impenetrabile di vegetazione spontanea, rovi, piccoli arbusti e giovani alberi, impossibili da rilevare singolarmente.
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Foresteria - Parlatorio 1. Serramenti fronte Nord 2. Sezione del serramento 3. La facciata prima del prelievo
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EDIFICIO B
Scuola elementare Camminatoio Nord scuola elementare 1. Il camminatoio privo dei serramenti 2. Lo stesso fronte prima della rimozione 3. Il corridoio visto dall’interno, prima del prelievo
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EDIFICIO C Scuola media
Facciata continua, primo piano della scuola media
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EDIFICIO A Foresteria
Spazi collettivi e di servizio nella foresteria. Stato dei serramenti.
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EDIFICIO A Foresteria
Varco aperto nel muro di chiusura dei pati del nucleo di servizio nella foresteria
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EDIFICIO A Foresteria
Varco aperto nel muro verso l’infermieria nella foresteria
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Corridore Varchi aperto nei tamponamenti lungo il corridore.
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EDIFICIO B
Scuola elementare Varco aperto nel tamponamento dello spazio di servizio di uno dei due padiglioni della scuola elementare
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EDIFICIO A Foresteria
Aperture verso del fronte Est della foresteria murate, al fine di compartimentare abbandonato e area in
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EDIFICIO E Convitto
Passaggio tra servizi generali e convitto murati, per chiudere il passaggio tra i due padiglioni, originariamente collegati.
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EDIFICIO F Servizi generali
Facciata murata per chiudere il passaggio verso il percorso a Nord che porta all’ingresso del convitto
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EDIFICIO E Convitto
Facciata murata per chiudere il passaggio dalle coperture ispezionabili dei due padiglioni in uso verso il primo piano del convitto
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EDIFICIO E Convitto
Muro di chiusura del passaggio tra hall della direzione e convitto, originariamente collegato da un asse privilegiato fino al parlatorio, nella foresteria
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EDIFICIO D Soggiorno
Passaggio tra soggiorno e hall della direzione murato, per separare la porzione di padiglione in uso da quella abbandonata.
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EDIFICIO B
Scuola elementare Tavole da cantiere utilizzate per chiudere i passaggi tra un’aula e l’altra, nella scuola elementare.
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Scuola elementare Vegetazione infestante sui fronti sud della scuola elementare.
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EDIFICIO B
Scuola elementare Stato dei laterizi degli arredi fissi esterni.
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EDIFICIO D Soggiorno
Stato degli arredi fissi in laterizio interni ed esterni.
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EDIFICIO A Foresteria
Strutture in laterizio sul fronte ovest della foresteria.
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pergolato Strutture in laterizio nei pressi del pergolato di triliti in cemento armato.
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EDIFICIO A
Foresteria - Parlatorio “Il meglio finisce sempre per accadere / l’avvenire è migliore di qualsiasi passato”
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EDIFICIO A
Foresteria - Parlatorio
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EDIFICIO D Soggiorno
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Convitto - Piano camerate
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EDIFICIO E
Convitto - Piano camerate
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Convitto - Piano camerate
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Lettura
La lettura delle permanenze non è finalizzata tanto a snocciolare gli infiniti e peculiari caratteri dell’architettura di Viganò, quanto alla restituzione dei contenuti specifici che hanno portato all’individuazione dell’ambito del progetto di tesi, in linea con ciò che è anche la condizione materiale attuale del complesso. Verrà quindi presa in considerazione la totalità dei segni e delle tracce che costituiscono il presente palinsesto, sia antropici che non, includendo quindi la presenza della vegetazione, l’azione del degrado e in generale il processo di metamorfosi che ha interessato l’edificio nel momento in cui è stato abbandonato e l’intervento antropico è andato diradandosi. Non si tratta quindi di un close reading esaustivo nei termini della ricchezza espressiva dell’Istituto Marchiondi Spagliardi, ma di una lettura finalizzata e limitata agli spazi che saranno oggetto di progetto. In particolare il focus sarà sui principi generativi dello spazio, a partire da quello che sembra essere la cellula di base, dalla quale, come per un processo guidato da un preciso codice genetico, si sviluppa l’intero disegno, per poi passare al trilite come elemento ordinatore dello spazio. Il focus di progetto ricade proprio su quegli spazi dove si esprime al meglio il carattere aperto di questo progetto, cioè nel rapporto di continuità tra interno ed esterno, l’ambiguità del ”in between”, e il rapporto di simbiosi tra la materia grezza del cemento armato e la materia viva della vegetazione, che progressivamente la fagocita. La presenza di questa sorta di esoscheletro genera spazi nei quali il volume chiuso si dissolve e la struttura trilitica definisce quelle che si possono chiamare delle “stanze a cielo aperto”, che se nelle intenzioni di Viganò costituivano una prosecuzione fisica e funzionale di ciò che si svolgeva negli spazi chiusi adiacenti, oggi divengono oggetto di interesse privilegiato. In questo, la finalità etica del progetto destinato ai “ragazzi difficili”, può avere potenza sinergica con quella che oggi potrebbe essere la vocazione pedagogica delle rovine. In un suo saggio su “Spazio”, Luigi Moretti argomenta a favore della convinzione che “se si considera la struttura nella sua forma (propria e degli spazi che indica), la funzione che nella forma si implica, la forma espressiva come puramente tale, le tre forme in una opera di architettura debbono essere coincidenti, identiche, ciascuna momento indistinguibile dall’altra”.1 Viganò incarna appieno questo principio, e sebbene questa eloquenza strutturale non significhi ancora l’allineamento con il pstulato della “onestà costruttiva” alla quale, negli anni Cinquanta si richiamavano gli architetti in continuità con il razionalismo prebellico, si può sicuramente affermare la finalità etica e morale di questa scelta. 1. 1952, n. 6
Moretti L. (1951-1952) Struttura come forma, su “Spazio”, anno III, dicembre- aprile 1951-
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1. Morfogenesi
La logica generatrice L’assenza di un contesto consolidato spinge alla formulazione di una logica compositiva interna. L’intero sistema si basa su una griglia costante, una “picchettatura strutturale del terreno, come la definisce il professor D’Alfonso nel suo saggio contenuto nel volume monografico ”A come Architettura. Vittoriano Viganò”. Questa scansione corrisponde con una griglia ortogonale di 5x3 metri su cui si scandiscono il ritmo dei triliti, la disposizione dei volumi, la proporzione dei pieni ed il loro rapporto con i vuoti. Da cosa deriva questa unità? A prescindere dalla chiara derivazione lecorbuseriana, evidente anche nel dimensionamento dei passatoi distributivi secondo il modulor (2,20 metri, a metà tra quel 2,16 e 2,26 lecorbuseriano), ciò che determina la misura 5x3 è il dimensionamento delle camerate, nucleo di base sia organizzativo-sociale, sia generativo del disegno architettonico dell’intero complesso. 5 metri non è altro che la larghezza della camerata, data dalla somma dei due file di letti e il passaggio centrale dimensionato a 80 cm. Il modulo 5x3 appare inoltre come una approssimazione delle proporzioni auree del Modulor di Le Corbusier. Ogni elemento in pianta risponde a questa griglia, che a sua volta ha un modulo di base di 50x50 cm che si materializza nella scansione dei serramenti; per quanto riguarda gli alzati si ritrovano le misure 2,5 - 3,5 e 5 metri.
Vittoriano Viganò 5x3
Le Corbusier sezione aurea
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“Struttura come forma” La struttura è caratterizzata dalla presenza ossessiva del trilite, sistema che, nato e sviluppato nella stretta collaborazione di Viganò con l’ingegnere Silvano Zorzi, finirà per costituire l’elemento identitario del complesso (dall’”immagine visivamente unitaria, netta e memorabile”2, come scrisse Zevi), sia in virtù della sua forza plastica, che per l’inedita proprietà di raccogliere sotto uno stesso linguaggio unitario e riconoscibile tutte le parti del complesso. Questo farà del Marchiondi il primo insieme di edifici nel suo genere in Italia. I portali in cemento armato scandiscono il ritmo dei percorsi e degli spazi. Si tratta di pilastri lamellari disposti parallelamente ai muri di tamponamento, gettati, per necessità espressive del materiale, in casseforme metalliche. La disposizione risponde rigidamente alla maglia 5x3 ed ognuno dei padiglioni appare come una variazione su questo tema, dove la costante non è rappresentata dalla direzione o luce, della struttura ma dalla tettonica imperante del trilite come sistema ordinatore e generatore. Solo nel caso del convitto, assumerà l’ordine gigante e servirà alla statica di un sistema formato da una doppia struttura: una interna, a sostegno dei solai, e una esterna, a sostegno dei volumi estrusi dei servizi a Sud e i corridoi di distribuzione settentrionali. Il sistema centrale, che include la spina coperta dalla pensilina e che genera il corpo della direzione, del soggiorno comune e infine il pergolato, è costituito dallo stesso portale ripetuto34 volte. Ci sono poche eccezioni a questa regola, una di queste riguarda la struttura del convitto. Persiste la presenza del trilite, trattato questa volta in ordine gigante, e si possono rilevare due strutture intercalate: una sostiene ciò che è periferico, i corridoi di distribuzione a Nord e i cubi dei servizi a Sud, l’altra invece porta il corpo centrale delle camerate.
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2. Zevi B. (1958) , I ragazzi non scappano. Il nuovo Marchiondi di Milano Baggio. Capolavoro del Brutalismo di Viganò. L’espresso 2 marzo 1958, ora in Cronache di Architettura, Volume terzo. Laterza, Roma, 1971
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Il trilite: forma e sostanza. Il principio di armonia e proporzione, inteso come il senso dell’insieme e delle parti, trova una sua materialità attraverso la pratica tettonica, intesa come la rappresentazione nel progetto delle forme stabili13. Nel caso dell’Istituto Marchiondi Spagliardi la tettonica non opera sul rivestimento ma agisce direttamente sulla forma della struttura, plasmando gli elementi portanti in modo da esprimere al meglio l’idea di progetto. Avviene lo stesso per numerose architetture brutaliste degli anni Cinquanta e Sessanta in cui la struttura, lasciata a vista e priva di rivestimento diviene espressione plastica dell’architettura. Le scelte progettuali ed estetiche che riguardano questo elemento, anticipano le istanze del New Brutalism e richiamano direttamente statuti propri del neoplasticismo, come ad esempio nel caso del celebre nodo tra trave e pilastro, dove la trave appoggia su un dente ritagliato nella struttura verticale e prosegue per alcuni decimetri oltre l’incrocio delle due strutture, rievocando in modo pressoché letterale il nodo degli elementi della sedia rosso blu di Rietveld. L’intento è quello di sottolineare l’indipendenza formale delle varie parti che compongono il trilite, senza creare una gerarchia tra queste. Nessun elemento predomina l’altro, coprendolo o mutilandolo, ma è mantenuta una purezza formale tale per cui ogni elemento è riconoscibile per quello che è. La ricerca di coincidenza tra forma e sostanza è dettata dalla necessità di veicolare, attraverso questo linguaggio, contenuti etici.
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Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Filosofia dell’arte (1802), Prismi, Napoli 1986 (citato da
Antonio Monestiroli, La metopa e il triglifo: nove lezioni di architettura, Laterza, Roma-Bari 2006)
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continuità spaziale Osservando la disposizione dei padiglioni e degli edifici emerge come da una parte, a Nord della spina centrale, il convitto, compatto e impermeabile, chiuda il lotto e dia le spalle a un appezzamento che, pur essendosi conservato libero, avrebbe potuto vedere innalzarsi un complesso residenziale, o dei capannoni a ridosso della cinta; ipotesi presagita da Viganò ma fortunatamente scongiurata; a Sud, al contrario, la disposizione a pettine del costruito, richiamando certe architetture vernacolari e conventuali lombarde sul corso del fiume Po, forma delle corti verdi sulle quali si affacciano le aule delle scuole elementari e medie. Colpisce l’occhio il vuoto al centro del complesso, costituito dal padiglione del soggiorno comune, praticamente privo di partizioni verticali opache: in questa lettura si perdono i confini tra esterno e interno e il padiglione si con la sua continuazione destrutturata: il pergolato formato dai soli triliti. L’attuale cinta non rispecchia l’originale concezione di recinzione che contemplava “Non alte mura, ma un muro basso, e verde, fatto piuttosto per segnare il confine della proprietà che non per escludere...non i principi di premeditato controllo, ma i principi di libera ospitalità e assistenza che hanno condotto a una libera distribuzione a schema integralmente aperto, ad edifici trasparenti”, come scrisse Viganò sulla rivista Comunità, nel pezzo “l’internato per ragazzi difficili”, del 1958.
Al cuore dell’Istituto In posizione centrale sorge il padiglione destinato a soggiorno e biblioteca. Caratteristica dominante di questo padiglione è la sua vocazione alla permeabilità. Completamente vetrato sui tre lati, presenta una pianta libera che si sviluppa su due livelli, di cui uno leggermente ribassato rispetto all’altro. Il dislivello è un interessante strategia qui messa in atto per delimitare gli spazi senza interromperne la continuità. Il padiglione è arricchito da arredi fissi in mattoni e cemento armato che apparentemente ignorano la separazione tra interno ed esterno ed attraversano le chiusure trasparenti accentuando la continuità spaziale. Osservando questa pianta, si intuisce come questo spazio al cuore del lotto sia stato pensato come completamente aperto. La vista è libera di spaziare e la vegetazione, che compenetra lo spazio chiuso in più punti, è sia protagonista che sfondo della scena. Il pergolato che si estende verso Ovest estremizza l’idea di smaterializzazione progressiva del costruito, lungo una direttrice potenzialmente infinita.
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2. “In Between”
dentro, fuori e tutto ciò che sta nel mezzo Come appare chiaramente dalla natura aperta dello schema planimetrico, l’essenza del progetto di Vittoriano Viganò si esprime con particolare forza nelle inesauribili modalità di risoluzione del rapporto tra interno ed esterno. Prima di andare ad approfondire la specificità di queste soluzioni architettoniche, costruttive e spaziali, occorre definire i confini tra dentro e fuori, con particolare attenzione a tutti gli spazi ibridi, come ad esempio i quelli che oggi appaiono come camminamenti coperti (anche se concepiti come spazi chiusi, come ad esempio il corridore centrale o i corridoi distributivi delle scuole elementari) o tutti quegli spazi esterni, ma che sono riconoscibili come vere e proprie stanze, spazi inclusi nella maglia strutturale dei triliti ma privi di una copertura o di chiusure verticali. Proprio questo spazio ibrido, “in between”, confine espanso tra interno ed esterno sarà oggetto centrale del progetto. I diagrammi quindi evidenziano, tramite una lettura per positivo-negativo, il rapporto tra il confine del lotto ed il costriuito, spazi chiusi, spazi coperti, aperti, ibridi (H) e pavimentati. ll lavoro di analisi è propedeutico all’individuazione di un range privilegiato di progetto, con l’obiettivo di ampliare usi e significati di questo spazio ibrido e dialogare con il confine espanso tra dentro e fuori, che non è mai linea ma si fa sempre spazio. L’interesse è guidato dalla volontà di evidenziare quelle parti dove il corpo a corpo tra la natura che prende il sopravvento e la materia grezza del cemento armato si fa più intenso. Il diagramma che meglio descrive lo spazio ibrido è il diagramma H, risultato dell’evidenziazione di spazio aperto contrapposto al chiuso, in aggiunta alla campitura di ciò che, pur non essendo spazio chiuso è incluso nella maglia strutturale composta dai triliti. Questa “zona grigia” comprende sia percorsi coperti da pensiline (o rimasti tali in seguito alla rimozione dei serramenti di chiusura, come la spina centrale e altri passaggi coperti che uniscono tra loro i padiglioni) sia gli spazi pergolati. Proprio in questi ambiti, dove l’accavallamento delle travi crea ricercati giochi di parallasse e di intreccio tra natura e architettura, si esprime più vividamente l’essenza del progetto. “Alcune travate principali sono (...) ripetute per definire gli spazi aperti che non soltanto costituiscono un prolungamento delle attività all’interno dell’edificio, come nel caso della scuola elementare, ma si rivelano delle vere e proprie stanze a cielo aperto, talvolta con la presenza di elementi vegetali”.14 Queste stanze a cielo aperto costituiscono di fatto il prolungamento degli spazi e delle attività che si svolgono all’interno dei padiglioni: d’estate, le lezioni nella scuola elementare, si potevano tenere all’aperto.
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4 F. Graf, “Dal concorso al progetto definitivo: la genesi dell’Istituto Marchiondi Spagliardi”, In L’istituto Marchiondi Spagliardi di Vittoriano Viganò , a cura di f. Graf e L. Tedeschi, Mendrisio Academy Press, Mendrisio, 2009.
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aperto chiuso ibrido (passaggi coperti, stanze a cielo aperto
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3. Relazioni organigramma
Lo schema organizzativo del complesso deriva direttamente dallo studio approfondito dell’organigramma dell’Istituto. Lavorando fianco a fianco con il professor Dino Origlia e il dottor Angelo Donelli, verranno messi a punto organigrammi precisi e minuziosi che chiariranno il funzionamento dell’istituto, i rapporti tra gli utilizzatori, le disposizioni spaziali tra le differenti parti del progetto e il carattere stesso dell’architettura. La definizione spaziale, funzionale e distributiva viene così messa a punto in aderenza al modello organizzativo, in perfetta aderenza con l’assunto di Luigi Moretti per cui “se si considera la struttura nella sua forma (propria e degli spazi che indica), la funzione che nella forma si implica, la forma espressiva come puramente tale, le tre forme in una opera di architettura debbono essere coincidenti, identiche, ciascuna momento indistinguibile dall’altra”.5 Il decentramento della sede dell’istituto ha permesso di sviluppare l’ogranizzazione degli spazi in orizzontale, consentendo non solo una nuova fluidità nell’articolazione delle parti e nella relazione tra loro, ma anche consentendo un rapporto continuo tra interno ed esterno. I diversi edifici acquisiscono caratteri distinti in base all’espressione e i materiali impiegati: struttura e sbalzi in cemento armato per il convitto, struttura plissettata per la chiesa (mai realizzata) paramenti in laterizio e ossatura intonacata per la scuola, struttura metallica per la palestra-teatro, anch’essa mai realizzata.
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Moretti L. Struttura come forma, su “Spazio”, anno III, dicembre- aprile 1951-1952, n. 6
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GRUPPO TIPO DI 12 RAGAZZI
EDUCATORI DI SETTORE
EDUCATORI DI GRUPPO
PERSONALE DI CUCINA ASSISTENZA RELIGIOSA
MAESTRO DEGLI EDUCATORI
SERVIZI VARI
ADDESTRAMENTO PROFESSIONALE
C.O.D. C.M.P.P.SEGRETERIA
SEGRETERIAECONOMAT O GUARDAROB A
DIRETTORE
PERSONALE DI FATICA
SEGRETARIO
PRESIDENTE
schema chiesa dormitori - 300 posti
lavanderia, calzoleria, guardaroba, bagno, docce
refettori, cucina, dispensa
centro psicotecnico
parlatorio sale gioco palestrateatro biblioteca studio musica s r
h uffici s consiglio t presid.
scuola 15-16 aule elementari 3 corsi prof industr. 3 profess. elettr. anche per esercit. laboratori 5-6 attivitÃ
Appartam. 6-7per il person + segret. dirett. economico
segreteria econ.
archivio, direttore censore direttore economico ingresso+portineria
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Impianto Queste sezioni, realizzate secondo un passo di 5 metri lungo l’asse della spina di distribuzione principale, restituiscono una visione volumetrica schematica dello sviluppo degli spazi chiusi, aperti e aperti-coperti; in ogni sezione si presenta la spina centrale, che si dirama in passaggi coperti (sez. 10 e sez. 29), oppure in percorsi trasversali come nel caso del braccio perpendicolare che mette in collegamento il parlatorio con il convitto (sez. 14 e sez. 15). i 34 portali che generano il corpo centrale sono la costante lungo l’asse di riferimento: a Nord spicca il volume del convitto mentre a Sud si attestano i padiglioni, disposti a pettine, formando delle corti chiuse su tre lati. Lo schema distributivo (che si sviluppa prevalentemente in orizzontale) concretizza le relazioni definite dall’organigramma, utilizzando tre dispositivi distributivi principali: 1. La spina centrale, un tempo corridore chiuso, sulla quale si attestano la direzione, la scuola media ed elementare la foresteria ed il soggiorno-biblioteca; 2. L’asse trasversale, che mette in comunicazione i suoi vertici, il parlatorio e il convitto, e allo stesso tempo connette alla spina centrale il padiglione dei servizi generali e foresteria; 3. Corridoi e distribuzione a pettine: la ciroclazione secondaria è sempre affidata a corridoi che portano a celle e aule, disposte a pettine rispetto a questi camminamenti.
L’asse perpendicolare Merita un particolare approfondimento la natura dell’asse di distribuzione perpendicolare al corridore centrale. Estrapolando la sezione 14 e 15 dalla sequenza di sezioni si può evidenziare un secondo dispositivo di distribuzione perpendicolare alla spina centrale, che serviva originariamente per mettere in collegamento il parlatorio, aula trasparente in angolo della foresteria, e il convitto, dove si trovavano camerate e refettorio per 400 ragazzi. Quest’asse, frutto di studi approfonditi dell’organigramma del complesso , permetteva ai ragazzi di raggiungere i genitori attraverso un percorso privo di deviazioni, indirizzato da setti e prospettive polarizzanti. Attualmente il dispositivo risulta corrotto dalle superfettazioni effettuate per impedire l’infiltrazione di intrusi nella sezione del complesso rimasta abbandonata e ormai inagibile, e dalle necessità organizzative del centro diurno per disabili ospitato nel padiglione che era un tempo destinato alla Direzione. L’intento rimane ormai leggbile soltanto nelle planimetrie originali e nella sezione di progetto qui riportata. Infatti l’occupazione del padiglione di testa da parte del un centro diurno, nonostante abbia contribuito alla conservazione di una piccola parte della struttura, restaurata filologicamente, ha contribuito alla fratturazione degli spazi e ha portato all’illeggibilità dei rapporti originari, che andrebbero invece tramandati.
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3. Il ruolo del verde La progettazione del verde rappresenta un elemento inseparabile dal progetto architettonico, per Viganò che, al secolo della partecipazione al concorso per l’Istituto Marchiondi Spagliardi, aveva già sperimentato intorno al tema sia in occasione dellla X Triennale, per la Mostra del fiore e del giardino, sia per il disegno degli spazi aperti del QT8 a fianco di Pietro Porcinai. Lo stato del Marchiondi non consente di conoscere precisamente le modalità con cui questa vegetazione, che copriva i 2/3 del lotto, si intrecciava visivamente e funzionalmente con il costruito e la sua volumetria. Non restano più nemmeno le tracce della vasca d’acqua, e amalapena si percepiscono i campi verdi che penetravano i padiglioni, i fori, che ancora si riescono a percepire, che probabilmente collegavano dei cavi aerei a costituire il pergolato. Dai progetti si percepisce però la ricchezza e la varietà del progetto del verde, pensato su più livelli, per mezzo della piantumazione sia di alberi, ma anche sottobosco fiorito, e di cespugli più bassi, piramidali. Oggi cosa resta? Racconta Attilio Stocchi, suo allievo: “(...) Un altro ricordo rispetto a quegli ultimi mesi in cui si parlava del Marchiondi è invece un pensiero molto bello e ottimista. Era colpito da come la natura andava a mangiare questa materia grezza ma era anche affascinato da questo rapporto di metamorfosi spesso amava farci vedere le foto dei viaggi che faceva. Negli ultimi anni era stato in centro America a vedere le opere degli Aztechi e dei Maya e gli piaceva paragonare il Marchiondi ai templi degli Aztechi e Maya, mangiati dalla natura. La malinconia di questo oggetto che andava a morire al contempo gli faceva piacere, nel pensare che questo rapporto di metamorfosi potesse dare qualcosa di più a questo oggetto. Tanto che appunto tra me e me pensavo che la materia assumeva il proprio ruolo, mi vien da dire, di boccioniana Mater”.6 Erano i primi anni novanta, e mentre a gran parte del complesso non è stata messa mano, il verde rimane intoccato solo dal 2009, quando fu eseguita una pulizia completa e una potatura a tappeto del verde, per facilitare i lavori di rilievo e ispezione in vista del progetto Politecnico di Milano coordinato da Massimo Fortis. Oggi la natura ha ristabilito la sua presenza, dando vita e forma ad un ecosistema vario, libero dall’intervento antropico.
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6. Estratto dell’intervento di Attilio Stocchi nella seconda giornata di studio sull’Istituto Marchiondi Spagliardi presso il Belvedere Pirelli in occasione del ciclo di conferenze Padiglione Architettura, il 26 novembre 2015.
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appunti
La sfida del lavorare sulla rovina sta nell’aprire una riflessione sulle relazioni che legano tra loro le parti che compongono un’architettura e ragionare sul senso che porta con sé ogni azione compositiva che aggiunga o sottragga segni ad un’opera; sta nell’opportunità di imbastire dialoghi a distanza con i maestri sul terreno dei loro stessi progetti; ma se per Francesco Venezia, come Franco Purini e Aldo Rossi, l’elemento centrale della loro ricerca è il frammento, nel caso dell’Ex Marchiondi, non è nella scala architettonica che si attinge la materia progettuale, ma in quella del paesaggio. Sarà comunque utile un excursus dei pensieri legati al tema della rovina. La rovina “attraverso un non finito figurativo mostra i differenti strati di una costruzione che si rivela espressione fisica, aperta a nuove configurazioni. In questo modo, di fronte all’oggetto statico ed ermetico al quale era appartenuto nella sua origine, la rovina introduce nello stesso un movimento che permette una nuova azione verso il presente. Rovina e “non finito” sono configurazioni distinte, dove la prima rivela uno stato incompleto dell’oggetto che si introduce nell’universo contemporaneo dell’architettura”1. È quasi automatico il parallelismo tra rovina e non finito:
UN DIALOGO APERTO CON I MAESTRI
INCOMPIUTO E ROVINA
“la rovina è ciò che resta di un edificio compiuto, il non finito è ciò che resta di un progetto compiuto, in grado di veicolare una forte valenza estetica poiché “nella loro incompiutezza hanno la forza di commuovere, di conseguire nuova o diversa bellezza”2 Anche Venezia afferma che “non c’è rinnovamento nell’architettura senza il rapporto col passato’’ e senza profonda conoscenza di esso; in architettura una buona parte di questo passato è rappresentato dalla rovina, che col passare del tempo ha perso parti che rappresentavano la sensibilità del periodo in cui era stato concepito il manufatto, acquistando un significato più universale, di “eterna attualità’’, essendo questo sopravvissuto al passaggio di numerose civiltà. Venezia, come Ettore Sottsass3, riflette su quanto sia fondamentale saper “progettare belle rovine’’; ciò che viene realizzato oggi, tra alcuni anni diventerà rovina e dovrà essere in grado di nutrire le menti delle nuove generazioni di architetti, così come ad esempio le rovine delle terme di Diocleziano hanno ispirato a Michelangelo la basilica di santa Maria degli Angeli e dei martiri. 1. Ugolini A. (2010) Ricomporre la rovina. Alinea. Firenze. 2. Francesco Venezia, Rovine e non finito 3. “Non ho mai pensato seriamente che esistessero progetti totali per salvare il mondo e l’umanità e ancora meno sono stato in grado di progettare un mio sistema personale... Mi sento sempre più nel mezzo di un immenso deserto di ruderi e mi sembra che tutto quello che faccio, qualunque progetto mi venga in mente, diventi subito un rudere, diventi una presenza solitaria della quale io stesso capisco sempre meno la ragione, sempre meno capisco le connessioni con il resto...Forse non mi resta altro che camminare tra i ruderi e forse, disegnando, non ho altro destino che quello di produrre ruderi, voglio dire produrre progetti che calino senza spiegazioni in mezzo a milioni di altri progetti di cui non conoscerò mai e mai più le logiche, né i collanti, né le connesioni”. Ettore Sottsass - Rovine, Design Gallery Milano 1992
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SUL FASCINO PER LA ROVINA
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François René de Chateaubriand sostiene che tutti gli uomini avvertano una più o meno manifesta attrazione per le rovine, risvegliata forse dalla fragilità della natura umana, o più probabilmente da “une conformité secrète” tra i monumenti distrutti e la brevità della nostra esistenza.4 Parte del fascino delle rovine consiste nella capacità di alludere ad altro da sé, indipendentemente dal modo in cui possano venire percepite, utilizzate o reimpiegate. L’emozione che le rovine producono non è semplicemente provocata dal senso di caducità che ispirano, ma anche da un sentimento nostalgico rispetto a un’integrità originaria. Spesso le rovine, e non solo quelle antiche, provocano turbamento perchè fanno riaffiorare ricordi tragici e dolorosi di distruzioni e morti aprendo gli occhi dello spettatore “su di un mondo in rovina” 5. Il fascino della rovina sta anche nella sua capacità intrinseca di sfuggire al presente: le rovine sono, come l’arte, un invito a sentire il senso del tempo: sfuggono al flusso contemporaneo risvegliando nell’osservatore la coscienza della mancanza: l’occhio osserva le rovine come se fossero un oggetto attuale ma, nello stesso tempo, la loro datazione incerta rende quasi impossibile un riferimento ad una epoca fissata nella memoria storica come immagine.6 La loro bellezza dipende dalla loro inafferrabilità, ma il fascino che esercitano è dovuto anche al fatto che, nella rovina, l’opera dell’uomo viene assimilata all’opera compiuta dalla natura,7 e le rovine parlano, con un loro proprio linguaggio capace non solo di suscitare nostalgia per un passato glorioso ma anche di fornire strumenti per affrontare il presente, con «megalophyés», cioè con la grandezza propria delle anime nobili. Salvatore Settis nel libro “Il futuro del classico” si interroga sulla genesi di questo fascino, sotto un punto di vista più emotivo che intellettuale. Settis dimostra come si tratti di un fenomeno europeo, occidentale, che non è riscontrabile con la stessa intensità in altre parti del mondo. In oriente, (e questo ha a che vedere anche con le tradizioni costruttive, l’uso diffusissimo di materiali più facilmente deperibili, come il legno o la carta di riso, e il rapporto di alcune culture, come quella cinese, al tema del restauro), le rovine antiche non sono tutelate. La parola “rovina” ha una connotazione negativa, è semplicemente sinonimo di desolazione. Gli edifici fatiscenti, anche di valenza iconografica forte (come i templi e gli edifici istituzionali) vengono distrutti e ricostruiti uguali conservandone più l’immagine che la materia: conservando quindi l’essenza di ciò che deve essere tramandato. Dall’Alto Medioevo, fino all’età moderna, in Europa le rovine di epoca grecoromana sono state le uniche ad essere conservate, forse perché in periodi di declino delle civiltà, questi resti mostravano la grandezza di un’altra civiltà, ormai passata, che si ammirava e a cui si riconosceva la capacità di erigere costruzioni tanto imponenti e durature. Attraverso i resti di questi monumenti era possibile studiare e tentare di capire le ragioni del declino di Roma: le rovine diventarono allora un grande paradigma della caducità dell’uomo e delle sue opere, ma mostravano, contemporaneamente, anche una possibilità di salvezza. Avevano il potere di risvegliare la fantasia ed evocare, tangibilmente, ciò che veniva descritto dagli autori classici, quello che si trovava nei manoscritti degli autori antichi; ma soprattutto, le rovine cominciarono a suscitare ammirazione per la loro bellezza, alla quale il mondo contemporaneo 4. F.R. de Chateaubriand, (1966) Génie du Christianisme, Flammarion, Paris 5. A. de Musset, (1916) La confession d’un enfant du siècle, Flammarion, Paris 6. Marc Augé, (2004) Rovine e macerie. Il senso del tempo, Torino, Bollati Boringhieri, p. 97, 7 ivi p.124
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non era in grado di contrapporre nulla di paragonabile. L’antichità diventò dapprima fonte d’ispirazione e modello, poi emulazione, e infine, con la costruzione delle grandi cupole e volte delle chiese rinascimentali e barocche, il trampolino di lancio del desiderio innato di superare gli antichi. Per Simmel, piuttosto, il fascino della rovina sta in ciò: “che un’opera dell’uomo venga percepita in ultima analisi come un prodotto della natura. Le medesime forze che, tramite decomposizione, dilavazione, frane, proliferare di vegetazione procurano alla montagna la sua configurazione, si sono dimostrate efficaci nei ruderi. Già il fascino delle forme alpine, che pure sono perlopiù tozze, casuali, insulse dal punto di vista artistico, riposa sulla percezione di un contrasto fra due tendenze cosmiche. Mentre l’elevazione vulcanica, la deriva dei continenti o la lenta stratificazione hanno innalzato la montagna verso l’alto, pioggia e neve, decomposizione e declivio, disgregazione chimica nonché l’effetto del lento imporsi della vegetazione hanno segato e svuotato l’estremità superiore, hanno fatto precipitare in basso parti delle sommità e in tal modo dato ai contorni la loro forma. In questa noi avvertiamo perché la vita di quelle tendenze di energie differenti e, sentendo risonare al di là di ogni elemento formalmente estetico istintivamente in noi stessi quesit contrasti, cogliamo l’importanza della configurazione nella cui questa unità essi si sono raccolti. Ciò che ha diretto la costruzione verso l’alto è la volontà umana, ciò che invece le conferisce il suo aspetto attuale è la forza meccanica della natura, forza corrosiva e distruttiva che trascina verso il basso.”8
GEORG SIMMEL E IL FASCINO PER LA ROVINA
“La rovina dunque indica un processo inverso a quello del progetto architettonico mettendo in evidenza la falsa coscienza del progetto e nello stesso tempo facendosi sperimentare attraverso la tragicità e la malinconia che proviamo, per il suo venir meno,la funzione sociale di metabolizzatore di ogni conflitto che il progetto aveva”9 “Essa non lascia tuttavia precipitare l’opera nell’informe della mera materia, almeno nella misura in cui si parla di una rovina e non di un mucchio di sassi: nasce una nuova forma che, considerata dal punto di vista della natura è assolutamente significativa, intellegibile, autonoma. La natura ha fatto dell’opera d’arte il materiale d’una sua formazione, proprio come l’arte si era servita in precedenza della natura come sua materia. Questa misteriosa armonia per la quale l’opera grazie ad un momento chimicomeccanico diviene più bella e l’oggetto di una volotnà grazie ad un elemento libero e involontario acquista una nuova espressione, si fa più bello e conserva la sua unità - ecco il fascino fantastico e trasparente della patina. Conservando questo fascino, la rovina ora ne consegue però anche un secondo del medesimo ordine. Infatti la distruzione della forma spirituale grazie all’azione delle forze naturali, quel rovesciamento dell’ordine consueto, viene percepito quale un ritorno alla “buona madre”, come Goethe definisce la natura.”10
8. G. Simmel, (1911) “Die Ruine”, in Philosophische Kultur. Gesammelte Essays, Leipzig 1911, trad. it. di G. Carchia, in “Rivista di Estetica”, n. 8, 1981, pp. 121-12 9. Speroni F. (2002) La Rovina in scena, per un’estetica della comunicazione, Meltemi editore, Roma. 10. G. Simmel, (1911) “Die Ruine”, in Philosophische Kultur. Gesammelte Essays, Leipzig, trad. it. di G. Carchia, in “Rivista di Estetica”, n. 8, 1981, pp. 121-12
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COS’È LA ROVINA?
ROVINA E PROGETTO ARCHITETTONICO
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Il termine rovina ha un doppio significato: può indicare sia un processo che l’esito di quel processo. Implica un processo di una realtà strutturata, inizialmente unitaria, che ci rimanda al deperimento e alla distruzione e che può avvenire più o meno rapidamente, e può essere originata da ragioni sia esterne che interne alla realtà stessa. Ma indica anche il risultato materiale della distruzione, i resti della disintegrazione che resistono nel tempo a testimoniare ciò che era una volta e ciò che è accaduto e possono rappresentare un’occasione per ripercorrere, le origini della propria identità. La rovina non rappresenta solo la debole voce di un passato in parte scomparso ma è soprattutto un generatore di memoria. Attraverso essa, come scrive Settis, riusciamo a cogliere la “presenza del passato, il sedimentarsi delle età, l’innestarsi dell’oggi su una moltitudine di ieri.”11. Gli oggetti di architettura del passato, che giungono fino al presente, si possono mostrare sotto diversi aspetti, dalla rovina archeologica all’edificio storico, dal tessuto urbano sedimentato al tracciato regolatore. Tutti questi reperti raramente conservano le loro caratteristiche originarie, accade più più spesso che siano il risultato di precedenti trasformazioni che possono essere dovute a interventi intenzionali o a cause naturali. Spesso rimane poco dell’intenzione originaria, a volte rimangono solo resti modificati da più eventi stratificati nel tempo; è importante però notare che anche quando il costruito è arrivato a noi in modo quasi integro si tratti sempre una conservazione parziale, in quanto esso è sopravvissuto all’universo culturale che lo ha originato e appartiene a quello contemporaneo. Alla domanda di come la presenza della “rovina” può influenzare la fase progettuale e quale tipo di rapporto l’architettura ha stabilito con la presenza delle rovine nate dal passato, “le rovine del tempo che ha perduto la storia o che la storia ha perduto”,12 possiamo rispondere che ne è quasi sempre derivato un arricchimento della sfera progettuale, sia sul piano teorico, che costruttivo. Se osserviamo le architetture del passato possiamo considerarle spesso “palinsesti” di complicati processi di trasformazione, dovuti ai ripetuti cambiamenti delle condizioni storiche e sociali, e da presupposti progettuali che hanno scelto di intervenire, a differenza di quanto accade oggi, su suoli già edificati. Accadeva spesso che le architetture posteriori adeguassero alle preesistenti strutture nuove funzioni servendosi di tecniche di ri-significazione spaziale, basate su procedimenti che ne modificavano la tipologia. In passato dunque la rovina è stata considerata come una risorsa disponibile da utilizzare: “Giancarlo de Carlo, che ha misurato sul piano teorico ed operativo la complessità del rapporto nuovo-antico durante il lungo periodo di lavoro ad Urbino, evidenzia come alcune fabbriche, nel corso dei secoli, si riescano ad adeguarsi a nuove funzioni, spesso assai diverse da quelle originarie. Questa capacità, che De Carlo definisce “riverberazione” è riprova della vitalità di un edificio e segna il limite di ciò che può essere soggetto a riuso o restauro.”13 Gli interventi architettonici contemporanei, al contrario, spesso si basano sull’accettazione dello stato di conservazione dell’edificio, anche se degradato. Questa è una posizione concettuale che capovolge la visione del mondo classico, conservatasi fino al Novecento, che riconosceva la capacità 11. S. Settis, “Una panchina davanti ai ruderi “, la Repubblica, 27/10/2006 12. Augé M. (2004) Rovine e macerie. Il senso del tempo, Torino, Bollati Boringhieri p. 135 13. Ugolini A. (2010) Ricomporre la rovina. Alinea. Firenze.
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dell’edificio di esistere in forma temporalmente indeterminata e che dava all’architetto la facoltà di trasmettere, attraverso le proprie opere, quel magico dono dell’immortalità che l’uomo in sé non possiede.14 Dalla Carta del Restauro, voluta da Cesare Brandi nel 1972,15 nasce la teorizzazione del prestare la massima attenzione allo «stato del rudere» considerato bello per se: la preoccupazione di Brandi era di natura storicoartistica16 e ha sia permesso la conservazione di molti reperti che facilmente sarebbero andati perduti, ma anche provocato il congelamento di qualsiasi intervento di progettazione in ogni parte d’Italia. Per la paura di distruggere tracce del passato si è lasciato tutto inalterato: questo atteggiamento ha ottenuto meriti scientifici per il “non intervento”, ma ha anche inaugurato una fase di completo immobilismo. Per Marc Augé le rovine costituiscono l’alternativa al tempo storico e allo spazio spettacolarizzato: in esse si avverte il “senso puro” e la “massiccia attualità”; le rovine rappresentano il punto più alto dell’arte e raccolgono innumerevoli passati, esperienze e rappresentazioni. La vista delle rovine ci fa fugacemente intuire l’esistenza di un tempo che non è quello di cui parlano i manuali di storia o che i restauri cercano di richiamare in vita. È un tempo puro, non databile, assente da questo nostro mondo di immagini, di simulacri e di ricostruzioni, da questo nostro mondo violento le cui macerie non hanno più il tempo di diventare rovine. Un tempo perduto che l’arte talvolta riesce a ritrovare.17Contemplare rovine, per Augè, significa fare esperienza del tempo e non viaggiare nella storia: infatti esse sono temporali e testimoniano molti passati, “le rovine esistono attraverso lo sguardo che si posa su di esse. Ma fra i loro molteplici passati e la loro perduta funzionalità”, è possibile percepire un tempo al di fuori della storia “cui l’individuo che le contempla è sensibile come se lo aiutasse a comprendere la durata che scorre in lui”.18 Per riprendere coscienza della storia occorre reimparare a sentire il tempo ed è molto difficile farlo nel periodo attuale della nuova modernità, della “surmodernità” che vive e si costruisce sul solo presente. L’architettura contemporanea non tende all’eternità, all’eternità di un sogno di pietra, ma mira ad un presente continuamente sostituibile. Le macerie accumulate dalla storia recente e le rovine nate dal passato non si assomigliano. Vi è un grande scarto fra il tempo storico della distruzione, che rivela la follia della storia (le vie di Kabul o di Beirut), e il tempo puro, il tempo in rovina, le rovine del tempo che ha perduto la storia o che la storia ha perduto”.19 La storia futura non produrrà più rovine, gli manca il tempo.
14. cfr.Paul Valéry, Eupalino o l’architetto, Biblioteca dell’ immagine ed., Padova, 1989 15. Carta Italiana del Restauro, 1972 ( MIinistero della Pubblica Istruzione) 16. C. Brandi definisce il restauro «il momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte, nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica, in vista della trasmissione al futuro». cfr. C. Brandi, Teoria del restauro, Einaudi, 1977 17. Augé M. (2004) Rovine e macerie. Il senso del tempo, Torino, Bollati Boringhieri p. 135 18. ibid. p.41 19. ibid. p.139
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“Non ho mai pensato seriamente che esistessero progetti totali per salvare il mondo e l’umanità e ancora meno sono stato in grado di progettare un mio sistema personale... Mi sento sempre più nel mezzo di un immenso desertodi ruderi e mi sembra che tutto quello che faccio, qualunque progetto mi venga in mente, diventi subito un rudere, diventi una presenza solitaria della quale io stesso capisco sempre meno la ragione, sempre meno capisco le connessioni con il resto... Forse non mi resta altro che camminare tra i ruderi e forse, disegnando, non ho altro destino che quello di produrre ruderi, voglio dire produrre progetti che calino senza spiegazioni in mezzo a milioni di altri progetti di cui non conoscerò mai e mai più le logiche, né i collanti, né le connesioni”
Ettore Sottsass - Rovine, Design Gallery Milano 1992
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“Trascinando i miei ricordi nel suo fluire, il tempo, più che logorarli e seppellirli, ha costruito coi loro frammenti le solide fondamenta che procurano al mio procedere un equilibrio più stabile e contorni più chiari alla mia vista. Un ordine è stato sostituito con un altro. Fra questi due pilastri che segnano la distanza fra il mio sguardo e il suo oggetto, gli anni che li corrodono hanno cominciato ad ammassare i frammenti. Gli spigoli si assottigliano, intere fiancate crollano; i tempi e i luoghi si urtano, si sovrappongono o si capovolgono, come sedimenti smossi dal tremito di una scorza decrepita. Un antico particolare insignificante emerge come un picco, mentre interi strati del mio recente passato si cancellano senza lasciare traccia. Avvenimenti senza rapporto apparente, provenienti da periodi e da regioni eterocliti, scivolano gli uni sugli altri e all’improvviso si immobilizzano in una specie di castello del quale abbia studiati i piani un architetto più sapiente di questa mia storia”.
analogia tra ricordo e rovna - Claude Lévi-Strauss, Tristes Tropiques
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“La rovina è il tempo che sfugge alla storia: un paesaggio, una commistione di natura e di cultura che si perde nel passato ed emerge nel presente come un segno senza significato, o, per lo meno, senza altro significato che il sentimento del tempo che passa e che dura contemporaneamenteâ€?
Marc AugĂŠ, Le temps en ruines, 2003
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Roma 7 novembre 1786 Questa sconfinata profondità opera in noi silenziosamente» quando ci aggiriamo per le vie di Roma in cerca di cose da ammirare. Altrove bisogna cercare attentamente per iscoprire cose che abbiano significato, qui invece ne siamo circondati e riempiti Dovunque si vada o si stia si è sicuri d’aver davanti agli occhi un quadro vario e complesso. Palazzi e ruine, giardini e deserti, vastità ed angustia, cupole e stalle, archi di trionfo e colonne spezzate, e spesso tutte queste cose così vicine le une a le altre che si potrebbero disegnare in un solo foglio. Ma ci vorrebbero migliaia di bulini per esprimere quello che vorrebbe dire una sola penna! E poi la sera si torna a casa stanchi ed esausti per l’ammirazione e per la meraviglia...
Johann Wolfgang von Goethe, Viaggio in Italia, 1816
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Ci sono luoghi dove muore lo spirito perché nasca una verità che ne è l’esatta negazione. Quando sono andato a Djemila, c’era vento e sole, ma questa è un’altra storia. Prima bisogna dire che vi regnava un gran silenzio pesante e senza incrinatura -- qualcosa come l’equilibrio della bilancia. I gridi degli uccelli, il suono felpato del flauto a tre buchi, uno scalpiccio di capre, suoni venuti dal cielo, tanti rumori di cui erano fatti il silenzio e la desolazione di quei luoghi. [...] E ci si trova là, raccolti, messi di fronte alle pietre e al silenzio, man mano che il giorno avanza e le montagne s’ingrandiscono diventando viola. Ma il vento soffia sul pianoro di Djemila. Nella gran confusione del vento e del sole che mescola alle rovine la luce, si forgia qualcosa che dà all’uomo la misura della sua identità con la solitudine e col silenzio della città morta.
Albert Camus, Il vento a Djemila, in L’estate e altri saggi solari. il vento che rompe il silenzio come metafora della rottura dell’imperturbabilità dell’esistenza individuale 174
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“Al di là del nichilismo, noi, tutti, tra le rovine, prepariamo una rinascita. Ma pochi lo sanno”
Albert Camus, L’uomo in rivolta, L’ottimismo profetico di Camus, rivelatosi purtroppo errato, auspicava un passaggio da quella ragione totale che “non ama più la vita” a quella ragione della misura sempre consapevole dei limiti che la vita stessa impone 175
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Mentre tutto concorre a farci credere che la storia sia finita e che il mondo sia uno spettacolo nel quale quella fine viene rappresentata, abbiamo bisogno di ritrovare il tempo per credere alla storia. Questa potrebbe essere oggi la vocazione pedagogica delle rovine
Albert Camus, Il vento a Djemila, in L’estate e altri saggi solari. il vento che rompe il silenzio come metafora della rottura dell’imperturbabilità dell’esistenza individuale 176
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Non è facile vedere le rovine, perché sei costretto a visitarle in gruppo, con altra gente, quasi fosse uno spettacolo. Io ho avuto la fortuna, in Cambogia, ad Angkor, e in Guatemala, a Tikal, di ritrovarmi da solo di fronte ad esse. Il paesaggio delle rovine non è assolutamente un paesaggio storico, nel senso che non è quello visto dalle persone vissute nei secoli precedenti. A Tikal sorgeva una città immensa, gran parte della quale è ancora sepolta dalla foresta equatoriale. Quello che noi vediamo sono solo i monumenti che escono dalla foresta, ed è affascinante quel miscuglio di pietra e di natura, di tracce umane e di vegetazione. Contemplare le rovine non equivale a fare un viaggio nella storia, ma a fare un’esperienza del tempo. Del tempo “puro”, non databile. Fra i loro molteplici passati e la loro perduta funzionalità, quel che di esse si lascia percepire è una sorta di tempo al di fuori della storia. In questo consiste
la vocazione pedagogica delle rovine. La loro contemplazione ci permette di reimparare a sentire il tempo e, quindi a riprendere coscienza della storia. Mentre
tutto concorre a farci credere che la storia sia finita e che il mondo sia uno spettacolo nel quale quella fine viene rappresentata, abbiamo bisogno di ritrovare il tempo per credere alla storia. Oggi abbiamo forse bisogno di rifare l’esperienza del tempo per riuscire a reimparare a capire e apprezzare la storia. Per rimettere le nostre società nella “storia”.
http://www.giovaniartisti.it/articoli/leterno-presente-ela-pedagogia-delle-rovine
Intervista a Marc Augé xxx 177
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“Giro tra le rovine di Milano. Perché questa esaltazione in me? Dovrei essere triste, e invece sono formicolante di gioia. Dovrei mulinare pensieri di morte, e invece pensieri di vita mi battono in fronte, come il soffio del più puro e radioso mattino. Perché? Sento che da questa morte nascerà nuova vita.”
Alberto Savino, “Ascolta il tuo cuore, città”
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“Su vai a Roma che è insieme il paradiso, la tomba, la città e il deserto; e passa dove le rovine s’ergono come montagne frantumate, e gramigne fiorenti e le piccole selve profumate vestono l’ossa nude della desolzione finché lo spirito del luogo guiderà i tuoi passi a un declivio il cui accesso è verdeggiante, dove come il sorriso di un bambino fra l’erba sopra i morti si distende una luce di fiori sorridenti...”
Percy Bysshe Shelley, Adonais e altre poesie, Rusconi Libri 1971
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“Così straordinarie e geniali fantasie come quelle che egli ha realizzato nelle diverse tavole dei Templi, delle Terme, dei Palazzi e di altri edifici io non ho mai veduto e rappresentano il maggior fondo per ispirare ed esaltare l’invenzione in chiunque ami l’architettura, che si possa immaginare”
Robert Adam, 1755
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“Ora, fra tutti, l’atto più completo è quello del costruire (...) sbaglierò talvolta e vedremo qualche rovina, ma che importa, se sempre, e con vantaggio, un’opera mancata può considerarsi come un passo che ci avvicina al più bello?”
Paul-Ambroise Valéry, Eupalinos (1921)
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“Il tempo ci sfugge ma il segno del tempo rimane�
Baustelle, Le rane.
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Relazione di progetto strategia
I . Sinopsi - “Il corpo del malato” Il complesso disegnato da Vittoriano Viganò, che si contraddistingue per la sua eccezionale singolarità e fortuna critica costituisce oggi uno spazio tipicamente eterotopico all’interno del tessuto scarsamente consolidato di Baggio. I padiglioni, attestati su una spina centrale, mantengono coerenza formale grazie all’impiego a tutto campo del trilite. Lo stato attuale della flora è caratterizzata da una pervasione e compenetrazione totale tra manufatto architettonico e verde, esasperando il tentativo dell’architetto di garantire il rapporto verificato in ogni parte del progetto, tra architettura e verde. Questo progetto di tesi non offre solo l’opportunità di immaginare e costruire scenari futuribili per la rigenerazione sostenibile di architetture moderne e contemporanee cadute in abbandono, ma anche un simbolico terreno di denuncia, dove lo stato critico di questo patrimonio viene reso manifesto. II . Strategia Il progetto di riappropriazione nasce con specifici obiettivi ed esigenze. Il primo obiettivo è quello di dare al monumento un valore di porta Ovest alla città: il progetto si svolgerà con due direzioni e scale diverse: un dispositivo che dialoghi con la scala urbana metterà in relazione la periferia di Baggio con il parco agricolo, facendo assumere all’area un ruolo di porta urbana classica. Il Marchiondi presenta le caratteristiche monumentali, relazionali e simboliche per poter rappresentare una nuova Porta Ovest di Milano. A scala locale il lotto fungerà da filtro e cerniera tra due aree verdi, poste rispettivamente a Nord e Sud dell’area. Vi è la volontà di rompere il processo di abbandono e arrestare o quantomeno rallentare il più possibile il processo di degrado - non solo materiale - che oggi caratterizza il complesso. La variabile prioritaria, a vuole essere quella della sostenibilità economica, tramite un approccio in cui “l’erudizione del restauro”, come strumento di ricostituzione materiale del manufatto è rifiutato, al fine di garantire l’esaltazione del grandioso palinsesto che è oggi l’Ex Istituto Marchiondi Spagliardi. Conservazione nel rispetto della stratificazione, quindi, assecondando quella che ad oggi sembra essere un’eccessiva insostenibilità di un recupero materiale completo ai fini di una totale rifunzionalizzazione del complesso. I diversi gradi di libertà che questo approccio può assicurare, si avvalgono dell’indipendenza del progetto dalle necessità funzionali. In questo caso è quindi il programma, la componente flessibile del progetto, capace di piegarsi alle possibilità che possono essere offerte dal complesso, nel rispetto di morfologia, vocazione e realtà materiale del luogo.
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ROVINA COME MATERIA DI PAESAGGIO PIANO TERRA Per rimarcare la vocazione pubblica dell’area, uno dei temi principali tratta la riconnessione del piano terra e la permeabilità degli spazi. L’evidenziazione della spina centrale come asse prioritario si presta anche alla necessità di un collegamento diretto del complesso con la futura fermata della metropolitana, oltre la tangenziale, al limite del quartiere Gli Olmi. Trattandosi di un intervento dalla forte valenza paesaggistica e narrativa, uno degli obiettivi primari sarà anche quello di dare al complesso un’ingresso scenico, che dia forza alla già potente composizione: questo compito sarà demandato al disegno del parco, la rovina e il suo rapporto con la passerella, secondo ragioni fondamentalmente percettive. La vocazione generale tende all’improduttività dell’area: “istruire lo spirito del non fare”1, “elevare l’improduttività fino a conferirle dignità politica”2, in modo da “salvaguardare dal poterel’utilizzo di questo tempo non produttivo che altrimenti sarebbe (stato) convogliato nel sistema di consumo capitalista”3; “Giocare significa uscire deliberatamente dalle regolee inventare le proprie regole, liberarel’attività creativa dalle costrizioni socioculturali, progettare azioni estetiche e rivoluzionarie che agiscano contro il controllo sociale.”4 Rifugio per la diversità, sociale, biologica, Riserva come “luogo non sfruttato la cui esistenza è legata al caso oppure a una difficoltà di accesso che rende lo sfruttamento impossibile o costoso.”5 L’offerta di spazi di contemplazione è vista come necessità complementare.
interventi di campo abaco degli elementi
STRATIFICAZIONI
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VOLUMI SUPERFICI ROVINA CONNESSIONI PARCO
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5 predisposizione dei pod funzionali ai servizi minimi all’interno dell’area. 4 posa delle piattaforme 3 pulizia, messa in sicurezza, predisposizione della segnaletica, degli impianti minimi e delle chiusure necessarie. 2 tessitura dei tracciati connettivi tra le parti dell’area e creazione delle relazioni con il territorio circostante. 1 progetto del verde in complementarietà alla rovina, con criteri di rigenerazione e di ri-equilibrio dell’ecosistema.
Gilles Clement, Manifesto del terzo paesaggio, pag 59 op. cit. pag 63 Francesco Careri, Walkscapes, Camminare come pratica estetica pag. 74 op. cit. pag 74 Gilles Clement, Manifesto del terzo paesaggio, pag 7
s tra te gi a
III . La rovina e il giardino Il progetto rifiuta il consumo di suolo, in un territorio che deve strenuamente esserne difeso. L’abbandono dell’area ha portato alla creazione di un ecosistema con una biodiversità in equilibrio, che verrà rispettata, grazie all mantenimento di specie autoctone comuni lombarde o specie già presenti nell’area. L’effetto scenico è demandato al binomio rovina+vegetazione, con l’obiettivo di mantenere un’atmosfera spontanea, generatasi con la mancanza di intervento antropico nell’area. “Il terzo paesaggio può essere visto come la parte del nostro spazio di vita affidato all’inconscio. Profondità dove gli eventi si accumulano e si manifestano in modo, all’apparenza, indecisa.” (Gilles Clément, Manifesto del Terzo Paesaggio) “Il carattere della materia è transitorio, la natura ritrova una nuova wilderness, uno stato selvaggio ibrido e ambiguo, antropizzato e poi sfuggito al controllo dell’uomo per essere riassorbito dalla natura.” (Francesco Careri, Walkscapes: camminare come pratica estetica) III. I dispositivi per la fruizione 1. LA ZATTERA Una pedana composta dal elementi modulari in grigliato mettallico imposta un livello zero, costituendo un nuovo piano di circolazione che ha multeplici finalità: • delineare, per negativo, dei veri e propri recinti archeologici che il passante potrà osservare dall’esterno; • generare flussi che valorizzino i coni di percezione privilegiati della rovina, delle linee di attraversamento preferenziali che esaltino, le intenzioni percettive originali; • proteggere lo strato sottostante dal calpestio, conservandone il più possibile lo stato, già compromesso; questa stratificazione entrerà in comunicazione sia con la rovina che con la vegetazione, fino ad poter esserne integralmente incorporata. • connettere i due parchi, a Nord e a Sud dell’area, tramite un dispositivofiltro. La reversibilità del dispositivo è garantita dal disegno modulare e dall’assemblaggio a secco delle sue componenti. Il focus del progetto ricade naturalmente sugli spazi aperti che nascono come vere e proprie stanze all’aperto, le parti in cui la fusione tra natura e architettura è più forte ed evidente: originariamente nel progetto di Viganò questi spazi non rappresentavano solo prosecuzione fisica e percettiva degli interni, la continuità infatti è anche funzionale: era possibile attuare all’aria aperta lo stesso programma che si svolgeva normalmente al chiuso. Quindi, ad esempio, il padiglione centrale , destinato ad attività collettive, si estende in un pergolato dove le chiusure superiori e verticali si smaterializzano per scoprire la nuda struttura del trilite a formare una pergola. Così avviene anche per la scuola elementare, dove nella bella stagione le lezioni potevano essere svolte all’aperto, e infine per il parlatorio, spazio dove i ragazzi
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svolgevano periodici colloqui con i parenti in visita. La geometria nasce da un modulo 50x50, il modulo base su cui si genera tutta la composizione del complesso. I confini della zattera sono delineati ricalcando proprio i confini di questi spazi in-between. 2. LA BANCHINA Una passerella in acciaio rimarca la spina centrale impostando un nuovo livello di attraversamento dell’area, alla stessa quota del primo piano di camerate del convitto. Questo dispositivo, dalla scala paesaggistica, attraversa il lotto e si protende verso un potenziale infinito. Potrà collegare, nella sua ultima fase di costruzione, l’intero lotto alla nuova fermata della metropolitana M1 prevista oltre il raccordo della tangenziale, nel quartiere Gli Olmi. Questo nuovo dispositivo è stato pensato per: • impostare un nuovo livello di percezione che ricostruisca i rapporti visivi che, rifunzionalizzando solo il piano terra, sono andati perduti • portare il visitatore a interagire con le fitte chiome degli alberi, parte integrante del palinsesto del paesaggio attuale; • fungere da Il dispositivo è costituito da una spina centrale, una trave reticolare composta da dieci moduli identici che poggiano su dei pilastri in acciaio scatolari 30x30 Quest’asse nasce come collegamento simbolico tra il parco agricolo e la città, facendo assumere all’area il ruolo di porta Ovest alla città di Milano. Le tre strutture di risalita, che differiscono tra loro per proporzioni e caratteri formali. La prima è una passerella a chiocciola che genera uno spazio raccolto, il cui sedime coincide con le tracce del progetto della chiesa, mai costruita, che avrebbe dovuto occupare proprio la porzione Sud-Est del lotto. La seconda è costituita da una serie di rampe e piattaforme che, da un lato portano il visitatore a godere dalla peculiare vista che, dalla scuola media, apre uno sguardo a Est sull’intero lotto, dall’altra, disincentiva ad avvicinarsi a una delle facciate più pericolanti del complesso, ma porta a goderne da vicino, da un punto di vista protetto. Infine, la torre, si innalza fino alla quota coincidente all’ultimo livello del convitto. In tutti i casi la priorità è quella di ricostruire una percezione del rudere che in questo stato di fruizione del complesso è andata perduta: nel caso della chiocciola, generare un volume che saturi l’angolo Sud Est del lotto, e che facesse da ingresso scenico dalla città, nel caso degli spalti, come già anticipato, la volontà è quella, come anche per la torre, di ricostruire la vista che si poteva avere dai piani superiori: nel primo caso dalle aule della scuola media, mentre nel secondo caso, dai corridoi che distribuivano le camerate del convitto.
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3. LE BOE Alcuni episodi puntuali rispondono alle necessità funzionali primarie del parco. Il loro posizionamento è pensato per suscitare una impressione di scoperta continua: mentre la passerella è l’elemento a scala paesaggistica sempre presente, che segna un nuovo costante ritmo che si accavalla a quello già imperante del trilite. Le boe sono intese come elementi “galleggianti” nel verde e nella rovina, si nascondono dietro al velo della vegetazione e dialogano con le proporzioni e gli elementi dell’architettura. Abbiamo: • i bagni, un piccolo pod all’incrocio dei due assi; • un padiglione-serra multifunzionale, lanterna verso Baggio visibile da via Noale da chi raggiunge l’area in autobus; una piccola caffetteria coperta, nel padiglione centrale. 4. LE CHIUSURE I minimi interventi di demolizione riguardano principalmente le superetazioni, messe in opera in seguito alla assegnazione del padiglione di testa, un tempo occupato dalla direzione, al Centro Diurno per disabili che lo occupa ormai da quarant’anni. Queste opere sono costituite principalmente da muri in blocchi di cemento. Alcuni piccoli interventi riguardano la ricostituzione degli assi principali di circolazione, il corridore centrale e l’asse trasversale, che fungerà da canale privilegiato di connessione tra il parco a Nord del lotto e quello a destinazione sportiva che invece si trova a Sud. Infine, per limitare l’accessibilità degli interni che non hanno goduto di interventi di restauro, sono stati progettati dei sistemi di chiusura, ove non fossero già presenti. Risultano quindi inaccessibili la ex foresteria, le aule delle scuole elementari e medie, il convitto - che presenta però un corridoio di attraversamento che consente di apprezzare una parte della struttura - e l’ex centro psicotecnico, anch’esso attraversato da un camminamento che consente di gettare lo sguardo oltre il muro che ne delimita il confine. MATERIALI È stata scelta una palette di materiali e cromie il più ristretta possibile: tutte le attrezzature sono fisse e in acciaio, per garantire una manutenzione minima. Le cromie utilizzate invece sono due: • acciaio brunito per tutti quegli elementi che piano piano verranno fagocitati dalla vegetazione, si intende farli scomparire e rendere la loro presenza meno impattante. • acciaio verniciato bianco per tutti gli elementi che invece sono destinati a risaltare, tra rovina e vegetazione. Fanno eccezione gli elementi che si agganciano alle travi, predisposti all’illuminazione del parco, che sono in ottone ramato.
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s trate gi a
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interventi a margine
Strategia
la zattera
la banchina
Strategia
i wc
la serra
le boe
il bar popp-up
s tr ag e gi a
PRINCIPI DI PROGETTO interventi sulla rovina
1 CRONOLOGIA
DEGLI
EVENTI
ANALISI DELLA ROVINA ANALISI DEL VERDE ESISTENTE
2 ABACO DEGLI INTERVENTI
MANTENIMENTO A ROVINA
• accettazione dell’insostenibilità del recupero integrale e rifiuto del restauro • arresto o contenimento del deterioramento - pulizia e impermeabilizzazione delle coperture - mantenimento in uso della parte già restaurata - eliminazione della vegetazione dannosa per la costruzione
LEGGIBILITÀ E PERCORRIBILITÀ DEL MANUFATTO
• pulizia e messa in sicurezza delle strutture esistenti
- rimozione dei vetri e dei calcinacci - rimozione degli elementi pericolanti (spesso semplicemente intonaci e impianti di illuminazione sospesi)
ANALISI DEI FLUSSI ANALISI DELLA ROVINA PUNTUALE
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• interventi di apertura / chiusura • eliminazione delle superfetazioni volte a isolare il rudere
s tra te gi a
PRINCIPI DI PROGETTO interventi sullo spazio aperto
1 ANALISI DEL VERDE ESISTENTE CATALOGO DELLE SPECIE STUDIO DELL’ECOSISTEMA
2 ANALISI DEGLI SPAZI APERTI
3 ABACO DEGLI ELEMENTI
REPAIR
• verde
- mantenimento degli esemplari presenti - valorizzazione delle specie autoctone - ripopolmento ciclico dell’area
RIATTIVAZIONE E ATTRAVERSABILITÀ
• creazione di un nuovo livello che renda possibile attraversare l’area • componibilità degli elementi REVERSIBILITÀ
• progettazione degli elementi a secco
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07 . il progetto . la zattera la banchina le boe
la zattera
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la zattera il pergolato approfondimenti di dettaglio: I la pedana flottante II il parassita al trilite
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modulo base assonometria
L’intera pedana flottante è disegnata su una griglia modulare di 50x50 cm, la griglia di base utilizzata da Viganò per l’intera composizione delle facciate. I piani di caplestio sono costituiti da un grigliato pressato incrociato a piatti diversi in acciaio brunito con maglie variabili, bordati o non.
supporto tipo
esploso assonometrico | scala 1:4 l’altezza è regolabile e l’appoggio può essere piatto o presentare un picchetto.
piastra di ancoraggio delle griglie ai piedi sottostanti in acciaio brunito
piastra di appoggio in acciaio brunito con foro per aggancio della griglia
piede di appoggio tubolare in acciaio brunito filettato
dado di regolazione antisvitamento a sei tacche stelo filettato 16 MA per piede regolabile grigliato pressato incrociato a piatti diversi in acciaio brunito piastra di appoggio in acciaio brunito
piastra aggiuntiva con picchetto in acciaio brunito saldato per appoggio su terra
DIREZIONALITÀ
SEDUTE E GRADINI MOBILI
seduta in lamiera forata con sottostruttura in acciaio verniciatura epossidica bianca pe in lamiera forata con sottostruttura in acciaio verniciatura epossidica bianca
Bordo pedana, sedute e gradini mobili scala 1:5
GRIGLIATO
PRESSATO INCROCIATO A PIATTI DIVERSI acciaio brunito maglia 2x4 cm
Dettaglio di aggancio griglie - piede di appoggio
Bordo pedana, sedute e gradini mobili
sezione 1:10
sotto/sopra
Dei parassiti energeticamente autosufficienti illuminano le stanze all’aperto: si trovano in presenza dei triliti nudi, ai quali si agganciano. Una staffa in ottone è implementata con un pannello a micro-LED RGB alimentato da una unità fotovoltaica. L’accensione è regolabile tramite controllo remoto.
prospetto materico I scala 1:10 sezione | scala 1:10
parassita trilite
sistema parassita in ottone ramato
scala 1:5
assonometria
pannello fotovoltaico policristallino solare 14x19 cm 4 W
schema di posizionamento
supporti con picchetto
pedana flottante
II
parassita trilite
sezione 1:10
diffusore in vetro acidato
dissipatore di calore accumulatore al litio pannello 100 micro-LED (consumo 3Wh)
pannello fotovoltaico policristallino solare 14x19 cm 4 W
schema di assemblaggio
collage
materiali
diffusore in vetro acidato
pannello 100 micro-LED (consumo 3Wh)
accumulatore al litio
dissipatore di calore
la zattera le aule all’aperto approfondimenti di dettaglio: III le aule a cielo aperto
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prospetto e sezione | scala 1:50 sezione | scala 1:20 sezione | scala 1:10
strutture orizzontali
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keyplan
216 keyplan
III
strutture orizzontali
la zattera l’ex parlatorio approfondimenti di dettaglio: IV
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i recinti archeologici
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Questo parapetto si trova a chiusura di alcune porzioni del piano terra che si trovano in severe condizioni di degrado.Proteggono ed incorniciano la rovina impedendo il caplestamento di oggetti giĂ danneggiati, in particlar modo gli arredi fissi in cemento e laterizio.
sezione | scala 1:10 assonometria | scala 1:20
parapetto
finita a verniciatura epossidica bianca raggio fori: 2,5 mm v/p 35% scala 1:1
lamiera forata
struttura in acciaio bianco sezione quadrata 20 mm verniciato a polvere
lamiera forata finita a verniciatura epossidica bianca raggio fori: 2,5 mm v/p 35%
parapetti
IV
aggancio pedana-parapetto scala 1:5
Dettaglio costruttivo
Il grigliato in acciaio brunito a contrasto con il microforato dei parapetti
accostamento dei materiali
la banchina
approfondimenti di dettaglio: V la banchina VI la chiocciola VII gli spalti VIII la torre
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223
modulo base passerella esploso assonometrico | scala 1:25
La passerella è composta da una successione di dieci travi reticolari MohniÊ bianche in acciaio saldato che poggiano su dei pilastri scatolari in acciaio brunito 30X30 cm. Il corrimano in acciaio è bullonato alla struttura Il pavimento in XXX poggia su dei travetti in acciaio. La geometria deriva da una lettura della facciata del convitto e la quota di calpestio coincide con quella del primo piano di camerate nel convitto.
coppia di pannelli scala 1:50
V passerella / modulo strutturale
lamiera stirata a verniciatura epossidica bianca v/p 42% scala 1:1
sezione e pianta I estratto scala 1:20 pilastro scatolare in acciaio brunito saldato struttura passerella reticolare in acciaio saldato verniciato bianco piano di calpestio in griglia a piastre diverse in acciaio brunito
diagramma compositivo pianta pavimentazione | scala 1:100 prospetto | 1:100 dettaglio costruttivo luce a pavimento 1:10 dettaglio costruttivo palo con vaporizzatore 1:10
APPRODO 1 la chiocciola
-0,3 m +0,1 m +0,0 m +0,
faretto a terra a raso pavimento
dettaglio faretto a terra
diagramma della disposizione dei pilastrini portanti e dei tubi invece destinati alla vaporizzazoine dell’acqua
dettaglio tubo con vaporizzatore
,4 m
VI
passerella / chiocciola
+0,0 m
+0,0 m diagramma della disposizione dei pilastrini portanti e dei tubi invece destinati alla vaporizzazoine dell’acqua
schema assonometrico
keyplan
sezione | scala 1:20 prospetto | scala 1:100
APPRODO 2 gli spalti
keyplan
VII
gli spalti
pilastrini in acciaio brunito diametro 10 cm
rocchi in acciaio brunito saldato dei solai in acciaio saldato
schema costruttivo
torre
VII
scala 1:50
sezione
keyplan
bla bla bla
esploso assonometrico della struttura | scala 1:25 sezione | scala 1:25
APPRODO 3 la torre
verniciato bianco
scale in acciaio saldato
pilastrini in acciaio brunito diametro 10 cm
rocchi in acciaio brunito saldato dei solai in acciaio saldato
schema costruttivo
scala 1:50
sezione
le boe
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prospetto e pianta | scala 1:50 assonometria strutturale | scala 1:20 sezione | scala 1:20
servizi igienici
keyplan
servizi igienici
IX
pavimento in grigliato in acciaio brunito a piatti diversi
lamiera microforata con verniciaturaepossidica bianca
rivestimento di facciata lamiera stirata verniciatura epossidica bianca
struttura in acciaio brunito
forature delle lamiere utilizzate per il parapetto e le lamiere impiegate per i bagni a confronto v/p 35% vs 12% scala 1:1
lamiere forate
pianta e prospetto | scala 1:50 assonometria strutturale sezione | scala 1:25
la serra
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keyplan
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la serra
X
scala 1:10
sistema di scorrimento sui binari
scala 1:10
sistema di apertura dell’involucro
keyplan
XI
caffĂŠ pop-up
Legenda
demolizione
rimozione superfetazioni
L’interdizione all’accesso in determinate aree è garantito dalla predisposizione di chiusure che riprendono il disegno e la materialità dei parapetti. La nuova circolazione all’interno del complesso è dettata dall’inerdizione all’accesso del pubblico a quelle parti che non garantiscono la sicurezza del visitatore. Al contempo, invece, sono ripristinati i due assi perpendicolari al piano terra ed è consentito l’accesso a due padiglioni con una importante vocazione alla permeabilità, quali l’ex soggiorno al cuore del complesso e l’ex parlatorio, al capo Sud dell’asse trasversale. In entrambi i casi sono stati rimossi i serramenti, ritenuti elementi di possibile pericolo e intralcio all’uniità visiva, fisica e circolatoria dei due spazi.
Chiusure
aree non visitabili
chiusure
prospetto e sezione | scala 1:50 dettaglio | scala 1:10
Ex scuola elementare
Dettaglio chiusure
Legenda
aree non visitabili
chiusure
prospetto e sezione | scala 1:50 dettaglio | scala 1:10
Ex scuola elementare
Dettaglio chiusure
Legenda
chiusure
XII
APPENDICE
In questa sezione infine vengono raccolti pezzi di saggi, interviste, conferenze, in cui vengono aperte finestre sulle futurità o le futuribilità dell’Istituto Marchiondi Spagliardi di Baggio. Si tratta di parole provenienti da: - Una intervista inedita al professor Marco Dezzi Bardeschi realizzata proprio all’interno dell’istituto Marchiondi Spagliardi, il 24 Novembre 2015 - Le trascrizioni integrali di due conferenze, tenute presso il Padiglione Architettura al belvedere Pirelli, intorno al tema della conservazione dell’architettura moderna e in particolare dell’Istituto Marchiondi Spagliardi; - Alcuni brani tratti dal volume monografico curato da Letizia Tedeschi e Franz Graf “L’Istituto Marchiondi Spagliardi di Vittoriano Viganò; - Dei brani tratti da articoli di giornale che fanno riferimento ai possibili futuri dell’Istituto Marchiondi Spagliardi. Da questa raccolta di interventi si ricostruisce un dibattito unitario, interdisciplinare, che richiama l’attenzione di progettisti, tecnici, ingegneri, storici e tutti gli studiosi che, interessati al tema della conservazione del Moderno si sono imbattuti nel “caso Marchiondi”. I temi più controversi sono quelli legati alla rifunzionalizzazione, all’erudizione del restauro come strumento in grado di riportare al “giorno zero” l’opera architettonica, cancellando ciò che il passare del tempo, in termini critici e materiali, e di significati dell’opera, ha mutato. In particolare una nota va all’intervento di Viviana Viganò, che rivolgendosi a colleghi, e a membri delle istituzioni e della soprintendenza, ha scandito nettamente una linea di intervento in 5 punti, linea che già a fine 2015 veniva proposta come necessaria e disperatamente emergenziale. A distanza di tre anni non si può che lanciare nuovamente un appello che, nonostante gli entusiasmi, appare rimasto inascoltato.
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Marco Dezzi Bardeschi 24.11.2015
Si riporta di seguito, la trascrizione di una breve intervista video a Marco Dezzi Bardeschi, eccezionalmente registrata all’interno del convitto dell’Istituto Marchiondi Spagliardi di Baggio. L’intervista è stata realizzata in collaborazione con il prof. Borsa, il 24 Novembre 2015. Questa intervista viene qui inclusa anche per ricordare l’impegno del professor Marco Dezzi Bardeschi, assieme alla rivista Ananke, nella quale si è battuto per sostenere una consapevole attenzione e cura verso il patrimonio costruito diffuso, sia di antica che di recente formazione, e per promuovere un responsabile progetto contemporaneo di qualità. Marco Dezzi Bardeschi: I “ragazzi difficili” li chiamavano, no? Se dico “difficili” già li condanno, se dico invece “ragazzi in difficoltà” è un po’ diverso, insomma vuol dire che sono senza genitori o hanno avuto vicende particolari per cui hanno una vita difficile, direbbe qualcuno. Ecco, [l’istituto] è stato pensato proprio insieme agli psicologi come laboratorio di recupero psicologico di questi giovani e devo dire che era una cura forte, una cura forte anche se omeopatica. In definitiva qui [i ragazzi] venivano abituati a una disciplina molto rigida, a una separazione delle funzioni - da una parte i ragazzi, i convittori, dall’altra i loro assistenti e le due parti non si toccavano: in pratica si tratta di un’architettura a doppio pettine, come si dice: il pettine dei ragazzi da assistere e il pettine di chi provvedeva a questo. E quindi è un’architettura essenziale, senza fronzoli, senza svolazzi ma rigorosa, razionalista. Naturalmente la scelta del cemento armato “brut” ha portato anche a coniare questa etichetta di architetto brutalista attribuita a uno dei grandi sperimentatori dell’architettura moderna degli anni 50 come l’allora giovane Vittoriano Viganò, che è stato anche la vittima di questa attribuzione un po’ esasperata nella quale è stato imprigionato, nel senso che lui era un architetto molto sensibile, molto raffinato, anche diciamo molto elegante, e quindi molto sensibile ai materiali, ai colori, l’”esprit de finesse”. Per Pevsner questa era solo una architettura Der Stijl, cioè addirittura che ricordava Van de Velde e i pionieri del moderno. Dopo Pevsner ce ne sono stati altri, come Banham, che ha cominciato a parlare di “New Brutalism”, nuovo brutalismo inteso
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in senso britannico, infatti Viganò veniva paragonato agli Smithson, poi sono anche diventati amici, erano molto presenti alle Triennali di Milano, molto provocatori e radicali. Però Viganò era anche l’archtetto del negozio Arte Luce, dei dettagli più raffinati...qui i dettagli non ci sono: questa è un’architettura che tende al fine per la quale è stata creata: l’uso del beton brut, del ferro, le funzioni separate...se voi prendete i gabinetti sono collettivi: tutto si basa sul concetto di camerata. I ragazzi erano disposti in camerate da dodici e venivano osservati, controllati e guidati dai loro assistenti che vedevano tutti i loro movimenti dall’alto. Il bagno quindi non era personalizzato, non c’erano lavandini singoli, era un lavabo unico con tante cannelle, i rubinetti e il tubo in vista; tutti gli impianti erano in vista, era volutamente pauperista, francescana, era fortemente didattica anche per gli psicologi che hanno seguito e affiancato Vittoriano Viganò. È successa una cosa curiosa. È stata immediata la fortuna critica di questo complesso e si è basata soprattutto sulla circolazione delle sue immagini: immagini senza tempo, immagini perenni; la foto diventava un’icona e quindi è stato diffuso a livello internazionale con molto entusiasmo è stato costruito tra il 54 e il 57, è diventato uno dei capolavori della nuova architettura moderna del dopoguerra, insieme alla grande stagione della museografia degli Albini, dei Gardella, Come dicevo, questa sua grande fortuna come diffusione in immagini dell’opera si è accompagnato anche un abbandono perché progressivamente si è ridotto il numero di ragazzi aiutati, assistiti, ospitati, il numero si è ridotto sempre di più fino a che, negli anni ottanta è stata abbandonata. Poi è nato questo processo di degrado acceleratissimo – un po’ anche per colpa dei materiali del moderno, come sappiamo, di certo cemento armato; abbiamo il cemento armato delle origini che ha resistito molto bene, meglio degli altri, alla prova del tempo. Mentre il cemento degli anni 50, di questo edificio, è di qualità più scadente e il degrado è più immediato e naturalmente accelera più fortemente con l’abbandono. Nella fortuna critica rientra l’attenzione particolare che gli ha sia Tafuri che Zevi Tafuri l’ha paragonato quest’opera al brutalismo giapponese di derivazione Lecorbuseriana, difatti questo edificio è tutto modulato, sono moduli 3x5, su il Le Corbusier de l’unità di abitazione. Zevi invece ha insistito molto col brutalismo, confrontandolo con una persona molto diversa da Viganò che era Leonardo Ricci, più formale, e invece queto è esattamente l’opposto, basta pensare alle due scale che non si incontrano e altri riferimenti più raffinati pur nell’apparente semplicità delle rifiniture. Quando ha cominciato a invecchiare – male, perché abbandonato – abbiamo fatto tanto per riportare l’attenzione su questo edificio; ora io sono proprio affezionato, è come avere un figlio putativo (era il 1994) maggiorenne! Ora lo troviamo in questo stato di abbandono e di degrado contro il quale, credo noi abbiamo il dovere di lottare, però partendo dal rispetto del documento, dall’unicità e dall’autenticità del documento storico, non dalla sostituzione materica In questa lotta abbiamo tentato con tutti i colleghi del Politecnico di Milano di patrocinare ricerche avanzate favorendo una specie di laboratorio. Questo sarebbe un posto magnifico per poter continuare a far affezionare i giovani,
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perché se non lo frequentano, ,non lo studiano, è come un malato: bisogna stare al capezzale, e al malato bisogna cercare di...non sostituirlo! Ma di procurare la cura, ecco, il tema della cura. Per i giovani di tutte le scuole, a cominciare dalle elementari e naturlamente con maggiore responsabilità all’università, dovremmo dimostrare che fra le tante specificità del Politecnico noi abbiamo anche quella di poter fare qualcosa per riportare a un uso compatibile – di laboratorio, di ricerca, didattico – ma abbastanza attivamente o sperimentalmente vicino alla finalità originaria. A vederlo è un rudere disastrato però io sono convinto che siamo ancora all’interno della possibilità di riportarlo a uno statuto architettonico e di uso compatibile e adeguato al suo importantissimo valore di testimone materiale di vent’anni di storia. Noi abbiamo cominciato ad occuparcene nel 1994 – il tema dell’architettura industriale era già esploso, il restauro del moderno era già pensate al Weissenhof di Stoccarda, abbiamo fatto una grande campagna su Domus nel 1984, non per sostituire un Lecorbusier autentico con una sua copia ma per curare il testimone unico, occuparsi non dell’immagine, ma della permanenza e della vitale permanenza reinserendolo nella vita collettiva, di questo formidabile documento del moderno, Ci siamo tornati sopra con InArch – c’era anche Vittoriano – e dopo il numero di Ananke del settembre 1994 c’è stata una grande occasione, abbiamo fatto una crociata con l’InArch sezione lombarda per salvare questo documento formidabile del moderno. Questo manifesto si proponeva di intervenire con metodi non tanto di attenzione alla sua immagine (quella ce l’abbiamo fissata dai fotografi) ma alla sua possibilità di tornare a vivere in un modo compatibile e adeguato a ci che lo stesso autore voleva. Ci siamo occupati più volte (Viganò è morto nel 1996 ma anche grazie a questi nostri interventi la soprintendenza espresse il riconoscimento di valore monumentale per quest’opera. Su questo, vi ricordo ha avuto modo di esprimersi positivamente Daverio quando era assessore alla cultura al Comune di Milano realizzando ben due seminari di studio qui, accanto al “corpo del malato” per cercare di trovare la sua utilizzazione collettiva didattica più opportuna. Lui in questa occasione diceva “guardate che ormai anche il moderno è diventato antico e quindi bisogna occuparsi di lui come ci si occupa di personaggi molto “stagionati”) Tutto questo per dire che io confido molto nella possibilità (di recupero)...prima della cura ci vuole una particolare forma di amore. Questa è la porta Ovest di ingresso di Milano, ha avuto il riconoscimento di struttura monumentale degli anni 50 quindi si presta bene come valore rappresentativo e quindi simbolico, di tante giuste finalità della città. Cosa è mancato? A mio avviso c’è stata una occasione perduta. Nel momento in cui è avvenuto questo riconoscimento e finalmente l’attenzione è tornata sulla fisicità di questa architettura vissuta, un’architettura parlante, che racconta la sua storia, è avvenuto che si è presentata un’opportunità di un intervento come residenza universitaria, fra l’altro affidato anche al nostro Politecnico quindi questa è stata una cosa molto positiva ma l’occasione è poi sfumata perché è mancato, a mio avviso, il coraggio della sperimentazione avanzata su dei problemi strutturali e impiantistici. È
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chiaro che si tratta di un edificio fortemente degradato ma faccio un esempio: se uno lo considera in senso strutturale – e guardate che questo è un capolavoro strutturale! Come avete visto ci sono questi grandi telai che comprendono tutto l’edificio e i piedritti dei telai sono esterni ed è tutto libero da vincoli, salvo le grandi travi che sono molto caratterizzanti spazialmente dell’interno) di fronte a questa struttura, certo se io mi comporto dicendo che non è a norma – e non perché oggi resiste meno di quando è stato costruito, il problema è che sono cambiate le normative, e cioè oggi, in senso più precauzionale, una struttura alla Nervi, più sperimentale, che tende ad essere più al limite, è fuori norma. Ma questo è colpa della norma! E a questo sistema si rimedia, questi casi, come si fa per ogni architettura: se io vedo delle scale che non arrivano a 120 cm (e qui non lo sono) non è che io devo disfare le scale o rifare i solai perché non è a norma. Si deve tener conto, si deve ottenere la deroga. Se nel duomo di Milano c’è una scala a chiocciola io non posso farla buttare giù perché non è a norma! Devo tener conto che quello è un monumento unico, fondamentale della storia e va usato con certi limiti e riverificando in modo specifico e non facendolo decidere a dei parametri esterni fissati in modo estrinseco dalla legislatura. Lo stesso succede per gli impianti: avete visto come sono elementari e spartani, più che francescani, gli impianti. Se io voglio sostituire gli impianti con i lavandini, farli diventare dei bagnetti borghesi, è un’altra cosa! Come le camerate: sono camerate a 12 posti. Oggi un tipo di habitat di questo tipo sembra un po’ lontano dalla privacy di ciascuno E infatti è stata fatta recentemente l’ipotesi di ridurle a 6. Ma non si può fare da una camerata tante stanzine con tanti bagni– o meglio, si può fare, ma è un’altra cosa! Non c’è stata coprensione, coerenza fra l’eredità che abbiamo avuto e il modo con cui pretendiamo di usarlo. Abbiamo fatto un cappello che va bene per un’altra testa. Se gli impiantisti vogliono capire che qui ci sono degli impianti elementari che potrebbero essere riattivati – o meglio, sostituiti perché la manutenzione non c’è stata; se gli infissi non si devono tanto sostituire quanto adeguare – con un doppio vetro o altri sistemi – cioè sperimentando fatti di comfort ma senza alterare lo spirito dell’edificio. Quindi per tornare al punto dal quale siamo partiti, questo edificio è nato per cambiare i comportamenti dei ragazzi in difficoltà e questo scopo era chiaramente esemplificato e praticabile, oggi deve tornare, nel rispetto della sua intenzione originale, ad essere compatibile con le nuove attività e la nuova attenzione, insomma, in un salotto buono si va in punta di piedi, non si va con le scarpe da montagna! Quindi lo stesso vale per i tecnici, gli architetti, ingegneri, i geologi, qui ci sono tanti problemi: si inizia dalle fondazioni per arrivare sopra al tetto, si moltiplicano i problemi! Vanno affrontati in un’ottica di collaborazione complessiva. È un’esperienza formidabile di un avanzamento tecnico e culturale di un guppo. Nesusno meglio del politecnico di milano (anche per statuto, perché noi insegnamo agli altri queste cose ma se non sappiamo farle noi, credo che possiamo chiudere baracca et burattini!”.
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Il professor Marco Dezzi Bardeschi, intervistato all’interno del convitto il 24 Novembre 2015.
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Padiglione Architettura / 1 30.07.2015
Si riporta di seguito, la trascrizione della prima delle due conferenze tenute presso il Padiglione Architettura alla terrazza Pirelli, in data 30 luglio 2015. Padiglione Architettura è stato un ciclo di conferenze presso il Belvedere Pirelli, svolte durante il periodi EXPO 2015, curato da Vittorio Sgarbi con Lorenzo Degli Esposti, e che hanno visto il Marchiondi protagonista di due giornate di studio, nonché edificio simbolo dell’architettura Moderna Milanese. Il primo intervento, dell’architetto Viviana Viganò, erede insieme alla sorella Paola, dello studio del padre, pone delle solide basi operative rispetto ai passi che si dovrebbero compiere per la salvaguardia dell’ex Istituto, ormai vessato da decenni di incurie e immobilismo da parte del Comune di Milano, che, negli anni, è stato incapace di prendersi carico della tutela materiale di un simbolo così importante per la città. Il secondo intervento, di Bruno Reichlin, ricostruisce la spinta che ha portato alla redazione del catalogo e della mostra monografica sul Marchiondi, sottolineando come l’impegno, anche coronato dal riconoscimento del secondo vincolo dei beni culturali, fosse indirizzato a mettere in moto un processo di recupero, cosa che è in realtà accaduta ma con epiloghi purtroppo fallimentari per poi fare un ragionamento analitico su quali sono stati e potrebbero essere i processi, anche di riattivazione del dibattito culturale intorno alla conservazione del moderno, che potrebbero portare a una attuatività di questa salvaguardia. Roberto Mascazzini, invece, presenta un excursus sulla metodologia di Viganò, mettendo in evidenza quali modi di progettare sono stati decisivi nella genesi del progetto per l’Istituto Marchiondi. Sergio Poretti apre un interessante finestra rispetto alla collaborazione con l’ingegnere Silvano Zorzi e alla qualità della scuola italiana del cemento armato. Ugo Carughi, presidente di Do.co,mo.mo_ indaga l’efficacia dello strumento del vincolo nell’ambito della conservazione e salvaguardia dell’architettura del XX secolo. Infine Angonella Ranaldi, come rappresentante della Soprintendenza affronta lo stesso tema allargando il campo all’ambito della città di Milano. La prima giornata di studi sull’Istituto Marchiondi Spagliardi, oltre ad offrire degli spunti rispetto alla operatività degli interventi che potrebbero oggi essere messi in campo, sottolinea l’interesse intrinseco e relazionale dell’opera di Vittoriano Viganò, esortando e auspicando un intervento oggi più che mai necessario.
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Lorenzo Degli Esposti: Questo è uno degli interventi di questo padiglione che mi stanno più a cuore relativo ad un edificio simbolo dell’architettura Milanese celeberrimo e unico nel suo genere. Tantissimi architetti se ne sono innamorati sono venuti in Italia per visitarlo hanno portato i loro mentori tirandoli per il braccio per andarlo a visitare. È il caso per esempio di Peter Eisenman che da giovane nel suo primo viaggio in Italia prese sottobraccio Colin Rowe egli fece visitare il Marchiondi di Viganò, che era stato pubblicato sull’Architectural Review nel ‘61. I più giovani che sfogliavano le riviste erano stupiti dalla grandissima contemporaneità di quest’opera italiana del tardo moderno i profondi intrecci tra opera autore allievo sono il modo e con cui la disciplina dell’architettura è tramandata di generazione in generazione. Per questa ragione il Marchiondi è uno dei simboli del nostro Padiglione Architettura insieme ovviamente al Pirelli che ne è la sede abbiamo invitato importanti studiosi che sia nei confronti dell’Architettura Moderna in sé sia dei vari aspetti compositivi strutturali vincolistici potranno intavolare in questa sede una discussione sul Marchiondi, ma prima volevo dare la parola all’architetto Viviana Viganò per un piccolo discorso introduttivo. La ringrazio perché anche lei ha contribuito all’organizzazione di questo incontro. Grazie per essere qui. Viviana Viganò: Grazie agli organizzatori di questo cortese invito e naturalmente anche ai relatori e tutte le istituzioni oggi presenti che con il loro prezioso contributo potranno aiutarci a ricercare ogni possibile strada tesa alla salvaguardia di questo grande malato che è il Marchiondi. Lascio ad altri ogni approfondimento storico-critico e mi limito qui a fare qualche considerazione generale sul tema, oggetto di questa giornata di studi, avendo seguito da molti anni in prima persona le vicissitudini di questo edificio, perché il Marchiondi è diventata anche una piccola storia di famiglia. Il caso Marchiondi è l’emblema macroscopico di tutto ciò che bisognerebbe non accadesse mai: un edificio simbolo del moderno italiano abbandonato da più di 40 anni e ridotto ad un livello di degrado indicibile. Ma il Marchiondi è un emblema anche secondo altri punti di vista. È un emblema per la qualità della sua architettura e per la sua forza espressiva, di cui è, malgrado tutto, ancora portatore. L’importante è andare a guardarlo, anche dall’esterno, a volte nel verde che se lo sta mangiando. Eppure è ancora lì forte, possente, tranquillo, che chiede di essere coinvolto in un nuovo futuro. Il Marchiondi è un emblema per il valore etico e sociale, oltre che artistico, di un’esperienza straordinaria di sinergie progettuali interdisciplinari, in un tempo in cui Milano era capace di fondarsi e di guardare al futuro con il coraggio e come autentico spirito di ricerca. Il Marchiondi è ancora un emblema per la difficoltà oggettiva di porre oggi mano a un progetto di restauro. Cosa È ancora possibile fare? E come? Certamente non è più il tempo delle parole ma quello dei fatti: azioni, interventi urgenti per fissare il degrado e di impedirne ulteriore fatale progressione. Che fare dunque? Mi permetto di evidenziare qualche voce, che forse può costruire un piccolo punto da cui partire.
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Primo non scontato: fare presto. Qualsiasi cosa si possa fare, va fatta subito per poter salvare il salvabile; la situazione è senza ritorno e chi lo ha visitato sa che questa purtroppo è la verità. E andare oltre il vincolo monumentale, che seppure sia stato importante è necessario per scongiurare negli anni interventi sciagurati o demolizioni, non è stato tuttavia in grado di venire uno strumento operativo, quasi prescrittivo è in grado di guidare tempi e modi del progetto di conservazione. Secondo: trovare immediatamente i fondi per realizzare una copertura di emergenza almeno per l’ex convitto, dove non esiste più alcuna impermeabilizzazione della copertura ormai da molti anni e da dove quindi piove fino alle fondazioni che giacciono per mesi sott’acqua macerandosi in via definitiva. Terzo: creare al più presto un ristretto gruppo di lavoro coordinato forse dalla sovrintendenza stessa che valuta in tempi rapidi cosa è possibile fare tecnicamente e che predisponga proposte direttamente operative. Quarto: indurre il Comune di Milano, proprietario del bene con storica assenza nella vicenda Marchiondi, ad eliminare o modificare il vincolo di destinazione oggi esistente, quello storico legato al settore socio-assistenziale, per favorire l’individuazione anche di diverse ipotesi diredestinazione funzionale, forse più logicamente collegata al settore culturale o museografico. Questo per favorire l’immediato intervento conservativo sull’edificio a prescindere da destinazione d’uso possibili. Questo dibattito su quale destinazione ha fatto sì che nessuna decisione sia mai stata presa. Quinto: liberare gli spazi del Marchiondi integralmente ovvero chiedere sempre al comune di Milano di spostare in altra sede le attività di assistenza disabili che provvisoriamente 40 anni fa è stata ubicata nelle aree un tempo destinate ingresso uffici che ha di fatto, nel tempo, spaccato in due complesso impedendone la pena agibilità interna e frazionandone arbitrariamente gli spazi. Quindi proporrei di documentare in modo esteso e diffuso l’edificio sia fotograficamente che attraverso video per poter fruire di preziosi documenti d’archivio a supporto di futuri interventi conservativi e di ripristino e anche per documentare bellissimi spazi interni, che non siamo certi oggi di riuscire a salvare. Infine coglierei l’occasione per fare del Marchiondi un caso di studio ed un laboratorio scientifico di analisi e di intervento dal quale partire per fare di Milano la sede naturale sui temi di ricerca del restauro del moderno, applicando ai propri capolavori dimenticati tecniche innovative sperimentali. Se l’Italia vanta, Grazie al suo straordinario patrimonio d’arte, competenze indiscussa nel campo del restauro e della conservazione dell’antico, perché non pensare che Milano per la sua storia e le sue caratteristiche imprenditoriali non possa diventare un importante centro di ricerca, anche europeo, per il moderno? Per ultimo Vorrei solo ribadire la totale disponibilità della famiglia degli eredi ad appoggiare ogni iniziativa tesa il recupero del bene pronti anche ad esaminare soluzioni innovative ai problemi posti, per individuare tutti insieme un futuro possibile per il Marchiondi. Davide Borsa: Benvenuti a tutti. In questa occasione straordinaria, grazie una fortunata coincidenza e convergenza sul tema, fortemente sentito anche da parte del curatore Lorenzo
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Degli esposti, abbiamo qui due tre massimi esperti, forse anche mondiali, per cercare di ripensare la questione Marchiondi non solo come mera risoluzione di un problema di rigenerazione urbana legata un’area dismessa, ma anche lì a prendere il caso del suo futuro nel quadro del dibattito culturale al livello che merita. Un tema importante, non solo per i valori materiali, estetici storici che verranno illustrati e approfonditi dai relatori, ma anche per i valori immateriali che questa vicenda incarna: uno fra tutti, quello di essere simbolo del rinnovamento della socio psicologia e pedagogia italiana: Dino Origlia, allievo di Cesare Musatti e Angelo Donelli, pioniere dell’educazione professionale ispirato ai valori cristiano-sociali costruiscono con Viganò e Zorzi un nuovo avanzato modello di approccio culturale nei confronti di un disagio giovanile, un esempio unico di eccellenza studiato e invidiato in tutto il mondo, testimonianza dell’efficacia del progetto moderno, oggi opera pienamente riconosciuta tra quelle dell’architettura universale. Noi siamo qui all’interno del Pirelli, quindi quale posto migliore per riprendere le fila del discorso... Bruno Reichlin: Ringrazio chi mi ha invitato. Ho detto subito di sì, perché ormai il Marchiondi è diventato per me una causa, come per tanti altri, tra cui quelli che hanno lavorato al famoso catalogo dell’esposizione sul Marchiondi, che è nato come collaborazione con la famiglia Viganò. Per noi catalogo ed esposizione avrebbero dovuto fornire una sorta di incitamento e anche una guida a chi, presto o tardi, si accingerà a restaurare l’edificio. In quel momento era già in condizioni disastrose. Sono passati non so quanti anni. Ma quello che ricordo ancora benissimo è che quando abbiamo allestito questa esposizione si stava pensando ad una enciclopedia critica del restauro del patrimonio del ventesimo secolo. Moltissimi anni fa io ho creato a Ginevra, con dei colleghi, un terzo ciclo per il restauro del moderno, grazie ad una certa congiuntura in università E al fatto che siamo stati furbi a introdurre un insegnamento che nessuno si aspettava in una scuola di architettura. La scuola di architettura di Ginevra è scomparsa, però io stesso e un mio collega, Franz Graf, che poi ha anche partecipato molto attivamente a questa esposizione, ci siamo trasferiti nel Ticino e ci siamo presentati all’accademia di Mendrisio proprio per portare avanti un approccio storico-critico alla storia dell’Architettura del ventesimo secolo, alla costruzione, alle tecniche. Questo catalogo ha una copertina, un indice, rubriche che preludono ad un restauro, Perciò è un contributo generale sull’edificio per assegnargli un posto nella storia. Dico quasi come battuta che quell’edificio è più bravo di Vittoriano Viganò è un edificio di altissima qualità, per la congiuntura culturale in cui è prodotto. Con la collaborazione sicuramente di Zorzi, di cui parlerà Poretti, e così via. Il criterio è Innanzitutto estrarre l’indispensabilità di un’opera all’interno di un panorama. Ma la storia dell’architettura, per il restauro dell’architettura del ventesimo secolo, non esiste ancora. Questo è un problema. Sembra una provocazione, ma è una constatazione. Spesso ci sono edifici mal recepiti. Basta pensare alla fine di molti edifici, diciamo della DDR in Germania: brutta fine per una specie di accanimento politico, contro degli edifici che in realtà non rappresentavano nemmeno il potere della Germania dell’est. È un accanimento
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addirittura molto più feroce che contro i monumenti fascisti e nazisti. Poi il problema del cantiere, della storia dell’edificio. Addirittura il susseguirsi dei fatti, le tecniche applicate, e sapere ingegneristici, tutto questo. E poi naturalmente la storia stessa dell’istituzione: è fondamentale sapere cosa è stato il Marchiondi, che luogo è nella cultura generale. Con quel catalogo il nostro scopo era proprio di mostrare tutti questi aspetti due punti che ci fosse una storia sugli arredi, sull’interno, un quadro completo per rendersi conto di che edificio si parlasse. È incredibile che nel caso del Marchiondi questo non abbia ancora portato a niente. Allora ci siamo interrogati sul momento in cui, nei paesi europei, è cominciato di interesse per il patrimonio del moderno, come è cominciato, come ha influito sul modo in cui si è proceduto in seguito. In Olanda, in un certo momento, sembrava quasi che le opere di avanguardia non rientrassero nel patrimonio del ventesimo secolo. Poi piano piano così come in altri paesi che hanno avuto per esempio l’architettura fascista, ci si è resi conto di quante ragioni, di quante storie bisogna tener conto per realizzare che cosa è per noi importante. È molto interessante, per esempio, che nel primo progetto del Marchiondi c’è una forma che marca l’ingresso. Ci siamo detti: “altri ci hanno già pensato”, e abbiamo portato una serie di esempi tra cui la Citroen di Le Corbusier. Sono esempi che non esauriscono il problema, sono soltanto alcune opere precedenti o è vero che mostrano la tua vita di una certa tematica formale. Non serve a dire che ha copiato: sono temi che in quel momento erano importanti. Oppure naturalmente il problema dei frangisole, che appare molto importante nel progetto del Marchiondi soprattutto nell’edificio delle scuole medie: in quel periodo tutte le riviste parlano dei brises-soleil. In Italia con l’edificio del Olivetti, ma prima ancora diversi brises-soleil degli edifici di Niemeyer. Altro tema: la distribuzione diventa architettura, con tutti i corpi che si aggiungono su una distribuzione per dare visibilità a ciò che connette funzioni diverse. Il grande problema era come combattere la monotonia, Come avere variazioni per disegnare la facciata. Si cercano figure che implicano movimento, basta vedere qualche tettoia, onde che sviluppano tutta una serie di disegni. In questo caso Viganò conosceva molto e ammirava l’astrattismo comasco. L’impressione è che non ci sia un centro compositivo, quindi l’occhio si sposta e continua a cercarlo, però non riesce. E c’è anche la tentazione della plastica, nelle facciate del Marchiondi. L’edificio ha molta profondità, sembra essere tutta struttura, anche se in realtà è fatto di spazi abitati, che giocano però una specie di ruolo plastico. Alla forma chiusa dell’architettura possiamo accostare i bassorilievi di Bloc, che Viganò conosceva, e motivi decorativi che si trovano nella grande rampa della mensa di Harvard di Gropius. Il tutto si vede attraverso il movimento, attraverso il percorso. Questo è importantissimo, tanto è vero che nel Marchiondi tutto è fatto in modo da camminare contro l’edificio, vedendolo via via. L’unica vista completa frontale non l’ha fatta Viganò proprio perché gli interessava questo aspetto di movimento. È l’ultima cosa è la riscoperta De Stijl: Anche lì, non a caso. Si potrebbe dimostrare che qui in Italia il De Stijl è noto da un secolo ma proprio nel ‘53 esce un famoso libro. Tutto questo è il Marchiondi. Se non si salva il Marchiondi io mi chiedo che cosa si salvi in Italia del ventesimo secolo.
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Roberto Mascazzini: Ringrazio anch’io dell’invito ad essere qui oggi. Da subito mi apparve chiaro come Viganò coltivasse fortemente la speranza di intervenire sulle trasformazioni dell’habitat attraverso lo strumento del progetto, e questa speranza per decenni è stata trasferita agli studenti che si sono succeduti nel suo corso in facoltà. Altrettanto certamente si è trasferita la sua grande passione per questo mestiere, che a volte anche complicato è difficile. La sua ricerca muove indubbiamente dal filone del Movimento moderno. Ha nel tempo sviluppato una personale visione, sempre all’interno di una coerenza del suo modo di fare che gli veniva da intendimenti metodologici. Questi erano sostanzialmente una visione critica, una resistenza verso la banalità con cui la città si gestisce, si trasforma con una modalità di tipo fenomenologico, dove di volta in volta occorre calarsi nel reale, nelle problematiche che emergono, nel divenire di queste reali. È una ricerca della profondità che, collegandosi al reale, Viganò ottiene con un atteggiamento anche critico verso i fondamenti accademici. È più interessato al dubbio che all’abbraccio delle certezze disciplinari. Della storia non guarda tanto al retaggio delle forme ma all’esperienza, ai metodi e alle concretizzazioni spaziali che queste hanno portato. Per dirla con parole sue, che forse sono anche più chiare: “Azzeramento, ricominciamento, rifondazione divengono speranza o ragione di vita, metodo”. Passiamo al Marchiondi, protagonista della giornata. Il modello di concorso del ‘54 è caratterizzato dal volume concavo dell’amministrazione, che è interessante confrontare con quello dell’anno successivo, il progetto definitivo. Le differenze ci sono e sono notevoli. Credo nascono dal fatto che quando lui andò sul luogo dell’intervento e dovette capire come puoi realmente l’avrebbe strutturato, si è accorto che si trattava di un territorio totalmente non urbanizzato, nella periferia della città. Capì che aveva bisogno di strutturarla in maniera ancora più forte del progetto del concorso. Quindi utilizzate le direttrici, una sorta di cardo e decumano, di cui parlo più volte nel corso degli anni. E se sono mutate dalla giacitura del paesaggio agrario circostante e quando fa questa operazione utilizza anche maglia, che gli permette di organizzare architettonicamente e anche funzionalmente l’impianto dell’istituto. Il padiglione del convitto è quello che meglio rappresenta alcuni aspetti metodologici che raccontavo prima. Viganò progetta a fianco di educatore psicologo e sociologo dando corpo e programma funzionale dell’Istituto in maniera innovativa, non solo dal punto di vista architettonico, ma soprattutto dal punto di vista psico-pedagogico. Come sempre farà, parte dalla pianta. Parte dal concetto di integrità che, attraverso il programma che è sviluppato in modo interdisciplinare, organizza la forma e gli spazi interni, che generano poi in maniera evidente gli alzati, i prospetti. Il corpo è semplice: c’è un corridoio di distribuzione a nord, che permette di accedere alle unità delle camerate attraverso grandi quinte che scorrono gli spazi che lui organizza all’interno hanno una certa complessità, che gli serve per organizzare l’architettura della facciata. La reiterazione dei moduli abitativi compone il prospetto Sud. Un altro concetto caro al modo di progettare di Viganò è il tema del non finito e dell’opera aperta. Le strutture piane, i corpi aggettanti, rientranti, cercano di portare lontano
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la struttura dell’edificio dalla stereometria, dal corpo monolitico. Si stendono oltre, misurano gli spazi, anche sino al limite consentito dell’intero lotto. Lasciano quindi aperte possibilità interpretative di fruizione. Per dirla sempre con parole sue: “ l’architettura sta dunque in un processo dinamico in continua trasformazione.” Attraverso questi elementi vuole dare il senso della dinamicità. Sergio Poretti: Intanto ringrazio dell’opportunità che mi è stata data di partecipare a questo incontro. Io mi occupo di storia della costruzione e di storia dell’ingegneria, quindi di quell’aspetto della storia dell’architettura, della storia materiale, alla ricerca di indicazione anche utili per la conservazione. L’edificio ci può suggerire il modo in cui vuole essere conservato. Il Marchiondi è una di quelle opere che ha assunto una pregnanza storica straordinaria. C’è l’alta qualità architettonica, ma anche una serie di coincidenze, che danno questa significa significatività tutta speciale ad un’opera. Il Marchiondi è una di queste: rispecchia alcuni aspetti tipici e nevralgici della cultura italiana degli anni ‘50 e ‘60, della cultura architettonica e non solo. Si trova all’incrocio di alcune linee sperimentali di cui parlerò brevemente. La prima è il modo tutto speciale di impiegare il cemento armato che c’è in Italia. Nel modernismo italiano, il cemento armato è egemone; l’acciaio scompare subito, però impiegato in modo particolarissimo, in stretta continuità con l’opera muraria. La seconda linea sperimentale di cui mi occuperò, essendo nel pieno dello studio della storia dell’ingegneria italiana in questi anni, è il fatto che il Marchiondi è l’opera frutto di una collaborazione straordinaria fra un giovane architetto Vigano 35enne su per giù è un giovanissimo ingegnere che si chiamava Zorzi, 2 anni più giovane; collaborazione per una serie di circostanze, di straordinaria significatività. La terza linea sperimentale, è che che è nevralgica per la storia dell’architettura italiana degli anni 50 e che il Marchiondi ancora rispecchia, è la centralità del design nel rapporto di eccezionale affinità con l’ingegneria. La fama del Marchiondi che comincia subito, deriva da questa etichetta del brutalismo. In realtà è un brutalismo eterodosso, tutto all’italiana, potremmo dire. Il telaio non telaio in cemento armato fatto di pilastri e travi tra i quali si stabilisce una continuità. Ma in realtà architettonicamente è un sistema architravato murario. Questo è molto italiano e io sottolineo l’italianità di questa esperienza. È vero che nell’ambito della cultura italiana degli anni ‘50 si mette a punto una costruzione mista latero-cementizia già definita durante l’autarchia che poi diventa la base del linguaggio architettonico realistico dell’Italia di quegli anni. È vero anche che da quel punto di vista il Marchiondi è un caso eccezionale: l’impiego integrale del cemento armato usate in tutti gli elementi senza distinzione tra quelli portanti e non portanti. Questo da astrattezza dal punto di vista strutturale. Da una a-tettonicità, un formalismo, che è quello della composizione per piani, quindi dell’Opera muraria caratteristica dell’Italia. Una serie di astrazioni rispetto alla struttura in cemento armato che però poi non sono che il contrappunto di un effetto strutturale molto forte, perché in parte è il cemento a vista che dà una sensazione di modernità strutturale, che data del materiale stesso. E poi c’è un dettaglio che caratterizza il convitto, e tutto il Marchiondi,
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che all’incrocio tra il pilastro e la trave e questo dà l’effetto di un incastro strutturale. Singolare perché non è proprio del cemento armato: rimanda una concezione quasi primordiale della costruzione in legno, però certamente è un effetto strutturale. Ecco, tutto converge verso una ambiguità tettonica, verso una ibridazione che proprio tipica dell’architettura italiana di questi anni, nella quale teniamo anche conto dell’uso integrale del cemento armato. Il vizio del cemento armato non è solo di Viganò: ci sono anche Carlo scarpa, Marcello d’Olivo, ci sono Ricci e Savioli. Non è un caso unico. Ma certamente l’aspetto più interessante, dal nostro punto di vista, è anche quello meno studiato, è la collaborazione di Viganò con Silvano Zorzi. Non da tutti conosciuto, è uno dei 4 più importanti protagonisti della scuola di ingegneria italiana. La scuola, incentrata Sul cemento armato, nasce all’inizio del secolo e si mette a punto Durante l’autarchia, quando intraprende le due strade dello sviluppo delle grandi strutture in cemento armato: le volte sottili, c’è la resistenza per forma, che sarà sfruttata da Nervi e la precompressione, cioè lo sfruttamento della coazione, che sarà la base delle grandi strutture di Morandi, ma anche di Zorzi. Questa scuola diventa collettiva, professionale, una scuola di presentazione durante la ricostruzione, quando migliaia di ponti e viadotti distrutti durante la guerra vengono ricostruiti dall’ingegneria italiana in pochi anni, silenziosamente, al di fuori sul grande dibattito della Ricostruzione che investe la cultura architettonica italiana, ma con grande efficienza. Ed è qui che scuola diventa una scuola a tutti gli effetti, di progettisti. Ci sono due generazioni che concorrono: la generazione dei nati all’inizio del secolo, che ha Nervi e Morandi come protagonisti, ma che comprende anche scienziati come Colonnetti, Danusso ed altri. La generazione dei più giovani, che cominciano a lavorare subito dopo la guerra. Di questi il più importante e Silvano Zorzi. Nemmeno trentacinquenne sta lavorando al Marchiondi e lo incaricano del ponte più importante in italia, quello sull’autostrada che passa il Po. Sedici campate di 70 metri; un trentacinquenne grande progettista. E poi sempre sull’autostrada del sole, il ponte Romita, forse il ponte più rappresentativo. Sono esponenti del grande boom della scuola italiana, sempre basata sul cemento armato, riconosciuta come la più importante al mondo dopo quella degli Stati Uniti. C’è una mostra al MoAa nel ‘64 e l’Italia è la più rappresentata però per al mondo. Zorzi è quindi uno degli esponenti, giovane ma non secondario, di questo momento culminante della scuola di ingegneria. Ma l’importanza di Zorzi è quella per cui, quando la scuola di ingegneria italiana, dopo lo straordinario successo, scompare letteralmente dalla scena alla metà degli anni 60, è l’unico che porta avanti ancora il coraggiosissimo, utopico tentativo di tenerlo in vita e lo fa nella stagione in cui i viadotti sono diventati tutti uguali, con le travi prefabbricate, standardizzate. Ed è l’autore di uno stile che nella scuola di ingegneria assume una sua autonomia: cioè lo schema architravato è assunto per quello che è, essenziale sobrio, però la qualità è tutta ricercata nella sagomatura degli elementi che rispecchiano il comportamento strutturale indagato in una maniera sofisticatissima e puntuale, perché Zorzi è un grande esperto della precompressione. Design mantiene in queste opere così semplice una grande qualità, utilizzando il cemento armato. E Zorzi è l’unico dei protagonisti della scuola italiana che accetta il fatto che non si può continuare con un cantiere tutto artigianale, bisogna accettare l’innovazione tecnologica, ma che
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consenta di mantenere la qualità artigianale. Ci sono due Zorzi: uno è Zorzi progettista, autore, sempre da solo, che nelle grandi strutture progetta e metti in campo un proprio stile inconfondibile, personalissimo. Poi però c’è un altro Zorzi: è il collaboratore di architetti. E lì Zorzi interpreta un ruolo completamente diverso. Non è più il protagonista; una spalla, di lusso ovviamente, in una maniera molto divertita, assecondando l’architetto. Le opere di Zorzi che compaiono le sue monografie, quello in cui lui è un autore, sono basate su una coerenza strutturale straordinaria, anzi sulla estrazione della coerenza strutturale che porta l’eleganza e quindi è design strutturale nel vero senso della parola. Quando Zorzi fa da spalla, accontentare architetto e mette il suo talento al suo servizio, dimostrando che il cemento armato permette una tale versatilità che si può progettare costruire qualsiasi cosa. Allora perché Zorzi e Viganò parlano la stessa lingua? C’è una ragione, al di là delle affinità caratteriali: è il comune interesse per il design. Viganò ha già seguito gli esperimenti al QT8. È interessato alla prefabbricazione. Zorzi è il più interessato al design tra gli ingegneri italiani. È stato a Losanna, allievo di Colonnetti, dove ha conosciuto ingegneri come Franco Levi e pezzetti ma anche designers come Rosselli, Mangiarotti e Magistretti e quindi i rappresentanti della scuola di design milanese. E lì è nata un’affinità che poi è la stessa che porta al filone dell’ingegneria del design italiano che conoscete: la scuola di Baranzate con Favini, Morassutti e Mangiarotti l’incastro tra la tra del pilastro con un piccolo sbalzo, che sembra contrario al cemento armato che indica la continuità, la monoliticità. Invece la separazione tra le due parti è un’imitazione e Viganò la giustifica: la struttura era stata progettata per essere per prefabbricata. Così È stata progettata, così è stata disegnata con l’intenzione di Viganò e Zorzi. Poi la Sogene, altra grande impresa italiana, costruisce l’edificio e per ragioni economiche che in quegli anni si comprendono benissimo, decide di gettare tutta la struttura in opera. Quindi anche da questo punto di vista una prefabbricazione prevista, poi mancata fa del Marchiondi un’opera italiana che rispecchia la situazione italiana degli anni 50. Ugo Carughi: Ringrazia di avere questa opportunità, naturalmente a nome degli amici del consiglio è di tutti gli altri soci di Do.co,mo.mo_ che qui ho il piacere di rappresentare. Do.co,mo. mo_ È un’associazione volontaristica che si occupa della tutela dell’architettura del novecento, arrivando fino alla contemporanea, in questa opzione svolge la funzione anche con degli archivi nazionali di architettura contemporanea, con il CNA, cin l’IN/ Arch, l’Anai, il MAXXI architettura, con gli ordini professionali e con le stesse strutture del ministero. Dopo il Marchiondi, per quanto è stato detto, è centrale per capire quali prospettive esistono in concreto per tutelare una Architettura del secondo Novecento con una consolidata fortuna critica sul piano internazionale, sottoposto, oltretutto, a ben due vincoli: Il primo lo chiede proprio l’architetto della nonna 94 a posto nel 95, ai sensi della legge Diritto d’autore del 41 e seconda è stato a posto nel 2008. Ce l’ha già, in realtà, Da quando il comune nell’82 diventato proprietario dell’opera seguito dell’applicazione della legge Basaglia del ‘78, quella che ha chiuso tutti i manicomi.
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Questo accertamento di valori ai sensi dell’articolo 12 del codice (allora si poteva dare, non c’erano ancora i 70 anni, ma c’erano i 50 anni anche in caso di proprietà pubblica), sono il periodo che la legge definisce tra il momento in cui L’opera è stata finita è il momento in cui si può criticamente giudicarla e quindi poi tutelarla. Ora il vincolo sul diritto d’autore, posto sul Marchiondi nel ‘95, è uno strumento praticamente quasi inefficace: l’iniziativa non parte dell’amministrazione ma parte da un privato, cioè dall’autore, e si richiede l’importante carattere artistico. Il vincolo tutela direttamente diritti dell’autore o degli eredi: non è previsto che i progetti di intervento sul bene vadano sottoposti alle soprintendenze, ma l’autore. Mentre sembrerebbe logico che all’istituzione che ha certificato di importante carattere artistico completa valutare gli effetti di un intervento, non fosse altro che per verificare il permanere delle condizioni che avevano comportato l’emissione del provvedimento. Ma incredibilmente, se ci riflettiamo, la legge 633/41 sul Diritto d’autore consente di decretare l’importante interesse artistico di un’opera contemporanea su richiesta dell’autore, senza le cautele che sono invece imposta nel caso in cui la sovrintendenza voglia autonomamente promuovere un vincolo diretto: in questo caso Infatti intervengono le barriere dei 50-70 anni. Ma la ratio della norma sconfessata per esempio dal Marchiondi, le cui qualità sono state costantemente riconosciuta dalla critica e dalla sua realizzazione. Bruno Zevi, ad opera neppure ancora terminata nelle finiture, nel ‘58, recensisce su l’Espresso e parla di modulo lombardo, singolarmente anticipando considerazioni che hanno progressivamente stemperato il persistente riferimento al New brutalism. Tafuri nel ‘68 taccia il New Brutalism di criticismo non rigoroso. Renato De Fusco, alcuni anni dopo, lo chiama Englishness delegando la prevalente tendenza dell’architettura Britannica. Quello che voglio dire è che mentre il mio Brutalismo se n’è andato progressivamente, circoscrivendo le con la considerazione degli studiosi, è cresciuta la dimensione critica dell’opera, riferita in particolare alla sua unicità e di indipendenza da un lessico espressivo, fino ad arrivare al concetto di Opera aperta con cui si chiudono il saggio di Letizia Tedeschi, mutando Umberto Eco. È probabile che, restando inalterati il riconoscimento dell’eccellenza dell’opera, le annotazioni critiche cambieranno ancora, rappresentando una continua variabile, perché poi nell’ambito dei beni culturali quello che cambia è il modo di vederli, mentre nel prodotto umano quello che cambia è la materialità del prodotto. Quando la macabra necessità di dover attendere l’ultimo respiro dell’autore, osserviamo che nel caso dell’architettura, l’autore generalmente non è il proprietario dell’edificio che ha progettato o di cui ha diretto i lavori. Non ha senso, pertanto, preoccuparsi di garantire le altre possibilità di utilizzo commerciale, attendendo pazientemente la sua fine terrena. L’edificio non è protetto dal mercato delle arti mobili, di cui sarebbe improponibile bloccare pervasivi meccanismi, impedendo con un vicoletto a un artista o al suo gallerista di ricavare i relativi benefici economici, perché essi, fin dall’inizio, sono anche i proprietari del prodotto diversamente dal architetto. Per un’architettura invece se pure il giorno pubblicizzata secondo modalità analoghe ad altre espressioni artistiche, l’attenzione all’opinione pubblica non dura molto, quando i riflettori sono spenti l’opera resta sola sul territorio, con le sue efficienze e inefficienze, l’autore è lontano. Rafael Moneo ha scritto un saggio sulla solitudine degli edifici, che è intitolato
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proprio così. Invece dell’autore Noi dovremmo cercare di non perdere le tracce: se cambia casa dovremmo sapere dove va ad abitare. Questo ce lo ha dimostrato Theodor Prudon quando, nel suo libro The Preservation of Modern Architecture, ci parla della Sydney Opera House, per la quale nel 93 è stato eseguito un piano di completa ristrutturazione che avrebbe completamente stravolto l’opera. Questo progetto fu affidato ad un’altra architetto, Johnson, il quale coinvolse l’anziano Utzon, e presenta nel 2002 due programmi di intervento: una medio termine, la sua cura, un’altra sua e di Utzon, a lungo termine, “Utzon design principles”, diviso in quattro parti: la prima relativa alla visione autoriale dell’edificio dei suoi interni, la seconda sui futuri cambiamenti nel tempo, la terza, una comprensione dei principi progettuali di Utzon riguardo alla natura e alle esigenze umane, la quarta sulle opinioni di Utzon sull’architettura odierna e sui cambiamenti funzionali. Analoghe considerazioni fa Prudon proposito della Gropius House trasformata in casa museo nel ‘74 avvalendosi dei consigli della moglie e della sorella della moglie di Gropius, morto nel ‘69. Quindi l’autore, al contrario esatto di quanto dice il codice, è una risorsa indispensabile per l’architettura contemporanea, che invece l’architettura Antica non ha più. Nel 2008 è stato dichiarato di interesse culturale. Nel Marchiondi c’è un interesse intrinseco è uno relazionale. Sembra che il contrasto tra l’autonomia distributiva, costruttiva, formale e dimensionale delle singole parti del complesso è la funzione unificante della struttura trilite ne rafforzi la derivazione autoctona rispetto all’inquadramento del New Brutalism. Argan A proposito del Sant’Ambrogio a Milano dice: “Si hanno così due sistemi portanti incastrati l’uno nell’altro, è nella sezione dei pilastri, come nella doppia ghiera degli archi, appaiono ben distinte le singole forze in gioco. Il valore della forma architettonica e dunque dato dall’ evidenza plastica del congegno costruttivo”. Reichlin del Marchiondi dice invece: “Il convitto regge su due strutture intercalate sfalsate; l’una sopporta le parti periferiche come blocchi sanitari e i corridoi mentre le camerate sono portate a una struttura interna, entrambe le strutture concorrono alla particolare configurazione spaziale del convitto”. In realtà nel Sant’Ambrogio la struttura secondaria, più piccola, è quella delle arcate che dividono le navate laterali dalla navata centrale. Però i pilastri di queste Arcate Si alternano con pilastri più spessi che sono quelli che acchiappano pure le nervature delle volte centrali. Nel Marchiondi vedete lo stesso intercalare degli elementi, solo che non sono allineati, sono pure sfalsati e ci sono mille altre differenze. Però è lo stesso concetto spaziale. Analogamente la profonda spazialità dei fronti ottenuta nel Marchiondi con l’arretrare di piani strutture e volumi, richiama quella di certe facciate romaniche. Le parole di Argan su quella del Duomo di Siena sembrerebbero attribuibili al Marchiondi. Paragonando Sant’Ambrogio e il Marchiondi, se consideriamo la navata centrale con un esterno rispetto alle navate interne, vediamo che c’è lo stesso ritmo, la stessa potenza, la stessa sincerità dei materiali, Insomma è una cosa lombarda. E, in relazione agli altri caratteri salienti dell’opera, Reichlin fornisce puntuali riferimenti, richiamando altre opere architettoniche o visive, anche, identificabili come componente del valore relazionale del complesso. Tuttavia, questa componente, contatto con architettura di Viganò, interpreta l’uomo come un nuovo concorrente, non univoco e omonimo, il che rafforza il carattere di ogni civiltà nel
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Marchiondi, Cioè in presenza di un valore relazionale si rafforza il valore intrinseco del Marchiondi, quindi l’unicità di quest’opera è la conseguenza necessità di tutela puntuale Quale opera irripetibile. Si può adottare anche una strategia di tutela della cosiddetta rete, che ha un concetto assunto fin dagli anni ‘80 a livello internazionale e dall’Unesco, per cui se delle opere hanno alcune cose in comune possono essere vincolate singolarmente, per il valore intrinseco, ma possono essere vincolate anche per il valore relazionale: in ogni vincolo si possono richiamare tutte le altre. Il concetto di eccezionalità viene trasferito dalla singola opera a tutta una serie di opere, della quale fanno parte anche opere minori, che magari non hanno un valore intrinseco, ma senza le quali un’altra opera non sarebbe stata nemmeno concepita. Antonella Ranaldi: Grazie dell’invito, che era partito dal fatto che in un’intervista avessi parlato della tutela del moderno a Milano. Ovviamente non solo della tutela del moderno perché in realtà volevo evidenziare quelli che erano i momenti più significativi nello sviluppo di questa Milano moderna, come il rinascimento, l’Illuminismo, il Risorgimento e la ricostruzione della Milano del dopoguerra. Ogni città ha determinate caratteristiche, ha determinati messaggi da dare e valori da trasferire al futuro. In una proiezione che si sviluppa nei secoli, è proprio il momento della ricostruzione post bellica ha lasciato a Milano segni molto importanti. Il tema è anche quello di quali sono le strategie che è un organo di tutela può mettere in atto. Si tratta dell’applicazione di una legge che è più che centenaria, si è difficile che hanno quindi molti meno anni della legge stessa. Forse certe definizioni possono alzarsi a questa architettura, questo dal punto di vista critico; ma quello che posso assicurare da quel poco che conosco della vicenda dell’Istituto Marchiondi, e che senza queste tutele, che possono anche far sorridere per il loro significato, l’istituto sarebbe in demolizione. Però questo edificio si dice anche, in modo evidente, che lo strumento di tutela non è sufficiente a garantire la conservazione, a meno che non si creino altre condizioni, che è facile capire riguardano le risorse, ma soprattutto le necessità. Il tema della Milano moderna dal punto di vista della tutela mi interessa perché ci troviamo nel 2015 e per i limiti di legge la tutela del patrimonio che ha più di 50 anni per i privati, più di 70 per il pubblico. Altro limite indifferibile è che l’autore sia morto: Questa è una legge di tutela, che quella del codice beni culturali, la cui anima, le cui parole, la cui terminologia ereditata dalla legge sulla tutela del 1909. Si tutela quello che viene riconosciuto di interesse storico-artistico, se si vuole tramandare ai posteri. Per lungimiranza della legge, non si voleva identificare quali fossero i requisiti di interesse, perché questi potevano cambiare nel tempo. Gli edifici che hanno una tutela Milano non sono tantissimi, ma considerate che ad oggi, nel 2015, si possono tutelare edifici privati completati al ‘65 e non oltre, edifici pubblici fino al 45. Tra questi edifici l’Istituto Marchiondi è molto tutelato, il riconoscimento del diritto d’autore richiesta dallo stesso architetto Vittoriano Viganò, e la tutela del 2008, quindi vendute le ho finito in questo caso posso dire sicuramente che l’attenzione della sovrintendenza è stata molto in anticipo sui tempi per la tutela del Diritto
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d’autore e come esempio di particolare interesse storico artistico. Ovviamente anche inserito nel censimento delle architetture del secondo Novecento curato dalla Darc. È chiaro che ciò non è che non c’è stato non è l’attenzione è riconoscimento da parte della tutela, Ma le condizioni che potevano permettere che si intervenisse. Le totale del moderno non sono affatto semplice, perché poi la tutela può essere anche una prigione per l’edificio, per la proprietà, Anche rispetto a quelle che sono le destinazioni d’uso. Immaginate quando si è interrotta una destinazione d’uso se la riconoscibilità dell’edificio è legata a quella funzione. Non è un problema facile da risolvere. È il caso ad esempio, pensando al Moderno, delle colonie: non è affatto facile riuscire a conservare le colonie, come mi è capitato di osservare in Romagna. Anche con l’intenzione di trasformarli in albergo non è così facile. Per esempio pensate alla colonia di De Carlo: nel momento in cui il proprietario vuole renderla utilizzabile investirci, non vuole per esempio che i bagni siano posizionati per i bambini, come era nel progetto di De Carlo. Altro esempio sono le ferrovie dismesse: conserviamo le stazioni, significative, ma con la cognizione che non essendoci più la ferrovia, il treno, perdono gran parte del significato. Altri vincoli presenti a Milano sono ad esempio la Casa Albergo di via Corridoni dell’architetto Luigi Moretti datata ‘47-’50. Immaginate cosa significa una tutela su un edificio, ai sensi del codice dei beni culturali: È una tutela coraggiosa, perché significa la necessità, ad esempio, e autorizzare ogni trasformazione interna. Questo però viene considerato importante, di interesse storico artistico, perché nel clima della ricostruzione post bellica rappresenta la traduzione di un pensiero sul modulo abitativo. Ha un significato sociale, perché era una casa albergo per soggiorni transitori e per persone singole, Ciao modello sociale diverso da quello tradizionale della famiglia, moglie, figli e marito. La casa albergo di Moretti è tutelata con un decreto che è del 8 maggio 1998 quindi in tempi precoci. Quindi, significato, sicuramente il valore artistico dell’espressione architettonica, assieme al valore storico, che cosa rappresenta l’edificio in quel momento. Immaginate sul panorama ampio di produzione di realizzazione che quello del dopoguerra, di fronte anche ad un livello qualitativo molto alto, Quali sono i criteri, Che cosa fa scegliere un edificio rispetto a un altro. Voglio riportare alcuni esempi di Quali sono stati edifici prescelti per far capire questo discrimine, questo riconoscimento del valore. Poi la descrizione dei vincoli guardano il fatto materiale, anche per fotografare la situazione ed evidenziare quello che ha valore, quello che deve essere conservato. Stazione Agip, Piazza Accursio. Siamo nel 51-53 l’autore è l’architetto Mario Bacciocchi. Anche in questo caso il significato artistico-espressivo viene legato ad un fatto che ha importanza per la storia. In relazione al committente, Enrico Mattei, e anche il processo e alla stessa progettazione in quanto questo esempio viene pensato, progettato come prototipo per tante altre stazioni Agip che dovevano essere collocate lungo le arterie principali, per far pubblicità alla benzina. Un edificio Quindi anche riconoscibile, un po’ Sul modello americano. Questo è stato tutelato nel 2013, diverso lo stato, Però tutto è ancora ben riconoscibile. Tra gli altri che sicuramente ho selezionato, la torre Velasca. Ci si domanda anche in questo caso se il vincolo deve esserci necessariamente, per la torre simbolo della ricostruzione, un elemento così imponente che va a disegnare lo skyline della città. Anche qui il problema della tutela, legata al riutilizzo, e alla
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possibilità che le persone, che ci abitano o alloggio no, possono avere di cambiare e fare a loro misura la propria casa. Da qui l’attenzione anche a conservare quella unità abitative che non sono state modificate nel tempo. Si riconoscono quindi dei valori che possono avere significato per la progettazione, per la sua realizzazione, è quello che rappresenta nel contesto è il valore della storia, a quali fatti, quali committenza, A quale momenti storici si legano. Questi sono dei criteri, Tra cui quello del riconoscimento critico: non è passato il tempo che impone quella distanza del giudizio storico. Altro esempio di tutela, la chiesa di Santa Maria della misericordia, di Angelo Mangiarotti, uno degli straordinari esempi che voi conoscete bene e rappresentano solo la selezione di elementi significativi, ce ne possono essere molti di più. La tutela diretta è molto stretta: impone quasi una impossibilità di modificare, di adeguarsi anche ad altre esigenze. Per esempio il quartiere feltri, di INA-Casa, lo strumento di tutela è quello della tutela paesaggistica che interviene soprattutto nel controllo degli esterni. Immaginate Cioè anche la grande scala, e questo sono un po’ di indirizzi a cui si accompagnano strategie soprattutto di conoscenza. C’è una stretta collaborazione con Do.co,mo.mo_ , Darc, e anche con il Politecnico, con la Regione, attraverso la catalogazione, l’individuazione che costituisce quindi un’ottima base per questa operazione del riconoscimento di quei valori. Altro strumento sono quelle delle tutele paesaggistiche. Altro strumento è quello della tutela paesaggistica, quando c’è un passaggio di scala, come è stato fatto per il quartiere Feltre, che si può proporre, ad esempio, per Metanopoli, per edifici Eni e per il QT8 di Bottoni.
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Padiglione Architettura / 2 26.11.2015
Si riporta di seguito, la trascrizione della prima delle due conferenze tenute presso il Padiglione Architettura alla terrazza Pirelli, in data 30 luglio 2015. Padiglione Architettura è stato un ciclo di conferenze presso il Belvedere Pirelli, svolte durante il periodi EXPO 2015, curato da Vittorio Sgarbi con Lorenzo Degli Esposti, e che hanno visto il Marchiondi protagonista di due giornate di studio, nonché edificio simbolo dell’architettura Moderna Milanese. Il primo intervento, del professor Marco Dezzi Bardeschi, ripercorre la cronologia che ha portato l’Istituto all’attuale stato di abbandono, analizzando successi mancati e fallimenti degli approcci tradizionali, frutto di un mancato aggiornamento del dibattito intorno alla conservazioned dell’architettura del XX secolo. Attilio Stocchi racconta i ricordi del suo professore, Vittoriano Viganò, riportando preziose impressioni. Antonella Ranaldi partecipa anche al secondo incontro, enfatizzando l’importanza delle occasioni di dibattito come motore privilegiato di interventi. Infine si assiste a un breve dibattito, incentrato sul senso di riutilizzo, restauro, rifunzionalizzazione, ricognizione e documentazione delle architetture in pericolo (Andrea Bruno riporta la sua esperienza in Afghanistan, nella documentazione di un patrimonio artistico e culturale oggi in gran parte andato distrutto esordendo con:“Architetture fotografate mezze salvate”) che vede la partecipazione dal pubblico di Alberico Barbiano di Belgiojoso e Augusto Rossari, proprio intorno al tema di salvaguardia slegata dal concetto di restauro e rifunzionalizzazione obbligata. Davide Borsa: Buongiorno a tutte e tutti, grazie di essere qui per la seconda puntata di un incontro dedicato al Marchiondi, che riprende anche il filo del discorso che abbiamo in tessuto sul rapporto della memoria del moderno, della sua tradizione della sua conservazione. Questo si abbina all’incontro che abbiamo fatto Sulla pietà Rondanini e il disallestimento del progetto dei BBPR e altri temi che sono affiorati durante tutto il ciclo delle conferenze. E la comunità di riferimento che si deve incaricare di tramandare e di conservare queste testimonianze, questo Corpus che ormai fa tutt’uno con la storia della città della civiltà Milanese e italiana. Ho qui due paladini, due architetti ed emeriti professori che hanno insegnato e insegnano al Politecnico
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di Milano, come Marco Dezzi Bardeschi e Andrea Bruno. Sono architetti di estrazione moderna, Marco Dezzi Bardeschi è allievo di Michelucci e Andrea Bruno è di rito sabaudo, ma è sempre stato un attentissimo divulgatore e propinatore del valore dell’architettura del linguaggio moderno, cosa che non gli ha impedito di superare quella apparente contraddizione che c’era tra il moderno e la storia, proponendo una nuova modernità che riuscissi a dialogare e anzi che si incarica asse della responsabilità e dell’impegno di traghettare L’antico e il moderno alle generazioni successive. Questo hanno fatto, sia come progettisti che come professori: in particolare volevo ricordare l’impegno di Marco con la rivista di cui è direttore, che per più di un decennio ha portato avanti questa battaglia culturale e conduce tutt’ora. Sono tutti e due autori che hanno fatto progetti di valore paradigmatico, non sto qui ad elencarli tutti perché c’è chi perde troppo tempo, Andrea Bruno con il castello di arte contemporanea e che quindi ha fatto scuola, è che lì a testimoniare il valore paradigmatico di questa sperimentazione. Marco Dezzi Bardeschi con il palazzo della Regione a Milano ha dimostrato che il progetto di conservazione può e non deve cedere alla tentazione dello storicismo mimetico e nostalgico, o può far convivere l’esigenza della conservazione della testimonianza materiale e il progetto contemporaneo. Alla tavola siedono anche l’architetto Antonella Ranaldi nuova soprintendente di Milano e l’architetto Attilio Stocchi, allievo di Viganò, i quali ringraziamo molto di essere qui con noi. Marco Dezzi Bardeschi: Grazie Davide, Sono molto contento di essere qui in questa giornata dedicata all’architettura per postare questa esperienza, a cui hai fatto cenno, sperando che sia utile. Tutta questa vicenda Marchiondi, che ora cerchiamo di ripercorrere, potrebbe essere intitolata con un titolo di crisi: “Ricomincio da tre”, perché sono passati più di 20 anni, è una polemica maggiorenne. Prima di tutto bisogna far capire, innanzitutto i giovani, che evidentemente non conoscono questo oggetto sperduto e anche un po’ sepolto nella natura che gli è cresciuta intorno,come lo sviluppo edilizio di Baggio, che cos’è questo Istituto Marchiondi. Vittoriano Viganò da giovane si è trovato di fronte a questo grande tema, un tema difficile perché era un modo di educare i “ragazzi difficili” noi oggi diremmo, anche se questa definizione un po’ già li condanna. Fu bandito un concorso nel ‘53 e furono fatti degli inviti e naturalmente vinse Vittoriano Viganò, con una proposta veramente innovativa e anche molto dura, si vede anche dalla scelta del cemento brut, tutto essenziale, non ci sono compiacimenti decorativi. Tutto legato all’ottimizzazione del funzionamento di questa macchina didattica che teneva perfettamente separati controllati e controllori. I ragazzi ospitati in camerate di 12 letti e controllori che modo un po’ poliziesco di guardavano anche tramite il percorso rialzato, quando andavano dalle camere e servizi, che erano ubicati in un cubo sopraelevato, serviti da una scala a chiocciola. questa invenzione di Viganò aveva anche un altro pregio: aveva separato nettamente struttura è contenuto. La struttura infatti era affidata ai grandi telai dilatati che tenevano insieme, abbracciavano e passavano Oltre il corpo dell’edificio. La fabbrica era quindi tutta libera, tanto è vero
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che proprio un esempio di spazi libero totale ma anche di prospetti totali. Viganò si affidò a una maglia lecorbusieriana, sicuramente di 50 x 50 cm, quindi tutto quanto è modulato sui multipli, anche gli impianti. Massima trasparenza per gli esterni, pronti e interni liberi. Perdipiù questo edificio era stato pensato come una città, nel senso che è un organismo completamente autonomo, non ho bisogno di nessuno, non è legato a nessun cordone ombelicale, è autosufficiente, con le camerate, le aule, la palestra, il teatro, la chiesa che non è stata costruita, le serre, in lavanderia e così via. Una cura omeopatica, dicevo un po’ dura, ma colorata con colori primari lecorbuseriani, quindi una macchina rieducativa. Questo edificio è rimasto vuoto, era partito con 400 ragazzi, poi si è svuotato completamente nell’’84 e da qui comincia la sua lenta agonia. Questa eredità materiale di viene sempre più imbarazzante. Questo è successo mentre la sua fortuna critica cresceva in un modo incredibile, affidata alle riviste specializzate e alla fotografia: era considerato un prodotto inserito nella corrente De Stijl, non era ancora brutalismo. L’aggettivazione brutalista, che poi tanto ho dovuto sopportare vigano, è stata a mio parere creata da Banham che parlava di neobrutalismo inglese e lo confrontava con gli Smithson, infatti molto presenti anche alle triennali n quegli anni, è diventato i propri amici di Viganò. Questa assonanza poi è venuta a crescere con Tafuri, aperto l’oriente, nella forma di brutalismo giapponese di derivazione lecorbuseriana. Infine con Zevi all’edificio il termine si è spostato all’autore, gli architetti brutalisti come Viganò e Ricci. Leonardo Ricci è un personaggio molto popolare, molto sanguigno, molto gestuale, completamente diverso dalle esattezza, dalla ragione, quasi dal Modulor al quale si è ispirato Viganò. Più la conoscenza del Marchiondi andava avanti, grazie alla fortuna della sua immagine è ritratta in splendide e iconiche fotografie, più nel frattempo questo splendido edificio si deteriorava progressivamente. Noi abbiamo iniziato nel ‘94, già nell’86 era nata una forte crociata, Domus aveva fatto almeno due numeri monografici sulla conservazione, sulla tutela dell’architettura moderna e c’eravamo imbattuti in quell’altro grande complesso, il Weissenhof di Stoccarda, di grandi autori come Mies, Le Corbusier, che abbiamo cercato inutilmente di salvare dal restauro inteso come ritorno al primo giorno di vita, che negava tutte le cose successive. Questo fascino del ritorno al tempo zero dell’architettura ha colpito anche molte architetture, le colonie, grandi complessi diventati tutti imbarazzanti per la loro dimensione sociale, per la dimensione su per comunale, le colonie marine, le colonie montane del fascismo. Ecco quindi nel 94 con Ananke Abbiamo cominciato a segnalare il Marchiondi dimenticato, erano già 10 anni che praticamente era dimenticato. Naturalmente lo consideravamo un paradigma del moderno, un documento da non perdere, un monumento da non perdere. C’era già lo stato di conservazione che non era quello di oggi ovviamente, ma comunque incipiente di forte degrado. Dal ‘94 c’è stato un momento che potrei dire di illusione che però era estremamente positivo, quando Daverio era assessore alla cultura. Daverio fece ben due convegni per salvare il Marchiondi. Nel primo, nel Marchiondi, lancia questo progetto di recupero sperimentale per cercare una nuova destinazione, si parla di tutto, aveva introdotto dicendo: “ Guardate che anche se non sembra, se non ci pensate, anche il contemporaneo, effimero, è già diventato antico, dobbiamo curarlo come un monumento antico”. Confinano quindi e le figlie, abbiamo cercato
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di fare tutto il possibile per salvare il Marchiondi. L’occasione che si era presentata, dal punto di vista del recupero, era una legge universitaria: si pensava, con un cambio di destinazione che però avrebbe dovuto essere compatibile con le tipologie di partenza dell’edificio, di poter trovare una soluzione in questo senso, affidandolo al politecnico. Questa soluzione non è stata trovata, ed è sfumata perché ancora una volta si è pensato di dover ripristinare il Marchiondi nel suo massimo splendore iniziale. Io mi domando che cosa sarebbe stato meglio di un laboratorio privilegiato, per un progetto di conoscenza per gli architetti, per gli artisti; qui ci sarebbe tutto, visto che parliamo di unità delle Arti e soprattutto degli artefici, di chi lo fa. Ci sarebbe un formidabile laboratorio didattico e sperimentale, cosa che non è riuscita con il politecnico, malgrado tutte le competenze specialistiche. Se tutti gli specialisti, per esempio gli strutturisti, gli impiantisti, i progettisti d’interni, pensano solo ad utilizzare le loro competenze, capito benissimo che è impossibile trovare una soluzione: la soluzione va trovata Evidentemente nel senso diverso, sono le specializzazioni che devono essere a servizio. Faccio solo un esempio: la normativa silenziosamente uccisa il Marchiondi perché gli architetti che dovevano progettare come fanno ad avere l’approvazione del comune o da chi per esso, se ci sono delle scale che Viganò ha pensato di dimensione inferiore ai 120 cm, 90 cm, e quindi non a norma? E che si fa, si demoliscono? È così per tutto il resto due punti Quindi bisogna trovare una compatibilità fra il documento, il monumento, questo splendido organismo città che viene dopo. Mentre strutturalmente il Marchiondi era perfettamente regola collaudata nel 1960, oggi non lo è, come tante altre cose, perché le norme sono cambiate. Voi capite che in questi casi la deroga, come sa bene la soprintendenza, è d’ufficio. Un’eccezione si può fare, quindi si deve partire dal l’eccezionalità del documento e su questa calibrare insieme alle varie competenze, ognuno la sua, sulla soluzione ideale. Attilio Stocchi: Nel mio intervento racconterò alcuni ricordi che ho del professor Viganò. Il primo che mi è venuto in mente che proprio vent’anni fa, quasi settimanalmente, si discuteva con il professor Viganò del Marchiondi. Ma ne discutevamo più che altro ascoltando il professore, e la sua malinconia, perché ne parlava quasi come di un figlio. Mi ricordo proprio una frase che citava spesso: “il Marchiondi è un malato grave da pronto soccorso” e diceva “ non sento odore di medicinali ma di sepoltura, e la cosa mi rattrista.” E quindi c’era questa sua creatura che si stava proprio disgregando. Un altro ricordo rispetto a quegli ultimi mesi in cui si parlava del Marchiondi è invece un pensiero molto bello e ottimista. Era colpito da come la natura andava a mangiare questa materia grezza ma era anche affascinato da questo rapporto di metamorfosi spesso amava farci vedere le foto dei viaggi che faceva. Negli ultimi anni era stato in centro America a vedere le opere degli Aztechi e dei Maya e gli piaceva paragonare il Marchiondi ai tempi degli Aztechi e Maya, mangiati dalla natura. La malinconia di questo oggetto che andava a morire al contempo gli faceva piacere, nel pensare che questo rapporto di metamorfosi potesse dare qualcosa di più a questo oggetto. Tanto che appunto tra me e me pensavo che la materia assumeva il proprio ruolo, mi vien da dire, di
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boccioniana Mater. C’è un bellissimo quadro di Boccioni in cui lui trasformava la madre in materia. Spesso Viganò quando parlava del calcestruzzo ragionava proprio come se fosse una creatura nascitura. Rispetto a questi ultimi mesi, ricordo tre pensieri rispetto al Marchiondi che amava ricordare spesso. Il primo è che si sentiva un po’ vincitore, nel senso che lui diceva: “La cosa su cui rifletto, rivedendo l’edificio, è di essere riuscito a battere quel vuoto da prato periferico milanese che nell’approccio al progetto mi pareva ossessivo, se non indistruttibile”. Cioè si faceva dei complimenti tutte le volte che tornavamo a vedere quello però negli ultimi anni, perché capiva che era riuscito a battere quel voto di periferia imbattibile: “sono riuscito a costruire un oggetto, un’architettura che è riuscita a dialogare con la tristezza del luogo”. La seconda è che dicono non ragionava come se fosse un architetto cioè non parlava mai di riferimenti architettonici o di altri architetti a cui si ispirava, ma rispetto invece al Marchiondi, diceva che hanno sicuramente influito su di lui la formazione e l’opera di Nervi e di Terragni: diceva Nervi come logica della costruzione, invece Terragni come razionalismo e come poetica perché, sempre parlando del Marchiondi, amava dire che: “l’architettura è una tensione, ma anche un ricordo”. Ha tenuto fede a un’impostazione fortemente legata alle sue radici che, usava questo termine, “riteneva utile non recidere”. È molto bello per me questo pensiero, di questa radice che si può tagliare ma che in alcuni casi lui teneva a sé. Viganò ha vissuto un momento storico dell’architettura e dell’arte italiana incredibile e amava pensare che a quest’opera era anche sorella delle opere di Fontana o dei quadri di Crippa e di Burri. Erano tutti i suoi amici, che incontrava, e mi piace pensare che a un certo punto quando parlava di fontana, ho delle opere di Burri e di Crippa, parlava come per dire di una materia informe che in quegli anni tutti cercavano di lavorare e di trattare. Diceva sempre che l’architettura fondamentalmente aveva bisogno di una committenza, come dire se non c’è una committenza bisogna crearsela. Diceva che i suoi veri committenti sono stati bambini e sono stati perfetti committenti che abbia mai avuto, sia per intelligenza percettiva dello spazio sia per l’utilizzo creativo di esso. Chiudo con questa frase, che ogni tanto mi torna in mente, riferita quando hanno aperto il Marchiondi: “ non potrò dimenticare il grido di gioia con cui sciamarono dentro, l’entusiasmo con cui presero immediato possesso delle attrezzature, degli armadietti, dei porta abiti”. Ecco mi piace pensare, se dovessi pensare al futuro del marchiondi, che possa rivivere di quelle voci e di quelle gioie. Antonella Ranaldi: Grazie di questo secondo invito. Nel precedente mi sembra che sia affrontato con il Marchiondi il tema molto alto della tutela del moderno, in particolare qui a Milano. L’istituto Marchiondi a ben due tutele. La prima del ‘95 con la legge del diritto di autore si è riconosciuta al artisticità di questo edificio. Una seconda, più recente, del 2008, che tutela l’edificio per il suo interesse storico-artistico. Salvare il Marchiondi o lasciarlo al suo destino significa che la tutela abbia successo o meno. La tutela è strettamente legata alla materialità dell’oggetto: se non esiste più questa materia decade la sua tutela. È una tutela militante, ma anche il fatto di trovarsi qui, a parlare di un tema molto
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difficile da affrontare per il futuro, è già tutela. Ma non basta. La Soprintendenza non può farsi carico di individuare un percorso per la tutela, ma ne ha la responsabilità. Il discorso della committenza diventa decisivo ma soprattutto quello del suo utilizzo, la funzione. Nel momento in cui un edificio viene abbandonato, diventa rudere. Il tema del rudere è stato anche ricordato come la natura che può prendere il sopravvento, ma qua c’è un problema anche di dimensioni di materiali che male sopportano una vita prolungata. Sono tutti temi della tutela del moderno, l’altra volta avevo portato alcuni esempi particolarmente significativi che erano la Casa-albergo di Luigi Moretti, la stazione Agip di Mario Bacciocchi, La Torre Velasca dei BBPR e la chiesa di Santa Maria della Misericordia di Angelo Mangiarotti. Milano è il laboratorio principale dove si può contare il tema della tutela del moderno, con tutti i rischi e gli inconvenienti rispetto agli usi e rispetto anche la degenerazione della materia rispetto a tecnologie che forse sono pensate per vivere non 500-600 anni, ma molto di meno. La soprintendenza, nel momento in cui interviene, in un certo senso destino e consegno l’edificio ad un tempo illimitato, o fino a che non succede un evento drammatico come può essere quello di un bombardamento, di una perdita totale. La strada per la conservazione del Marchiondi, ho la consegna una sua lenta degenerazione, sono sono le prospettive. Passano ovviamente da un suo riutilizzo. Forse sul destino del Marchiondi ha pesato anche il dibattito su quale strada prendere, l’una o l’altra, e rispetto a cui forse il futuro stesso, riguardo i temi più concreti del riutilizzo, ha un po’ avuto la parte minore. E parlare del destino del Marchiondi e sicuramente attività da non abbandonare, anche grazie ad occasioni come questa. Marco Dezzi Bardeschi. Invitandovi a prendere la parola dal pubblico, volevo aderire a questo ultimo invito della sovrintendente per dire intanto che Viganò è stato il primo ad ottenere in vita il vincolo del diritto d’autore, nel ‘95, per un suo impegno personale e stimolando insomma un attenzione che poi è fino ad ora non c’è stata per il declino del suo bambino. Poi è morto dell’anno dopo, nel ‘96. Nel 2010 Quando c’è stata la possibilità di un riuso collettivo del Marchiondi, tutte le migliori competenze del Politecnico si erano mobilitate, quindi in particolare chimici e fisici la scienza tecnica e materiali, Luca Bertolini delle strutture, il problema degli impiantisti. Ci sono quindi problemi molto interessanti, problemi dei materiali, del vetrocemento per esempio, c’è linoleum, i materiali tradizionali come il legno ma soprattutto il ferro il cemento armato. E c’erano gli architetti della soprintendenza, ricordo la Lattanzi e tanti altri che sono ricercatori dell’università, e io penso che questo sarebbe, e lo è di fatto, quello ospedale da campo che evocava Viganò. Un po’ tutti insomma, chi è interessato, dovrebbero in qualche modo prestare le proprie cure. In un gruppo di lavoro, che a mio avviso è estremamente necessario. Più che di teoria qui si tratta di far vedere se e come è possibile. Naturalmente rimanendo il dubbio della sua futura destinazione, intanto cominciamo ad usarlo.
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Andrea Bruno: Ho detto in una certa occasione che “architettura fotografata e mezza salvate”. Mezza salvate perché l’immagine virtuale fa parte ormai nell’immaginario comune dei nostri figli e nipoti, che non distinguono più bene la realtà dall’irrealtà. Le cose viste, le finzioni televisive sembrano molto più reali delle cose che succedono quotidianamente. Nel lavoro che faccio in Afghanistan, la parte principale è stata quella di fare l’inventario dei monumenti. Inventariare significa conoscere le cose e documentarle. Di tutte le fotografie che ho fatto, più dell’80% e rappresentno architetture che non esistono più. Esistono delle fotografie molto belle che si possono comunque vedere. Se noi avessimo fotografie di quello che è stato il colosso di Rodi, avremmo già certamente un motivo interessante per interessarci all’architettura. Poi in architettura evidentemente è una cosa che va vissuta. L’architettura e dove noi viviamo, dove noi stiamo, quindi nel problema del Marchiondi si è parlato di committenti di artifizi tecnici per conservare e migliorare le cose. Per me, senza una destinazione d’uso è immorale pensare di restaurare delle architetture. Avevo fatto l’esempio di chi si costruisce il tetto per allungare un po’ la durata del rudere, ma non vado oltre quello. Quindi la salvezza del Marchiondi sarà una destinazione d’uso corretta. Chiaramente alla destinazione d’uso è strettamente legata alla committenza e siccome principi democratici hanno visione della vita e dell’eternità molto diversi da quella dei principi di altri tempi, che ci hanno fornito il patrimonio italiano di adesso, finché non ci sarà questo connubio tra committenza e da dare a questo edificio, pensa non si potrà fare molto. Le foto che abbiamo visto sono bellissime e tutti siamo rimasti stupiti a vedere cosa c’è lì, però se ci si limitasse semplicemente ripulire lo stato di degrado non ci piacerebbe più Marchiondi, perché non ci sarebbe più nell’architettura nel rudere romantico del quale si vedono, con le pratiche del tempo, quelle cose che ci piacciono. Fanno parte del sentimento della nostalgia di uomini che siamo persone più fragili ma a volte anche più coraggiose. Alberico Barbiano di Belgiojoso: A mio parere l’obiettivo principale della conservazione è di mantenere un documento di un’architettura che ci interessa come tale e poterlo vedere noi e semplicemente, come accennava prima la soprintendente, anche per il futuro. Cioè il nostro intervento non deve impedire che i nostri figli non vedono più quello che noi adesso riusciamo a capire. Seconda cosa, la destinazione d’uso a mio parere non è poi così importante: serve per mantenere in vita e utilizzare in qualche modo qualcosa che abbiamo presente. In certi casi certe nuove destinazioni d’uso, ad esempio l’utilizzazione per musei di edifici storici, rovinano un edificio storico. Se il Marchiondi fosse restaurato e anche fosse vuoto, io sarei felicissimo e andrei a vederlo frequentemente. Se l’uso del Marchiondi, per tenerlo in vita lo modifica al punto che non riusciamo più a vedere l’architettura di Vittoriano Viganò, io trovo che sia un peccato, preferisco che sia vuoto.
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Marco Dezzi Bardeschi: Volevo aggiungere una cosa. Sono in tutto, come potete capire, molto vicino e legato in modo fraterno ad Andrea Bruno, sono 50 anni che ci conosciamo, dal ‘64, dalla mostra del restauro di Venezia. Però io non sono d’accordo sul fatto che se non abbiamo una destinazione d’uso è meglio non intervenire: se avessimo dovuto aspettare una destinazione d’uso il palazzo della Regione sarebbe già crollato. Quindi sono d’accordo con Alberico, anche se vuoto consentiamo di vederlo, e che possa vederlo anche qualcun altro. Ho parlato di strutturisti, impiantisti, ma non dei progettisti. I progettisti degli interni che arrivavano erano disorientati dalla spartanità assolutamente inattuale degli impianti, una doccia tipo mangiatoia metallica è un tubo di ferro contanti rubinetti in sequenza da cui i bambini si lavavano: la prima cosa che pensavano è che andava tutto rifatto. Questo era un modo di tradire il Marchiondi. Oppure trovavano inaccettabile per la nostra cultura dell’uso sociale le camerate a 10 posti. Allora avevano fatto una proposta intermedia di 6 posti ma non andava bene nemmeno quella, volevano le camerette degli studenti modello, ognuno con il suo bagno. Allora di fronte a queste forzature, capita che l’intervento è più di pregiudizio che di salvaguardia. L’importante è cercare di far diventare un corpo vivo, anche se malato, ma intorno al quale ci si affeziona dato che è rientrato nel nostro immaginario collettivo, e al tempo stesso fare le cose minime che si devono fare per tornare esaminare i veri problemi singolari che ogni disciplina, o sub disciplina porta. Augusto Rossari: Mi sembra che Marco abbia riassunto, concludendo la questione: da un lato ne abbiamo tutta la conoscenza possibile, sono stati fatti studi, c’è un volume, c’è un archivio disponibile. Quindi la conoscenza l’abbiamo. Dall’altro c’è un problema diffuso che complicatissimo perché si è già provato a fare un progetto e non si è riusciti, perché costava troppo. Belgiojoso metti in evidenza un problema sostanziale, quello della conoscenza per la storia dell’architettura: cioè è bene che questo edificio rimanga e sia percepibile anche in futuro. È una conservazione che deve non necessariamente inserire un uso, perché costa troppo: fare una salvaguardia minima cioè fare quegli interventi necessari per la messa in sicurezza, per poi poter tutto discutere.
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Pierluigi Panza le rovine del ‘900 in cerca di futuro
In questo breve articolo il prof. Pierluigi Panza prova a immaginare un futuro per le rovine dell’architettura moderna milanese. Propone, quasi giocosamente, un approccio romantico alla rovina, come cura alla ferinità dei sentimenti, consigliando di utilizzare i ricavati dalla vendita di aree abbandonate per recuperare il Marchiondi e altri edifici di rilevanza architettonica (come ad esempio i vecchi cinema).
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Alberto Grimoldi
Alberto Grimoldi, in coda al suo pezzo sul volume “L’Istituto Marchiondi Spagliardi di Vittoriano Viganò”, curato da Franz Graf e Letizia Tedeschi allude alle difficoltà di rifunzionalizzazione del complesso portate da una estrema specificità della destinazione d’uso originale. Il Marchiondi è un edificio cucito addosso ai marchiondini. Come recuperarlo nel rispetto delle sue qualità spaziali, frutto di un corpo a corpo così stretto con quella che Vittoriano Viganò considerava la sua committenza, e cioè i bambini? Scrive: La configurazione del convitto è il risultato di una serie razionale, ricostruibile in quanto tale, di scelte successive in cui è sempre presente una componente culturale, il modello educativo, una o un’altra idea del privato, fino ai ricordi alle immagini che danno ordine all’espressione, all’aspetto complessivo dell’edificio. In una residenza, ovviamente, a spiegare i passaggi, a giudicare le scelte, c’è un costume abitativo, ci sono i riti di un ceto o di un’intera società, i modelli e il consenso sono molteplici e al contempo si modificano più lentamente, e si costituisce una corrispondenza più immediata fra abitudini collettive e tipo edilizio. Nel marchiondi il modello invece più cogente, si attaglia ad una quotidianità e ad una categoria più circoscritta di abitanti: anche per questo lo scioglimento dell’istituzione ha determinato l’abbandono, ha reso difficile riuso. I termini del dilemma sono in realtà molteplici: da un lato, modificare l’organizzazione delle camerate significa sconvolgere il principio costruttivo stesso dell’edificio, dall’altro, ai vincoli istituzionali proprie della proprietà pubblica, la misura della devo altezza delle destinazioni attraverso standard rigidi e sovente obsoleti, hanno reso impossibile costruire dall’esperienza stessa deluso una funzione opportuna, dedurre dalle caratteristiche dell’edificio e limiti delle trasformazioni. Anche la salvaguardia del Marchiondi - quanto sia detto per il convitto vale per gli altri corpi di fabbrica - comporta un difficile equilibrio fra specifico costruttivo, qui il degrado aggiunge ulteriori componenti, i programmi, e forse comporta anche potrebbe essere una spiegazione di un abbandono tanto precoce quanto pervicace una fedeltà al “realismo”, a un certo genius loci. La rovina di quello che ne è certo un grande corrente monumento, il Marchiondi, getterebbe altrimenti la sua ombra lunga e inevitabilmente tetra oltre la cinta, sulla città.
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Franz Graf
In chiusura al suo pezzo sul volume a sua cura, assieme a Letizia Tedeschi, direttrice dell’archivio del Moderno di Mendrisio, Franz Graf apre un’orizzonte metodologico rispetto al futuro dell’Istituto Marchiondi Spagliardi. Parla di necessario rispetto del continuum spaziale che caratterizza tutti gli ambienti del Marchiondi. E scrive:
[...] L’attenta analisi della documentazione d’archivio e i numerosi, approfonditi sopralluoghi, hanno portato a constatare la rara qualità architettonica dell’Istituto Marchiondi. L’opera è stato oggetto di numerosi articoli pubblicazioni, non soltanto al tempo della sua realizzazione ma anche dopo l’abbandono; giornate di studio, convegni e seminari sul valore e sul possibile a venire dal complesso si sono succeduti negli ultimi anni. Va però chiarito che i testi sul Marchiondi riprendono spesso fedelmente la letteratura precedente, e le riflessioni prodotte sono veramente incentrate sul oggetto costruito, toccando piuttosto temi secondari, le funzioni compatibili, il potenziale di riconversione, il degrado, la storia delle istituzioni, del brutalismo eccetera... Lontano dunque da questa presenza milanese che progressivamente si trasforma in un rudere desolante. Le procedure amministrative e politiche, complesse e inestricabile, rendono difficile la sua salvaguardia, che a tutt’oggi resta incerta. Il progetto di conservazione dei differenti strati costruttivi pensati da viganò, dalle struttura gli involucri, dagli impianti all’arredamento, potrebbe Tuttavia essere avviato rapidamente. Malgrado lo stato in cui versa, il marchiondi potrebbe prestarsi a un nuovo utilizzo attraverso la sovrapposizione ponderata è discreta di un nuovo strato, purché concepito in osmosi con la spazialità e la materialità dell’edificio stesso. Riempire arbitrariamente e compartimentare un’architettura la cui ricchezza deriva dal continuum spaziale degli ambienti, così come tra interni ed esterni, rappresenterebbe invece un reale controsenso.
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Quale futuro?
conclusioni aperte
Vittoriano Viganò compirebbe 100 anni il 14 dicembre di quest’anno. A fine carriera era solito organizzare incontri quasi settimanali con i suoi allievi per discutere dell presente e del futuro del Marchiondi: prima della metà degli anni ‘90 se ne parlava già quasi malinconicamente e Viganò era solito dire: “il Marchiondi è un malato grave da pronto soccorso. Non sento odore di medicinali ma di sepoltura, e la cosa mi rattrista.” Questa tesi ha voluto approfondire i motivi di una così cocente sfortuna materiale di questo manifesto del moderno milanese, sfortuna inversamente proporzionale a quella che invece è stata ed è ancora oggi la fortuna critica dell’Istituto Marchiondi Spagliardi provando a dare una risposta progettuale critica a quelle che sembra essere una strada con scarse vie d’uscita. Abbiamo visto come, le traversie amministrative e la storica assenza del Comune di Milano nella vicenda Marchiondi, (come osservato dall’erede dello studio, Viviana Viganò) abbiano avuto un ruolo segnante nel naufragio delle varie proposte di recupero che si sono succeguite in seguito alla dismissione della funzione di riformatorio. Abbiamo studiato come lo strumento del vincolo, così come concepito, non sia sufficiente a garantire il tramandamento materiale dell’oggetto tutelato, e come spesso le architetture del secondo Novecento soffrano di un particolare stato di disgrazia, rispetto al processo di tutela e parlato di come un’architettura cucita su misura su un’utenza così specifica ed oggi scomparsa sia di difficile rifunzionalizzazione. Inoltre il limite economico del costo degli interventi, forse ormai insostenibile, si somma ai limiti strutturali, via via aggravati dall’impetuosità del tempo sul fragile cemento di cui è costituito il Marchiondi. Il mio progetto di tesi ha voluto interpretare una delle voci del dibattito rispetto alle possibili vie che rendano possibile tramandare ciò che oggi non si può che definire rovina. Quali sono queste possibilità? A seguito delle due conferenze tenute presso il Padiglione Architettura trascritte nell’appendice di questa tesi possiamo delineare 5 voci. La prima ipotesi è quella di un restauro inscindibile dal riuso congruo dell’architettura: dice Andrea Bruno: “Per me, senza una destinazione d’uso è immorale pensare di restaurare delle architetture. Avevo fatto l’esempio di chi si costruisce il tetto per allungare un po’ la durata del rudere, ma non vado oltre quello. Quindi la salvezza del Marchiondi sarà una destinazione d’uso corretta. La seconda ipotesi, più radicale e utopica perché non tiene in considerazione le
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priorità di sostenibilità economica che oggi guidano il riuso delle architetture esistenti, è quella di un restauro senza la necessità di individuare una nuova funzione, in virtù di un maggiore rispetto delle caratteristiche fondamentali degli spazi sui quali si andrebbe ad intervenire. Citando le parole di Alberico Barbiano di Belgiojoso: “A mio parere l’obiettivo principale della conservazione è di mantenere un documento di un’architettura che ci interessa come tale e poterlo vedere; il nostro intervento non deve impedire che i nostri figli non vedono più quello che noi adesso riusciamo a capire. La destinazione d’uso a mio parere non è poi così importante: serve per mantenere in vita e utilizzare in qualche modo qualcosa che abbiamo presente. Se il Marchiondi fosse restaurato e anche fosse vuoto, io sarei felicissimo e andrei a vederlo frequentemente. Se l’uso del Marchiondi, per tenerlo in vita lo modifica al punto che non riusciamo più a vedere l’architettura di Vittoriano Viganò, io trovo che sia un peccato, preferisco che sia vuoto.” Una terza ipotesi prende in considerazione la creazione di un parco archeologico, di rovine del 900: “Penso all’edificio Marchiondi, esempio di Brutalismo architettonico progettato da Vittoriano Viganò, da vent’anni in rovina: lasciamolo così e trasmettiamo lo come testimonianza di un luogo del 900 per ragazzi difficili”, azzarda Pierluigi Panza su un articolo sul Corriere della Sera datato 2015. Anche Vittorano Viganò, negli ultimi anni aveva subito il fascino della metamorfosi con la natura che il Marchiondi, abbandonato, stava incubando: “(Vittoriano Viganò) era colpito da come la natura andava a mangiare questa materia grezza ma era anche affascinato da questo rapporto di metamorfosi e spesso amava farci vedere le foto dei viaggi che faceva. Negli ultimi anni era stata in centro America a vedere le opere degli Aztechi e dei Maya e gli piaceva paragonare il Marchiondi ai tempi degli Aztechi e Maya, mangiati dalla natura. La malinconia di questo oggetto che andava a morire al contempo gli faceva piacere, nel pensare che questo rapporto di metamorfosi potesse dare qualcosa di più a questo oggetto.”, come ricorda Attilio Stocchi. La voce che riconosce più coscientemente lo stato di emergenzialità che, vista la sua realtà materiale drammatica, il Marchiondi attualmente vive, è Viviana Viganò, che, per punti, scandisce un programma operativo concreto di intervento immediato. Alla seconda giornata di studi presso il Belvedere Pirelli afferma lapidaria: “Primo: fare presto. La situazione è senza ritorno e chi lo ha visitato sa che questa purtroppo è la verità. E andare oltre il vincolo monumentale, che seppure sia stato importante è necessario per scongiurare negli anni interventi sciagurati o demolizioni, non è stato tuttavia in grado di venire uno strumento operativo, quasi prescrittivo e in grado di guidare tempi e modi del progetto di conservazione. Secondo: trovare immediatamente i fondi per realizzare una copertura di emergenza almeno per l’ex convitto (...) Terzo: creare al più presto un ristretto gruppo di lavoro che valuti in tempi rapidi cosa è possibile fare tecnicamente e che predisponga proposte direttamente operative. Quarto: indurre il Comune di Milano, proprietario del bene con storica assenza nella vicenda Marchiondi, ad eliminare o modificare il vincolo di destinazione oggi esistente per favorire l’individuazione di diverse ipotesi di redestinazione funzionale, forse più logicamente collegata al settore culturale o museografico. Questo dibattito su quale destinazione ha fatto sì che nessuna decisione sia mai stata presa.
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Quinto: liberare gli spazi del Marchiondi integralmente ovvero chiedere sempre al comune di Milano di spostare in altra sede le attività di assistenza disabili Sesto: proporrei di documentare in modo esteso e diffuso l’edificio sia fotograficamente che attraverso video Infine coglierei l’occasione per fare del Marchiondi un caso di studio ed un laboratorio scientifico di analisi e di intervento dal quale partire per fare di Milano la sede naturale sui temi di ricerca del restauro del moderno, applicando ai propri capolavori dimenticati tecniche innovative sperimentali. A valle di questo dibattito variegato, in questo progetto di tesi si è scelto di rifiutare il restauro come soluzione, riconoscendo il palinsesto dei segni che oggi costituiscono questo peculiare paesaggio, fatto di natura selvaggia e materia viva, come un irripetibile insieme di elementi non solo da tutelare, ma anche da valorizzare. La rovina viene così trattata come materia di paesaggio, riconoscendone il ruolo pedagogico che “più che a rammentarci la caducità di ogni cosa, diventa sempre più il simbolo che ci chiama a un incondizionato e vigile principio di responsabilità”1: la vegetazione è a pieno titolo parte integrante di un insieme inscindibile. Se la rovina ci ricorda il senso del tempo, e quindi della storia, le rovine dell’Istituto Marchiondi ci raccontano una storia di successi e fallimenti, limiti ed enormi opportunità. Oggi tutto concorre a farci credere che il futuro sia finito, e che il mondo sia uno spettacolo in cui quella fine viene rappresentata. Il progetto non vuole porsi come soluzione definitiva, ma come nuova occasione di dibattito critico. Oggi una nuova occasione sembra aprirsi, in seguito alla vendita dell’immobile comunale in Via Pirelli 39: pare che l’attuale giunta comunale voglia destinare una consistente parte dell’inaspettato bottino ricavato al recupero dell’Istituto, Assisteremo al triste passaggio dalla tragedia alla farsa, o riusciremo, finalmente, a celebrare, al centenario dalla sua nascita, l’opera di una delle più valide voci dell’architettura italiana?
1. Tortora G. , a cura di, Semantica delle rovine, manifestolibri, Roma 2006.
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Materiale video
Si allegano due elaborati video realizzati con materiali risalenti ad una campagna di ricognizione e documentazione effettuata nel 2015 in occasione delle due giornate di studio sull’Istituto Marchiondi Spagliardi di Vittoriano Viganò, presso il Padiglione Architettura al Belvedere Pirelli. Il primo video riporta immagini di un sopralluogo, effettuato a inizio autunno 2015, in cui si attraversano diversi spazi, oggi dichiarati definitivamene inagibili. “Architettura fotografata mezza salvata”, dice Andrea Bruno, mentre Viviana Viganò rilancia l’appello per un nuovo lavoro di reportage video-fotografico, per mappare le condizioni del complesso e poterle tramandare a un futuro che oggi resta incerto tra disgregazione definitiva del manufatto e possibilità di ripristino al suo stato di originale splendore. Il secondo video riporta la registrazione integrale dell’intervista al professor Marco Dezzi Bardeschi, realizzata eccezionalmente all’interno dell’Istituto, in uno dei corridoi di distribuzione del convitto. Al professor Dezzi Bardeschi va un sentito ringraziamento per la dedizione e la costanza nella causa della salvaguardia del patrimonio moderno.
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Ringrazio la mia incredibile famiglia. Gli amici, voi sapete chi. Francesco, tu sai perchĂŠ. Grazie.