IMMIGRATA INVIDIA Barberina Bala Tema
I
miei nonni erano originari degli alti confini macedoni. Arrivarono in Albania nel '38 quando il fascismo aveva già urbanizzato Tirana intera con uno stile severo e la monarchia illirica era ormai al tramonto. Sono nato conoscendo la grande dittatura comunista e così sono cresciuto. Abitavo a Fushë Krujë, polo di cooperative ed industrie di sperimentazione chimica. La prima volta che dovetti votare mi rifiutai di dare il mio consenso passivo al Partito Comunista e la sanzione fu una sprangata sulla schiena che mi demolì così come mi distrussero i successivi quattro anni di leva militare. Con il poco stipendio che raccimolai tra i campi statali, comprai prima una radio e poi una televisione ed illegalmente scoprii il mondo: non più solo i film sulle falsità del Partito, ma ecco il Carosello, le prime programmazioni della Mediaset, la musica leggera italiana e le stupende pubblicità fatte di famiglie felici. Esatto, famiglie felici: perché anche io ne volevo una, ma non a casa mia. Ero lì da 24 lunghi anni ed ero stanco di non poter far niente. E così iniziai ad invidiare. Invidiavo la politica di destra, sicuritaria e promotrice di democrazia ed invidiavo tutte le Esatto, famiglie felici: peropportunità che i miei coetanei dall'altra parte ché anche io ne volevo una, della costa potevano avere. In quella dittatura ma non a casa mia. Ero lì da l'unica libertà che mi veniva concessa era quella 24 lunghi anni ed ero stanco di invidiare. Paradossale. Se ero contro l'autori- di non poter far niente tarismo politico di estrema sinistra, se speravo nel meglio per il mio Paese e se volevo andarmene da lì non era per sete di giustizia sociale (io nemmeno sapevo cosa fosse la giustizia) ma per la pura e delirante invidia di avere le stesse garanzie di quegli sconosciuti che stavano fuori dai miei confini. 1991: in piazza Skanderberg a Tirana gli studenti dell'élite intellettuale distrussero la statua del dittatore Enver Hoxha. Il totalitarismo era morto. Arrivò il momento di andarsene e realizzare il sogno più grande: dar forma alle invidie. Avevo madre, fratelli e fidanzata, al tempo una delle direttrici dei padiglioni della cooperativa ma una volta chiuse le industrie sociali si diede alla sartoria, chiedendomi poi di sposarla, promettendo di aspettarmi. Salutai tutti, mi incamminai verso Durrës e con i risparmi di una vita lasciavo il mio passato su di un gommone. Da lì in poi sarei diventato solo che un immigrato diretto verso l'Italia. Ed è stata per questa incontrollabile invidia che ho garantito un futuro più che legittimo alla mia famiglia. Non è forse onorabile?
LA STREGA È MORTA
Illustrazione di Norma Nardi
Claudia Oldani
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ad un filo si accumulano, luci fioche, occasioni perse, per sempre impresse nella carta. Seguo la sua sagoma, sinuosa come dune di sabbia, lei, fiore in mezzo ad un deserto dove tutti vorrebbero coglierla. Una rosa piena di spine, ma che non mi spaventano perché, appese alle mie pareti, non possono pungermi. Come un rito, il mio lavoro ricomincia, neppure l’odore dell’acido mi da più fastidio quando vedo lei. Il mio sguardo da prima colomba si fa rapace. C’è qualcosa di diverso. Tento di dimenticare, tento di non soffermarmi su quegli sguardi che non mi appartengono e che la toccano. Se solo volessi, potrei cancellare quelle mani che le stringono i fianchi, perché non sono le mie. Cerco di abbandonare la rabbia, l’invidia mi ha già incatenato il cuore. Lui non la merita! L’ho già vissuto questo momento, perché allora mi fa ancora così male? La mia mano si blocca, non disegna più i suoi capelli. Ferma ed invalicabile, si interpone tra la carta vittima e la luce carnefice. Il rancore non si appoggerà mai su questa foto. Uno spazio bianco ora rimane in quella foto, la possiedo ancora, non è come le altre. Un segreto che non potrò mai rivelare: quello sguardo talmente diverso, lo ricorderò per sempre, indelebile. Uno sguardo sconosciuto, immobile su quell’immenso vuoto; cosa stava guardando con così tanto amore? Ormai non me lo ricordo più, ma immagino le mie mani che la stringono per riempire quell’enorme macchia bianca. Chi, se non io, avrebbe potuto colmare quell’antica mancanza e quell’espressione che rivendica quello che gli è stato sottratto. Ora sei solo mia, per sempre.
uardavo le sue mani che le accarezzavano i capelli, il suo sorriso che le illuminava il viso, le guance che si arrossavano. Quanto avrei voluto essere al suo posto! Cosa sapeva quell’uomo di lei? Nemmeno la capiva, non quanto me per lo meno. I movimenti delle sue labbra, le sue emozioni più pure, sono folle sconosciute. Troppo vere ed intense per essere colte dagli altri. Ma non per me, non per un fotografo. I suoi sguardi mi trapassano, i miei non trovano altra direzione. Devo imprimerle su questa carta, non possono rimanere negativi nel mio cuore. Le fotografo i capelli che volano via seguendo il vento, un istante, cerco solo la sua luce. Assorto sognatore, io, solo nelle tenebre della camera oscura posso sentirla mia, così viva, così reale. Ora le mie dita si muovono sicure tra le proiezioni del suo corpo. I minuti scorrono, immagini di lei appese
ossessione, i suoi baci nascosti. Poi ha deciso che tutto quel mistero poco cattolico non faceva per lei e non ha più voluto vederla. Eppure lei, l'altra, continua a scriverle. Tenere lettere composte a mano e infilate nella nostra buca di notte. Sono indirizzate a Farina, niente indirizzo. Le trovo sullo zerbino dell'ingresso e gliele porto in camera, perché la mia coinquilina non si abbassa a raccogliere la posta. Non ne ho mai aperta una di quelle buste, perché di farina è la sua pelle, Farina è lei. La mia coinquilina a volte invita a casa dei ragazzi. Ragazzi con l'abito da uomo e le scarpe lucide: ragazzi che cercano di sembrare uomini. Con loro lei alza la voce, beve del vino corposo e sorride sempre. Sorride anche quando rifiuta i loro baci e li lascia dormire sul divano. «È in prova» mi dice a porta socchiusa, «voglio vedere se si sa comportare, se lo posso portare agli eventi». Una volta mi ha anche detto: «Vorrei trovare un ragazzo come il tuo, tranquillo, senza ambizioni. Low profile insomma». Ma nessuno supera mai la prova, se ne vanno la domenica sera, esausti di fingersi quello che non sono e di dormire su un giaciglio di seconda scelta. Invece lei sembra non stancarsi mai. Ieri è arrivata un'altra lettera per Farina. L'ho portata alla mia coinquilina che era nella sua stanza a sistemare i vestiti appena acquistati. Mi ha chiesto di lasciarla sul letto, mentre mi dava le spalle. L'ho buttata sulla coperta e lei non si è nemmeno voltata. Più tardi ho sentito il suo passo pesante sui tacchi, il parquet sofferente. Ho buttato uno sguardo in corridoio e ci siamo viste. Era vestita di tutto punto e stava uscendo. «Mi vedo con uno» mi ha detto «è un ragazzo nuovo, è in prova». Si è messa il rossetto rosso sulle labbra (Chanel, ha tenuto a precisare), si è avvolta nella pelliccia e ha fatto due gradini. La strega è morta, ho pensato. E proprio in quel momento, come a confermare il mio pensiero, la mia coinquilina si è girata verso di me e mi ha sorriso. La pelle diafana, i capelli corvini arricciati attorno al volto, il lampo rosso sulla bocca: era molto bella, sembrava un'altra.
a mia coinquilina è un soggetto particolare. Ha le lentiggini e i capelli rossi, ma ultimamente li tinge di nero perché così sono più seri, dice. La mia coinquilina ha 29 anni, ma si veste come se ne avesse 50 perché da quando è diventata giornalista professionista crede che quello sia l'abbigliamento più consono al suo status quo. Le converse e i jeans sono roba da blog e da magazine online, tipo quelli per cui scrivi tu, mi ha detto una volta. Io mi sono sentita giustificata per il mio look: ho deciso che non lo cambierò mai, nemmeno quando avrò raggiunto il mio status quo. La mia coinquilina pensa che scrostare le padelle e lavare i pavimenti siano cose da poveri, quindi lo lascia fare a me, ma devo farlo bene altrimenti chi la sente. Per il suo compleanno ha chiesto Per un anno è stata la sua un Rolex; ha ricevuto in cambio un Cartier d'oro ossessione, i suoi baci bianco appartenuto a sua nonna: lo custodisce nascosti. Poi ha deciso che gelosamente nel suo armadio. Mi sono stupita, tutto quel mistero poco catpensavo lo avrebbe dimenticato in fretta, invece tolico non faceva per lei è la sua reliquia segreta. Un giorno chiacchieravamo in camera sua e ho notato una fotografia che sporgeva da un libro. Era solo un angolo, si intravedevano delle foglie ed ero curiosa. L'ho tirata verso di me, ho sollevato le pagine e ho visto che ritraeva una ragazza in un parco. «Chi è?» ho chiesto. «Una mia amica» ha risposto subito. Mi sono domandata come mai non condisse di particolari la presentazione, come fa solitamente. La mia coinquilina è la classica persona che quando parla di qualcuno non presente preferisce usare la professione per definirne i contorni. «Sai, alla mostra di McQueen c'era Antonio, il mio amico broker. Sai, ho visto Viola, la mia amica architetto, le terrò il bambino una sera». Ho indugiato ancora un attimo sulla foto, sui capelli sciolti della ragazza, posati con noncuranza sulle spalle. Poi ho richiuso il libro, e mentre lo rimettevo sul comodino ho notato che era lo stesso libro che Carrie e Mr Big si leggono a letto, “Lettere d'amore di uomini illustri”. Che cagata, ho pensato. Credo che quella ragazza fosse la sua innamorata, quella di cui non mi ha mai parlato. Per un anno è stata la sua
WEST COAST VUOTO AgBr Enrico Casetta
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honda mise in moto la sua Plymouth mezza arrugginita e guidò fino a Santa Monica, maledicendo il giorno in cui sposò quel parassita di Jake. Se solo si fosse trovata anche lei un ufficiale dell'esercito, come aveva fatto sua sorella, a quest'ora avrebbe avuto il suo bell'appartamentino arredato di tutto punto a Denver, avrebbe tifato per gli Avalanche e sarebbe andata a sciare ad Aspen almeno sei volte l'anno. Ma gli zeri, si sa, abbondano sempre nei conti correnti degli altri. Los Angeles, nella calma apparente del primo mattino, appariva come la tomba inerte del fatidico American Dream. Beverly Hills: un epitaffio mortale. Di Hollywood Rhonda conosceva solo la scritta; dei ricconi griffati conosceva le loro belle auto, le loro villette con giardino, le loro famigliole felici e immacolate. Le cose cambiavano verso l'interno, o meglio ancora sulla costa opposta, laggiù in Florida, dov'era cresciuta e dalla quale a vent'anni se ne era andata, ancora piccola e infelice, per Perché non si era più rifatta raggiungere quel finto amore nella "città degli una vita, giovane com'era? angeli": il suo Jake, che si era fatto beccare con Avrebbe potuto benissisei chili di eroina nel bagagliaio quattro mesi mo ripartire in qualsiasi dopo il loro matrimonio. momento; la bellezza non le Perché non si era più rifatta una vita, giovane mancava nemmeno adesso com'era? Avrebbe potuto benissimo ripartire in qualsiasi momento; la bellezza non le mancava nemmeno adesso, la classe neppure. Il vero problema albergava dentro di lei, nella sua testa pensante, nel suo volersi fare del male da sola. Lei lo sapeva. Quel suo continuo guardare agli altri, quell'inutile paragonarsi a loro che la portava inesorabilmente a sminuirsi. Ai suoi occhi, chiunque altro le sembrava migliore; ogni donna era più bella. Non era inferiore a nessuno, era semplicemente invidiosa. Se lo continuava a ripetere da mesi, sorpresa di averlo capito così tardi. Rhonda era decisa a cambiare e nessuno avrebbe avuto facoltà di fermarla. Questa volta no. Espose sul cruscotto della sua auto il ticket del parchimetro pagato per le successive sette ore, andò sulla spiaggia e stese il telo da mare grande per due persone sulla morbida sabbia. Quel giorno l'oceano era quasi poetico, regalava una piacevole brezza che avvolgeva nella sua carezza salata. Sarebbe stata una giornata magnifica.
Marco Valle, Noemi Dalla Vecchia
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LA MIA PENNA CAPITALE Tsuri Peccatore
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gnuno di noi vive nel proprio universo. Io, tu, egli, noi, voi, essi. Tutti in coro! Io, tu, egli, noi, voi, essi. Io, tu, egli, noi, voi, essi. Io, tu, egli, noi, voi, essi. Evviva, sia grazia al Signore per questo miracolo. Che felicità! Giunge la morte, poiché tutti gli uomini devono morire. La amavo, eppure ora vivo e rido come se nulla fosse successo. Amavo? Amavo chi? Non so più quale sia verità e quale illusione. Amavo forse me stesso più di quanto amassi lei? Il mostro dentro di me diventa sempre più grande. Invidia provo per chi conosce questa risposta. E l’invidia si fa mostro. Arriva un saggio, poiché solo un saggio può darci la risposta. Mi dice: “Se tu l’amavi, questa è la verità. Poiché la verità è ciò che sta dentro di te”. Il saggio
non resta a lungo in vita, tuttavia riesce a creare in me una nuova illusione. Inizia. Me, me, me, me, me, me. Che brillante stagione, continua a fornicare e moltiplicarsi. Me, me, me, me, me, me. Me, me, me, me, me, me. Invidio me, odio me, amo me. Il mostro diventa sempre più grande. Il mostro assume le mie sembianze. Arriva un dottore, poiché solo un dottore può combattere un mostro così grande. Cammina verso di me con grande tranquillità, ride. Non dice nulla, solo indica me senza alcun timore. Sento dentro di me una voce. Capisco. Per chi provo ira, invidia, gola, avarizia, superbia, accidia e lussuria? Tutto è verità e illusione dentro il me creatore. Il dottore scompare. E questa volta sia grazia a me, sia grazia al Signore.
IO SO TUTTO Andrea Cafarella
Lettera all’Editore
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o so tutto, anche quello che ancora non so. Per questo faccio lo scrittore. Scrivo da quando avevo sedici anni. Scrivo perché so tutto e so tutto perché scrivo, scrivo per spiegarvi tutto. Ancora non ho pubblicato nulla ma solo perché le nuove manovre di mercato non consentono a uno come me di sembrare vendibile. Io ho il mio stile, non sono come tutti gli altri: egregio affaccendato fannullone pazzo. Io so tutto. Sopra ogni cosa so scrivere. Prendo la mia Olivetti, la colloco sulla scrivania dello studio davanti alla finestra e tutto si fa musica uscendo dalle mie mani. Il rumore dei miei tasti è meglio del suono del pianoforte di Thelonious Monk. Voi editori da strapazzo non capite la mia forma, la mia armonia, non mi avete ascoltato battere i tasti della mia macchina, del mio strumento. Uno di voi mi ha scritto una volta, alla fine di lunghi e falsi complimenti preimpostati: «il suo modo di scrivere non si affianca perfettamente alla nostra linea editoriale». Gli risposi di cambiare linea, ma non ne volle sapere. Non sapeva niente. Quando gli spuntai davanti, mi guardò con quell’aria spocchiosa di superiorità che già mi aspettavo e rimasi calmo. Io so tutto mi dissi, e gli misi il mio dattiloscritto davanti agli occhi. La prima pagina era tutta piena del titolo della mia opera, e lui commentò sprezzante: «un po’ presuntuoso, non crede?» Mentre scrivo questa lettera, lo guardo negli occhi, e suono meglio di Monk, meglio di Davis, meglio di Ray Charles. Quando stamperete il mio libro, perché so che lo stamperete, a tal punto siete avidi, vorrei che questa fosse l’introduzione: Lettera all’Editore. Ebbene, confesso di averlo colpito alla testa con il fermacarte a forma di libro, tante volte, non saprei dire quante e se riuscirò nel mio intento, tra qualche istante sarò spiaccicato a terra sul marciapiede che vedo dalla finestra. Ora, provate a dire che non sapevo quello che stessi facendo ma sono menzogne: io so tutto. Al mio più caro e vicino Editore, ora sai. Cordiali saluti, 11/09/2001 Alfonso Nitti
Illustrazione di Claudia Bernardi Da Il Corriere Quotidiano, Martedì 12 Novembre 2010: ATTENTATO A CARLO CONI: sventato durante la diretta serale un attentato dinamitardo ai danni del famoso conduttore televisivo. L’ordigno, assemblato con materiali di bassa qualità, era nascosto nella sala regia. Non sarebbe esploso a causa di un malfunzionamento. Non si esclude la pista terroristica, come suggeriscono le affermazioni dello stesso Coni: “Un personaggio scomodo come me ha molti nemici, e mi riferisco chiaramente anche ad una certa area politica. Per fortuna, c’è il sostegno del pubblico a darmi la forza di andare avanti.” APPARTAMENTO IN FIAMME: È morto arso vivo nel suo appartamento. Giornalista, aveva lavorato per un noto programma televisivo, prima di essere licenziato. Ai problemi lavorativi, si era aggiunta nell’ultimo periodo la fine della relazione con la compagna storica. Tutti elementi che fanno propendere per l’ipotesi del suicidio.
- ANNO V - 11/2015
A cura di Luca Facchini
Invidia s.f. dal lat. invidia, der. di invidere «guardare di traverso» 1. censurabile sentimento rivolto verso un’altrui proprietà; bilioso e poco corroborante paragone di qualità, capacità o destino | Fantozzi nei confronti di Calboni 2. intenzione congetturale di scambio di parti anatomiche: invidia del seno, invidia del pene 3. uno dei sentimenti più sinceri nella nostra degradata società | (burocr.) innocente atteggiamento emotivo di generazioni di bocconiani 4. becera allegrezza, enunciata alla maniera di V. Boskov: non è felice l'uomo che nessuno invidia 5. un culmine di malinconia e luoghi comuni per gente alla moda | la solenne ricerca, attraverso un demoniaco gioco degli specchi, di una tranquillità preconizzata 6. (bot.) tipo di insalata dalla sciagurata asprezza 7. (metall.) realizzato in metallo duro 8. il complesso del letterato di fronte ad un portafogli ricolmo di denaro – un portafogli non suo 9. (spor.) quella di Jorge Lorenzo nei confronti di Valentino Rossi
#26 INVIDIA
re 20.45 - L’invidia non esiste. È solo il nome ipocrita che i più fortunati danno alla fame di giustizia di chi sta peggio. Continuava a ripeterselo, mentre riempiva l’ennesimo bicchiere con quel poco che rimaneva della bottiglia di whisky. Era di buona fattura, decisamente sopra i suoi standard. Poi prese una sigaretta, e si lasciò cadere sul divano. Accese il televisore. Ormai mancava davvero poco. Ore 20.50 - Sono forse invidioso di Carlo Coni se preferisco il suo compenso di presentatore al mio assegno di disoccupazione? Il suo cazzo di loft in centro a Roma al mio monolocale in periferia? Le copertine dei settimanali al mio deprimente anonimato? Allora sì, sono invidioso, e lo odio con tutto me stesso. Mi pare il minimo, dopo quello che m’ha fatto. L’uomo, ormai più ubriaco che nervoso, lanciò uno sguardo all’orologio appeso al muro. Mancavano meno di dieci minuti. I titoli di coda del telegiornale stavano lasciando il posto alla pubblicità di un detersivo per piatti. Il programma sarebbe iniziato a breve. Stava davvero per succedere? Era davvero stato capace di tanto? In ogni caso, era ormai troppo tardi. Si alzò per andare in bagno. Non avrebbe rischiato di perdere neppure un secondo di quella che sarebbe stata la sua rivincita in diretta tv. Il trionfo della giustizia in prima serata. Ore 20.55 - Studia, lavora, studia, lavora. La gavetta nei peggiori quotidiani di provincia. Il fottuto articolo sulla giunta comunale che serve la polenta alla sagra del baccalà. Tirocinio non pagato. Pagato poco. Per adesso così, poi vediamo. Hai potenzialità ma è il periodo sbagliato. C’è un posto da conduttore, sembra fatto apposta per te. Forse. Quasi. C’era un posto. Tagli al personale. Niente di personale. Cercati un altro posto. C’ero così vicino. Quel posto era mio, mi era stato promesso. Maledetto Carlo Coni. Un curriculum mediocre, come tutto in lui, tranne il cognome. Lo stesso del padre, industriale e senatore. Uno degli azionisti di maggioranza della società che produce il programma. Come a volte bastano quattro lettere a garantirti una carriera splendente. Il whisky era finito, ma l’uomo sentiva la necessità di bere ancora. Si avvicinò, barcollando, al mobile dietro alla tv. Uno scaffale pieno di libri e scartoffie. Sull’ultimo ripiano, una bottiglia abbandonata imbevuta. Non ne ricordava l’esatto contenuto, ma non doveva essere troppo lontano dall’alcol puro. L’uomo si allungò sulle punte dei piedi riuscendo appena a sfiorarla, prima che le gambe gli cedessero ubriache, scoordinandolo bruscamente e costringendolo ad appoggiarsi al mobile per ritrovare l’equilibrio. Restò in piedi, a differenza della bottiglia, che cadde a terra, esplodendo in un cimitero di vetri, ed inzuppando il pavimento di alcol. Poi il silenzio venne rotto dalla sigla del programma. Ore 21.05 - Eccolo Carlo Coni, con quel suo sorriso ebete. Lo hanno preferito a me, dopo avermi imboccato per anni con false aspettative. Lasciato in mezzo a una strada. E dopo sei anni e mezzo mi ha mollato anche Giada. Ma tu continua pure ad ammiccare all’avvenente ospite con le tette di plastica, state per saltare in aria entrambi. Che poi, è stato più semplice del previsto: qualche grammo di cocaina per avere da quel tossico dell’impresa di pulizie una divisa da inserviente con le chiavi della stanza di regia e meno di un migliaio di euro per l’ordigno con detonatore a distanza più economico che si potesse trovare. Avrei dovuto risparmiare qualcosa per dell’altro whisky. Il primo servizio era ormai terminato, mentre Coni si preparava al consueto monologo della puntata, un’invettiva contro il nemico politico di turno, che ovviamente corrispondeva alla parte ostile a quella del padre. Ore 21.10 - È questo il momento. Tutto pronto per il boom di ascolti. 3…2…1… La corrente saltò. Saltò nel preciso istante in cui l’uomo aveva azionato il detonatore, pronto ad assistere alla rappresentazione di tutti i suoi problemi che scompare in tempo reale dalla faccia della terra. Bestemmiò, più volte e con più riferimenti zoologici. Poi si alzò, cercando nell’oscurità il televisore. Si piegò, per controllare che non fosse solamente un problema dell’apparecchio, magari un cavo staccato. Niente, tutto era al suo posto. Urlò rabbioso, poi accese una sigaretta, ed anche lo schermo si riaccese. Ma il presentatore era ancora lì: Pa bomba non era esplosa. E, mentre un Carlo Coni in perfetta salute infervorava il pubblico con le solite uscite populiste, la sigaretta cadeva dalla bocca dell’uomo, aperta in un’espressione di amara incredulità, atterrando proprio sulla macchia alcolica che ricopriva quella parte di stanza, ed esplodendo in un velo di fuoco, divampato in poco tempo in tutto l’appartamento, evidentemente poco ignifugo.
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Lunedì 11 Novembre 2010
IN VIDEO
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Lahar Magazine è una posterzine, una rivista in formato pieghevole che aperta diventa poster. È un progetto editoriale indipendente, auto-prodotto e no profit la cui idea e anima fondante è quella delle collaborazioni esterne. Ogni pubblicazione, ad uscita bimestrale, è monotematica; la redazione cura il processo produttivo, mentre la partecipazione al processo creativo dei contenuti editoriali, illustrativi e fotografici è completamente aperta a chiunque ne voglia far parte.
EDITORIALE
COS'È LAHAR MAGAZINE?
nvidia ed ipocrisia potrebbero essere elette a piaghe di questo ventunesimo secolo. Capita spesso, infatti, che le due vadano a braccetto, che si diano forza a vicenda generando mostri di inarrivabile frustrazione. Nel nostro Paese è in atto ormai da molti anni una campagna di risentimento verso chi eccelle basata sui sempreverdi capisaldi dell’invidia tricolore: i conoscenti, i soldi, la posizione geografica. Ogniqualvolta un individuo riesce a raggiungere il podio, la vetta più alta di qualsiasi scala competitiva, scatta inesorabile il meccanismo di autodifesa personale. “Eh, ma quello c’ha l’amico giusto...”, “Chissà dove ha trovato i soldi...”, o il mai dimenticato “Chissà con quanti è andata a letto!” nel caso trattasi di eccellenza femminile. L’invidia è nata con l’umanità e con essa morirà. Lucifero prima di noi fu il Grande Invidioso, e ne pagò caro prezzo venendo scaraventato in fondo al Mondo. Invidiare fa parte del nostro essere deboli, nel nostro vivere al meglio delle nostre possibilità umane. Nulla deve essere incriminato ad un invidioso. Il peccato sta nel vivere questo sentimento con astio e risentimento nei confronti di chi possa aver meritato il risultato conseguito, invidiare in modo ipocrita senza provare ad eccellere in prima persona o, ancor peggio, di soffermarsi solamente sulla fortuna, se così vogliamo chiamarla, di un qualcuno senza però scendere nel dettaglio dell’individuo invidiato, senza analizzarne il background, come lo definirebbe un sociologo. Dunque giù ad invidiare e attaccare le orde di migranti che attraccano alle nostre coste in cerca di salvezza, giù ad offenderli, a cavalcare l’onda del populismo su questi benedetti 50€ che nessuno mai, ci scommetterei, ha visto un negro prenderli, a blaterare sugli hotel a cinque stelle in cui essi alloggerebbero, ad accusarli perfino di rubarci il futuro. Mi chiedo se tu che tanto ti riempi la bocca di questo odio razziale mosso da una presunta invidia, faresti il manovale nei campi per qualche euro l’ora, se staresti giorni interi per mare senza una garanzia, se scapperesti dal tuo Paese martoriato dalla guerra e dalle bombe, o se codardamente moriresti sotto le macerie. Ad invidiare ci vuole davvero un attimo, a cercare di farsi invidiare molto di più. Altro su deliri di onnipotenza, bestiali gelosie e sentimenti di irrazionale confronto nelle prossime pagine di questo ventiseiesimo numero di Lahar Magazine. Buona lettura! Diego Pontarolo
Giuseppe Sambataro
l 17 marzo è St. Patrick's Day ed è il mio giorno preferito perché vorrei essere Patrick Bateman. Essere Patrick Bateman è proprio il mio sogno, perché può fare quello che vuole e nessuno gli dice nulla, anche quando si scopa le prostitute e le fa esplodere le tette e le mangia la faccia. Essere Patrick Bateman significa che sei proprio figo perché nel film sei Christian Bale. Solo che Christian Bale ha dovuto studiare e lavorare per diventare Patrick Bateman, invece Patrick Bateman no, perché lo è già. Significa che sei nato pieno di soldi e che se l'azienda o la banca o non so bene cosa, perché dal romanzo non l'ho capito, ma quella cosa lì è di tuo padre, tu sei nato vicepresidente. Se io me la prendo con un frocio perché ci prova e lo minaccio con un coltello in mezzo alla strada, poi quello chiama la polizia e io
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finisco nei casini. A Patrick Bateman non succede: il frocio si innamora ancora di più di lui e in realtà tutti gli vogliono bene e lo amano; anche la sua ragazza drogata bipolare che non sa cucinare il sushi e la sua amante drogata e un po' puttana. E quando Patrick Bateman mangia il sushi, mangia davvero il sushi, perché il mondo di Patrick Bateman non è come il nostro e il sushi è ancora quel cibo chic e costoso per cui non paghi dieci euro a pranzo e ne mangi quanto ne vuoi. E lui è figo perché il sushi è un cibo costoso chic e lui lo lascia nel piatto perché in fondo fa schifo, tutto crudo e molliccio e viscido come una faccia scorticata con un pelapatate. Essere Patrick Bateman è proprio una fortuna, perché Patrick Bateman non esiste, Patrick Bateman è tutti nel romanzo e un po' meno di tutti nel film e io vorrei essere tutti e non esistere. Patrick Bateman uccide tutti, forse uccide anche se stesso, fa esplodere le auto della polizia, lo inseguono con l'elicottero, si scopa solo bionde strafighe, al massimo castano chiaro e allora s'incazza, uccide le prostitute e i colleghi. Vorrei essere Patrick Bateman nel mondo di Patrick Bateman, perché nel mio mondo io ci provo, ma è difficile, perché non posso ancora uccidere i miei colleghi e devo limitarmi ai cani e ai cani non puoi far esplodere le tette e se li rincorri con una motosega la gente per strada ti guarda e ti sputa addosso e chiama la Protezione Animali e, quando scoprono che una volta hai provato a uccidere una prostituta senza nemmeno mangiarla, devi cambiare città e lavoro e nome e i tuoi nuovi colleghi li vuoi uccidere più di quelli vecchi. Vaffanculo Patrick Bateman.
Alessio Posar
ESSERE PATRICK BATEMAN
Patrick Bateman è tutti nel romanzo e un po' meno di tutti nel film e io vorrei essere tutti e non esistere
COME COLLABORARE: Seguendo l'argomento proposto invia un tuo scritto, una tua illustrazione o una tua foto. Le migliori opere che perverranno in redazione entro le 23:59 del 27/12/2015, verranno pubblicate nel sito e quelle che si distingueranno maggiormente troveranno il loro spazio sul cartaceo. Per informazioni più dettagliate consulta la sezione “Collabora” nel nostro sito: www.laharmagazine.com. Nel prossimo numero di Lahar Magazine #27 si parlerà di: AVARIZIA
IN QUESTO NUMERO: Barberina Bala Tema, Claudia Bernardi, Andrea Cafarella, Enrico Casetta, Noemi Dalla Vecchia, Norma Nardi, Claudia Oldani, Tsuri Peccatore, Alessio Posar, Giuseppe Sambataro, Marco Valle IN COPERTINA: Anna Sandri
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