SOMMARIO Incipit d'autore Bibbia di Gerusalemme
Racconto d'autore Scrivere Testo di Grazia Verasani
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La numero 7 Testo di Sandro Cecchin
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La città non è più la stessa Testo di Adriano Marchetti
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Apparenze Testo di Andrea Tinterri
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DDT. Disordinati Desideri Temporanei Testo di Elvis Crotti
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VICE DIRETTORE Guido Conti
Colori Testo di Daniela Raimondi
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ORGANIZZAZIONE E COORDINAMENTO Mariella Toscani - Responsabile Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia
Là fuori Testo di Luigi Casa
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REDAZIONE Silvia Bia, Enrico Cantino, Luigi Casa, Simona De Blasio, Lucia Gambetta, Armando Minuz, Federica Pasqualetti, Federica Sassi, Denis Zuliani
Il nome indiano Testo di Erika Morgagni
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RELAZIONI ESTERNE Roberta Gatti
Matin Chagrin Testo di Marco Astolfi
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Ruina Testo di Pietro Presti
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Recuperato Testo di Alberto Crepaldi
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Oggi no Testo di Andrea Cirillo
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Scatto di copertina Alessandra Carloni
DIRETTORE Massimo Carta
IDEAZIONE GRAFICA Alessandro Berti
All'Inizio c'era un pò di casino... Testo di Enrico Cantino
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Coniugare Forma e Sostanza Testo di Massimo Carta
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Biografie
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MUP
E D I T O R E
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REALIZZAZIONE Simone Pellicelli STAMPA Mattioli1885 - Fidenza (Parma)
RUBRICHE
Monte Università Parma
CHI SIAMO
PROMOZIONE E DISTRIBUZIONE PDE - Promozione Distribuzione Editoriale LALUNADITRAVERSO Anno 6 - Numero 15 Monte Università Parma Editore - Vicolo al Leon d’Oro, 6 43100 Parma - www.lalunaditraverso.it INFORMAZIONI Per collaborare alla rivista scrivi all'indirizzo redazione@lalunaditraverso.it oppure telefona all’Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia (via Repubblica, 29 - Palazzo Pigorini 43100 Parma, giovani@comune.parma.it tel. 0521/384469-70).
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ERRATA CORRIGE Anno 6 n°15 (2006) a pag. 13, 14, 15 nel racconto “Carlo II” di Pietro Iannibelli la prima e l’ultima frase sono da considerarsi in corsivo. Mentre a pag. 30, 31 nel racconto “Vicini di casa” di Teresa Regna i dialoghi fra i due extraterrestri sono da intendersi in corsivo.
Il giudizio e il lavoro editoriale della redazione sono insindacabili e accettati implicitamente. Gli autori pubblicati riceveranno due copie in omaggio. La Luna di Traverso è sostenuta da Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia e Assessorato ai Servizi Sociali e alle Politiche di Parità del Comune di Parma.
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Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia Comune di Parma
Immaginiamo questo punto come un luogo in cui vi è sufficiente innovazione da dare vitalità al sistema, sufficiente stabilità da impedirgli di precipitare nell’anarchia. È una zona di conflitto e di scompiglio dove vecchio e nuovo si scontrano in continuazione. Michael Crichton Il mondo perduto
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Il Caos, nella mitologia greca, è lo stato primordiale di esistenza da cui emersero gli dei. Ma da qualche decennio scienziati di diverse discipline stanno scoprendo che dietro il caos c’è in realtà un ordine nascosto, che dà origine a feIllustrazione di Umberto Chiodi nomeni estremamente complessi a partire da regole molto semplici. Oggi è considerato una dimensione retta da leggi non definibili,in cui il concetto di disordine è inteso come complessità. La teoria del caos è nata quando non c’erano strumenti per spiegare gli aspetti irregolari ed incostanti della natura, ma oggi può essere individuato unicamente come un ordine così complesso da sfuggire alla percezione e alla comprensione umana. Un ordine con una logica inestricabile, dove le regole dell’antica idea di armonia platonica non sono più riscontrabili. Al naufragio nel mare del caos, al perdersi nei labirinti del mondo moderno senza cercare una via di uscita negli anni in cui si affermavano le neoavanguardie, si è opposto un autore come Italo Calvino, la cui esperienza letteraria si è sempre configurata all’insegna del logos contro il caos, della ragione contro l’irrazionalità. Per Calvino la vera sfida è un cammino inverso alla non significazione. La letteratura e la cultura in generale non possono sfuggire al caos , cioè al labirinto, devono definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita. Deve essere salvata una letteratura che sfida il labirinto, distinta da una letteratura della resa al labirinto. Alla base della X Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo, tenutasi a Sarajevo nel 2001, vi era il tema del Caos, ma ineludibilmente associato a quello della comunicazione come obiettivo cui pervenire al termine del tunnel. Per vocazione anche LaLunaDiTraverso, fin dal suo primo concepirsi, ha sempre inteso liberarsi da un caos primigenio nel quale si trovava per motivi di nascita o di fraintendimento. In questi anni i protagonisti della Luna hanno infatti elaborato una personale resistenza al Caos, tentando di ipotizzare un cammino che punta alla riconquista di un’autenticità comunicativa e di una riqualificazione della ricerca narrativa. Ed ecco che da questo spazio che si propone come lente d’ingrandimento e strumento d’indagine dedicato alla “nuova scrittura”, si intravedono le tracce di un linguaggio che vuole fare presa sulle cose, che affronta e sperimenta il caos per la riconquista di un rapporto autentico tra lingua e realtà, tra parole e cose. Mariella Toscani Archivio Giovani Artisti di Parma e provincia Comune di Parma
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Carlo Emilio Gadda affermava: io scrivo barocco perché la realtà è barocca. Come dire che non poteva farne a meno. È una bella sberla al Libero Arbitrio. Pensiamoci. Perché viene in mente la storia della farfalla. Sono io a sognare di essere lei, o lei a sognare di essere me? Siamo stati noi della Luna a proporre Caos come bando, o è stato lui a farsi scegliere? Passaggio azzardato? Non credo. Paranoico, magari. Ma un po’ di mania di persecuzione non fa mai male. La sensazione di essere stati manipolati rimane. Un po’ come succede con i gatti. L’ultima parola spetta a loro. Noi siamo semplici comparse. Facciamo finta di niente, ma lo sappiamo benissimo. In fondo, basta non spargere la voce. Viviamo in mezzo al Caos. Lo percepiamo con ogni nostro senso. Compresi il sesto e il settimo. A volte ci spaventa. Altre ancora, ci diverte. Insomma, è indispensabile. Ne abbiamo bisogno per dimostrare a noi stessi che possiamo domarlo, Illustrazione di Sonia Marazia piegandolo alla nostra volontà. Poi scopriamo che in mano non teniamo un bel niente. Succede. Però fa male alla nostra anima. Poi ci chiediamo perché ci sono tanti depressi in giro. L’estensione del termine è ampia, onnicomprensiva. Abbiamo cercato di circoscrivere le innumerevoli accezioni, per fornire ai lettori/scrittori un minimo di percorso all’interno del quale muoversi senza perdere l’orientamento. Forse ci siamo riusciti. I racconti arrivati in redazione sono stati ben 122. Un dato confortante. Vuol dire che qualcuno ci segue. Che sei anni di vita a qualcosa sono serviti. Che a seminare, prima o poi, qualche frutto lo raccogli. Il risultato è nelle pagine che seguono. Visioni Caotiche. Interpretazioni che privilegiano l’interiorità o l’esteriorità. Abbiamo la scena di un incidente stradale. Una persona perfettamente normale che entra in un bar e si mette a sforacchiare i clienti. Un dialogo fra un’aragosta e un uomo artificiale sull’entropia. Un’efficace rappresentazione di caos informatico. Un ragazzo di nome Andrea che spiega a una ragazza di nome Mizzy cosa sia il Caos. Un fumatore “smarrito” in terra d’Irlanda. Un piccolo guerrigliero che si chiede cosa ci sia fuori dall’accampamento. Un bambino che senza la mamma non sa proprio come fare. Vorremmo anche menzionare tre piacevoli conferme. Tre autori presenti nella nostra antologia, I lunatici, che sono cresciuti e continuano a crescere insieme a noi. Daniela Raimondi ci offre le confuse percezioni di un io balbettante e confuso. Pietro Presti ci regala un ritratto incisivo e partecipe della sua città d’origine. Elvis Crotti, infine, ci mostra cosa succede quando il Caos entra a far parte della struttura stessa della narrazione. Proprio quest’ultimo racconto sarà analizzato dal nostro direttore Massimo Carta nella consueta “rubrica laboratorio”, appuntamento che ormai pensiamo possiate considerare qualcosa di veramente fisso. Non ci resta che invitarvi alla lettura di questo fascicolo. E ricordate quel che disse il grande Leo Longanesi: «Senta: le sue idee sono troppo chiare e precise. Ritorni un altro giorno, con più confusione in testa, con più estro».
EDITORIALE
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Incipit d'autore
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l Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male. E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo. Il Signore disse: «Sterminerò dalla terra l’uomo che ho creato: con l’uomo anche il bestiame e i rettili e gli uccelli del cielo, perché sono pentito d’averli fatti». […] Dio guardò la terra ed ecco essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra. Allora Dio disse a Noè: «È venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco, io li distruggerò insieme con la terra. Fatti un’arca di legno di cipresso; dividerai l’arca in scompartimenti e la spalmerai di bitume dentro e fuori. […] Ecco io manderò il diluvio, cioè le acque, sulla terra, per distruggere sotto il cielo ogni carne, in cui è alito di vita; quanto è sulla terra perirà. Ma con te io stabilisco la mia alleanza. Entrerai nell’arca tu e con te i tuoi figli, tua moglie e le mogli dei tuoi figli. Di quanto vive, di ogni carne, introdurrai nell’arca due di ogni specie, per conservarli in vita con te: siano maschio e femmina. Degli uccelli secondo la loro specie, del bestiame secondo la propria specie e di tutti i rettili della terra secondo la loro specie, due d’ognuna verranno con te, per essere conservati in vita […]». Noè eseguì tutto; come Dio gli aveva comandato, così egli fece. Il Signore disse a Noè: «Entra nell’arca tu con tutta la tua famiglia, perché ti ho visto giusto dinanzi a me in questa generazione. D’ogni animale mondo prendine con te sette paia, il maschio e la sua femmina; degli animali che non sono mondi un paio, il maschio e la sua femmina. Anche degli uccelli mondi del cielo, sette paia, maschio e femmina, per conservarne in vita la razza su tutta la terra. Perché tra sette giorni farò piovere sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti; sterminerò dalla terra ogni essere che ho fatto». Noè fece quanto il Signore gli aveva comandato. […] Dopo sette giorni, le acque del diluvio furono sopra la terra; nell’anno seicentesimo della vita di Noè, nel secondo mese, il diciassette del mese, proprio in quello stesso giorno, eruppero tutte le sorgenti del grande abisso e le cateratte del cielo si aprirono. Cadde la pioggia sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti. In quello stesso giorno entrò nell’arca Noè con i figli Sem, Cam e Iafet, la moglie di Noè, le tre mogli dei suoi tre figli: essi e tutti i viventi secondo la loro specie e tutto il bestiame secondo la sua specie e tutti i rettili che strisciano sulla terra secondo la loro specie, tutti i volatili secondo la loro specie, tutti gli uccelli, tutti gli esseri alati. Vennero dunque a Noè nell’arca, a due a due, di ogni carne in cui è il soffio di vita. Quelli che venivano, maschio e femmina d’ogni carne, entrarono come gli aveva comandato Dio: il Signore chiuse la porta dietro di lui. Il diluvio durò sulla terra quaranta giorni: le acque crebbero e sollevarono l’arca che si innalzò sulla terra. Le acque divennero poderose e crebbero molto sopra la terra e l’arca galleggiava sulle acque. Le acque si innalzarono sempre più sopra la terra e coprirono tutti i monti più alti che sono sotto tutto il cielo. Le acque superarono in altezza di quindici cubiti i monti che avevano ricoperto. Perì ogni essere vivente che si muove sulla terra, uccelli, bestiame e fiere e tutti gli esseri che brulicano sulla terra e tutti gli uomini. Ogni essere che ha un alito di vita nelle narici, cioè quanto era sulla terra asciutta morì. Così fu sterminato ogni essere che era sulla terra: con gli uomini, gli animali domestici, i rettili e gli uccelli del cielo; essi furono sterminati dalla terra e rimase solo Noè e chi stava con lui nell’arca. Le acque restarono alte sopra la terra centocinquanta giorni. La Bibbia di Gerusalemme, Centro Editoriale Dehoniano 1991 (decima edizione), Genesi 6,5-7,24
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7 Scatto di Emanuele Ferrari 7
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Racconto D'autore Testo di Grazia Verasani Scatto di Luca Compiani Le strade del centro mi lavorano ai fianchi, come nella boxe; mi sento minacciata di lato da bar, portoni, vetrate di negozi in cui intercetto la mia faccia stanca, passanti che cercano riparo dalla pioggia sotto i portici. Ho la sensazione di essere spinta, urtata, schiacciata come un tubetto di dentifricio; reagisco male alla socialità, ma è normale – mi dico – dopo una solitudine prolungata. Ho passato l’inverno nel mio buco a scrivere, e adesso muovere le gambe tra altre gambe, incrociare sguardi, aspettare un autobus, mi sembrano azioni forzate, quasi innaturali. Cammino a testa bassa, con le orecchie piene di rumore, curiosando appena negli ingressi degli hotel, giusto per vedere facce ancora più straniere, che parlano altre lingue passando i bagagli a un fattorino. Anche se in realtà, altri stranieri, quelli senza una casa e un lavoro, si mescolano ai miei concittadini, con le loro facce scure, scavate e sguardi indecifrabili. Ho voglia di un gelato, anche se piove e fa freddo. Per togliermi di dosso questo pensiero della folla e della solitudine, queste mie vite parallele che scorrono, una in mezzo alla gente e l’altra allo scrittoio. A volte temo che scrivere sia una missione che mi dimezza la vita, riducendola a mero materiale per appunti. A volte mi chiedo se ho ancora abbastanza olfatto per sentire gli odori di un mercato, dell’erba appena tagliata, di un distributore di benzina.
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Continuo a camminare senza registrare nulla; passaggi troppo veloci dentro i tiri incrociati della realtà, come le cose che sfrecciano dal finestrino di un treno. Attraverso Via Righi zigzagando tra ciurme di adolescenti che escono dalla Nutelleria e veicoli in transito. Avessi una casa in campagna, a quest’ora sarei lì; ad accendere il camino, a cuocere castagne e bere vino rosso, a espirare boccate di fumo su una sedia a dondolo, con gli occhi chiusi, togliendomi le scarpe per sgranchirmi i piedi. Invece sono qui, alla fermata del 13, vicino a una ragazza che ha i jeans bucati alle ginocchia e una sacca da viaggio da studentessa fuorisede, a un metro da un tizio che ha l’aria losca del rappresentante di videogiochi e a un paio di metri da un altro con l’eleganza posticcia dell’agente immobiliare o del venditore di station wagon. Qui, tra gli umori neri della gente, il torpore, i nodi in gola, gli appuntamenti saltati, i ritardi. Gente che si sorride, si parla. Gente che ha un sacco di cose da fare. Gente che tiene gli occhi a terra, e ognuno a rincorrere i suoi guai, come dice la canzone di Vasco Rossi. Guardo un vecchio signore uscire dal Baglioni a passo svelto, seguito da una donna non più giovane di lui, con un golfino rosa. Lui le dice sbuffando: «Tu es insupportable». Anche lei sbuffa, come se fosse un’offesa abituale. Ho voglia di rientrare nella mia tana, ma l’autobus ritarda. Tornare al mio armamentario: fogli, penne, posacenere; al silenzio netto, interrotto solo dal rumore della mie mandibole che sgranocchiano un cracker. Tornare a estraniarmi dal mondo, seduta davanti al computer; mica come gli scrittori di una volta, mica come Luigi Capuana che scriveva in piedi per ore davanti al leggio, con le gambe gonfie, le vene varicose! Be’, erano altri tempi… Io scrivo seduta su una poltrona di pelle girevole e, dalla finestra, quando alzo gli occhi, vedo il pettirosso sul davanzale, a caccia dei miei avanzi. L’ho chiamato Ernesto, il pettirosso, come fosse anche lui un libro a cui dare un titolo. Tornare e staccare il telefono: oggi Lui non chiamerà. Flirt platonico. Flirt intellettuale.
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Potrei scrivergli una e-mail. Anzi, no: una lettera. Cosa scriveva Emily Dickinson in una delle sue tante lettere, in una delle sue tante seduzioni a distanza? Volete sapere chi sono i miei compagni? Sono le colline, il tramonto del sole e un cane… Valgono molto più degli esseri umani, perché sanno e non parlano. Ma io dalla finestra non vedo né colline né tramonti né cani, solo il pettirosso Ernesto. Eccomi qui, a casa, dopo diciassette minuti esatti di autobus. Davanti al primo foglio di un lungo ingombrante block notes. Al computer in genere ci vado dopo, per la bella copia. Il foglio è bianco ma io non ho fretta. Il caffè è quasi pronto e sono di nuovo nella mia tana ordinata. Giro la testa di tre quarti verso la finestra e comincio a scrivere senza fissare il foglio. Lui ha una giacca blu aviazione, lo sguardo sognante da miope. Lei, piccola di statura, infagottata in un cappotto largo, si alza sulle punte dei piedi. È un bacio incerto, severo... Non va bene. Cancello tutto. Cancello e le do un nome francese: Monique. Ripeto questo nome a voce alta e sento l’effetto che fa. Monique. Scrivo: Monique cammina lentamente in rue…Ha arti disallenati alla corsa, le persone le sfuggono a un centimetro, prendono il largo mentre le dicono: «Sei tu che non vuoi prenderci, sei tu che non ci vuoi». Cancello di nuovo. Ci vuole un po’ di musica, penso. Tipo Tago Mago dei Can. Vecchio vinile del ‘71 col cantante urlatore Suzuki, la drum machine vivente Liebezerit, e il tastierista delle dissonanze Schmidt. Un po’ di suoni contorti e sovversivi magari mi aiuteranno a scrivere qualcosa di asciutto, di distaccato. Falla corta, mi dico. Scrivi e basta. Se no non ha senso, se no è meglio che ritorni per le strade, in mezzo agli altri, nel caos… Così scrivo. E il risultato, alla fine, è sempre lo stesso. Come in quella poesia di Denise Levertov: … e parlo, ridendo, dicendo, “io”, e “io”, volendo dire “Chiunque”. Nessuno.
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Era così morbida, la pioggia, che potevi strappare una nuvola al cielo e sentirne il profumo. Il grigio non conosceva altre sfumature per darmi riparo, ma volare non costava fatica. Così saltavo da un ombrello rosso ad uno verde, mi chinavo così basso che, dei passanti, vedevo solo l’acqua stampata su gambe, ginocchia e piedi. Era agosto: pioggia estiva e quello strano sapore di strada bollente che mi rendeva bellezza. Il libro dei poeti elettrici era fradicio e macchiato. I capelli, un nido di voglie. E le mani tenevano alto il loro profilo da pianista. Tirai un bel respiro. Accesi la numero 6 e lasciai ai polmoni l’umidità che si meritavano. Potevo essere ovunque. Di solito, in queste giornate facevo lunghi giri in macchina ascoltando Buckley e Joan, o restavo a casa, con il caffé, a spedire lettere, bevendo brandy. La solitudine che opprime, la solitudine che dilata, la solitudine che è una striscia di veleno che scorre sotto i piedi. Oggi non la sentivo. Perché era un giorno speciale, un appuntamento con la vita al quale non potevo rinunciare. Stava a me sentire gli atomi danzare e le ragazze sorridere nei caffé del centro. Ero deciso ad essere il protagonista e la comparsa di questo film. Sul Half Penny Bridge, al mattino, quando andavo al lavoro, quei diabolici canadesi stavano ancora suonando Save me. Questa era Dublino. E da qui partivano tutti i treni del mio futuro, dopo aver lasciato più volte l’Italia. Uno dei ragazzi si chiamava Dan. La sua barba sembrava una spugna. Lo chiamavano “Trendy”. Non nego che ci hanno provato anche con me, a darmi soprannomi buffi, da liceale, visti i miei capelli un po’ retrò, ma per loro ero solo Sand. Il mio nome, la mia storia. Tirai fuori la chitarra acustica, una D18 dell’86. Dan era un ottimo violinista e Rey, l’altro canadese, aveva un buon tocco di sax. Suonammo per circa due ore sotto la pioggia, bevendo Guinness. I soldi piovevano dalle mani di vecchie donne lussuose uscite dai centri estetici e commerciali del grande boom economico. Io ero ubriaco e vedevo la custodia riempirsi con i sorrisi più deficienti della storia irlandese. Qualcuno si sedeva, qualcuno ci credeva. I loro occhi brillavano e ci lasciavano, in regalo, portafogli, tabacco, biglietti, poesie. Giuro che ho visto gente stendersi sulle offerte in segno di benedizione. Mi piaceva quel gesto, quel cielo grigio e tutta la sua natura. Quasi 100 euro in due ore. È stato qualcosa di incredibile… Abbandonai l’appartamento vicino al porto e mi trasferii da loro per un paio di settimane. Era una casa tipica del quartiere, a mattoni rossi, piena di dischi, di stronzate come vuole ogni casa. Cucinavo sempre io, perché l’Italiano è… Ma non mi dispiaceva. Come non mi dispiaceva fare la spesa al mercato dai cinesi: le loro stanze, immense e buie, si perdevano in garage che vendevano l’inverosimile. L’abbinamento più strano che riesco a ricordare è pesce e aquiloni in stile mandarino. Abbiamo iniziato a suonare nei club e nei pub. Così pagavamo l’affitto. Alle birre pensava Dan: vendeva giornali due ore al mattino, per 40 euro. La vita, finalmente, scorreva liquida. Dopo anni duri e crisi incredibili, tutto era ritornato al suo posto. Sapevo come muovermi e trovavo una buona parola per ogni morso allo stomaco della vita che di quotidiano non aveva mai niente. In giro per le piazze, gente sempre nuova: studenti, barboni rosso Eire nelle loro lattine, pub mai stanchi di vivere la notte. C’era abbastanza amore da guardare le donne con malinconia e, più ti arricchivi di torba, più pensavi «non ritornerò». Perché ora tutto palpitava, qui, nei sax, nei gabbiani e nelle pozze della bella «bhaila atha cliath». Dan e Ray erano qui col Visa. Non amavano molto l’Irlanda, ma dicevano che era più facile del Canada. Non ho mai capito in che senso: loro si limitavano a suonare e bere. Erano simpatici, due simpatici canadesi e, forse, una vera amicizia. Ma non fu così semplice ridare al mondo l’immagine che sognavo da tempo. I fuggitivi lampi della mia vita erano destinati ancora ad un misero ritorno a 2000 km di distanza. Una sera, mentre tornavo a casa, trovai il sax di Ray pieno di sangue e Dan che piangeva in cucina, in ginocchio, sul tappetino viola notte con un biglietto in mano. Lo lessi: … E… SE DIO AVESSE UN CORPO SAPREI PRENDERLO PER MANO, MA INCHIODATO ALLA MORTE / LASCIO SOLO CHE LA PELLE SI SCALDI / COME RAMO / FINO AL LUOGO DEL CRANIO Rimasi così colpito da questa poesia scritta in punto di morte, che ancora oggi la porto con me, come adito di libertà, speranza e amara tristezza. Dan mi raccontò che suo fratello era malato di cancro e che gli ultimi giorni della sua vita voleva passarli nella terra di nascita, la verde Irlanda. Dove vive il micromondo, che Ray cantava nelle sue canzoni e che, finalmente, aveva raggiunto. Lo abbracciai e lo baciai in fronte. Ero sconvolto. Ray, che diavolo… la barba di Dan era umida e
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Testo di Sandro Cecchin Scatto di Maria Chiara Delfini
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si saturò anche del mio pianto. Poi la pellicola del film si srotolò………………………………… ……………………………………………………………………………………………………… ………………………………………………………viola……………………notte……………… ………………………………………………………pub………………………………………….. seme……………………………………………..o’Penny……………………………………………… …………………..Brandy……………………………………………………………poeti…………… …………………………………………………………….. elettrici…………………………………… ……………………………………….Agosto……………………………………………………..
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Era così morbida, la pioggia, che potevi strappare una nuvola al cielo e sentirne il profumo. Il grigio non conosceva altre sfumature per darmi riparo, ma volare non costava fatica. Così saltavo da un ombrello rosso ad uno verde, mi chinavo così basso che, dei passanti, vedevo solo l’acqua stampata su gambe, ginocchia e piedi. Era agosto: pioggia estiva e quello strano sapore di strada bollente che mi rendeva bellezza. Il libro dei poeti elettrici era fradicio e macchiato. I capelli, un nido di voglie. E le mani tenevano alto il loro profilo da pianista. Tirai un bel respiro. Accesi la numero 7 e lasciai ai polmoni l’umidità che si meritavano. All’aeroporto c’era il volo per Roma. Prima di salire sul bus 23 venni colto da una musica insolita, non nelle note ma nell’anima. Non resistetti all’impulso di stendermi nella custodia delle offerte. Non so il perché, ma era un segno di benedizione.
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Testo di Adriano Marchetti - Scatto di Claudia Aracci
La città non è più la stessa
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«La città non è più la stessa.» «Come?» «Ho detto che la città non è più la stessa», ripeté l’uomo girandosi verso di lui. «Ah», gli rispose il collega, «Trovane una migliore: questa è vecchia di secoli.» «Ma è vera». L’uomo tornò a fissare la linea concava dell’orizzonte, il suolo che s’inarcava a poco a poco, fino a rinchiudere il cielo artificiale. Attorno, in ogni direzione, c’era la città sparsa a grumi per colmare ogni spazio. «Non è più la stessa.» «L’habitat è vecchio. Per questo dobbiamo ripararlo. Te ne accorgi ora?» «Con voi postumani non si può parlare, ecco il punto». L’uomo sbuffò. Non aveva senso discuterne con un collega del genere. Era più adatto di lui per quei lavori, certo. Li avevano progettati apposta, in fondo. Arti agili ed equilibrio perfetto. «Siete voi umani ad essere arretrati», gli rispose. «Dovreste fare come noi ed andare oltre. È la vita che conta, non la sua forma. Capireste molte cose in più.» Sì, certo, pensò l’uomo. Andare oltre e ridursi così: un’aragosta di metallo coi tentacoli al posto delle braccia e un sintetizzatore come voce. Bell’affare, sicuro! «Sto dicendo che la città non funziona più come una volta», riprese con pazienza, osservando il suo collega che saldava agilmente due cavi. «Niente di tanto filosofico.» «Entropia.» «Come?» «Entropia». La voce dell’aragosta postumana modulò la parola in un sussurro. «Ogni sistema chiuso tende per sua natura al disordine. Lo sai anche tu, no? L’habitat è un sistema chiuso, quindi tende al disordine. Si guasta, in pratica.» «Certo che lo so, grazie», rispose l’uomo in un borbottio. «Ma non è solo la struttura a funzionare peggio. È l’aria che è cambiata, l’atmosfera. Non lo senti?» «Sarà l’impianto di riciclaggio. È vecchio pure quello.» «Crepa!» Si rimisero al lavoro, in silenzio. Inutile parlare con quei feticisti della tecnologia, si disse di nuovo. Non afferrano il senso reale del cambiamento. Sbirciò con la coda dell’occhio: un guscio di metallo che non aveva più nulla di umano. Solo il contenuto, forse. Forse. «Dì, secondo te perché mandano noi per la manutenzione?», gli chiese alla fine. «Non sarebbe più adatta una macchina? Le usano già dappertutto». L’aragosta ruotò un occhio verso di lui. «Perché è un lavoro pericoloso.» «Appunto». La voce rauca dell’uomo creava un contrasto bizzarro con quella flautata del collega. «È un lavoro per le macchine, non per gli uomini. Non le abbiamo costruite apposta, per toglierci i lavori pericolosi?» «Dal punto di vista filosofico. Dal punto di vista economico, invece, un uomo costa meno di una macchina. Così è più conveniente usare noi. Ci sono meno problemi», rispose l’aragosta, con calma. Constatava un fatto senza esprimere giudizi. «E poi è il nostro dovere.» «Il nostro dovere? Rischiare la pelle per risparmiare soldi?» «Noi siamo vivi», disse, come se bastasse a spiegare tutto. «Sì, e allora? Mi piacerebbe anche restarlo, se permetti. Invece sono qui a penzolare nel vuoto, per sistemare un paio di fili. Certo», aggiunse subito, per prevenire l’eventuale obiezione, «ho le prese di sicurezza, ma anche
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queste sono rottami. Guarda che schifo! È un miracolo se tengono ancora. Perché dovrebbe essere il mio dovere, starmene appollaiato quassù?» «Perché sei vivo», ripeté l’aragosta. «Scusa, ma non ti capisco.» «Tu che fai tanto il filosofo, dovresti saperlo meglio di me. Qual è il fine della vita?» «Risparmiami le menate neovitaliste, grazie. Ne sento già abbastanza, in giro.» «Parlo sul serio.» Si guardavano negli occhi, ora. Non un bello spettacolo, per l’umano. «Non è una menata neovitalista. È il senso del nostro essere qui, adesso. Ricordi l’entropia?» «Certo che me la ricordo. Non sai parlare d’altro!». La sua voce era brusca, la pazienza si era ormai esaurita. «Cosa c’entra l’entropia, stavolta?» «La vita è l’unica forza a contrapporsi all’entropia. Noi portiamo l’ordine. Questo è il nostro fine: la sistemazione del mondo. Costruiamo le cose, le ripariamo, ce ne prendiamo cura. Rubiamo terra al caos, se ti è più chiaro. Questo è il compito della vita.» «Un compito inutile. L’entropia non si inverte.» «Lo so, ma è sempre meglio lottare.» «Ed è per questo che ce ne stiamo quassù? Per combattere l’entropia?» «No», rispose l’aragosta, «Per riparare i fili.» L’uomo si girò, disgustato. Se ci teneva così tanto, alla vita, perché si era fatto ridurre così? Forse il suo guscio di metallo lo riparava meglio, dall’entropia? Tutti matti, i postumani, si disse. «La città non è più la stessa», ripeté, come a provocare il collega. Ottenne solo silenzio. Scrollando le spalle, ricominciò a saldare i cavi, nei punti in cui avevano ceduto. Lavorava in fretta, con rabbia: gesti secchi e sgraziati, a mostrare l’impazienza che lo dominava. Fu un movimento troppo brusco o forse l’usura naturale delle prese. Il sistema di sicurezza si allentò di colpo, liberando l’uomo dal suo abbraccio protettivo. Il resto lo fece la gravità artificiale, che l’habitat produceva con la rotazione attorno all’asse. Cadde lentamente, poi sempre più veloce, fino a sfracellarsi al suolo, duecento metri in basso. Era costato meno di una macchina, peccato non avesse concluso il lavoro prima di rompersi. «Un nuovo aumento dell’entropia», sussurrò l’aragosta, osservando la massa disordinata del corpo. Rialzò lo sguardo. «Beh, non tocca a me riordinarlo.» Continuando a perseguire il vero scopo della vita, con saggia pazienza, saldò altri due cavi.
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Apparenze Apparenze Apparenze Apparenze Testo di Andrea Tinterri Scatto di Marco Fortunato
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Una striscia lunga quanto un braccio, magra come le ossa meno spesse. Un filo di lamiera come se fosse un albero: i rami bianchi e ghiacciati; senza pelle. Sotto l’erba in plastica, una ciliegia rossa. Non è tempo di ciliegie: nessun frutto è maturo, tranne lei, rossa lampeggiante. Vicino, un caco rotto, duro all’esterno e vuoto dentro, spaccato il cuore. Una larga vallata, liscia, elastica, precipita e ritorna, grigia bruciata; macchiata rappresa. Tre scivoli per bambini, usurati dalle scarpe. Composizione rotta, caldi come se fossero in estate; deserti. Spezzati dal ferro quattro mulini bucati, nessun attrito, nessuna produttività; archeologia industriale senza anima. Un burrone, uno squarcio che non ne vedi la fine, la roccia giovane e acuta; qualche arbusto ossidato a lato, qualche tronco a crepare nel fondo. Distese di papaveri rallegrano la vista, uniformi ovunque, qualche macchia isolata quasi non si nota, nemmeno il verde del gambo si vede: solo papaveri rossi, bagnati di pioggia; fiore maledetto. Un cielo cupo, coperto di grigio chiaro, entra ed esce e si spacca per un raggio d’acciaio. Sassi, sassi, sassi, cristalli, piccole gemme grezze; nascondigli per capelli. Animali che si muovono ancora, insetti accartocciati, una galleria nera e stretta sporca di fuliggine; un papavero che nasce. Pioverà sole e fuoco, confonderà la terra, la sabbia, il vetro, il ferro; una bolla in espansione. Una cisterna piena di fumi, di sigarette vere sparse, di tutto quello che c’era in ordine; latrina nuova. Un lago dove guardare dietro, dove guardarsi alle spalle, un lago miracolosamente intatto, immobile, senza pesci, senza fauna, senza alghe. Una staccionata nera che lo circonda, ovale, regolare, aperta su un fianco; squarcio d’urto. Un moscone succhia il rosso: il papavero secco dopo pochi istanti di luce; uniforme al suolo. Canali spontanei vanno raffreddandosi al sole. Non più chiusi e meccanici, ma ancora unti; l’erba non sale. Una stoffa che da monte fa tutto il corso, segno di resa: lenzuolo bianco. La polizia stradale presto ripulirà tutto. Un incidente fuori carreggiata, d’auto caduta giù nel fosso. Un nuovo paesaggio a lato della strada, vicino all’asfalto. Taglieranno i papaveri, riempiranno il burrone, chiuderanno la galleria, asciugheranno il lago, raccoglieranno la ciliegia e il caco, abbatteranno i mulini e cesserà la pioggia; solo alcune macchie. Un lenzuolo bianco per la carne spaccata e papaveri rossi che lo sporcheranno. Un disordine non capito d’immagini sovrapposte. Le divise spoglieranno il fosso. Per recuperare due corpi morti.
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(Disordinati Desideri Temporanei)
Testo di Elvis Crotti Scatto di Alessandra Carloni 16
Vedila così: avrei voluto vivere tramortito dai colori. Disegnare notte e giorno, dipingere la luce del tramonto. Avrei voluto essere come Leonardo: ideare macchine formidabili, descrivere i movimenti del pianeta, tradurre in formule il volo degli uccelli. Avrei voluto raccontare la fragilità degli uomini. Scovare le parole giuste, restare chino sulla pagina bianca. Insistere. Invece, per dodici anni mi sono dedicato a te. L’ultimo mese l’ho trascorso sul divano, aspettando una tua telefonata. Senza cenare, il libro abbandonato per terra, il televisore acceso. Ogni sera, col telecomando scorrevo l’etere satellitare, tutto il mondo in una scatola: Tiziano Ferro, la crema rassodante Bilboa, i Kellogg’s Pops, la Jihad islamica, il G8, l’ultimo flirt di Paris Hilton, le smaglianti confezioni di cibo per cani, le occasioni imperdibili del Mercatone Uno, le parole di rammarico del Papa, 144-876429 Ascoltami Godere, il delirio di onnipotenza di Simona Ventura. IL REVOLVER È SUL TAVOLO Perché è questa la vita che ci tocca: discorsi insulsi e poco amore. Il cuore batte sottotono, il tempo
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scorre inesorabile, il computer sempre acceso. Viviamo rancorosi: spettegoliamo, scriviamo e-mail con parsimonia, ascoltiamo le inadeguate parole dei capi. Dieci ore barricati in ufficio, dieci ore sapendo che fuori c’è il mondo intero. Siamo cellule di un corpo in avanzato stato di decomposizione. Ci pagano per poter comprare, confusi da improbabili certezze: Non invecchierai mai; Sei libero di scegliere; Sarai sempre amato. IL PROIETTILE È CALIBRO 22 Sembriamo mosche stordite dal DDT. Persone invase da Disordinati Desideri Temporanei tipo: vorrei essere più tonico, scopare creature desiderabili, bagnarmi in una Jacuzzi, profumarmi con Dior, godermi una vacanza boreale, gustare un budino dimagrante, vestire Armani. Vorrei amarti senza soffrire, mangiare e non ingrassare, vivere senza pensare. Non essere costretto a svegliarmi alle sette ogni mattina, prepararmi il caffè ascoltando l’oroscopo, guardare dalla finestra l’accanirsi del traffico, incrociare impiegati tristi come me: sconfitti, ma consolati dal prossimo acquisto pianificato: l’I-Pod, un televisore al plasma, un paio di Tod’s. L’UOMO IMPUGNA IL REVOLVER Vedi la mano come trema. Il cuore comincia a battere come quello di un maratoneta al quarantesimo chilometro. Adesso, finalmente, sento l’odore del mio corpo, l’odore di mia madre, la consistenza della carne. Se mi guardassi allo specchio, ritroverei gli occhi increduli del ragazzino che sono stato. L’UOMO CARICA LA CARTUCCIA Da quando mi hai lasciato, ogni notte gioco alla roulette russa. Un proiettile contro cinque fori vuoti. È un gesto necessario Perché mi guardi così? Hai paura che mi uccida? E smettila di farmi gli occhi dolci! Non m’incanti, sai. Ah sì, certo: Luca ti avrà detto che sono disperato, che non esco più la sera. Immagino la sua e-mail. L’UOMO FA RULLARE IL TAMBURO «Luca non mi ha detto niente. Volevo sapere come stavi.» «Sto male. Ma, come prima, mi lasci solo. Non ti fai viva per un mese e poi…» «Ma tu non sei solo. Ci sono i tuoi amici, la scrittura, i libri.» «Cazzate.» «Claudio… non potevamo andare avanti così. Era tutto così triste. Adesso devi capire cosa è importante per te. Devi reagire.» «La nostra storia era importante per me. Punto.» «E la scrittura?» «Sì, la scrittura. Trascorro notti cercando fra i ricordi qualcosa di avvincente. Tu, invece, mi tradisci con il primo cretino conosciuto in Chat. Ti rendi conto? Non sapevi nemmeno che faccia avesse?» «È vero, ma poi ho avuto modo di conoscerlo.» «Sì, in tutti i sensi! Non è vero?!» «Ma noi non funzionavamo più. Perché non capisci?…» «No, mia cara: sei tu che non capisci. Tu e tutte le tue improbabili scuse. E adesso che mi vedi con un revolver in mano, hai paura che muoia. Non vuoi sentirti responsabile per il resto della vita. Ti piace sentirti figa, sempre in ordine, emancipata. Hai la testa piena di cazzate: Erica Jong, l’istinto femminile, i test di Marie Claire, i consigli del sessuologo a pagina 190. Ma sì, che ne sai tu del mio amore? Sei rimasta stordita da questo cretino che ti invia sms con la faccina fatta con la parentesi tonda e i due punti, che ti offre cene etniche, week-end in Costa Azzurra. Scommetto che ti stancherai anche di lui. Non durerete un anno.»
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L’UOMO APPOGGIA IL REVOLVER ALLA TEMPIA «Probabilmente hai ragione. Ma adesso abbassa quella pistola, ti prego…» «L’abbasso se mi prometti che smetti di vederlo.» «Non posso…» «Non mi dirai che sei innamorata? E di cosa? Della sua simpatia contagiosa, dei suoi regalini tanto carini, del suo cazzo?» «Non essere volgare.» «Rispondi!» «Sono innamorata e basta! Con lui mi diverto. Tu sei un orso. Sempre in casa. Sempre con i libri in mano. Sempre a criticare questo mondo, Milano, le mie amiche.» «Buone quelle. Immagino che saranno contente, adesso?» «Sono contente perché mi vedono felice.» «Felice?! Sei solo confusa. Se fossi felice non saresti lì, a casa tua, davanti ad una web-cam a parlare con me. Hai letto su Io Donna un articolo su come si combatte il senso di colpa?» «Che stronzo che sei…» «Sono in buona compagnia. Almeno io non vado in giro a scoparmi uomini divertenti. Dimmi la verità: per lui indossi completini frou frou e collant francesi?» «È questo che non capisci. Io non ti desideravo più.» «Stasera è tempo di rivelazioni. Per sei mesi non mi parla, esce con le amiche, torna ogni notte più tardi. Poi un giorno scompare, dicendo che è finita. Quando ti chiedevo: c’è qualcosa che non va? Abbassavi lo sguardo, trattenevi le lacrime, mi dicevi: non preoccuparti, passerà.» L’INDICE SFIORA IL GRILLETTO «Claudio, ascolta! Posa quella pistola, ti prego…» «Ascolta cosa? Sono trenta giorni che faccio questo gioco.» «Ti prego Claudio, non fare lo stupido…» «Non preoccuparti. Oggi ho statisticamente le stesse possibilità di morire di ieri.» «Ti prego, smettila!» «In fondo non sono niente per nessuno. Pensaci, cosa rimane di me se muoio? Niente!» «Ma non è una buona ragione per uccidersi…» «Dimmi: cosa mi rimane?» «Tutta la vita davanti: il mare, i libri, l’estate che verrà» «Riesci sempre ad essere così convincente, amore mio…» … BANG!
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Testo di Daniela Raimondi Scatto di Alessandra Carloni Non ho gambe, né braccia, né corpo. Un’onda mi sommerge. Sale dai piedi, lenta, e poi su, verso le ginocchia. Copre le cosce, i fianchi, continua fino alla punta delle dita. Bagna le mani, il viso; liquefa la mia smorfia di creta. Socchiudo le labbra, rilascio i muscoli. L’onda raggiunge i miei occhi; bagna la seta delle palpebre chiuse. E divento schiuma, un mare tiepido. Prima forma di vita in una placenta di penombre; di acque calme, cielo. Silenzio. Solo silenzio e una voce che mi trascina via; là, dove non voglio andare. Abbandono il corpo, la mia maschera di essiccata farina. Il morso si stacca dalle vene, dalle nervature azzurre. Qualcosa raschia il mio respiro. La voce è là in fondo. Mi parla. «Sei libera, adesso. Cammini in un bosco. Il bosco che tu hai conosciuto, quello che non hai mai più ritrovato… Ci sei arrivata?» «Sì…» «Continua, cammina ancora. Non fermarti. Lo hai ritrovato adesso, dopo tanto tempo. Senti che pace intorno? Stai bene. Vedi laggiù? C’è un’apertura; è nell’ombra, tra le foglie.» «Sì…» «Vai. Cammina verso quella luce. C’è uno spiazzo là in fondo, un prato. Lo vedi?… È quello che stavi cercando.» «…» «Sei nel prato, e là in fondo c’è un tavolo. Ti avvicini. C’è una scatola. Com’è la scatola? La vuoi aprire?» «Io…» «La vuoi aprire? Avanti, su: aprila.» «…» «Vedi cosa c’è dentro? Un puzzle: sono i pezzi di un puzzle che devi ricostruire.» «…» «Avanti, prendi in mano i pezzi. Prova a ricomporre l’immagine.» «…» «Ci stai provando?» «Non ci riesco…» «Prova ancora. Guarda i colori. Che colori sono?» «… Non hanno colori… i pezzi non hanno colori…» «Prova ancora, avanti.» «… Non ci riesco… Non ci riesco…» «Cosa c’è nel disegno?» «…» «Cosa c’è? Su, sforzati: prova a ricomporlo. È facile, se cominci.» «… Non posso…» «Cosa c’è, nel puzzle? Che colori vedi?» «… I pezzi sono… sono… bianchi. Non hanno colori. Non ci sono colori…» L’ansia è un cane dagli occhi gialli. La sua bava è di vetro e mi tagliuzza. La voce che mi parla non è più calma; mi spinge. Insiste. Vuole che ricomponga l’immagine. Mi soffoca. Ma io non posso. Davvero non ci riesco… «I colori, da brava: fatti aiutare dai colori…» Mi aggrappo ai braccioli della poltrona. Scoppio in lacrime. «Perché piangi?» «… Non lo so… Non lo so…» «Perché piangi?… Cos’hai visto, nel puzzle? Cosa c’è dentro?» «Non lo so… Davvero… Non vedo niente…»
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Stringo di più i braccioli della poltrona. Singhiozzo. Sto male, sto male… sto male, mio Dio…. «…» «Per oggi è sufficiente. Adesso tornerai indietro, lascerai il prato. Stai tornando?» «Sì…» «Conterò, e quando arriverò a dodici tu ti sveglierai. Uno, due, tre…» ∞ Fuori, di nuovo fuori! Respiro sotto il cielo dell’estate. Tremo. Cammino verso la fermata dell’autobus. Arriva ed è pieno di gente. Salgo, mi siedo in una delle ultime file. Chiudo gli occhi, appoggio la testa al finestrino. Sono esausta. Ricordo solo i pezzi bianchi del puzzle e quella fatica nera, dura, aggrappata a se stessa. Il mondo si frantuma in mille voci, nel rumore del motore, nello stridere dei freni. Prima, seconda. … Biglietti, prego… Semaforo. Ma sai cosa m’ha detto?… Curva, fermata. Scusi, questo posto è libero? Le porte si aprono, gente che sale, scende, respiri, bisbigli. Guarda, domani giuro che gliene dico quattro! Prima, acceleratore, seconda, terza, passaggio pedonale. Hai telefonato a Marta? Il motore sibila, una donna tossisce. Schizzi di colori si schiantano sul mio viso; spruzzi di luce negli occhi; lampi di rosso e di blu; bagliori di turchino, di verde e di giallo. Colori che si attaccano al finestrino, che leccano lo sporco dei vetri. Vogliono entrare. Hai comprato la margarina? Prima, seconda. Il motore rantola. Signora, il suo resto. Ah, grazie… Supermercato, alberi, panchine, lampioni, Shakespeare in Love. Un cane, un uomo curvo. Due occhi. La spazzatura rovesciata sul marciapiede. Ti ho detto di star fermo! Reggiseno Wonderbra. La luce bianca di giugno. Se non la smetti, stasera lo dico a tuo padre! Il motore ronza. Sciame di api sul rettilineo grigio, ronzio assordante verso il dirupo della coscienza. Cantilena stanca. Poi una voce… quella voce infantile… sembra… una ninna nanna. Di chi è quella voce?
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Una bambina che canta. Prima lontana, confusa; poi sempre più nitida, sempre di più. È una filastrocca che conosco, ma di chi è quella voce?... È mia! Sono io che canto! Io a sette, otto anni… Mi ero dimenticata di quella canzone… ma è la mia voce, quella; la voce di quand’ero una bimba. E adesso ritorna, canta, canta… L’emozione mi chiude la gola. Arancione. Rosso. Tremito turchese e viola. Vibrazione verde. Colori liquidi. Li respiro come un gas velenoso. Sussulto e mi copro il viso con le mani. «Signora, sta bene?» «Sì, non si preoccupi… non è niente». Ed è di nuovo nero, non vedo più nulla. Solo la mia voce di bambina che riempie questo buio. Piccola voce nata dall’oscurità del tempo. Ninna nanna. Canto di un mondo in bianco e nero. Mondo dimenticato. Senza voci, senza colori.
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★ lÀ fuori ★ Testo di Luigi Casa Illustrazione di Elisabetta Tomboletti
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Aleph prende lo straccio, nero e impregnato di grasso, lo distende sul palmo della mano e comincia a strofinare il metallo. Il kalashnikov, il “giocattolo”, come lo chiamano lui e Benj, deve essere sempre efficiente. «Se ti s’inceppa quando ne hai bisogno», non si stanca mai di ripetere loro Ari, «stai pure sicuro che sarai morto. E tu vuoi vivere, vero?» . Certo che lui e Benj volevano vivere. Non era per quello che avevano percorso a piedi quell’enorme distanza nella savana, senza mangiare o quasi e bevendo quella poca acqua sporca che trovavano? Ari aveva detto loro che erano centinaia di chilometri; lui e Benj non sapevano nemmeno che significassero quelle parole: centinaio e chilometro. Immaginavano che corrispondessero a quella serie infinita di passi, uno dietro l’altro, badando a non ferirsi i piedi, all’inizio, per poi fregarsene anche di quello, alla fine. Quando il villaggio era stato attaccato ed i loro genitori erano stati uccisi, lui e Benj si erano salvati solo perché stavano giocando a pallate di fango nel fiume. Avevano aspettato che venisse buio, poi, nella luce rossastra del villaggio incendiato, avevano trovato il coraggio di uscire dall’acqua e fuggire, nudi com’erano. Lontano dal sentiero, lontano dalle piste degli animali, lontano da quelle belve ubriache molto più pericolose dei leoni. Avevano camminato per giorni, perdendo il conto delle albe e dei tramonti. Erano quelli i due momenti in cui si muovevano, per evitare l’inferno di quella luce abbacinante e il terrore del buio, pieno di rumori e odori spaventosi. Avevano incontrato altri bambini come loro – nudi, impauriti e disperati – e avevano preso a camminare assieme, senza parlare, senza nemmeno sapere dove stavano andando. In diciotto avevano raggiunto il fiume, quell’altro, quello più grande, pericoloso e invalicabile. Sette erano «rimasti indietro», come diceva Benj… un altro modo per dire che si erano accasciati sul terreno senza più rialzarsi. Per fortuna avevano incontrato Ari. Era arrivato su di un camion con il cassone coperto da un telone verde sfilacciato. Loro erano così stanchi che non avevano nemmeno avuto la forza di scappare. Lui, Aleph, si era seduto per terra e avrebbe pianto, se avesse avuto ancora delle lacrime. Il camion si era fermato a pochi metri da lui e Ari era sceso in silenzio. Nessuno parlava, forse perché il parlare era qualcosa che fanno gli esseri umani, e loro non lo erano più. Ari si era chinato, aveva allungato una mano, gli aveva sollevato il mento, lo aveva guardato negli occhi. «Perché non scappi?», gli aveva chiesto. «A che serve? Tu hai il camion, tu hai la benzina, tu hai mangiato e bevuto. Mi prenderesti prima del tempo di un respiro». Ari aveva sorriso svelando due denti d’oro, uno sopra e uno sotto: «Sei coraggioso e intelligente. Vuoi venire con me?» Aleph aveva esitato solo un istante. «Solo se può venire anche Benj», aveva detto con tono di sfida. «Ok». Li aveva fatti salire sul cassone del camion ed erano partiti. Ari raccoglieva bambini come loro. Bambini che avevano forza e coraggio, che erano sopravvissuti, bambini che sapevano cos’era l’odio per gli assassini dei loro cari. Ari li sfamava. Ari li addestrava. Il terzo giorno, aveva messo loro in mano il kalashnikov. «Pesa poco più di un cagnolino, vero? Imparate ad amarlo come se fosse veramente il vostro cucciolo, il vostro giocattolo. Vi salverà la vita!». Aleph e Benj preferivano chiamarlo solo giocattolo, perché era duro e levigato, e quando non sparava era freddo. Un cucciolo, invece, è caldo. Aleph finisce di strofinare il metallo con lo straccio. Quanti anni sono passati? Devono essere tre, perché ora ne ha undici. Ari ha insegnato loro anche a contare. È utile: bisogna saper dire quanti nemici stanno nascosti dietro la curva di un sentiero, bisogna saper dire quanti di loro sono morti… Lui e Benj avevano scoperto che nel posto dove Ari li aveva portati erano in tanti, almeno quaran-
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ta ragazzini. A nessuno di loro piaceva raccontare da dove venivano, Aleph lo aveva capito subito. Ognuno di loro aveva un’arma. Lui e Benj erano passati dai barattoli agli esseri umani in poche settimane: Ari era in gamba, come istruttore. A volte dolce, a volte duro, violento, punitivo, terrorizzante. Ma questo è un mondo fatto così: devi essere forte, devi essere intelligente. Perdonare non serve, ti mette solo nei guai. Mica perdona, il nemico. E dove vive, il nemico? Là fuori. Là fuori, lontano dall’accampamento, si dice che ci siano città, grandi dieci, venti, cento volte il villaggio. Ci sono foreste, altri fiumi, laghi e perfino un lago così enorme che il sole ci affonda dentro, la sera. «È un mondo pericoloso, così pericoloso che nemmeno il kalashnikov ti può salvare», ripeteva Ari davanti al fuoco. «Là puoi morire senza che nemmeno te ne accorgi. Non c’è bisogno di pallottole, o di coltelli. Non ci sono bestie feroci, perché sono state già tutte uccise da quella più feroce di tutte… Là fuori c’è il caos!» Dei passi, nel corridoio della camerata. Benj compare nel vano della porta senza battente: «Sono già tutti a mangiare. Non vieni?» Benj accompagna la domanda con un movimento della testa, piegando il collo da una parte e spalancando gli occhi. Ha sempre fatto così. Fin da quando erano bambini.
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I segreti sono come vestiti che cadono da un corpo nudo. E vanno mantenuti, come le amanti o i figli illegittimi. Quando ti ho incontrato la prima volta mi hai detto la mia vita è un casino, lasciami perdere. Ti eri appena rifatta le labbra e io ho pensato che forse il silicone ti aveva fatto una promessa, ti aveva riempito le labbra di segreti che non mi avresti mai svelato. E allora io te ne ho fatta subito una, di promessa. Non mi innamorerò mai di una donna come te. Perché le promesse saziano, sono come cibi dell’anima con troppe calorie. Te la fanno ingrassare, l’anima, le promesse. Tu non lo sai, ma ti avevo seguita, prima. Avevo seguito il suono dei tuoi tacchi sull’asfalto ed ero arrivato a te, seduta al tavolino di un bar del centro, con un maglione di lana nero. C’erano trenta gradi all’ombra. Non ti nascondevi, in quel maglione. Mantenevi l’ordine, che è diverso. Perché è un casino? Ti ho chiesto mentre ti guardavo sfogliare un quotidiano vecchio di tre giorni sporco di crema pasticcera. Perché non c’è niente che sia al posto giusto. Mi piaceva quella parola sulla tua bocca rifatta. Il posto. L’hai detto come se fosse un luogo, una casa, un cancello, un negozio, una camera da letto con i poster dei Rolling Stones. Ho capito: brutte esperienze, ti ho detto con una sigaretta fra le labbra che non avevo intenzione di accendere. Ma non era quello che avevo pensato. È che all’ordine – della vita, intendo – io non ci ho mai creduto. Credo negli ordini della gente, a quelli dei generali quando gridano attenti e poi camminano davanti ai militari con uno sguardo di sfida. A quegli ordini lì, credo. Ma non nell’ordine. L’ordine è un punto, non un posto. Sì, brutte esperienze; uomini da una notte e via. Un figlio che non so nemmeno di chi sia. Avrei voluto dirti che i posti non esistono, che i luoghi sono ordinati solo in fotografia, ripresi da lontano, quando sembrano solo un punto di fuga e basta. Il posto ordinato è un luogo della mente, una fotografia ben incorniciata che tutti hanno in testa, incastrata tra un neurone e un’idea. Io non ho avventure da una notte e via e non ho figli. Era una bugia, ovviamente. Avevo avuto Testo di Erika Morgagni molte donne, le avevo disordiScatto di Arianna Rizzitelli nate tra le lenzuola bianche di un motel con l’insegna fulminata. Bene. Mi offri una sigaretta? Ti ho passato il pacchetto di Marlboro che tenevo in tasca e ti ho guardata da vicino come se fossi un quadro appena restaurato con una buona dose di silicone e un po’ di tabacco. Avrei voluto dirti che quando ordini qualcosa, tutto quello che c’è, intorno, diventa disordinato. Che mentre tu ordinavi il tuo bel viso con il silicone facevi di me il tuo disordine, che mentre mia moglie preparava una torta perfetta con uno stampo a forma di stella metteva lì tutto l’ordine di cui era capace, nella torta. E più la torta era ordinata più la cucina diventava disordinata. Come hai detto che ti chiami? Ho pensato di dirti che il mio nome non mi piaceva, che gli unici nomi veramente belli erano quelli delle tribù indiane tipo Acqua che cade da una sorgente luminosa. Perché quelli non erano nomi, erano immagini vocali. Che i nomi dovrebbero fare ordine e invece ti disordinano dentro. Ti fanno ripetere sempre le stesse sillabe per una vita intera, suonano sempre le stesse note con le tue corde vocali. Andrea, mi sono limitato a dirti. Ti ho stretto la mano troppo forte e mi sono rimesso in bocca la sigaretta spenta. Io sono Mizzy. Non era il tuo vero nome, credo. Tanto non ti avrei mai chiamata. Ti avrei guardata e mi sarei lasciato disordinare da te, tutta la sera. Senza nemmeno dirti che all’ordine non ci credevo. Che l’ordine è un punto su un foglio scarabocchiato, l’inquadratura che fai con la macchina fotografica per prendere la montagna e lasciare fuori l’inceneritore che c’è di fianco. Cosa fai nella vita, Andrea? Ero sposato con due figli e lavoravo come agente di commercio. Ma non te l’avrei detto questo, Mizzy. Perché presentarsi è un po’ come darsi un ordine. È come diventare il punto sul foglio scarabocchiato. Non faccio nulla d’importante. Volevo dirtelo, che ero qualcuno, che mi chiamavo Andrea ma Acqua che cade da una sorgente luminosa mi piaceva molto di più, che l’ordine e il disordine si annullano. Che se ordini la tua vita disordini quello che c’è intorno e allora finisci per vivere in un luogo senza direzione, in una cucina senza lavastoviglie, in una camera con il letto da rifare, dietro ad un cancello che devi richiudere ogni sera. Non dobbiamo scegliere tra ordine e disordine, Mizzy. Dobbiamo scegliere il caos. Perché il caos io lo sogno spesso. È un’esplosione, non triste come quella di una bomba. E prima del Big Bang c’era solo il caos e tutte le particelle erano mescolate e quelle particelle lì un nome ancora non c’e l’avevano, non erano ancora atomi con un nucleo. Erano solo sostanze con la sorpresa della vita dentro. E il caos è come un uovo
Il indiano nome
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di Pasqua con una sorpresa sconosciuta e tu lo sbatti tra le mani e ci appoggi un orecchio sopra ma tanto non capisci cosa c’è. È bello perché si muove, il caos, non perché è ordinato. Quindi sei soddisfatto della tua vita? Avevi preso un caffè e aspettavi che si raffreddasse, prima di berlo con un sorso solo. Ero soddisfatto delle mie notti. Del caos che non chiama le cose per nome. Perché il caos è diverso dal disordine. Il disordine lo vedi, il caos lo senti, anche. Perché è come un’esplosione con l’ordine della vita, dentro. E il disordine non cambia le cose, le mette solo dove non devono essere. Il caos invece non le scompone solo, le cose. Le fa esplodere e rinascere e le chiama con un altro nome. È un ordine che viene da dentro le cose, il caos. Abbastanza. Ti ho risposto con un’alzata di spalle mentre continuavo a guardare le tue labbra rifatte, che mi facevano rimbalzare lo stomaco, come un pallone. Posso offrirti un altro caffè? Tu non hai detto niente e io ho alzato la mano per chiamare il cameriere. Non te lo potevo spiegare, Mizzy, che il caos ha lo stesso suono di una sorpresa che inizia a vivere appena la scuoti, tra le pareti di cioccolato dell’uovo di Pasqua. Come le particelle senza nome che si sono scontrate e sono esplose e hanno creato tutto. L’universo. Che anche il caos ha il suo ordine ma non è un punto è un disegno intero, il caos. Un disegno disordinato fatto di tanti punti ordinati. E anche il caos dovrebbe averlo, un nome indiano. Tipo Esplosione di vita che ti fa dimenticare il nome delle cose.
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Testo di Marco Astolfi Scatto di Arianna Ricatto
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Di solito sopra il letto c’è la Madonna e un ramo d’ulivo. Ma ora che mamma se n’è andata c’è un albero morto fatto di crepe. Ha radici dietro il cuscino e rami fino al soffitto, che se solo gratti con l’unghia vengono via pezzetti e cadono a terra o sul materasso. Sull’albero morto nel muro non ci sono uccelli, ma cinque mele cotte che cambiano ramo. Un giorno saranno mature e cadranno sul letto. A scuola sopra la cattedra c’è Gesù in croce. Si sporge in avanti tenuto dai chiodi e guarda i capelli della maestra. Annusa l’odore di lacca o forse le vuole sputare addosso. «Bambini, preghiamo! Mani giunte, schiena dritta, piedi uniti e, mi raccomando, guardate Gesù! Perché Gesù vi vuole bene e sempre vi guarda». La maestra non guarda Gesù, guarda noi che guardiamo Gesù e forse lo vede riflesso nei nostri occhi, ma solo se siamo buoni. Quando qualcuno si veste di nero diciamo l’eterno riposo: una volta è toccato anche a me, ma non l’ho imparato a memoria. Il 2 novembre si va a messa con un crisantemo. Il mercoledì di Quaresima si prende la cenere in testa e non si gioca più per paura di farla cadere. Sopra la lavagna c’è il Presidente della Repubblica. A lui non diciamo le preghiere. Solo Fratelli d’Italia ogni tanto. Alle carte geografiche non diciamo mai niente. Oggi ci sono le divisioni con la virgola e le frasi da completare nei cartoncini azzurri a difficoltà sette, ma io penso all’albero morto che aspetta sul muro di casa. «Maestra, vado in gabinetto: ho sangue dal naso». «Ma chi ti ha insegnato l’educazione? Non si fa così! Hai sbagliato! Prima alzi la mano, aspetti che la maestra ti chiami, e poi chiedi: “Signora maestra, posso andare al bagno per favore?” Ripeti!» «Signora maestra, po…» «Vai! Corri, che stai sporcando tutto il banco!» Cinque gocce rosse sul fazzoletto. In ambulatorio ci sono farfalle a forma di macchia e un quadro con un alberello: il tronco piccolo e storto è legato a un palo dritto con quattro giri di corda. L’ortopedia, c’è scritto, o l’arte di prevenire e correggere le deformità dei corpi nei bambini. «Spogliati! Piegati e tocca la punta dei piedi. Così, bravo!». Sul lettino c’è sempre un lenzuolo di carta. Le dita del dottore sono fredde. Bussano sulla schiena premono sulla pancia tastano in mezzo alle gambe. «Respira a bocca aperta. Adesso tossisci. Ti fa male qui? Ora dimmi la prima cosa che ti viene in mente: M come? Mamma Macchianera Morte N come? Nonna O come? Orco P come? Papà Punizione. Ho capito, va bene così». Da quando mamma non c’è dormiamo con la luce accesa, come le candele che non si spengono mai. Come l’amore di mamma che brucia ancora da qualche parte non so bene dove. Papà dorme, io tengo gli occhi aperti, anche se fanno male. Una volta ho sognato mamma: sta a letto, con la schiena appoggiata ai cuscini, non ha bocca, ma il pungiglione delle zanzare. Allatta cinque bolle di sangue e dice: «Guardate, piccole mie: è così che si fa». Io mi volto dall’altra parte, ma sento un rumore, come quando si succhia con la cannuccia alla fine del bicchiere. Però mille volte peggio. Da quando mamma non c’è non spegniamo mai la luce, come la fiamma perpetua dell’amore di Gesù che arde nel tabernacolo. O Gesù d’amore acceso, il tuo corpo lo mandiamo giù intero ogni domenica, il tuo sangue lo beve solo don Ado, poi pulisce la coppa e il fazzoletto sporco lo ripiega ben bene per la prossima volta. O mio caro e buon Gesù non sono degno di partecipare alla tua mensa, ma di’ soltanto: Ti voglio cullare cullare, posandoti sull’onda del mare del mare legandoti a un granello di sabbia… Da quando mamma non c’è il muro ha preso una malattia, come le zecche sul pelo dei cani e forse
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sta male tutta la casa. Parassiti, diceva la mamma sul libro di scuola: delle cose che succhiano il muro e quando io e papà dormiamo sul materasso senza lenzuola, loro vengono a dormire con noi. Forse succhiano il materasso, che ha fiori di petali ruvidi e macchie gialle a carta geografica... Papà, svegliati: guarda, si muovono! Papà prende una mela marcia a mani nude e la sbatte a terra. Poi la lascia là, sul pavimento, senza nemmeno pulire. Una bolla di sangue con zampe che tremano ancora. Le altre scappano sui rami più alti e ci guardano senza occhi. Papà dorme e già s’è messo a russare. Io vado in cucina. Papà c’è il fuoco! Ti avevo detto di non giocare coi cerini! L’albero morto è in fiamme. Le mele esplodono. Si seccano al muro come croste di sangue vecchio. Papà piscia sul fuoco, lo spegne e si addormenta sul materasso bagnato. Non apre la finestra, non butta via la cenere, non raschia l’intonaco. Papà dorme di nuovo. Io vado in camera mia. Sui muri della mia stanza sono rimasti solo chiodi. Maria Vergine è caduta sotto il letto. Bacia la polvere e fa gli occhi storti per guardare il pavimento. Pluto ha il vetro in pezzi, ma ride lo stesso, con la lingua che pende. Un giorno, tornato da scuola, nonna mi fa una sorpresa: «Guarda com’è in ordine la tua camera! Sei contento?» Hanno detto che ho avuto una crisi. Per terra c’è un groviglio di lenzuola, fogli strappati, vestiti, polistirolo, pezzi di lego, pennarelli, Barbapapà, tessere di puzzle, robot e altri giocattoli. La tapparella è bloccata, la tenda appesa solo a qualche gancio, le ante dell’armadio spalancate, i cassetti rovesciati. Se mamma fosse qui mi aiuterebbe a rimettere a posto, ma adesso che sono solo non so proprio da dove iniziare.
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RUINA Testo di Pietro Presti Scatto di Patrick Raimondi
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Si possono vedere grezze le sue ossa di cemento e tondini, per l’arsura, come in una lastra dei raggi. Scheletri di una città, la mia, che si accascia sulla sua piana materna come orfana di una madre morta, dopo averla partorita. Sembra una di quelle carcasse di vacche, senza più polpa, svuotate dalla dissenteria. Il suo colore giallo sovrabbondante ti dà davvero la sensazione di una pelle croccante, tesa come le foglie di tabacco lasciate asciugare, seccata al sole della disgrazia. ‘Na magaria tinta c’avia d’aviri, rì supra. Una città araba, spuntata e cresciuta come l’erba sirbaggia, secondo un ordine solo apparentemente anarchico, ma in realtà riconosciuto e accettato da tutti come la legge suprema di uno Stato Matrioska. Picchì cà ognunu si fa i fatti sua. Zitti! Comu ì musca. Le spiagge africane del lungomare e le serpi umane di un giugno soffocante, stretto alla gola, immobili e impotenti distese sulle sue dune, e nemmeno la possibilità d’un bagno in quelle acque, niuri, lordi e fitusi; pochi metri al largo, il relitto di una nave oramai tutta pirtusa pirtusa. Come una vecchia con una gonna tutta rusicata dai topi. E chissu è niente. Se allunghi l’occhio, alla fine della città, vedi stagliarsi nel cielo l’imponenza delle ciminiere del petrolchimico, quel mostro di ferro che non dorme né si spegne né si sta zitto mai. Con tutte quelle migliaia di lucine scintillanti, una città gemella cà di nuotti nun pari mancu accussì brutta, che quando viene il buio i ragazzi la guardano dalla tangenziale a vucca aperta… che assomiglia a New York nella sua grandezza. Tutta intarsiata di rotaie ondulanti intorno, che da lei si dipanano e parinu vipiri, scursuna avvilinati. C’aveva inquinato l’anima ancora prima di corromperci l’aria e l’acqua. Qualcuno scoprì che c’era il petrolio, sotto i nostri piedi. L’oru niuru. Minchia quannu ‘u sappiru tutti! Sono arrivati i soldi, gli appalti, i posti di lavoro, il ferro, la ferrovia, il progresso e, come una precisa conseguenza logica necessaria e inevitabile, ‘ri tangenti, i politici corrotti, ‘i minazzi, ‘i pistoli, i muorti ammazzati, ‘i tila bianchi ‘ntà li strati, i chianti di li veduvi, i funerali, la mafia. Gli americani sono sbarcati a Gela senza sparare nemmeno un colpo. ‘Namu misu d’accordo prima. Che i nostri morti ce li curiamo noi come i gerani sopra i balconi. Le vostre guerre andatevele a fare da qualche altra parte: a noi interessano solo le nostre. Hai voglia a calcare la nostra terra. Arabi, Greci, Romani, Grandi regni, Dittatori. Solo una cosa è certa: tra Scilla e Cariddi c’è come una maledizione, e dopo avere edificato le loro bellezze tutti se ne vanno come fossero cenere sparsa nel vento che tira sullo stretto, mentre noi restiamo, perché abbiamo capito che la storia ci ha fatto suo centro, ci gira intorno ed è inutile inseguirla. Ah, la Normandia fosse stata la Sicilia. Miraggio, una terra dove uomini si nascondono quarant’anni, a casa loro… Favola, quella di uomini che vivono dentro stalle con le bestie ma che con uno sguardo, un cenno, decidono leggi, sentenziano vita e morte e miracoli, e incanalano la storia dove vogliono che essa vada. Il 28 giugno dell’81 in quella città nascevo io, tra le urla d’amore di mia madre e le bestemmie della gente per via di quel caldo insopportabile. Mi diedero lo stesso nome di mio nonno. Che era come non sentirlo mai totalmente mio quel nome, almeno fino al giorno in cui l’ho salutato per l’ultima volta, steso al centro del salone della casa, freddo, rigido e bianco, tutto addobbato di fiori, circondato dalle anziane che fanno la veglia in rappresentazioni addolorate. Rimane la sua eredità tra le lettere del mio nome, il pensiero di essermi visto in lui come sarò da vecchio, la consapevolezza di sapere che un giorno gli assomiglierò più di quanto vorrei. Nel corpo e nell’animo. In lui, che ne aveva viste, io rivedevo la mia terra. S’era fatto una guerra di cui non gliene fregava niente, in Albania; s’era fatto fame e prigionia in Germania e a guerra finita s’era fatto due mesi e mezzo di cammino a piedi per tornare a casa, con un mucchio di lire nascoste dentro la borraccia che non valevano più un cazzo di niente. Ecco la storia della Sicilia nelle sue gambe che si allunga verso ogni direzione e che poi ritorna, troppo romantica per sopportare questo senso di lontananza, si tramanda di nome in nome, di padre in figlio, di nonno in nipote. Eccolo tornare, ecco il suo nome su di me e nessuna inutile modernità a smorzare questo passaggio di cose. Ed eccomi qui, lontano, a parlarvene come una prova vivente… perché è comu ‘u saggnu ca ti scurri rientra ‘i vene, e non te ne puoi liberare. Un testamento di cose: le macerie, le persone, l’aria che respiri, che hanno tutte lo stesso tono d’avvertimento. Niente può cambiare perché tutto è come è, penetrato come una certezza troppo in fondo alla terra, alla pelle, alla personalità della gente. Qui, dove si urla nei mercati e si fa casciara, si fanno processioni chini di genti, si prega e si bestemmia a voce alta, e le madri minacciano a squarciagola i figli che all’ora di cena sono ancora a giocare per strada. Alla fine, tutto scorre con una pace austera e dignitosa. Perché il caos non ci appartiene: è solo l’anima mossa da una legge diversa, è uno spasimo inconsolabile.
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Testo di Alberto Crepaldi Scatto di Elena Baila
DOCUMENTO WORLD RECUPERATO Verbum City / New Land / STAGNO di Benedetto Chip
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Mattina / Freddo / Il latte è acido colazione nello scarico / Il volume del televisore si alza Il nome giusto è Stagno / Il citofono / è G.G. – Hanno approvato il decreto 33 contro gli anti-telepati, aprimi. Non solo siamo disoccupati, ma anche banditi. Il Consiglio ha varato una nuova legge che porta all’eliminazione di tutti coloro che hanno poteri mentali che possono essere usati contro il governo. Anti-telepati, telepati dissidenti, pre-cognitivi ribelli. La libertà è solo un ricordo. È finita / NON POSSO APRIRE LA PORTA È BLOCCATA / Il volume del televisore si alza Stagno è con te / LA TV NON NE PARLA – La tv è loro, ne parleranno, vedrai, quando sarà il momento. Siamo accusati di tramare contro lo Stato, di essere seminatori di scontento, e di cospirare per una rivoluzione. Apri / NON POSSO / Sera / Solitudine / Motivetto / Sabbia Zen / CONCENTRAZIONE / Il volume del televisore si alza L’odore della vostra traspirazione vi isola dagli altri? Il deodorante Deo in versione spray oppure stick, con un’azione efficace per dieci giorni, porrà fine ai vostri timori e vi riporterà al centro di ogni festa. Innocuo se usato secondo le istruzioni in un coscienzioso programma di igiene del proprio corpo / Fuori c’è il Disordine ma se non dichiarato non esiste / Il bonsai è ormai senza foglie / Il telefono / CONCENTRAZIONE / non rispondo / Mattina / Tirare lo sciacquone dopo aver buttato il cadavere del pesce rosso / Campanello paura – Benedetto, sei in casa? Sono Anita / QUANTO TEMPO / È venuta a salvarmi – Ho bisogno del tuo aiuto. / AIUTO io ho bisogno di aiuto – Sei un anti-telepate. Puoi creare dei campi d’isolamento psichico e bloccare le onde esterne, devi salvare Frank. / FRANK – Mio marito. Temo sia sotto l’effetto di un agente esterno, il suo cervello è manovrato. Benedetto tu hai il più grande potere: sei libero da condizionamenti / NON L’HO SCELTO / e più che un dono è una maledizione / Il volume del televisore si alza Stagno è con te / Non si può rinnegare il proprio talento, soprattutto se rende bene / NON POSSO AIUTARTI – Ti pagheremo / NON POSSO MI CERCANO – Ti proteggeremo / LA PORTA È ROTTA – Stai scherzando / SONO CHIUSO DENTRO – Da quanto? / Non mi ricordo – Benedetto. Rispondi, Benedetto. Stai tranquillo: trovo qualcuno e ti liberiamo. Sera / Il volume del televisore si alza Somministrato secondo le istruzioni procura un sonno senza interruzioni e privo di ogni stato depressivo che solitamente accompagna il risveglio. Vi sentirete freschi, pronti ad affrontare tutti quei piccoli e noiosi problemi che richiedono la vostra attenzione. Non eccedete il dosaggio consigliato / Ne ingurgiterei un flacone mi sveglierei fra un mese fresco e riposato / In un nuovo e meraviglioso mondo in cui la gente è libera dai condizionamenti esterni niente tv radio messaggi visivi e sonori a ogni angolo della strada in metropolitana al supermercato / Un mondo in cui puoi usare il tuo cervello per formulare pensieri tuoi provare sentimenti compiere azioni e gesti tuoi / Il volume del televisore si alza La risposta è Stagno / Una società di individui liberi non di una massa / Arriva qualcuno / CHI È / Forse è Anita no non era nessuno / Se esco mi trovano se non la aiuto mi denuncia / Il risultato è sempre lo stesso morte / Per quanto scienziati, dottori e profeti cerchino di evitarlo bisogna morire / Se la aiuto morirò da eroe un
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coglione buono / Si ricorderà di me sarà un po’come non morire/ Mattina / Freddo / Che incubo G.G. che bussa alla porta come un pazzo Anita che chiede aiuto / Il volume del televisore si alza Non siamo soli: Stagno è con te / Pubblicità o sogni proiezioni mentali e la realtà dov’è finita / É finita / Niente è sicuro reale vero io sogno prigioniero di un incubo / Il volume del televisore si alza / Ma se la realtà fosse veramente questa io cerco una consolazione / Questa casa non è un nascondiglio, è la fossa in cui mi sono sepolto da solo / VOGLIO USCIRE VOGLIO USCIRE VOGLIO USCIRE VOGLIO USCIRE / – Benedetto / CHI È? / Sono il Dottor Malòr, il tuo animatore / DOVE SEI FAMMI USCIRE / Io mi occupo della tua attività cerebrale sotto ibernazione / IBERNAZIONE / Il tuo corpo è immerso in un bagno di criogenesi e la tua mente gioca a fare l’eroe. / HO SOGNATO NON E’VERO NIENTE G.G. ANITA GLI ANTI-TELEPATI IL GOVERNO / Il problema è l’attività del tuo corno di ammone, la zona del cervello che riceve gli impulsi olfattivi e partecipa ai meccanismi dell’emozione. È sfuggita a ogni controllo, compreso il tuo e ti ha creato un po’ di confusione. Ti stai agitando parecchio: il tuo povero cuore non ce la fa più. Siamo stati costretti a intervenire / SONO MORTO / No, la morte è un’altra cosa, sei in nonvita. / / La non-vita è una specie di sogno in cui il paziente si gongola fino a quando il cervello non si spegne. / FRA QUANTO / Cento anni, circa, se assumi Stagno / / Stagno è tutto, è energia, è la tua Stanza sogno. Funziona da conservante ed è indispensabile per il mantenimento delle proiezioni. / PER QUESTO TUTTO INVECCHIA E MUORE / Esatto / VOGLIO USCIRE / Questo non è possibile. / DEVE ESSERCI UN MODO SE TU PARLI CON ME ESISTE UNA CONNESSIONE UN FILO / Fermo, Benedetto / UN GENERATORE STAGNO CANCELLATA INVIARE DETTAGLI ERRORE
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Oggi No Testo di Andrea Cirillo Scatto di Luca Compiani
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Al bancone c’è un uomo che sorseggia un caffè americano e sfoglia un giornale gratuito. È seduto vicino alla vetrina ma un ficus lo protegge dal sole. Poco più in là, una donna, davanti a una spremuta d’arancia, si guarda in uno specchietto e si sistema i capelli. Appoggiata vicino ai suoi piedi c’è una ventiquattrore nera. Dall’altra parte del bancone, il barista lava le tazzine dando la schiena ai clienti. Ogni tanto, l’uomo alza gli occhi dal giornale e guarda la donna. Più precisamente le guarda il seno abbondante mostrato dalla scollatura. Il barista, dallo specchio davanti a sé, sbircia l’uomo che guarda la donna e trattiene un sorriso. La radio è accesa: danno una canzone dei Beatles. C’è odore di brioche alla crema. Sono le dieci e un quarto d’un martedì d’agosto del duemilacinque. L’aria condizionata è rotta e la porta è aperta per dare un po’ di refrigerio.
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Un uomo qualsiasi entra con un fucile a pompa in mano e spara in rapida successione due colpi precisi che fanno saltare le cervella al barista e alla donna. Poi si porta la canna alla gola e si suicida. L’uomo al bancone rimane pietrificato col caffè americano in mano e il giornale aperto a pagina 39. Torniamo indietro di qualche istante e fermiamoci così: il barista con lo sguardo sull’uomo, l’uomo con lo sguardo sulle tette della donna e la donna con lo sguardo su se stessa. E l’uomo qualsiasi, fermo sull’uscio aperto con un fucile in mano. Il barista si chiama Arturo Marrone; è nato il 5 marzo del 1958 e ha rilevato il bar nel ‘93. Dopo i lavori di ristrutturazione, gli affari sono andati a gonfie vele: da due anni è proprietario di una casa in Sardegna con vista mare. Ha una moglie, due figli e un’amante. Il suo film preferito è Il processo, di Mark Robson, e la sua più grande paura è precipitare in ascensore. La donna è Alice Sussi, consulente finanziaria, nata il 13 gennaio del 1975. Si è lasciata da un mese con l’uomo col quale conviveva da quattro anni e ora si vede con un altro, più vecchio di lei. Da piccola sognava di fare la ballerina. Quando fa l’amore, preferisce stare sotto. Ha una paura folle di volare; è per questo che, quando viaggia, prende sempre il treno e non – come ama raccontare – perché le piace vedere il «paesaggio che cambia». L’uomo col caffè americano è Gilberto Disma, nato il 21 giugno del 1967, commesso in una grande libreria del centro. Non riesce ad avere una storia d’amore stabile, ma sostiene di non soffrirne granché. Scrive su un vecchio quaderno poesie che nessuno ha mai letto. Tre anni fa stava per suicidarsi, ma all’ultimo ha chiuso il gas e aperto la finestra. Non legge mai la pagina dell’economia. Si masturba guardando MTV. Odia ammetterlo, ma il buio ancora lo intimorisce. L’uomo che è appena entrato è l’ex della donna. Questo spiegherebbe il primo omicidio. A sua volta, questa potrebbe essere l’amante del barista, e questo spiegherebbe anche il secondo omicidio. Spiando la donna, avrebbe capito le sue nuove abitudini e, passando decine di volte al giorno davanti al locale, individuato l’ora di minor affluenza. Avrebbe scelto accuratamente l’arma sul mercato nero e il percorso da fare per attirare il meno possibile l’attenzione. Infine avrebbe scelto gli abiti da indossare e avrebbe caricato il fucile con solo tre colpi. Avrebbe chiuso la porta di casa a chiave e recitando un mantra avrebbe messo in atto gli ultimi punti del suo piano. Strada sbagliata. È un risparmiatore truffato dalla donna. Nella valigetta potrebbero esserci dei soldi diretti al barista, suo complice. Dopo essere ricorso a tutte le vie legali consentite, ridotto al lastrico, l’uomo avrebbe preso l’unica scelta rimastagli: la vendetta. Avrebbe fatto indagini sulla donna, scoprendo il nome del complice e la data del loro nuovo incontro. La sera prima, durante una cena a casa del cognato, avrebbe sottratto dalla vetrinetta delle armi il fucile a pompa e lo avrebbe nascosto in una siepe, per riprenderlo a serata conclusa. Si sarebbe ubriacato con un superalcolico di quarta categoria e avrebbe aspettato con il fucile in una sacca da pesca il momento migliore. Sfortunatamente, per colpa del ficus, non si sarebbe accorto del terzo uomo. No, niente di tutto ciò. Lui non ha mai messo piede in quel locale, prima di oggi. Non ha mai visto nessuna delle tre persone presenti. C’è un movente? Una premeditazione? Solo tre fucilate. Sherlock Holmes non avrebbe granché da ricostruire. L’uomo spara due colpi precisi. Volta il fucile e preme ancora il grilletto. I ricordi, i sogni, i gusti, le morbosità, i sentimenti, gli ideali di tre persone sono sparsi alla rinfusa nel locale. Sul pavimento, sul bancone, sulla vetrata, sullo specchio. Arturo Disma è immobile col caffè americano a metà strada tra il bancone e la bocca, perso tra i paralleli e i meridiani del mondo. Il giornale è aperto a pagina 39. In fondo c’è uno strano articoletto:
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Ogni giorno accadono fatti senza che ci sia una spiegazione valida. Guardati attorno: tra le righe di questo giornale, al di là di una finestra o di una vetrina. Getta lo sguardo alla fiumana di storie che s’intrecciano sotto i tuoi occhi. Inizierai ad ordinare ciò che vedi, creando connessioni e dividendo il torto dalla ragione. Nemmeno per un attimo penserai che quell’alfabeto in cui anche tu ti trovi non è leggibile. Ognuna di quelle azioni è però solo il frutto di uno straordinario, complicato, caos cosmico. Tra i paralleli e i meridiani del mondo. Tra Sherlock Holmes e Padre Brown. Tra il niente e il tutto.
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All’Inizio c’era un po’ di Casino… Testo di Enrico Cantino Scatto di Patrick Raimondi
Mi sentivo sull’orlo estremo del mondo, mentre cercavo di spingere lo sguardo in quell’oscuro caos. Howard Phillips Lovecraft, Dagon Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie. Italo Svevo, La coscienza di Zeno È più produttivo l’Ordine o il Disordine? Non è facile dirlo: dipende dal contesto […] se si è artisti (in particolare pittori) il disordine è un compagno di strada obbligato: più lo si bazzica e più aumenta la creatività. Luciano De Crescenzo, Ordine & Disordine
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A scuola insegnano che le ipotesi sono valide fino a prova contraria. Una volta confutate – perché capita – le mettono via, nel cassetto delle cose non più utili. Rimpiazzandole, magari, con teorie ancora più confuse, ancor meno comprensibili. Funziona così. Noi non abbiamo voce in capitolo. Ci adeguiamo. E la cosa – almeno per noi – finisce lì. In principio c’era solo il Gran Pasticcio. Dopo lo Schianto Universale, tutto ha cominciato a muoversi con una parvenza di casualità. Qualcuno ha girato l’interruttore. Non si sa chi. Ci stanno ancora lavorando. Fiat Lux, che non è l’ultima autovettura presentata al Motorshow dalla Fabbrica Italiana Automobili Torino. È latino. Sta per «Fu fatta Luce». Da quel momento, niente è stato più com’era prima. È un ambito spinoso. Le certezze sono poche e instabili. Si perdono spesso per strada. Non potrebbe essere altrimenti. Stiamo parlando del Caos, vocabolo che, oltretutto, non è tra i più utilizzati dagli italofoni. È un termine impegnativo, ingombrante. Rimanda ai Massimi Sistemi, a zone rarefatte in cui ci si muove e si respira con molta fatica. Di solito gli preferiamo i più popolari «casino» e «confusione». Se poi vogliamo far capire che abbiamo visto tutti i film di Fantozzi, sguainiamo un bel «marasma». Però si tratta di sinonimi che non “rendono l’idea”. Volete mettere con «Caos»? Nobile, alto, onnicomprensivo. Il Disordine che si oppone all’Ordine, altrimenti detto Logos, o Legge Universale. Non siamo figli delle stelle, ma dello scompiglio. Senza di lui, non ci sarebbe la necessità di mettere a
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posto le cose. I due principi sono legati a filo doppio. È uno di quei rapporti pressoché simbiotici da cui dipende tutta la realtà del conoscibile (o di ciò che riteniamo tale). Uno legittima l’altro. Il Caos non è solo Primordiale, Primigenio o quel che sia. È pure Necessario. Non si scappa. Soprattutto quando si ha a che fare con l’arte. Un po’ perché serve a mascherare l’assoluta mancanza di idee. Un po’ perché costituisce la molla di molte creazioni artistiche. Letteratura, cinema e animazione amano le situazioni caotiche. Le utilizzano come punto di partenza, per descrivere il Ritorno all’Ordine. Una storia, insomma, non è interessante, se non nasce dal Caos. Ne sapeva qualcosa Tolkien: «Certo è una cosa strana, ma sta di fatto che a parlare delle cose belle e dei giorni lieti si fa in fretta, e non è che interessi molto ascoltare; invece, da cose disagevoli, palpitanti o addirittura spaventose si può fare una buona storia, o comunque un lungo racconto». La riflessione è tratta dal romanzo intitolato Lo Hobbit. Proprio da lì s’innesca il putiferio della più famosa trilogia anulare. Potrà suonare ovvio – come tutte le affermazioni pronunciate da chi ha avuto l’acume e il coraggio di farlo – ma è la verità. La scrittura letteraria ha attinto dal serbatoio del Caos a pieni boccali. I nomi degli usufruttuari si sprecano. Dato che qualcuno bisogna pure citarlo, potrei iniziare la rassegna – forzatamente minima – da Howard Phillips Lovecraft. Costui s’inventa una cosmogonia alternativa, che prevede incazzosissime divinità aliene fermamente intenzionate a tornare sulla Terra per piombare il mondo nel Caos. Cthulhu, Nyarlatothep e Yog-Sototh sono nomi piuttosto familiari ai cultori del genere. Sarebbe inopportuno, poi, dimenticarsi Philip Kendred Dick. Blade Runner e la trilogia di Matrix si devono a lui. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, descrive una serie di società di là da venire nelle quali l’uomo si trova costretto a ricominciare da capo. Dopo la solita Apocalisse. Con Joyce, invece, il Caos assurge a componente strutturale. Viene promosso e passa di ruolo. La cattedra è tutta sua. Entra in gioco il famigerato Flusso di Coscienza. Oppure Stream of Consciousness, se vogliamo comportarci da puristi. Il marasma è a tutto tondo. Molly Bloom e Finnegan insegnano. C’è posto anche per Italo Svevo in questo piccolo catalogo. Andate a rileggere la seconda epigrafe. Non è un caso se ho piazzato lì la frase che conclude la Coscienza di Zeno. Ci aspetta uno Spettacolare Ritorno al Caos, con tanto di fuochi artificiali, ricchi premi e cotiglioni. Sempre che si viva abbastanza per acquistare il biglietto (non necessariamente in prima fila). Il cinema non è stato lì a guardare. Al contrario. Negli ultimi anni non ha fatto che sfornare pellicole in cui il Caos si è ritagliato un ruolo di primissimo piano. Abbiamo visto il globo scombussolato da cataclismi meteo (The day after tomorrow), invasioni aliene (Independence Day) e forze del male (Boogeyman; The Ring – nelle versioni giapponese e occidentale). Senza contare gli eroi (al maschile e al femminile) che menano cazzotti per ricostituire un po’ di ordine in futuri vagamente incasinati (Matrix 1, 2 e 3; Ultraviolet; Aeon Flux). C’è anche chi il Caos va a cercarselo apposta, generando sconquassi per pura vendetta (Kill Bill 1 e 2) o perché lontano dai guai proprio non gliela fa a starci (The fast and the furious. Tokyo Drift). Da non sottovalutare, infine, la proliferazione dei film in cui il Caos investe la percezione della realtà, provocando lo smarrimento dei protagonisti (L’uomo senza sonno; Stay – Nel labirinto della mente; The Jacket; Donnie Darko; Identità). Questo è niente. Se ci spostiamo nei pressi dell’animazione nipponica, verifichiamo che il Caos la fa veramente da padrone. I giapponesi hanno imparato molto bene la lezione, applicandola con un certo profitto. La stragrande maggioranza dei cartoni targati Sol Levante raccontano storie i cui protagonisti hanno per missione il Ristabilimento dell’Ordine. La base di partenza è una situazione caotica che il Prescelto di turno deve riportare sui giusti binari. Prendete una qualsiasi serie robotica: invasori provenienti dallo Spazio Profondo o dal Sottosuolo mettono a ferro e fuoco la Terra. Il pilota del robottone deve sconfiggere il nemico per favorire il ritorno alla Normalità. Senza contare tutti quei personaggi che si ritrovano sul groppone il destino (o la salvezza, tanto è uguale) dell’intera umanità. È il caso di Kenshiro, star della serie culto Ken il Guerriero. Tutti guardano a lui come al Salvatore capace di rintuzzare la sfrenata ambizione del fratellastro Raul, che si è svegliato con in testa un’idea meravigliosa: diventare il monarca assoluto di un mondo strinato dall’ennesimo conflitto atomico. Non dimentichiamo, poi, i vari orfanelli la cui esistenza viene stravolta da un evento (più o meno luttuoso) che li priva di tutto, affetti e beni materiali. Da quel momento devono farsi un mazzo tanto per risalire faticosamente la china e migliorare la propria posizione sociale. Sarà catarsi. O, più prosaicamente, masochismo. Gli è che noi il Caos lo frequentiamo. Più spesso di quanto dovremmo. Forse è una maniera per farsi crescere gli anticorpi. Per esorcizzare una presenza invasiva, poco gestibile. Che spunta fuori da ogni dove. Ignorarlo sarebbe incauto. E stupido. Meglio sapere che c’è. Se non altro, possiamo regolarci di conseguenza.
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Ovvero, come sposare la struttura di un racconto ed il suo tema...
... il tutto con magistrale leggerezza
Testo di Massimo Carta Illustrazione di Flavia Soprani
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Interpretare un tema non tramite una storia o un’immagine, ma attraverso la struttura di un racconto non è operazione delle più semplici. C’è riuscito felicemente in questo numero Elvis Crotti, col suo DDT (Disordinati Desideri Temporanei). In prima battuta, un discorso che da indiretto si fa diretto, nel momento in cui compare dal nulla l’interlocutrice telematica. Inframmezzano il discorso i gesti lenti e calibrati del revolver che passa dal tavolo alla mano del protagonista, per poggiare infine la canna alla nuda tempia. E lungo la narrazione immagini su immagini, suoni, spezzoni di pubblicità, sentimenti, libri e riviste. Il Caos, insomma. Ma quello vero, quello della mente e delle sensazioni, che si accavallano in una mente sconvolta dalla delusione e dal dolore di un tradimento, di un amore finito. La struttura della narrazione, la velocità delle parole e delle immagini fa da cornice ai concetti che si affastellano sul foglio. Una cornice, si badi bene, non semplicemente esornativa o un orpello fine a se stesso. Siamo in presenza di un racconto in cui, piuttosto, si propone come tema centrale, fulcro della vicenda e del narrare. Poi arriva lei: l’ex, l’interlocutrice telematica. Il ritmo cambia. Si passa dalla velocità dei pensieri di una mente confusa a quella delle parole pronunciate, del dialogo, seppur sconvolto. Le emozioni trasudano dal testo attraverso il fraseggiare. Nella prima parte, i pensieri sconnessi ed isterici si esprimono attraverso asserzioni brevissime e “scattose”. Prima della comparsa di lei, si va verso il cortocircuito emotivo: la mente, un attimo prima di esplodere, decide volutamente di spegnersi. Poi compare lei. L’odio e la delusione si concentrano verso un nuovo obiettivo. Il pensiero, non più confuso ma determinato, prosegue ora nel suo argomentare con cadenza lenta e spietata, accompagnato dalla parola che mette ordine e stabilisce l’andamento. I movimenti studiati e calibrati del revolver scandiscono il ritmo. Passiamo, così, da un Caos che rischia di auto-fagocitarsi ed auto-distruggersi ad uno di natura diversa, focalizzato su un obiettivo esterno, se volete, che mette ordine, che convoglia le forze distruttrici su di un bersaglio concreto. Infine, però, è il disordine interiore che ha il sopravvento. Quando ci si accorge che le armi a disposizione sono spuntate e non possono sortire il minimo effetto sull’interlocutrice, il dolore e la delusione interiore prevalgono, sprofondando nuovamente il protagonista in quello stato di auto-lacerazione che lo porterà al gesto estremo. E qui proponiamo una lettura alternativa che ci piace, ma che non possiamo dire se sia condivisa o meno dall’autore. Ci piace pensare che Claudio, all’apice del caos emotivo, non abbia sparato a se stesso, ma allo schermo dentro cui si muoveva l’immagine dell’odiata traditrice. Questo disseminerebbe di confusione anche i piani narrativi ed allora, forse, il caos sarebbe stato veramente totale. Comunque sia, a parte questa ultima lettura soggettiva, ciò che veramente è da sottolineare è l’alchimia fortunata delle sensazioni e degli stati d’animo, resi attraverso la scrittura, che fanno del racconto di Crotti una prova di tecnica da tenere bene in evidenza. Ed il bello è che il caos non viene mai nominato, che la confusione è il dato d’arrivo e non quello di partenza e che, alla fine, oggetto, soggetto e forma coincidano, in un’iperbolica fusione di significante e significato.
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BIOGRAFIE PENNA Marco Astolfi ha 33 anni, vive a Venezia, dove lavora in una libreria. Si autodefinisce un "architetto interrotto", laureato, ma non iscritto all`albo e che non esercita la profressione. Cura la rubrica di urbanistica sociale “delirious.tv” sul magazine on line www.fioi.tv Enrico Cantino ha 41 anni e una laurea in Materie Letterarie. Vive a Parma, dove lavora part-time come impiegato per un periodico tecnico. Le sue passioni: i gatti, i cartoni animati e la letteratura. Scrive racconti dal 1984 e ogni tanto riesce a pubblicarne qualcuno. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati nell’antologia letteraria I Lunatici edita da MUP Editore. Massimo Carta ha 29 anni e vive a Parma. È laureato in ingegneria meccanica e lavora per un grande gruppo alimentare. Giornalista pubblicista, ha scritto per le pagine di cultura e cronaca de “La Gazzetta di Parma” e per varie riviste tra cui “Palazzo Sanvitale”, “Vos” e “Il corriere di Parma”. Ha pubblicato le raccolte Tutto quello che vorrei portare (2000) e Lo sguardo distante (2001), e altri racconti in varie antologie. Luigi Casa ha 47 anni e lavora come geologo presso una società che svolge ricerca di idrocarburi. La sua vera passione è, però, la letteratura. Ha visitato vari angoli del mondo sia per lavoro sia per diletto, ma i viaggi più emozionanti li ha fatti con i libri. Abituato ad osservare, ha finito per prendere anche il vizio della fotografia. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati nell’antologia letteraria I Lunatici edito da MUP Editore. Sandro Cecchin è nato a Belluno. Nel 2005 ha pubblicato un libro di poesia intitolato Un pomeriggio al Cremisi, Teatro dell’Opera, presso la casa editrice Progetto Cultura di Roma. Andrea Cirillo è nato a Reggio Emilia nel 1982 e vive a Parma, dove frequenta la Facoltà di Lettere. Nel 2000 ha vinto il premio speciale della giuria “Ermanno Minardi” con il racconto “Finestre”. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati nell’antologia letteraria I Lunatici edita da MUP Editore. Alberto Crepaldi ha 21 anni. Studia Fisica della materia all’Università di Trieste. È appassionato di racconti di fantascienza e giochi di strategia. Enrico Elvis Crotti è un informatico quarantenne e vive a Subiate (MI). Da qualche anno ha scoperto che ci sono storie che meritano di essere raccontate, così ha cominciato a scrivere. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati in antologie quali Euforie, Onde lunghe e Lama e trama. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati nell’antologia letteraria I Lunatici edita da MUP Editore. Adriano Marchetti è nato in provincia di Parma nel 1979, ma dopo il liceo si è trasferito a Venezia, dove si è laureato in Lingue e Civiltà orientali presso l’Università Ca’ Foscari. Attualmente si dedica alla traduzione e all’insegnamento della lingua giapponese, senza trascurare la sua passione per la letteratura e la scrittura.
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Erika Morgagni è nata a Forlì nel 1982. Laureata in Scienze Politiche, si è avvicinata alla letteratura e alla scrittura creativa prendendo parte a corsi di teatro sperimentale. Scrive poesie dall’età di sette anni e ha partecipato a concorsi locali o interni al circuito scolastico romagnolo. Pietro Presti è scivolato nell’inverno della vita in un afoso giorno di giugno del 1981, tra i vapori avvelenati del petrolchimico di un’angusta città del Sud. Qui ha raccolto piccoli pezzi di carbone per disegnarsi addosso degli abiti e tracciarsi dentro un’anima dalle sfumature fin troppo inquiete e fragili. Attualmente respira a Parma tra alienazioni industriali e divertimenti sintetici. Nel 2005 ha pubblicato il suo primo romanzo Liberami dal male per Edizioni Clandestine (MS). Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati nell’antologia letteraria I Lunatici edita da MUP Editore. Daniela Raimondi è nata in provincia di Mantova. Vive a Londra dal 1980. Ha pubblicato su varie a riviste letterarie e ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti a concorsi nazionali. Ha dato alle stampe la raccolta di racconti Nove Donne e una Zebra Metropolitana, quale primo premio al Concorso Fonopoli di Roma ed. 2004. Per la poesia ha pubblicato la raccolta Ellissi, (Ed. Raffaelli, Rimini) Premio Caput Gauri, Premio Antica Badia di San Savino, Premio Città di Salò. Sono in fase di pubblicazione altre due raccolte
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poetiche: Inanna (Mobydick, Faenza) e Via Sant’Elia (Edizioni Clandestine, Massa Carrara). Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati nell’antologia letteraria I Lunatici edita da MUP Editore. Andrea Tinterri è nato a Parma nel 1985. Attualmente vive a Bianconese, piccolo paese della provincia, e frequenta il secondo anno di Lettere Moderne all’Università di Parma. Grazia Verasani è nata a Bologna nel 1964, città dove vive. A vent'anni si diploma attrice all’Accademia d’Arte drammatica. Dopo esperienze teatrali con il Teatro Stabile dell’Aquila e il Teatro Stabile di Torino, a Roma conosce Tonino Guerra che la incita a scrivere. Nell’87 torna a Bologna e pubblica i suoi primi racconti grazie al poeta Roberto Roversi, e ne pubblica altri sul Manifesto nella rubrica “Narratori delle riserve” a cura di Gianni Celati. Parteciperà anche, in qualità di attrice, al film Strada provinciale delle anime che Gianni Celati realizza per Rai 3. In quegli anni lavora parallelamente come speaker per la Rai, come doppiatrice e come corista in vari dischi (Gang, Papa Ricky e altri). Nel ’95 vince il Premio città di Recanati per la canzone d’autore e nel ’96 esce il cd Nata mai (BMG) con dodici brani di sua composizione. Nel ‘97 fa da gruppo supporter ai Jethro Tull per le loro date in Italia e ha collaborato al CD Sei felice? del gruppo Aeroplaniotaliani (2005) e con i Clandestino, band di Ligabue. Nel novembre ’99, Fernandel pubblica il suo primo romanzo L’amore è un bar sempre aperto. Appaiono suoi racconti su varie antologie e riviste. Nel 2001 sempre per Fernandel, esce il suo secondo romanzo Fuck me mon amour, e nel 2002 la raccolta di racconti Tracce del tuo passaggio. Nel 2002 al Teatro Colosseo di Roma viene rappresentata la sua piece teatrale From Medea, pubblicato poi da Sironi nel 2004. Sempre nel 2004 esce per Mondadori/Coloradonoir il romanzo Quo vadis, baby? (tradotto in più lingue), da cui l’anno seguente Gabriele Salvatores trarrà un film. Firma la sceneggiatura del film Gli ultimi di Riccardo Marchesini (premio Zavattini 2004) e del film Il silenzio intorno a noi di Dodo Fiori. Collabora con giornali e riviste, tra cui Repubblica e Donna Moderna. www.graziaverasani.it
CAMERA Claudia Aracci è nata a Padova nel 1984. Inizia la sua attività artistica partecipando a uno stage di oreficeria con l’orafa Anna Maria Zanella a Padova in collaborazione con la Galleria d’Arte e di Vetro a Venezia di Caterina Tognon. Dopo un’esperienza formativa presso lo studio di architettura Zvi Hecker Architekt a Berlino, si iscrive all’Accademia di Architettura dell’Università della Svizzera Italiana a Mendrisio. Elena Baila è nata a Milano ed è laureanda in Architettura. Si interessa alle energie alternative da fonti rinnovabili. Vive e lavora a Cremona e come fotografa e pittrice ha partecipato a numerose mostre collettive e personali in varie città. Ha collaborato anche a progetti artistici come curatrice del catalogo d’arte Scultura & Città attraverso la forma (Convegno Edizioni 2004) e di mostre nel settore delle arti visive. Una sua fotografia appare nell’antologia I Lunatici (MUP Editore 2006). Alessandra Carloni è nata a Roma nel 1984. È iscritta all’Accademia Di Belle Arti di Roma, decorazioni. Ha partecipato a numerose mostre: Collettiva Il linguaggio della decorazione (2006), Personale presso il Bastione di Sant’Anna a Moldolfo (2006 PU). Inoltre ha partecipato a svariati concorsi: "Premio delle Arti" per il progetto “Obelisco di Axum” (2005) e "Camera Picta – Dipingere il Cielo" (2006). Luca Compiani è nato a Parma nel 1978. Laureato in lingue, è da sempre appassionato di arti visive, in particolare la pittura. A questo proposito ha allestito una personale nel maggio 2002, in occasione della manifestazione Gio.P.Art (Giovani Parma Arte) sostenuta dal Comune di Parma. Attualmente espone alla collettiva Una cornice, un pittore - viaggio tra poetiche e libertà (fino al 13 gennaio 2007) presso l’Atelier34 di Borgo Felino a Parma. Durante un anno di lavoro all’estero ha sviluppato anche un forte interesse per la fotografia paesaggistica. Ama inoltre la poesia: ha tradotto alcuni sonetti del poeta inglese Edmund Spenser nel volume a cura di Luca Manini: Amoretti e Epitalamio (Carocci 2005) e alcuni sonetti inglesi sulla rivista letteraria "Testo a Fronte" (Marcos y Marcos).
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Maria Chiara Delfini è nata a Parma nel 1973. Laureata in psicologia, si occupa di orientamento e formazione professionale. Dedica gran parte del suo tempo libero all’espressione della fantasia e della creatività, in particolare attraverso la fotografia, il disegno e la terracotta. Si sente autodidatta appassionata e “allieva” della sua curiosità. Emanuele Ferrari è nato a Piacenza nel 1965. Ha svolto reportage fotografici e realizzato copertine per alcuni gruppi musicali. Ha realizzato mostre collettive e personali nella sua città. Preferisce la fotografia immediata ed essenziale e l’utilizzo della luce naturale. Una sua fotografia appare nell’antologia I Lunatici (MUP Editore 2006).
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Marco Fortunato è nato a Busto Arsizio nel 1975. Il lavoro da trasfertista gli ha dato la possibilità di viaggiare e conoscere molte culture e abitudini. Dopo essersi trasferito nel 2001 a Bologna, la sua vita si rivoluziona: dopo un periodo di lavoro in Tasmania, stanco dell’ottusità della nostra società, nel 2004 lascia tutto e si trasferisce in Sudamerica dove inizia a vivere e lavorare. In Bolivia compra la sua prima Canon e inizia a riprendere tutto ciò che guarda e vive. Torna in Italia nel 2005 e inizia a frequentare i primi corsi di fotografia e il corso avanzato al FORMA di Milano. Come fotoamatore pensa che con una foto può esprimere ogni parola e ogni emozione nella loro pienezza. Giovanni Liberatore è nato a Roma nel 1969. Inizia a fotografare nel 1989 esponendo in diverse occasioni fino al 1994. Dopo una lunga pausa riprende a lavorare in maniera intensa nel 2003, grazie anche all’incontro con il fotografo Luis Boccuti. Questa fase artistica, vicina alla lezione Surrealista di Breton, porta avanti aspetti importanti: l’astrazione o la creazione di atmosfere surreali; la rappresentazione simbolica della realtà e la forza poetica delle immagini. Oltre ad aver partecipato a molte esposizioni, ultima fra le altre “Antropomorphisme s/r mer”, mostra e catalogo a cura di Ivana D’Agostino (Studio Arte Fuori Centro, Roma 2006), ha ottenuto notevoli riconoscimenti e pubblicazioni. Sue opere fanno parte di collezioni private. Patrick Raimondi è nato a Londra nel 1989, città dove vive e studia. Sviluppa giovanissimo la passione per la fotografia grazie al padre, suo primo insegnante, iniziando a scattare mentre viaggiava tra l'India e le diverse parti del mondo in cui è stato.Trova la sua fonte d'ispirazione nella diversità fra le culture e crede che la fotografia sia un modo per catturare un momento, una situazione e per confrontarsi con il mondo che ha attorno Sta studiando fotografia per la maturità, strada che ha intenzione di seguire anche all’università. Arianna Ricatto è nata a Milano nel 1964. Di professione restauratrice, specializzata in restauro affreschi, vive sulle colline parmensi. Ama ogni tipo di arte figurativa e la fotografia è una delle sue più grandi passioni. Arianna Rizzitelli è nata a Napoli nel 1979. È laureata in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli e in Arti Visive e Discipline dello Spettacolo. Partecipa a diverse mostre collettive organizzate dall’Accademia di Belle Arti di Napoli e concorsi nazionali. Nel 2003 è premiata al concorso "Autogrill S.p.A. 2003, il giro del mondo” da Arnaldo Pomodoro; partecipa nel 2004 alla mostra “Giovani artisti si incontrano” alla Galleria San Fedele di Milano e al concorso “Premio Nazionale delle Arti” indetto dall’Alta Formazione Artistica e Musicale di Roma. Attualmente continua la sua ricerca artistica e studia per la realizzazione di alcuni progetti.
MATITA Umberto Chiodi è nato a Bentivoglio (BO) nel 1981. Diplomato all’Accademia di Belle Arti di Bologna, ha preso parte ad alcune esposizioni collettive, fra cui la Fiera Internazionale d’Arte Contemporanea (Fortezza del Basso, Firenze 2006) e MiArt (stand nella Galleria Pier Giuseppe Carini, Milano 2006) e pubblicato su riviste letterarie e di spettacolo, fra cui Arte & Critica. Una sua illustrazione appare nell’antologia I Lunatici (MUP Editore 2006). Sonia Marazia vive a Matera da 22 anni. Dopo la maturità classica e una breve esperienza formativa in uno studio d’arte e design, emerge il suo estro creativo e trova la strada e il sogno da perseguire: lavorare nel mondo della grafica e della fotografia. Preferisce da sempre l’espressività e l’emotività delle immagini alle parole.
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Flavia Soprani è nata a Napoli nel 1982. Ha frequentato i corsi di Disegno, Illustrazione, Computer Art e Web Design presso la “Scuola Italiana di Comix” di Napoli ed è iscritta alla Facoltà di Architettura nella sua città. Ha vinto alcuni concorsi di illustrazione, tra cui il "Napoli Comicon" (2001), "Vib Art pittura paesaggistica" (Salerno 2005), "Golem Comix fumetto" (Urbino 2006). Collabora come grafico e illustratore presso alcune agenzie e associazioni e nel 2006 ha partecipato alla collettiva Per una immagine della Mozzarella, Paestum. Elisabetta Tomboletti è nata a Marino (Roma) nel 1983. Dopo aver ottenuto i diplomi da Tecnico della Grafica Pubblicitaria e Computer Grafica Statica, Animata e Tridimensionale si è iscritta all’Accademia di Belle Arti di Roma, corso di Pittura. Ha partecipato a varie esposizioni: Collettiva L’Abbazia di San Nilo con l’occhio dell’artista (Grottaferrata 2005), "Ateliers Internazionale d’Arte Contemporanea Monteacuto della Alpi" (Bologna 2005), Permanente al museo del Parco di Pianaccio (Bologna 2005), vincitrice del Workshop di perfezionamento di pittura diretto da Giovanni Meloni, Collettiva di Incisione dell’Accademia delle Belle Arti di Roma "Nel segno dell’incisione" (2006), II° posto al "Premio Internazionale per l’incisione Fabio Bretoni”.
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IN LIBRERIA DA OTTOBRE 2006
I LUNATICI 15 NUOVI SCRITTORI ITALIANI con una introduzione di Fulvio Panzeri
€ 15,00 A tutti coloro che con racconti, fotografie ed illustrazioni hanno partecipato alla realizzazione della rivista “La Luna di Traverso”, siamo lieti di proporre l’antologia al prezzo speciale di
€ 10,00
Più che un’antologia di autori esordienti, il luogo in cui incontrare gli autori da bestseller di domani. Dopo sei anni di attività della rivista di narrativa “La Luna di Traverso”, esce il libro che racchiude i suoi pezzi migliori. Da Gianluca Morozzi a Monica Pistolato, una quindicina di autori che oggi escono con libri di successo, propongono i loro primi testi che già mostravano quel talento esploso proprio sulle pagine della rivista. La Luna, nata nel 2001, celebra con questa uscita i suoi autori migliori, proponendone i racconti più piacevoli e succulenti alla scoperta del fare narrativa oggi in Italia. Risultato del fermento creativo che pervade la penisola dei giovani autori, il libro è soprattutto una lettura piacevole, pervasa da invenzioni originali e punti di vista mai scontati, alla riscoperta di una realtà di tutti i giorni in veloce evoluzione. «“La Luna di Traverso” in questi anni è stata uno degli esempi più felici di uno spazio dedicato alla “nuova scrittura”, spazio gestito all’insegna dell’apertura e del confronto tra narrazioni diverse come segno stilistico e come autenticità delle storie. Con una novità sorprendente: la capacità dei giovani di autogestire un progetto, di sentirlo proprio e, in questo senso, vivo e vitale, come dimostrano I Lunatici». Fulvio Panzeri
FULVIO PANZERI ha collaborato con Vittorio Tondelli alla realizzazione di “Un weekend postmoderno” e ha curato la pubblicazione di tutte le sue opere postume, edite da Bompiani e l’opera completa in due volumi nei “Classici Bompiani”. Con Generoso Picone ha pubblicato il libro-intervista, Tondelli. Il mestiere di scrittore. Si è occupato attivamente della nuova narrativa italiana, con vari volumi di saggi, da I nuovi selvaggi (Guaraldi, 1995) a Altre storie (Marcos y Marcos, 1996) fino a Senza rete (PeQuod, 1999). Sta curando la ripubblicazione delle opere di Giovanni Testori nei Classici Bompiani e negli Oscar Mondadori e ha pubblicato da Longanesi, Vita di Testori (2003). Nel 2000 è uscita da Guanda la sua prima raccolta di poesie, L’occhio della trota.
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PER INFORMAZIONI E PRENOTAZIONI MUP EDITORE - VICOLO AL LEON D’ORO, 6 - 43100 PARMA www.mupeditore.it - info@mupeditore.it - tel. 0521 386014 - fax. 0521 506588
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Comune di Parma Assessorato Politiche Culturali e Promozione di Iniziative per i Giovani Assessorato ai Servizi Sociali e alle Politiche di Parità
La rivista letteraria «LaLunaDiTraverso», edita dalla Casa editrice Monte Università Parma, in collaborazione con l’Archivio Giovani Artisti del Comune di Parma e con l’Assessorato ai Servizi Sociali, bandisce un NUOVO CONCORSO PER NARRATORI, FOTOGRAFI e ILLUSTRATORI REGOLAMENTO Art. 1 - TEMA DEL CONCORSO Il prossimo tema della rivista sarà PROFUMO. Profumo di persone, oggetti, città, luoghi e situazioni. Profumi familiari o sconosciuti, rassicuranti o ostili, del presente o del passato… Odori di casa, di cibi, di viaggi, di stagioni… Sortilegio che irretisce i sensi e sottomette la mente. Profumi e aromi come esperienza conoscitiva. Essenze che stordiscono ed inebriano, che scatenano e placano. Art. 2 - MODALITA’ DI PARTECIPAZIONE Opere narrative: si ammettono racconti originali ed inediti per una lunghezza massima di 5400 battute, spazi inclusi. Il materiale dovrà essere inviato via mail a giovani@comune.parma.it o per posta su floppy disk. Opere fotografiche: si accettano opere originali e non pubblicate. Ogni autore dovrà presentare 5 fotografie in formato 10x15 in bianco e nero facendole pervenire su negativo o su supporto magnetico (floppy disk o cd rom). Illustrazioni: si ammettono da un minimo di 3 a un massimo di 5 tavole in bianco e nero del formato massimo di un foglio A4 (21x29.7 cm). Il materiale inviato per posta dovrà pervenire al seguente indirizzo: Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia c/o Palazzo Pigorini, Via Repubblica, 29 – 43100 Parma. Le opere di tutti i partecipanti dovranno essere accompagnate da una breve biografia dell’autore corredata dai dati personali (nome, cognome, indirizzo, recapiti telefonici, indirizzo e-mail). In relazione alla previsione che il materiale possa essere pubblicato, si richiede inoltre il consenso al trattamento dei dati personali ai sensi della legge 675/96 sulla privacy. Inoltre i candidati si faranno garanti dell’originalità dell’opera da loro presentata. Le decisioni della Commissione saranno inappellabili e il materiale non verrà restituito. Eventuali attestati di partecipazione al concorso saranno assegnati agli artisti che ne faranno richiesta solo qualora i loro lavori vengano selezionati. 42
Art. 3 - CRITERI DI SELEZIONE Per la valutazione delle opere si terrà conto della qualità, dei percorsi di ricerca formale e dell’originalità dei testi e delle immagini. Il premio del concorso consiste nella pubblicazione dell’opera sulla rivista “LaLunaDiTraverso”. Solo i vincitori saranno contattati dalla redazione. Non si accettano racconti che abbiano partecipato a bandi precedenti. Art. 4 – SCADENZA Le opere devono essere consegnate entro e non oltre le ore 12.00 di venerdì 26 gennaio 2007. Art.5 – INFORMAZIONI Per ulteriori informazioni, rivolgersi ai seguenti numeri di telefono: 0521/384469, oppure agli indirizzi di posta elettronica: giovani@comune.parma.it.; redazione@lunaditraverso.it. Orari di ufficio Archivio Giovani Artisti: dal lunedì al venerdì, dalle ore 8.00 alle 13.00; lunedì e giovedì anche dalle ore 15.00 alle 17.00.
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