Quaderni della Consolata - Etica e Morale

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Quaderni della Consolata / Etica e Morale – 2b

Educati dal Perdono Dio ricco di misericordia II «I lunedì di febbraio» Mons. Giuseppe Pollano


Il testo sono tratti dalle conferenze nell’ambito del Corso di Formazione dei Confessori, i «Lunedì di Febbraio», che si tengono ogni anno a Febbraio al Santuario della Consolata. Questi testi, del Febbraio 2008 non sono stati rivisti dagli autori. Ogni errore è quindi da attribuire alla Redazione. Edizioni LA CONSOLATA, Torino, gennaio 2010 Santuario della Consolata, Vi a Maria Adelaide 2, Torino +39 011 483.6100 – email: rivistasantuario@laconsolata.org www.laconsolata.org / www.laconsolata.direttastreaming.tv

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EDUCATI DAL PERDONO Elementi fondamentali dell’educazione del perdono Mons. Giuseppe Pollano

INTRODUZIONE Mi sono domandato quale poteva essere lo specifico che riguarda la vita consacrata di questo tema molto bello che ci viene proposto: «educati dal perdono». Ho trovato queste tre ragioni che vi espongo subito. La prima ragione la traggo da come la Chiesa interpreta in modo autoritativo la vita consacrata. Ci rifacciamo quindi proprio al Codice di Diritto Canonico, ricordando che non è una pia esortazione, ma è una parola statutaria ossia dà il diritto a tutti di chiederci conto di quello che è scritto lì. Ebbene, nella parte che riguarda i consacrati, siamo al canone 5-7 § 3 e seguenti, «la vita religiosa è quella - dice il Codice - che segue Cristo più da vicino per l’azione dello Spirito Santo, e tende alla perfezione e alla carità». Questa è una bellissima definizione. Poi aggiunge ancora: «E costruisce in Cristo una comunità fraterna nella quale si cerchi Dio e lo si ami sopra ogni cosa». Ancora, continuando nei Canoni: «I consacrati cosa fanno? Si impegnano a vivere il comandamento nuovo del Signore (Giovanni 13, 34) “amatevi e vi riconosceranno perché vi amate”, amore incondizionato che esige la capacità di perdonare anche 70 volte 7». Questa precisazione si vede dal testo della Vita consecrata1, documento postsinodale, come sapete sui consacrati appunto. È dunque un’impostazione molto seria: i consacrati in quanto tali, sono dalla Chiesa così definiti evoluti. Devono quindi esprimere in modo estremo la carità evangelica di cui il perdono, come vedremo, è un aspetto sostanziale. C’è anche una seconda ragione di carattere umano antropologico: la vita religiosa, sia maschile che femminile, e quella femminile maggiormente per la sua struttura comunitaria dello star sempre insieme, è la più esposta alle difficoltà che sono intrinseche alla vita aggregata, è questo è noto. Ricordate l’antico adagio: Vita communis, maxima punitentia. Dunque è la più esposta a queste difficoltà con delle problematiche che derivano dalla affettività che è particolarmente provocata dal 1

Esortazione apostolica post-sinodale «Vita Consecrata» del Santo Padre Giovanni Paolo II all’episcopato e al clero, agli ordini e congregazioni religiose, alla società di vita apostolica, agli Istituti secolari e a tutti i fedeli circa la vita consacrata e la sua missione nella Chiesa e nel mondo, Roma 25 marzo 1996. 3


vivere tutti e sempre insieme. C’è da dire che molto spesso si affronta la vita comunitaria più con un’attenzione affettiva che non un’attenzione della carità. C’è anche da domandarsi quanto siamo preparati ad affrontare questa realtà di convivenza al livello della carità e non soltanto fidandosi delle risorse dell’affettività, perché affidarsi a queste risorse a priori è già condannarsi all’insuccesso. Perché dico così? Perché l’affettività che è una preziosissima dote della persona umana, senza cui non vivremmo, possiede sempre i positivi e i suoi contrari. Basti ricordare alcune di queste contrapposizioni: l’affettività sicuramente ci porta simpatia, ma altrettanto sicuramente ci porta dell’antipatia. Non lo scegliamo noi, accade da sé. Così è gratificazione, perché gli altri attorno a noi sono gradevoli, piacevoli, amici, ma è anche frustrazione: in una comunità una mortificazione, una trascuratezza, un insuccesso, fatalmente fanno sentire il senso della frustrazione personale. Così l’aggressività, oppure la tenerezza, sono contrasti che portiamo tutti in noi per struttura personale. L’ammirazione o l’invidia, fedeltà o gelosia, il rispetto o lo spregio e così via. Voglio solo dire che i consacrati più di tutti gli altri sono esposti a questo travaglio di una affettività sempre mobilitata, perché si è sempre in mezzo agli altri, vicino a qualcuno, e si sente il peso della diversità. Per cui è ragionevole rendersi conto che la vita consacrata è più bisognosa di questa arte del perdono per conservare equilibri che, in modo così intenso, non sono chiesti agli altri. Nella vita comune se una persona non ti va, la scarti – non che sia un atto di virtù, ma comunque è un atto liberante – ma nella vita comunitaria non si può fare così. Terzo motivo che mi pare forte: dice ancora il documento Vita consecrata che la vita religiosa, per sua particolare vicinanza a Cristo, come abbiamo ricordato, è chiamata a uno specifico contributo all’evangelizzazione. Non c’è dubbio su questo. E «l’evangelizzazione ha come suo primo dovere quello di proclamare e introdurre nella vita il mistero della misericordia rivelato in sommo grado in Gesù Cristo». Queste sono parole relative al testo della Dives in misericordia2 di papa Giovanni Paolo II. Quindi delle molte cose che dobbiamo annunciare, essenziale è che Dio è misericordioso. Sta dunque ai consacrati, in quanto chiamati in modo speciale a evangelizzare, essere i primi testimoni, con la vita e con le parole, di questa grande proclamazione di misericordia. Proclamare la misericordia però non si fa a parole: la misericordia o la si vive o non la si dice. Quindi proclamare la misericordia richiede la beatitudine della misericordia vissuta. Ecco tre ragioni, dunque, che mi paiono giustificare il fatto che i consacrati hanno una particolare chiamata e anche una particolare responsabilità rispetto alla realtà del perdono: la legge della Chiesa, che è legge, la condizione particolarmente provocatoria della vita insieme che è sempre una vita di carattere affettivo o di carità secondo i casi, e il dovere esplicito e primario della evangelizzazione. 2

Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, 14-15; Roma, 30 novembre 1980. 4


EFFETTI EDUCATIVI DEL PERDONO: CONSAPEVOLEZZA DI ESSERE CONTINUAMENTE PERDONATI Ciò detto, vediamo un po’ da vicino quello che può essere un effetto educativo del perdono che riceviamo e in cui noi sacerdoti, in qualità di mediatori, abbiamo un ruolo estremamente importante. Prima di tutto i consacrati dal perdono che ricevono dovrebbero imparare - e dobbiamo aiutarli ad imparare - che in realtà vivono come persone continuamente perdonate. Noi ministri del perdono siamo in piedi per la misericordia di Dio e non è una frase fatta, è proprio vero. Siamo dei malati continuamente in cura, questa è la verità dei fatti. Quando si riesce a vivere da persone continuamente perdonate, si acquista una prospettiva diversa della propria vita. Diventano marginali tanti aspetti di piccola o grande presunzione, di sicurezza di sé, di arroganza, ma soprattutto si rimane molto fedeli al sacramento stesso del perdono. Credo sia abbastanza noto che, dopo la liberalizzazione di questo sacramento post-conciliare, c’è stata una caduta della frequenza, non soltanto tra i laici, bensì anche tra i consacrati e le consacrate. Quella parte dei consacrati che viveva la frequenza al sacramento come disciplina - prima si diceva «almeno una volta alla settimana», poi è diventato ogni quindici giorni – ha trovato molto semplice lasciar cadere l’impegno. Consacrati che si avvicinano alla confessione una volta al mese, oppure ogni due mesi, non sono poi così rari. Il che vuol dire - e ho pensato a una chiarificazione opportuna secondo il mio povero giudizio - che le motivazioni erano più estrinseche e legali, piuttosto che morali e interiori. Prima di tutto, dunque, è bene che i consacrati si rendano conto del bisogno che hanno di questo sacramento, il quale non soltanto cancella le colpe - diciamo così in modo metaforico anche se è vero – ma soprattutto ci arricchisce della volontà di Cristo: la volontà di acconsentire al bene e di respingere il male. Questo è stato il tipico della volontà umana di Gesù, che respinge la tentazione e aderisce al Padre fino alla croce. Questa volontà umana di Gesù ci viene comunicata in modo speciale nel sacramento della riconciliazione, perciò ci rafforza, prosegue la metanoia del battesimo. Se, invece, non la si capisce così, non si sente questo bisogno di purificazione, facilmente si entra in crisi, una crisi che, per quanto ne capisco, non è conclusa neppure con i consacrati. Consacrati che si accostano al sacramento della riconciliazione, grazie a Dio, ce ne sono non pochi, ma le motivazioni sono ancora un po’ ambigue; ci sono ancora, tuttavia, consacrati calorosi e convinti, ricchi di fede, che aspirano al perdono come vi hanno sempre aspirato i santi in genere. Era degno di nota quando ad un confessionale qualsiasi si avvicinava per esempio un don Bosco, il quale si metteva lì a far la coda con gli altri. Sembra una cosa da nulla, ma non è poi così facile vedere un prete si metta a far la coda insieme ai fedeli per confessarsi. Non sono sfumature, è fede: siamo tutti malati e ci mettiamo in fila e il Medico ci guarisce. 5


Questo è il primo aspetto, di carattere esterno, sottolineato sia dal Codice e sia dalla Vita consecrata. La Chiesa si è resa conto di questo defectus, di questa carenza rispetto al sacramento e se n’è preoccupata, specialmente per i consacrati. Questo è un primo aspetto che noi possiamo, in qualche maniera, non dico controllare, ma veder, riconoscere e a cui possiamo dare una mano di promozione, rimotivando i consacrati verso il bisogno di ricevere il perdono, chiedendo loro come capiscono la riconciliazione, come la vedono, come la sentono. Ecco, i confessori devono darsi da fare parecchio in questo buon lavoro.

Scusare e accusarsi Altro aspetto interessante, i consacrati sono educati a perdonare a loro volta dal perdono ricevuto. Chiunque ascolti confessioni, in modo particolare confessioni femminili e di consacrate, perché la donna è più esperta in relazioni umane sia nel bene che nel male, sa bene quanto sia facile, quando si ascolta una cosiddetta confessione, ascoltare una persona che in realtà si scusa e accusa, mentre dovrebbe fare il contrario: scusare e accusarsi. Quante volte le nostre o i nostri penitenti cominciano a raccontarci le colpe altrui, non è vero? E’ quasi abituale. Dicono: «sono stato impaziente … perché quel tale mi ha …». «Sei stato impaziente perché sei impaziente, fermati lì!». Perché se no siamo da capo, subito trovi il capro espiatorio. È così abituale questa cosa che dobbiamo stare molto attenti, è un vero rovesciamento: «Sei qui per accusare il tuo Superiore, la tua Superiora o per scusarlo e soprattutto accusare te stesso?» Ebbene, se si è consapevoli di questa grazia di essere dei perdonati sempre, dalla testa ai piedi 24 ore su 24, allora si diventa molto più cauti in questa facilità di buttare sugli altri la nostra responsabilità. Certamente, qualche volta ce l’hanno indubbiamente, e si diventa capaci di parlare di sé accusandosi. È bene a questo punto essere vigilanti, essere attenti, capire subito che tono prende il discorso e, pur senza nessuna maniera dura, aiutare la persona a poco a poco a prendere coscienza di se stessa, ricordargli che è di fronte al Signore Gesù, che è venuta a chiedere un perdono e quindi deve abbandonare il tono accusatorio, che è proprio del tutto disadatto a quel preciso momento sacramentale. Non vi sarà sempre facile, anche perché vedremo, si tratta molto spesso di sentimenti feriti – ecco l’affettività che si svela - e una ferita psicologica non si guarisce in cinque minuti, bensì necessita di una cura, ci vuole, caso mai, un aiuto, una direzione, tutta un’altra visione.

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PRATICA IL PERDONO SE VUOI ESSERE PERDONATO Terzo (aspetto): c’è una verità importante evangelica che se si vuole essere imitatori di Cristo, si deve praticare il perdono. Ricevere il perdono è un grande dono di Dio, ma indubbiamente ci porta anche subito a dover praticare il perdono. Su questo tema il Vangelo è estremamente insistente: pensate a pagine come Siracide 18,20 e 21,1 oppure Luca 6,37 e Marco 11,25 («Perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni le vostre colpe»). Non si dà mai soltanto il perdono ricevuto, occorre sempre vivere il perdono dato, al punto che se non viviamo il perdono dato, dobbiamo dubitare di avere il perdono ricevuto. È molto severa questa legge, è la legge del giusto amore insomma. Dunque per essere imitatrici o imitatori di Cristo, tu che segui Gesù più da vicino - e non è retorica questa, è volontà di Chiesa - allora devi praticare il perdono. E praticare il perdono non significa soltanto perdonare nell’occasione, ma assumere la pratica del perdono come un aspetto della propria professione religiosa. Questo è un discorso chiaro per tutti i cristiani, intendiamoci, ma a quel livello lì così esposto, così avanti che appartiene tanto al mistero di Cristo, è anche giusto che noi ci rendiamo conto: allora se è così, tu devi praticare il perdono come tuo programma, dicendo: «Oggi perdonerò. Chi? Non lo so. Quanto? lo sa Dio». Però ognuno dei miei lavori, quand’anche fossi poco impegnato a farlo perché Dio non me ne dà l’occasione, sarà certamente questo. Il mio primo lavoro non sarà faccio questo, faccio quello, mi metto al computer, ecc, tutto questo è da farsi, è ovvio, ma più interiormente il mio lavoro sarà esercitare la misericordia, questo è evangelico. In questo senso allora, sta sicuro – dobbiamo dirlo ai nostri penitenti e alle nostre penitenti che sono un po’ più duri su questa cosa proprio perché la loro affettività protesta parecchio certe volte … dobbiamo dire: «se devi praticare il perdono, non meravigliarti che oggi il Signore ti procuri le occasioni per farlo. Non scandalizzarti quando sei provocata da Dio attraverso questa o quell’altra persona a perdonare. Renditi conto che è un dono che ti fa. Perché il tuo guadagno sarà la misericordia che hai esercitato oggi secondo il Vangelo. Questo non si cancella più». Allora al lamento che spesso sentiamo fare dai penitenti proprio sulle occasioni di perdono che non hanno sfruttato («mi hanno offeso, mi hanno trattato così, mi hanno trascurato, ecc, ecc») dobbiamo opporre un’educazione positiva, veramente evangelica. È soltanto la fede, poi, che ci fa riconoscere in queste cose, il vero significato. La fede sempre trasforma i significati. Voi pensate alla parola «vittima», faccio un esempio: dal punto di vista umano il termine «vittima», è un termine terribilmente negativo e provoca il vittimismo, ma la fede dà a questa parola una luce fulgente perché la Vittima con la V maiuscola è nostro Signore Gesù Cristo e noi siamo afferrati dentro questo concetto vittimale e offertoriale della vita e ci offriamo con Lui. 7


Ma si tratta di vedere con quale lettura tu affronti il termine: dal vittimismo all’oblazione eroica di qualcuno che sul suo letto di morte – sto pensando a don Adolfo3 – si offre con tanta generosità, c’è un abisso. Ebbene, qui si tratta allora di educare chi viene ad essere perdonato al fatto che certamente dovrà ricominciare a perdonare lui o lei, secondo i casi, tanto quanto viene a farsi perdonare. Aiutare a credere che l’occasione di perdonare è un grande dono. Poveretto colui che dovesse presentarsi al Signore dicendo: «mah, ho mai avuto l’occasione di perdonare, non so cosa voglia dire avere misericordia». E’ un assurdo, certo, ma ci capiamo: il guadagno dell’essere capaci di perdonare. Non ho detto che chi si confessa impari tutto questo, qui interviene appunto la mediazione del confessore, ma è importante che noi ce lo ricordiamo. Ancora: la convinzione che la vita cristiana e consacrata debba considerare il perdono che si dà altrettanto normativo e costitutivo da vivere come quello che si riceve. Il discepolato essenziale rimane questo. È comodo venire a farsi perdonare, se poi però all’occasione buona non si perdona, è molto comodo, ma è di una comodità molto pericolosa, perché è chiaro che si sta sottovalutando tutta l’economia della misericordia. Molto facile, e noi stessi perdoniamo sempre nell’economia della volontà. Ma attenzione, se tu apprezzi il perdono quando interessa te, non sarà mica per egoismo che lo fai, perché devi pensare il perdono anche quando interessa l’altro e quando il perdono da te deve venire. Questo è il vero Cristianesimo. Ecco, prendete una comunità che vive questo tessuto di vero perdono, avrà i suoi difetti e i suoi limiti come tutte le comunità di questa terra, ma ha un respiro, si capisce che siamo nella verità della misericordia. Qualche volta, dunque, bisogna aiutare i penitenti, educandoli in questo senso, alla serietà di quello che fanno: tu sei venuto a farti perdonare. Sei sicuro che hai il dovere di una santa obbligatorietà – badate, non è un consiglio spirituale – di perdonare a tua volta? Questa equivalenza molto spesso ribadita dal Vangelo, si ha l’impressione che sia considerata un poco come un consiglio spirituale, punto, un’ascetica che è vissuta da chi l’apprezza. Non siamo a questo livello, siamo a livello di etica evangelica, quello che vale per tutti, tant’è vero che noi la diciamo a tutti i cristiani. Ma una vita impostata così, che si strutturi su questi pochi e forti principi di misericordia, è una vita santa, vero? Niente di meno, con tutte le fragilità che portiamo in noi.

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Don Adolfo Barberis (1884-1967). Continuatore ideale della santità torinese dell’Ottocento, don Adolfo crebbe nella parrocchia di san Tommaso accanto al beato ferroviere Paolo Pio Perazzo (1846-1911). Dal 1907 al 1909 fu al Convitto Ecclesiastico della Consolata, guidato dal beato Luigi Boccardo (1861-1936). Per 17 anni fu segretario dell’Arcivescovo di Torino, il card. Richelmy alla morte del quale (1923) iniziò per lui un lungo calvario di accuse e difficoltà. 8


PERDONARE L’INGIUSTIZIA C’è un particolare aspetto dell’essere educati dal perdono che ci tocca da vicino: l’esempio di Gesù Cristo che ha perdonato probabilmente il fatto più difficile di tutti da perdonare: l’essere trattati con ingiustizia. Proprio l’ingiustizia ci ferisce profondamente ed è giusto che sia così. L’ingiustizia subita a livelli di parola, di giudizio, di calunnia, di gesto … insomma l’ingiustizia, proprio l’ingiustizia è qualche cosa che la natura umana non può sopportare e non deve sopportare, perché è il peggio che possa accadere. Questo perché l’ingiustizia nega la verità, è contro la struttura trinitaria e comunitaria della vita, nessuna offesa ci ferisce di più e se ci ferisce di più è anche vero allora che rimanga più difficile da perdonare. Credo che dal punto di vista umano, sia praticamente impossibile perdonare un’ingiustizia. Non nel senso che si rimanga vendicativi, il che accade quasi sempre purtroppo, ma almeno nel senso che diventa indimenticabile, una ferita che continua a farci sempre male. Rimane difficilissimo guardare negli occhi con serenità una persona che sappiamo che ci ha calunniato, che ci ha rovinato la vita, insomma che ci ha ingiustamente trattati. E su questo bisogna essere molto comprensivi perché appunto è la ferita della natura umana che non si guarisce in poco tempo davvero. Occorre lasciare che chi si sente ferito soggettivamente, al di là dell’aspetto oggettivo della cosa - nel senso della giustizia - ci soffra serenamente, apra il cuore, se no diventa una ferita inguaribile.. Ci sono consacrati che sanno di questo tema, dove tra l’altro purtroppo qualche volta le ingiustizie sono più facili, anche nel piccolo, nel poco (siamo sempre a questo livello di questi rapporti intensi), ci sono persone consacrate che da anni ricordano un’ingiustizia subita e non riescono a rimarginarla questa ferita, che fa soffrire, perché poi ci si sente anche doverosi di perdono e non si riesce a donare il perdono che si vorrebbe. Quindi una ferita di per sé è una ferita di coscienza anche. Eppure è così. Mi vengono a raccontare delle storie di anni fa: «quand’ero nel Kenya, quand’ero di là, quella volta là…». Sono già tutti morti, l’unica cosa che non è morta è questo ricordo che ho nel cuore. Ecco, capita a tutti, può capitare anche a noi. Allora la ferita è la protesta che ne viene. Quando il tono di un penitente comincia ad assumere un’altra vibrazione, quando la mente protesta, ascoltate, ma non troppo, altrimenti non tenete più in mano la situazione. La trasformate in un ascolto fraterno, umano, empatico, ma sarà ben difficile ricondurre poi il penitente in condizione di penitente che davanti al Signore sta chiedendo perdono. Perché queste ferite, proprio perché sono ferite, e non memorie mentali, fanno sempre male. E allora il confessarsi diventa un racconto, che diventa un riattualizzare la cosa, un suscitare di nuovo gli stessi sentimenti, e un’inquietudine che non finisce più. Ritengo, almeno dal mio punto di vista, che queste siano le difficoltà più grandi che troviamo in confessione per riconciliare davvero il penitente con Dio, ma attraverso quella persona da perdonare. Molto difficile, spesso non si riesce. O almeno, i santi ci riusciranno … ma è difficile, bisogna intavolare un discorso, lentamente poco per 9


volta vedere se si riesce a fare una terapia di grazia e di pazienza, di fraternità, ecco, per rimarginare certe cose.

«NOI SIAMO LÌ, A PERDONARE SEMPRE CHIUNQUE SIA PENTITO» Le ingiustizie subite. Ancora su questo argomento – e questo è molto bello – : ricevere il perdono educa alla regola evangelica che conosciamo tutti molto bene, ossia il pregare per chi ci maltratta, fare agli altri ciò che vogliamo che facciano a noi. Questa è stata chiamata anche la regola d’oro della vita, «fare agli altri quel che vorresti fosse fatto a te». Bene, ditemi voi: qual è la migliore occasione per realizzare questo stato interiore di quando dobbiamo perdonare, e perdonare così? È difficile persino indurre le persone che sono state ferite a pregare per chi le ha ferite, sarebbe già molto. Anche perché noi non distinguiamo il perdonare nel senso cordiale e profondo, quello del «prega per l’altro», dal dimenticare. Noi non pretendiamo che il perdono sia un oblio totale. Quella ferita rimane, ma adesso è pacificata. Se tu ci pensi, ti fa ancora male, dunque consiglierei di non ripiegarti su di te e di non fare queste memorie piangenti, tristi. Ma non è più un dolore vivo, infetto insomma. Però non pretendiamo che chi è stato ingiustamente trattato, dimentichi. Anche perché se la virtù diventa santa, la ferita ti fa pregare come non avresti mai pregato per quella persona. Ci guadagna lei e ci guadagni tu. Come sempre tutto coopera al bene per chi ama Dio, ma è un tragitto e nel minuto, due, tre, cinque, dieci di una confessione spesso non si riesce a improvvisare questo miracolo, se siamo di fronte a una persona che forse da anni è malata di risentimento e non riesce a incontrare quell’altra persona. Però attenzione: non minimizziamo queste mancanze. Qualunque peccato porti un penitente, certo noi lo giudichiamo oggettivamente di fronte alla gravità della dottrina morale, ma soprattutto dobbiamo preoccuparci di queste mancanze di amore, anche se sembrano tra virgolette «sciocchezze», cosa di tutti i giorni. Perché la mancata carità inaridisce la radice della vita morale. Se è vero com’è vero che la carità regina forma, se c’è la carità tu vivi perché raccoglie operativamente la legge dei profeti; ma se la carità è debole, tu conterai tutti i peccati. E noterete che spesso le persone, consacrati compresi, danno più importanza ad alcuni peccati anche più gravi che impressionano, vedi la castità, rispetto a questo stillicidio che è un’emorragia continua perché la tua carità è sempre debole. Qui siamo a livelli più formativi che non soltanto di un perdono dato, però è una maniera che mi sembra corretta di tener conto della cosa. Questo complesso di piccole luci sul mistero dell’essere dei perdonati ci carica di responsabilità, in particolare in quanto siamo noi i mediatori di questa operazione, stiamo parlando del sacramento e quindi ai ministri che siamo noi. Che fare noi? Ma intanto è bene che sempre noi, al di là del dialogo con il penitente, parliamo con lui, guardando insieme con lui questa magnificenza di Dio che perdona sempre. Non si tratta di fare delle omelie mentre siedi, ma i cosiddetti monites salutis, 10


le monizioni in vista della salvezza della persona, in poche parole dicono molto. Non è neanche il predicozzo appunto, ma quel senso di meraviglia, di stupore che noi dovremmo sempre avere un poco, soltanto nel pensare che siamo lì a perdonare sempre, a perdonare chiunque sia pentito. Questo a pensarci bene suona incredibile, insomma. Noi ci siamo abituati, ci siamo dentro, rendiamone grazie, ma qualche volta è bene tornare a questa meraviglia del sacramento e comunicarla a colui che con noi sta vivendola in qualche maniera.

CONTRIZIONE DEL CUORE: MERAVIGLIA DI FRONTE ALLA MISERICORDIA Se ricordiamo, il rito della penitenza ha leggermente modificato l’ordine degli elementi custoditi da questo sacramento; mentre prima si parlava della «confessione dei peccati», poi si è focalizzato maggiormente sulla «contrizione del cuore». Mi pare una indicazione molto importante ripresa poi dal Dives in misericordia: la contrizione del cuore, la meraviglia di fronte a Dio che non ti rimprovera, non ti affronta, non ti mortifica ma semplicemente ti accoglie, cose che noi sappiamo da sempre, ma qui si tratta di entrare con il penitente in questo clima di stupore, perché anch’io che ti confesso so cosa vuol dire essere perdonato. Non è un preambolo da poco, è creare l’atmosfera giusta, se posso esprimermi così insomma, tra due fratelli, il confessore o la penitente e questa misericordia che sta avvolgendo in questo clima. Rimane un dialogo giudiziale la confessione, certamente sì, però in questo clima che è uno stupore teologico, non emotivo intendiamoci. Perdono amplissimo sempre, come vuoi e segreto. È commovente, vero? il linguaggio che Dio ha per noi. Non è anche qui solo questione di giusta segretezza, di privacy diciamo così. C’è molto di più. È questo Dio che nasconde nel suo cuore i miei misfatti, quali che siano, non li saprà nessuno. Basta, chiuso. È proprio un Dio che limita al massimo il danno del peccato. «Ti perdono e non voglio che il tuo peccato, a meno che non sia un peccato pubblico, ti infami». Lo nascondo in me ed è come se non ci fosse più. Qualche volta queste cose toccano il cuore dei penitenti ed ecco, la contrizione non è sui loro peccati che riflettono, ma sulla bontà di Dio che li perdona. Questo è un aiuto che noi possiamo dare, tutte le volte che confessiamo possiamo darlo perché siamo lì per quello, una mediazione speciale. Anche quando ascoltiamo, e qui siamo di nuovo nel tema dell’affettività, aiutiamo i penitenti e le penitenti in modo speciale i consacrati a sdrammatizzare le situazioni. Perché spesso li portano a dei drammi che in parte sono reali, in parte sono enfatizzati dalla loro sensibilità. Ancor più quando c’è un’interazione drammatica, quando son più persone che non vanno d’accordo, che non si capiscono, che non si guardano neanche. Tristissime situazioni: altro che il Codice del Diritto Canonico … 11


Allora sdrammatizziamo ascoltando, perché non si può tagliare la parola di qualcuno che sta dicendo una passione. Anche se è una passione sbagliata, è meglio lasciare che la dica, perché se tagliate, chiudete. Semplicemente sarete il confessore che non ha capito e tanti saluti e non è questa l’immagine che noi dobbiamo dare. Ascoltare con pazienza ma poco per volta sdrammatizzare le situazioni. Fino a che ci rendiamo conto che quel pathos non è più quello che sommerge la persona. Era arrivata da noi agitata e inquieta, arrabbiata, triste, disperata, tutto quello che si vuole, e pian piano la si porta a un altro livello, che c’è sempre, vero? Perché questa persona ha una coscienza e c’è Dio in lei, ma la si aiuta a sollevarsi, a emergere un po’ da questo clima passionale che magari la domina non da poco tempo. Sdrammatizzare, ascoltare, sbloccare i sentimenti e i risentimenti soprattutto. Qui serve l’ascolto, qui serve la bontà. Chi si confessa, soprattutto in condizioni di dramma interiore, ha bisogno di intuire che di fronte ha un uomo buono. Non indulgente, ma buono, un uomo che capisce. Se qualche volta siamo stanchi, siamo nervosi, è meglio che in confessionale non ci entriamo, finché non siamo tornati un po’ più tranquilli, perché andiamo incontro a persone che hanno assolutamente bisogno di incontrare della bontà. E la bontà non basta dirla: la bontà si sente, si sente subito, come si accoglie dal tono di voce, per dire così. E questo è molto importante. Tutte le volte che siamo stati un po’ duri, un po’ esigenti, un po’ troppo maestri, se lo abbiamo fatto, abbiamo dovuto pentirci. Ci son persone che non si sono accostate per anni al confessionale e ce lo andranno a dire dopo: «perché quella volta, quel confessore …». Naturalmente non sempre si spiegano le cose, ci saranno stati dei problemi dentro, però rimane vero che la bontà non fa mai male, la bontà aiuta a aprire il cuore, lo sappiamo benissimo. Anche per noi, questo è chiaro. Neanche a noi fa piacere incontrare un confessore che, pur con tutte le sue buone ragioni, ci tratta un po’ alla militare. Abbiamo tutti bisogno di bontà, parecchia.

EDUCARE ALLA COMPASSIONE: DALLA COMPASSIONE NASCE IL PERDONO COME UN BUON FIORE NASCE DA UN BUON TERRENO Dobbiamo poi insieme aiutare i penitenti - visto che tutti vivono in qualche modo in comunità, fossero tre, fossero trenta, ma pur sempre una comunità - alla pratica abituale della compassione comunitaria. Qui usciamo dallo stretto di quella persona lì, di quel peccato lì. Ma la comunità se non accetta la compassione reciproca come una specie di statuto di vita, è di nuovo condannata a frantumarsi. La compassione di Gesù è profondamente didattica, proprio magisteriale. Egli è venuto in terra a compatirci, a piangere su di noi, lo dice. E dobbiamo aiutarli, aiutarle a compatire come «maniera di vivere insieme», badate. Una delle illusioni di tutti noi, seminaristi non so, ma novizi abbastanza, è quella di arrivare in una comunità che sia ideale. 12


D’altra parte ricordo bene - quand’ero prossimo a entrare in seminario - di un sacerdote molto saggio, qui con la Consolata, il quale un giorno mi disse improvvisamente: «E poi dì un po’, non credere che se tu vai in seminario troverai tutti i seminaristi che hanno la media del 10. Guarda che ne troverai anche di furbetti, di indisciplinati…», e io ingenuamente mi son stupito. Evidentemente ero ingenuo, ma cosa voglio dire con questo? Che tutti siamo entrati con un po’ di ideale e quindi un po’ esposti alla delusione anche. Per cui è molto meglio dire agli educandi e alle educande: «troverete certo dei buoni esempi, sarete lì per volervi bene, ma badate che dovete entrare disposti a compatire. Se dimenticate questa regola, per forza dovrete vedere, giudicare e condannare». Cose giuste, ma bisogna compatire tutto, al di là del giusto e dell’ingiusto. Dunque, educare alla compassione: sentimento predominante in Gesù. Perché il perdonare o nasce dalla compassione, come un buon fiore nasce da un buon terreno o non nasce. Il perdono non si improvvisa, non si improvvisa il perdono! Deve presumere un humus di cuore disposto, appunto di cuore compassionevole. Infatti, talora è molto opportuno, davanti ad una persona che sentiamo così, non tanto fermarci su questo aspetto, ma semplicemente dire: «ma sai qual è la tua carenza? È che tu non sai compatire». «Non è vero», risponderà la persona, perché in genere rispondono così … «ma sì che è vero, non sai compatire!» e poi si innesta un discorso. E’ una dote particolarmente importante nella Chiesa, vero? E’ altresì particolarmente importante per un gruppo che o impara a compatirsi o finisce quasi di non sopportarsi. Se non si impara a perdonare però, anche questo va detto, non si arriva a capire fino in fondo né noi stessi né gli altri. Sapete che soltanto il perdono dato ci fa capire fino a che punto siamo veramente uomini? Già, al di là della nostra mentalità utilitarista, il dono è a un livello eccelso su cui oggi si insiste anche abbastanza, culturalmente parlando. Si fan discorsi seri sul dono oggi, ma non soltanto nostri, di teologi, filosofi, sociologi. Educarsi al dono, ma il perdono è il livello supremo, l’estremo e tu non sai chi sei fino a quando non hai tratto da te questa capacità di donare intensivamente, cioè di perdonare. Questo è un dato antropologico, ma che Gesù ha portato coerentemente fino al suo pieno sviluppo. È bellissimo infatti constatare che quando siamo dei veri «perdonatori», abbiamo una grande pace in cuore. Non c’è più niente da imparare, per dirla così insomma. Nessun rapporto umano ci ferirà più perché tanto siamo capaci a perdonare. Siamo esposti a tutto, e il Signore ci prova anche, ma non c’è niente che ci rattristi e tanto meno che ci renda freddi o chiusi o ostili verso qualcuno. Non siamo più capaci di questo. Il perdono, sotto l’azione dello Spirito, ci ha trasformati. Questo è molto bello, molto apprezzabile.

ESSERE ESEMPLARE NEL PERDONO: VIVERE PERDONANDO L’ultimo consiglio che si può dare a chi vive in comunità è: «ma senti un po’, e perché non ti assumi nella tua comunità il compito di essere esemplare nel 13


perdono?». Ci sono persone consacrate, ancora una volta più femminili che maschili, che ci dicono questa brutta cosa: «oh, quella sorella lì è troppo buona, perdona sempre». È triste che un cuore consacrato dia un giudizio così, ma è molto bello questo giudizio sia dato su qualcuno: l’esemplarità del perdono, che non vuol dire mollezza, buonismo, che non vuol dire «manica larga» … no, ma l’esemplarità del perdono. Quante volte una critica, una mortificazione … che serpeggiano così frequenti nelle comunità, creano malinconie, tristezza comunitarie ... Quante volte queste malinconie sono bloccate da una persona buona, semplicemente buona, che sa dire una parola diversa. Ma fratelli, ma sorelle, anche noi siamo perdonati da Dio, e se ci mettessimo un po’ a perdonare anche noi! Questo tipo di evangelizzazione interna, è un po’ scarso, invece è molto necessario. Chiedere, appunto, di diventare esemplari non solo nel perdonare quando è ora, ma del vivere perdonando. Questo fa molto bene alle comunità. Sono questi gli atteggiamenti da confessore che si potrebbero in qualche maniera adottare e che forse, penso, adottiamo già. Ricordando che questo tema, educati dal perdono, è un tema di estrema, estrema altezza, molto bello, però, appunto perché è così, non facile, da scavare ancora, insomma, da capirlo bene. Ricordiamo che noi ne abbiamo la responsabilità, è un vero dono il nostro perché «uomo del perdono» come siamo, nessuno come noi può - avrebbe detto il papa nella Dives in misericordia - coltivare il perdono in questa società. È compito della Chiesa. Nessuno come noi e di questo dobbiamo ringraziare Dio.

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Mons. Pollano celebra alla Consolata

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L'integrazione non sempre facile nelle comunitĂ religiose e nella societĂ

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DIBATTITO COMUNITARIO IL PERDONO DOPO MALTRATTAMENTI SUBITI IN COMUNITA’ D. Prima ha parlato della ferita che produce del rancore. Mi è venuto in mente un caso: se una persona è stata, diciamo - poi bisogna vedere i punti di vista maltrattata dal Superiore, porta per un po’ di tempo sempre questo rancore. Ma non c’è solo rancore, c’è il fatto che questa persona continua a vivere in una situazione di disagio e di mancanza di stabilità, insomma che questa ferita si sta prolungando. Potrei fare l’esempio di quando don Bosco era stato dal Gastaldi e magari non era ancora finito quello stato di attrito con il Gastaldi: come poteva sentirsi in quel momento? E mi viene in mente questo caso dove non c’è solo rancore, ma il maltrattamento o presunto tale, continua nel tempo. Come ci si deve comportare con questa persona che sta vivendo questa grande sofferenza non ancora rimarginata e prolungata nel tempo? R. Certamente la persona va molto capita e non affrontata subito con delle soluzioni teoriche: «Si deve perdonare … dunque devi perdonare», perché siamo di fronte a una condizione emotiva molto infiammata, ecco, che non è in grado più di tanto di capire neanche la ragione. Quindi bisogna ascoltarla molto, immaginare che forse con una confessione non si risolve tutto, e offrire un aiuto di un certo accompagnamento se la persona lo gradisce, che si senta depositaria di uno che c’è, perché in genere questi rancori creano anche solitudine. Ricordiamo che la persona ne parla, ne parla per sfogarsi, poi però non ha nessuno che l’aiuta. Quindi prima di tutto bisogna far trasparire la comprensione: «sì, ti capisco», perché se è così, è proprio da capire. Poi bisogna cominciare a distinguere un tantino lo stato di sofferenza da quello che comunque la persona può avere che è uno stato di fede, e quindi cominciare ad aiutarla a leggere la cosa dal punto di vista provvidenziale. Il grande modello è Gesù e rimane sempre quello in sostanza: «ti sei specchiata, ti rendi conto che siamo tutti discepoli di un maestro il quale è morto di ingiustizia, è morto di calunnie, ecc.». Poi se dà delle risposte positive … un minimo di catechesi cristologica, direi, no? E normalmente la persona anche se soffre risponde abbastanza in positivo, in questo senso. Si può far leva su questo aspetto sano, buono, non insistere sul «non devi», perché va a vuoto questo richiamo. Ma si può dire: «e allora senti, te la senti di guardare Gesù di più? Di confrontarti maggiormente con Lui?» Sposterei l’attenzione su un aspetto un tantino più contemplativo di Gesù, perché questo conforta molto. E non è soltanto un conforto umano, è che il Signore 17


ci dà la grazia di capirlo, lo guardiamo, lo contempliamo, Lui ci aiuta, no? Per rasserenare un tantino. Quantomeno dargli due livelli: «qui soffri però se guardi un po’ di più, trovi un po’ più di pace, se ti specchi nel Signore». Questo è sempre possibile. E allora di lì si può fare ancora un passo avanti a dire: «quali sono i tuoi sentimenti veri per questa persona che ti fa soffrire? Le faresti del male?» Molto probabilmente lei risponderebbe «no, non le farei del male. È lei che fa del male a me». Questo è un suggerimento per distinguere tra la sofferenza risentita, e quello che è propriamente anche un atteggiamento di ostilità e di odio attivo. Perché c’è anche gente che dice: «potessi le romperei la testa», ed è sincera, anche se in pratica non lo farebbe mai, si fa per dire, insomma. Allora sono già sicuro che non c’è una malevolenza attiva, c’è molto dolore, c’è una risposta negativa ma questo è comprensibile. Posso arrivare anche a dire: «senti, capisci che questa persona ha i suoi limiti. Sbaglia, son d’accordo con te. Purtroppo sbagliamo tutti. Te la senti di fare una preghiera per questa persona?» «Va bene, la faccio se mi accorgo che c’è un po’ di pentimento, comprensione … se mi viene incontro, però la faccio». Dopo di che, se la situazione si prolunga, non c’è che da consegnare questa creatura a un piano di Dio, perché tutto quel che accade Dio lo permette, insomma. «Dio ti mette in questa situazione crocifissa: prendila con fede, non spaventarti, va oltre, insomma, non fermarti alle cause immediate, guarda più in alto e trasforma in merito, in pazienza di Cristo dentro di te, questa lunga sofferenza che è legittima; ma non sprecarla, non farla diventare amarezza». Con calma farei questo discorso che non si conclude in dieci minuti, ma se la persona s’è un po’ capita, va comunque perdonata, vero? Va sempre perdonata perché l’aiuto del sacramento c’è, la disposizione c’è, perché non sarebbe neppure venuta al confessionale se non avesse avuto bisogno di riconciliarsi. Quindi non la metterei nei termini «sacramento sì, sacramento no», ma semplicemente sul binario dell’accompagnamento. La inviterei a tornare e le direi: «proviamo a pregare insieme e vediamo un po’. Raccontami ancora la cosa». Farei un po’ così. Però punterei molto sull’aspetto d’imitazione del Cristo, quindi un richiamo alla fede, l’accompagnamento o meglio la comprensione totale per quanto si può, al punto di dare ragione se ha ragione, perché se una cosa è sbagliata è sbagliata. E però non lascerei che si fermi lì.

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DIFFICOLTA’ DI COPPIA D. Io ho confessato pochissimo dei religiosi. Mi capita qualche volta durante le ferie. Quindi mi veniva spontaneo, mentre tu parlavi, fare il rapporto con i laici: in questo momento ho una situazione di sofferenza molto grande in due giovani sposati da due anni, che si sono divisi in questi giorni. E pensavo a tutte le cose che hai detto che, fatte le debite aggiustature, starebbero alla perfezione anche per una vita di coppia, per dei fedeli comuni, ecco. Anche se è chiaro non c’è il fatto della vita religiosa R. Credo che proprio come educazione cristiana siamo stati poco educati alla carità come struttura, perché la carità va bene: perdona, sei buono, sei gentile, sei servizievole, ma non è tutto … ci manca credo anche a livello catechistico. Per cui ritengo molto importante il richiamo della enciclica di prima, se essa diventa una base educativa, una chiave educativa, no? Quando poi siamo in situazione, ormai allora bisogna intervenire col Vangelo in mano, perché per quanto la gente sia ferita dentro e guasta dentro e rovinata un po’, il Vangelo serve sempre: quando sei a pezzi vieni, io ti conforterò. Si tratta allora di dare una terapia immediata anche qui cercando di sottrarre, se è il caso, dall’odio attivo – e nella coppia è facile che ci si faccia male, perché spesso gli amori vanno a fondo non perché ci sono degli altri amori, ma perché ci sono due «amor propri» che non si sono abbastanza integrati. L’amor proprio rovina tantissimi matrimoni, prima dell’adulterio, secondo me almeno. Quindi, nei limiti possibili, spesso con la sola confessione non si riesce, perché ci vuole una terapia molto più approfondita e prolungata. Allora si può invitarli, piuttosto sentirli. Se già accettano un confronto a tre è già tanto, perché il confronto davanti a Dio è un corto circuito, non c’è niente da fare, più si incontrano e peggio è. Possono andare da uno psicologo. Ma se si rivolgono a noi il prete dovrà sentire, incassare due deposizioni che si contraddicono a vicenda, tutti e due si danno torto, quel che dice uno non è vero. Però è vero che se si riesce, si può fare da cuscinetto; è un accompagnamento lungo però. Arrivano da casa che sono ormai già così deteriorati, che c’è proprio poco da fare. Tuttavia dare testimonianza che si può sempre ricominciare, se ci si ascolta, se si è benevoli; pur abituati come sono a ferirsi, forse riusciranno a capire che è possibile non farsi del male … Però è molto difficile questa terapia soprattutto riceverli in confessionale o quasi. Se si riuscisse a conoscerli fuori … anche perché in generale è sempre uno dei due che conosce di più il prete, raramente vengono insieme. Sarebbe già bello che venissero. Magari è uno che viene a lamentarsi dell’altro. E allora bisogna cominciare a chiedere di conoscere anche l’altro, se l’altro vuol venire. Si comincia un lungo accompagnamento che avrà l’esito che avrà. 19


D. Domandavo fino a che punto si può chiedere il perdono che porti a una riconciliazione. Perché quando ci sono degli animi così accesi … R. Appunto: il punto oggettivo è che si deve chiedere il perdono perché lo chiede il Vangelo, ma applicare al soggetto la cosa, dipende dalla fede che la persona ha, perché c’è poco da fare. Poi ti rendi conto se la persona crede o non crede in quel Vangelo e se ci tiene a vivere secondo la fede. E questo non si combina in quattro e quattr’otto … D. C’è il caso di due persone che pregavano tutti i giorni insieme e improvvisamente c’è stato questo scoppio… R. Ma sai, il Cristianesimo o è carità o è religione, parlo un po’ per paradosso. La religione ti inclina a pregare a Dio, essere pio, ma il Cristianesimo è ben più di una religione che ha la credenza, i ministri, il culto, la morale e tutto quello … il Cristianesimo è carità. E carità vuol dire che prima di tutto devi andare d’accordo con l’altro, poi preghi – il Vangelo dice così no? Trasformare il Cristianesimo in una religione che crede, ha l’etica giusta, il culto giusto, che ha tutto giusto, ma che è soltanto e soprattutto quello … è un ridurlo rispetto a questo statuto divino di carità, per noi paradossale. Ma questo è il Vangelo vero, insomma. Quindi non bisogna stupirsi. Poi di gente che prega e che fa la comunione insieme e che poi litiga pure ne conosciamo tutti no? Evidentemente qui c’è qualcosa che non funziona. È chiaro che non è fede, questo è soprattutto un effetto placebo: io sono religioso, mi sento buono, prego, faccio la comunione … ma è un gesto, è diventato solo più un’apparenza. È una patologia cristiana, secondo me, perché o ci dedichiamo alla carità e la prendiamo sul serio, o l’ascoltiamo come un bel consiglio che lasciamo là così, ma che è un po’ rimosso inconsciamente. Siamo a questo livello oggi: o la Chiesa prende sul serio che Dio è carità, ma sul serio, oppure credo non abbia molta strada. Non dico la Chiesa indefettibile, ma certi modi di essere Chiesa, troppo litigiosi, troppo individualisti, insomma. Pensate ai Vangeli che leggiamo spesso: «Ama il tuo nemico … fate del bene a coloro che vi perseguitano» … Io mi domando se ci credo fino in fondo. Credo che sia così, a livello mentale; si capisce che ci credo, ma in pratica? Eppure il Vangelo è questo. È una bella prospettiva per noi educatori, soprattutto per noi preti. Educare alla carità è nostro compito.

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CARITA’ O RELIGIONE RAGIONATA? D. Questo paradosso «carità o religione», è una situazione che si riscontra anche nella vita consacrata. Le religiose che incontriamo sono, generalmente persone in età, statisticamente parlando, inserite in situazioni anche pesanti dal punto di vista umano, affettivo, oltre che spirituale, all’interno di strutture «pesantissime» da portare avanti e quindi queste problematiche sono attualissime. Io mi ritrovo perfettamente. Purtroppo non ho occasione di molti riscontri da parte di religiosi e religiose giovani. Mi augurerei che per loro la situazione sia migliore da questo punto di vista, ma non saprei proprio dire. R. Il rischio delle religiose giovani, anche a livello di novizie, è appunto di non incontrare nei luoghi di educazione, quindi nei noviziati più che altro, questo tipo di accoglienza nella carità. Non so quanto i nostri noviziati oggi come oggi, nessuno escluso, siano in grado di educare veramente alla carità in maniera prioritaria e specifica. Certo in teoria lo si dice, vorrei vedere, ma è una delle cose tra le tante che si cerca di trasmettere alle nuove generazioni. Le giovani di oggi, oltre al salto culturale molto grande che devono fare e che non sempre è capito dagli educatori (molte entrano, restano tre mesi e poi se ne vanno, eppure la vocazione c’era …), entrano e si trovano inglobate in un clima che non trasmette fiducia ed amore, anzi, è già un po’ un clima non dico proprio di competizione ma certamente un guardarsi addosso, criticarsi un po’, mormoricchiare un po’ … è una cosa meschina insomma. Non si entra con l’afflato: «qui ci si vuol bene». Là dove questo funziona, funziona tutto. Ci sono in effetti certi noviziati, certe comunità dove ci si accorge che la pagina di Giovanni 134 viene vissuta: «Qui ci si vuol bene!». Allora tutto passa. Credo, comunque, che ci sia la carenza di un piano educativo, in generale, nella educazione alla vita cristiana e religiosa. I documenti ufficiali sono ormai abbondanti, no? Il documento Vita consacrata5 per i preti e per tutti è molto chiaro, ma la carità non emerge come tema dominante. Con le giovani però è tutto diverso perché non sono ancora fossilizzate nelle loro abitudini, vero? Teresa d’Avila diceva: quando una suora è anziana, c’è poco da 4

«Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete l’amore gli uni per gli altri» (Giovanni 13,34-35). 5 Esortazione apostolica post-sinodale «Vita Consecrata» del Santo Padre Giovanni Paolo II all’episcopato e al clero, agli ordini e congregazioni religiose, alla società di vita apostolica, agli Istituti secolari e a tutti i fedeli circa la vita consacrata e la sua missione nella Chiesa e nel mondo, Roma 25 marzo 1996. 21


fare, non cambia! Lo diceva lei, non cambiano più, è difficile cambiare. Con le giovani si può fare, si deve fare: Interrogare e interpellare sulla carità proprio come un tema martellante, un tema quasi unico! Se infatti imparano a essere caritatevoli, umili, servizievoli, hanno imparato tutto, poi pian piano imparano anche il resto. Sovente purtroppo ci si ferma di più alla forma esterna, quindi ad una immagine di suora che deve essere quella che le formatrici hanno in mente. Infatti la vita consacrata è in crisi, non sarà questo uno dei motivi? Molte Congregazioni vanno a prendere le vocazioni nel Terzo Mondo … ma non hanno più niente da dire ad una giovane italiana, non è bello! Ricordate che dopo il documento Vita Consacrata, dopo appena cinque anni, la Congregazione ha sentito il bisogno di emanare un altro documento: Ripartire da Cristo6, quasi a voler dire, in poche parole, che certamente si era detto tutto sulla vita religiosa, ma l’impressione era di aver accelerato senza che il pedale rispondesse … Infatti, il documento Ripartire da Cristo ha un altro tono, perché dice che bisogna ritrovare il primo amore, per vocazione. Ciò è segno di una preoccupazione buona nella Chiesa, che certo avrà il suo frutto, perché lo Spirito ci guida, ma siamo ancora in questa condizione anche oggi. Credo siano due secoli che ci si è un po’ inaridito il cuore. Non si è mai più parlato di CARITA’ e di AMORE come di virtù eccellenti, perché il gran fenomeno Illuministico ci ha spinti a parlar soprattutto di fede. Sarà anche giusto, ma ci siamo esauriti a partire dal discorso intelligenza-fede, abbiamo buttato tutte le energie lì, scivolando un po’ nell’Illuminismo anche noi … cioè ragionare, discutere, credere, ma il credere senza amore … credono anche i demoni! Abbiamo spostato l’interesse su di un piano che ci pareva urgente, dimenticando un po’ la carità. L’amore è stato invece coltivato dai santi, che vanno sempre un po’ per conto loro. Infatti, se notate, da un punto di vista tipologico c’è una differenza molto interessante tra i nostri santi e i nostri teologi. I santi sono conosciuti da tutti, vero? Torino, poi, è ricca di questa benedizione. Hanno fatto la loro strada: hanno scelto la carità come «Assoluto», per dirla così. Non erano mica teologi, né Bosco, né Cafasso, non erano teologi scientifici, applicavano la teologia alla pratica pastorale nel contatto con la gente. Il teologo che è diventato solo scienziato applica l’intelligenza alla verità, scrive trattati … benissimo, ma col rischio che sia solo scienza. Ricordiamo che quando è nata la grande teologia della Chiesa, nei primi secoli, non si distingueva mai il teologo dall’uomo caritatevole e dal pastore. Pensiamo ai Padri della Chiesa, quelli della teologia. E già il grande teologo contemporaneo VonBalthasar si lamentava - e non lui solo - che si è scissa la teologia dalla teofilia.

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Ripartire da Cristo: un rinnovato impegno della vita consacrata nel terzo millennio, Congregazione degli Istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, Roma, 19 maggio 2002. 22


I PRETI DI TORINO HANNO BISOGNO DI PERDONARSI D. Volevo riallacciarmi al punto della esemplarità, dell’essere educati dal perdono per poter proporre il perdono: lo trovo molto importante sia nell’esercizio del ministero della confessione, ma anche quello del pastore come discorso generale nella vita della Chiesa. Ricordavo un episodio: dev’essere stato in occasione del Sinodo Generale sulla Riconciliazione, che ha avuto una ricaduta a livello diocesano con il convegno torinese sulla riconciliazione. Ricordo il gesto dei preti, quel mattino, tutti radunati in San Lorenzo, si sono confessati a vicenda e poi sono andati processionalmente in cattedrale per la celebrazione Eucaristica. Ricordo il richiamo, fatto in modo dolce e soave dal cardinale Ballestrero (e in modo un pochino più focoso da qualcun altro), di quanto i preti avessero bisogno di riconciliarsi tra di loro, di perdonarsi. I preti di Torino hanno bisogno di perdonarsi, diceva il Cardinale. Dopo tutto il periodo del dopoConcilio, con i relativi scontri tra progressisti e retroguardie, esasperato no? Ecco, credo che cercare di arrestare la mania della critica, dell’osservazione esasperata, e la ricerca della riconciliazione, come dicevi, attraverso l’esemplarità del perdono - che è invito a perdonare, a comprendere, a compatire - ecco mi sembra estremamente attuale ancora adesso dopo tanti anni. R. Condivido questo giudizio. Forse non c’è più quell’atmosfera di grande sofferenza di allora tra noi preti che abbiamo vissuto quelle grandi tensioni. Forse non c’è più questo, ma resta vero che la nostra inclinazione alla critica - forse anche un po’ per deformazione professionale - è molto facile. Ci vuole attivamente qualcuno che non si limiti a tacere. Non basta più tacere, non basta non criticare. Bisogna avere il coraggio di aiutarci molto fraternamente e dire: «cambiamo!» e credo sia necessario anche oggi. Sembra nulla, ma appena ci troviamo insieme, guardate se non salta fuori qualcuno con un piccolo giudizietto che sembra buttato là per scherzo, ma in realtà svela in noi uno spirito critico eccessivo che non è per nulla unto di misericordia. Quindi bisogna cambiare, e non con il tono spiritualistico che può piacere e non piacere, ma con il tono serio della teologia. Bisogna che ci diciamo chiaramente: «ma se non ci vogliamo più bene cosa facciamo?», così, detto molto semplicemente. È un’osservazione teologica che facciamo tra noi. Quando si parla di perdono in una certa maniera … un po’ troppo morbida, un po’ troppo spiritualistica, c’è buon gioco dall’altra parte a dire: «boh, insomma, tu fai presto. Già perdonare così», oppure «già, lo fai perché sei anche tu un bigotto». L’equivoco è grave e la tentazione è forte di distinguere tra chi «vede» le cose e chi «non le vede», come se chi vedesse le cose che non vanno intorno a sé abbia anche 23


il diritto di criticarle. Chi vede le cose come sono, ringrazi Dio, ma è proprio lui che deve avere più pietà e misericordia verso gli altri, perché ha più responsabilità di chi non vede. Colui che è indulgente, buono, mite, non critica perché è lui … ma non è quello ciò che convince ... non so come spiegarmi … ci vogliono persone autorevoli, stimate, persone che anche nel ministero siano loro a dire questa parola di perdono. Non basta neppure il vescovo, badate bene, ci vuole il prete che al prete dia questa lezione di Cristianesimo vissuto. E anche molto amichevolmente, qualche volta sì, qualche altra no. Non so se mi son fatto capire: c’è sempre il pericolo di collegare il perdono con l’indole personale: «ma quello lì è buono, quello lì è un mite, quello lì non dice mai niente … », questo non va bene. Il Vangelo non è solo fatto per i miti di carattere, umanamente parlando, o per chi non ha il coraggio di parlare; il Vangelo è fatto per tutti, soprattutto per i più forti. Aggiungerei ancora una cosa: sono particolarmente responsabili di questo perdono i sacerdoti che sono più qualificati, in quanto hanno responsabilità oppure rappresentano gruppi e movimenti, sfiorando quindi il rischio, senza volerlo, di portare un po’ di divisione. Un prete che guida un gruppo particolare, se non sta molto attento, diventa vittima di una mentalità, come se quel gruppo fosse un pezzo di ecclesialità più autentico. Non è vero? Certo, è umano questo, però è molto pericoloso. E quanto più un prete è così, secondo me, tanto più dev’essere un prete di comunione. Apposta. Ricordo quei tempi! Quando dovevo interessarmi di scuole e di cultura, era quasi impossibile mettere intorno allo stesso tavolo i preti responsabili dei vari movimenti ecclesiali. Si trattava di gruppi con gli stessi interessi culturali, ma metterli insieme era una faccenda seria. La cultura li univa, il Vangelo li univa, eppure metterli insieme a confronto, nel dialogo, era difficile. Questo non andava bene, ma sono proprio quei preti lì che devono dar l’esempio. Se si riesce a dire: «ecco io ho messo insieme X e Y che son di queste quattro forti associazioni, abbiamo fatto un lavoro insieme d’amore e d’accordo», questo è Vangelo di perdono. Ora sono un po’ fuori dalle “cose” diocesane, non so se è ancora esattamente così. Ho presente, invece, la situazione delle comunità religiose femminili, le più traumatizzate: la cosa più difficile è quando la Superiora responsabile non è colei che diffonde amore e perdono. Allora diventa proprio un tormento. Ci vogliono virtù eroiche per perseverare, perché una donna può essere delicata e fine in modo insuperabile, ma purtroppo è capace di esserlo anche in negativo, nel piccolo dispetto, nella miseriola, nella meschinità, cose che neanche immaginiamo del tipo «ti trovo un paio di scarpe vecchie per te van bene così». «Ma come!?», «Ma sì, siamo poveri!». E’ terribile. Sono cose che meritano molta consolazione. Certo, i confessori e direttori spirituali non sono lì solo per asciugare lacrime, però ci vuole moltissima comprensione, stando sempre attenti che non sia un transfert perché sapete che la religiosa che si sente capita, si affeziona a tutto cuore. Bisogna 24


fare attenzione anche a questo, come d’altronde ogni psicologo sa bene. Come stile, comunque, bisogna cercare di capire certe ferite nascoste.

ACCOGLIERE E PERDONARE GLI IMMIGRATI CON AMORE D. Ha parlato dell’educazione alla carità nella vita religiosa. Come parroco della parrocchia della Madonna della Pace, vivo in un ambiente dove c’è una pluralità di etnie. Ciò che si sta verificando, anche nei cristiani che frequentano, è la difficoltà a dialogare, a guardarsi in faccia, a confrontarsi. Questo si sente anche sotto l’aspetto spirituale. Alcune persone vengono a confessarsi e dicono: «Abito nello stesso condominio con gli extracomunitari, e non riesco a perdonarli, non riesco a vederli». C’è un clima di difficoltà, di rapporti che risentono anche di situazioni molto concrete: «Stanno sopra di me! Non si può vivere assieme!». Alcune persone mi dicono: «Non posso fare la comunione, sento dell’odio verso quelle persone, non riesco a perdonarle: che cristiano sono?». Vuol dire che si pongono questo problema. Come far vedere, in che misura, in cosa consiste lo spirito di perdono con il sentirsi cristiani? R. C’è da domandarsi se questa condizione attuale di plurietnicità e di differenza, ormai ai limiti, non sia proprio un’occasione che Dio ci dà per accettare fino al fondo la carità del Vangelo. Infatti, sarebbe proprio il caso di notare che Gesù ha sempre parlato e sottolineato le relazioni con i samaritani. Se ci sforziamo di capire cosa voleva dire il suo insegnamento a riguardo, capiamo che i Samaritani erano gli alieni, gli immigrati di oggi, persone con una religione diversa, con culture e tradizioni spesso incomprensibili. Dunque, non sarà una sfida questa che richiede una ri-educazione culturale? Ma più di questo, per noi credenti non è forse un’occasione di mettersi di fronte al Vangelo e dire: «Sentite noi siamo cristiani e crediamo nel Signore»? Tocca a noi, come ha fatto Dio con noi, fare il primo gesto di amore. Non aspettiamo che questa gente sia educata, sia buona … auguriamocelo, ma non aspettiamoci che siano gli altri a renderci la vita tranquilla. Spesso si tratta di gente ferita, che ha combattuto, sofferto, che è scappata … Accettiamo questa sfida, questa gente che senza volerlo ci è nemica, e non perché ci vuole del male, ma perché con la sua stessa esistenza ci mette in qualche modo in difficoltà. Facciamoci l’esame di coscienza, iniziamo d’impegno a essere una comunità che, prima ancora che accogliere, si riconcilia al proprio interno, si rispecchia in Gesù e con Gesù, il quale ha raccontato la parabola del samaritano, mettendo in luce proprio «il diverso», «l’inaccettabile». Questo però vorrebbe dire una catechesi, delle forme di preghiera, dei momenti forti in cui si insiste a dire: «guardate che siamo sfidati dal Signore» in ciò che accade 25


ogni giorno intorno a noi nel quartiere, nella parrocchia. Questo ci aiuta a uscire dal nostro lungo secolare individualismo da cui non siamo ancora guariti, che non è soltanto individualismo della persona, ma è anche individualismo etnico o di ceto sociale o che altro. Insomma siamo troppo chiusi. L’alternativa, però, non esiste: dal punto di vista cristiano o si fa un discorso esplicito «Dio permette questo», o non si è cristiani. Non possiamo diventare nemici, o difenderci, ma dobbiamo accettare la sfida della carità. Bisogna pregare molto, prendere coscienza insieme, decidere insieme. Questa - secondo me - è la vera decisione pastorale, la vera carità del Signore oggi. Poi, le persone singole si aiutano poco per volta, perché ci saranno anche persone che non sono tanto preparate. Si aiuterà magari a sopportare, perché più di così non sanno fare, però magari altre capiranno, altre possono accogliere questo invito del Signore, perché se ce la manda Dio questa occasione, ci dà anche lo spirito per viverla. D. Alcuni, però, se ne vanno dal quartiere … R. D’accordo, però bisogna capire. Sono periodi di inculturazione difficile. Alle volte siamo di fronte a due blocchi e non si può pretendere si integrino così facilmente. Chi non ha mai viaggiato, chi non è mai stato straniero, non è mai emigrato in terra straniera, ma è sempre vissuto nel proprio quartiere parlando il dialetto del clan, non può capire. Passerà certamente una generazione o due patendo questo attrito, poi cambierà. Penso, ad esempio, alle scuole: riescono a integrare abbastanza quando mettono insieme le mamme che parlano dei loro bambini. Questo è certamente un terreno più facile, perché le mamme si intendono sui bambini. E’ una maniera molto bella di andare al di là delle differenze. I bambini giocano insieme, a quell’età lì non hanno ancora problemi, e le mamme hanno gli stessi problemi educativi dei loro figli. È possibile poco per volta trovare un’intesa, già sapendo che ci sarà un margine che andrà un po’ perduto, purtroppo, perché non sopporta la cosa. D’altra parte anche noi possiamo sentire difficoltà, è umano no? Ci son periodi così, di sopportazione, ma dove la carità però resiste. Torno a dire: pezzi si staccheranno, pazienza! Andiamo avanti lo stesso, ma educhiamo alla carità. È questione di due generazioni almeno, secondo me. Perché anche gli immigrati di seconda o ormai di terza generazione sono in fase molto critica, non hanno ancora dimenticato la provenienza. Non sono integrati del tutto, sono un po’ senza radice anche loro hanno questi disagio. Poi si sentono anche un po’ messi da parte da noi, è normale. Ci vuole del tempo, però non scoraggiamoci e comunque la carità vince sempre. Diciamo alla gente che non si abbandoni mai alle proprie paure ed ostilità, ma che per loro è l’occasione che mai hanno avuto nella vita di amare davvero il prossimo. Diciamoglielo questo: «il prossimo tuo adesso è qui. Il prossimo è quello che ti fai se gli vuoi bene: insomma, non tirarti indietro!». Per noi educatori e pastori è una sfida: 26


non scoraggiamoci. Troveremo delle persone eroiche, ce ne sono anche. Ci sono difficoltà, e grosse, ma bisogna parlare di CARITA’: tutti gli altri sostantivi, impliciti a questo, sono più deboli non bastano. Non basta dire accoglienza, amicizia. Bisogna parlare di agape, di amore gratuito, di carità!

INTEGRAZIONE DELLE RELIGIOSE IMMIGRATE D. Una domanda sull’accompagnamento di religiosi e religiose che giungono da altre culture. Molte fanno delle grandi fatiche a integrarsi nella realtà religiosa presente qui da noi. R. Fanno fatica perché, senza accorgercene, li prendiamo nella nostra cultura senza tanti complimenti, chiedendo che si adattino in fretta e bene alle nostre tradizioni e al nostro modo di vedere. Facciamo come se non fossero indiani o brasiliani, sudamericano o asiatici, facciamo come se non fossero … suore come le altre. E’ un errore. C’è chi è più delicato e più attento, c’è chi lo è meno. Bisogna rispettare molto questi religiosi, perché c’è una parte di sofferenza che queste persone si portano dentro per il solo fatto che sono sradicate dalla loro famiglia. D’accordo, hanno scelto di seguire Gesù, desiderano vivere la loro vocazione, ossia seguire ed amare Gesù più del padre e della madre, ma tutto questo si paga. E allora bisogna essere attenti. Capita spesso nelle comunità che i religiosi e le religiose bianchi europei anziani siano un po’ intolleranti verso i giovani. E qui c’è doppio ostacolo: generazione e razza. Le incomprensioni nascono dalle differenze generazionali prima ancora che culturali, le due cose si accumulano e le giovani soffrono abbastanza. Bisogna aiutarle molto quanto si può, accettando la cosa. Il discorso con le persone anziane bianche non viene ascoltato più di tanto. A loro pare di essere «invase» da persone diverse, mentre spesso «salvano» tanti Istituti religiosi femminili dalla chiusura. E’ ovvio che le suore anziane abbiano abitudini rigide, come era la vita religiosa cinquant’anni fa, del tipo «non si tocca questo, non si cambia quello». Le tradizioni a volte diventano più importanti del Vangelo e soprattutto della carità. A loro pare impossibile accettare anche il minimo cambiamento di tradizioni, quindi non riescono a non sentirle un po’ come intruse. Certo qui la carità viene messa da parte, ma purtroppo è proprio così. Allora si tratta di aiutare queste giovani ad avere molto cuore, molta pazienza, dicendo loro: «Tu sei giovane hai tutti i diritti, però la nostra cultura è così, siamo fatti così, porta pazienza». Sono le giovani che sono maggiormente vittime della situazione, e sono da aiutare perché diventino attive nella capacità di superare le differenze. Loro ne sono capaci, a differenza delle anziane. 27


Ci son delle giovani, ad esempio nelle Suore di Sant’Anna, che sono ormai più indiane che italiane come organizzazione, ci sono delle giovani indiane, ma anche di altri continenti, che sono molto buone, molto fini. Hanno una spiritualità - secondo me - persino un po’ più mistica e un po’ più aperta a Dio di noi, sentono il problema di Dio nella preghiera e, oltre a questo, si rendono conto che è una sofferenza da vivere, se vogliono andare avanti, perché le case di formazione per adesso sono qui in Europa. Alcune lo vivono abbastanza bene. Trovo più facile fare questo discorso a loro piuttosto che alle suore anziane italiane. Non con tutte, certo, non sto facendo delle generalizzazioni, non c’è da perdere la speranza ma la mentalità veramente cattolica non è quella di un milione di credenti davanti al Papa, è quella di quattro suore in una stessa stanza! E questa matura piano piano, poco per volta, ma le generazioni giovani sono aperte e credo che avremo un bell’aiuto in futuro da queste religiose. Il discorso vale anche per i religiosi uomini, ma tenendo presente che l’uomo è diverso, è meno impegnato in questa dialettica.

FATICA DEI RELIGIOSI A TOLLERARE L’IMMIGRAZIONE D. Tornando al problema dell’immigrazione esterna o sociale, ci accorgiamo che tante volte viene davvero sentita come un problema anche tra le religiose stesse. L’accoglienza è faticosa. La chiediamo ai cristiani e alla gente di fuori, ma il problema riguarda anche i conventi, le parrocchie, le chiese e le comunità religiose. R. Nondimeno. Ma dobbiamo anche capire che non siamo stati preparati. Quest’evento ci ha sorpassati tutti. La stessa Chiesa magisteriale produce documenti, certo, ma andando a vedere caso per caso, le singole persone, scopriamo che anche loro hanno queste difficoltà, è umano questo. La storia ci ha proprio sorpassati, ci ha buttati lì in una situazione tipica di un’invasione «barbarica», ma non intesa in senso peggiorativo, vero? Chi conosce la storia sa che alcuni Barbari portarono un aumento di moralità all’interno dei vertici di un Impero Romano ormai dissoluto e corrotto. Gli stranieri sono arrivati e arrivano anche oggi. E quando arrivavano i barbari, vi ricordate cosa dicevano i cristiani? «La Chiesa è finita!». Mentre in seguito gli stessi «barbari», i non romani, hanno dato una fioritura di santi meravigliosa, convertendosi progressivamente al Cristianesimo e dando il loro contributo di testimonianza eroica di fede, di martirio, di perseveranza. Non è finita certo la Chiesa però han fatto fatica anche loro, eccome!

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Quindi bisogna vivere così, adagiandosi nella situazione con molta fede e con molto amore, perché è l’amore vero, gratuito, attento e delicato, spassionato e che non cerca il proprio tornaconto ad aggiustare tutte le relazioni umane. Certo, sono cose che noi stessi non possiamo non patire, l’amore costa e se non costasse, non sarebbe amore. E’ facile amare i parenti, sperando in una eredità … è facile amare chi ci ama ed ammira e ci saluta con deferenza nelle piazze perché spera in un nostro favore … è facile amare chi è distante, chi non entra nella nostra vita, chi salutiamo in chiesa ma che poi resta a casa sua … Con la carità si possono superare tutte le ritrosie spontanee, tutte i preconcetti culturali, basta non irrigidirsi e lasciarsi plasmare da Colui che ha voluto chiamarsi solo e sempre Amore!

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INDICE

EDUCATI DAL PERDONO .................................................................................. 3 Elementi fondamentali dell’educazione del perdono ................................................ 3 INTRODUZIONE ....................................................................................................... 3 EFFETTI EDUCATIVI DEL PERDONO: .............................................................. 5 CONSAPEVOLEZZA DI ESSERE CONTINUAMENTE PERDONATI .................. 5 SCUSARE E ACCUSARSI .......................................................................................... 6 PRATICA IL PERDONO SE VUOI ESSERE PERDONATO ................................... 7 PERDONARE L’INGIUSTIZIA .................................................................................. 9 «NOI SIAMO LÌ, A PERDONARE SEMPRE CHIUNQUE SIA PENTITO» ......... 10 CONTRIZIONE DEL CUORE................................................................................... 11 EDUCARE ALLA COMPASSIONE ......................................................................... 12 ESSERE ESEMPLARE NEL PERDONO: VIVERE PERDONANDO .................... 13 DIBATTITO COMUNITARIO ............................................................................... 17 IL PERDONO DOPO MALTRATTAMENTI SUBITI IN COMUNITA’................ 17 DIFFICOLTA’ DI COPPIA ........................................................................................ 19 CARITA’ O RELIGIONE RAGIONATA? ................................................................ 21 I PRETI DI TORINO HANNO BISOGNO DI PERDONARSI ................................ 23 ACCOGLIERE E PERDONARE GLI IMMIGRATI CON amore............................ 25 INTEGRAZIONE DELLE RELIGIOSE IMMIGRATE............................................ 27 FATICA DEI RELIGIOSI A TOLLERARE L’IMMIGRAZIONE........................... 28

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