SOMMARIO
ITALIA CREATIVA
realizzato da
Incipit d’autore Parliamo tanto di me di Cesare Zavattini Racconto d’autore L’ultima moglie di Barbablù Testo di Guia Risari
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Si inizia tutti morendo Testo di Davide Carrettin
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Zucchero Testo di Enrico Elvis Crotti
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Mettersi in gioco Testo di Cinzia Bettineschi
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Chiusa a chiave Testo di Giulia Valsecchi
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Quid pro quo Testo di Domenico Sivilli
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Fantasmi Testo di Graziano Delorda
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Il domani avrà già le sue inquietudini. Il fantasma del pesciolino rosso Testo di Giorgia Bandini
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Il cane nero Testo di Ugo Sette
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Il fantasmino Testo di Roberto Stradiotti
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Attesa assordante Testo di Tommaso Chimenti
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Chi Siamo DIRETTORE Massimo Carta VICE DIRETTORI Guido Conti, Federica Pasqualetti ORGANIZZAZIONE E COORDINAMENTO Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia REDAZIONE Silvia Bia, Enrico Cantino, Simona De Blasio, Carlotta Fiore, Jacopo Franchi, Roberta Gatti, Armando Minuz, Silvia Pelizzari, Federica Sassi, Andrea Tinterri, Denis Zuliani RELAZIONI ESTERNE Andrea Rabaglia REALIZZAZIONE GRAFICA Simone Pellicelli STAMPA La Stamperia - Parma PROMOZIONE E DISTRIBUZIONE PDE - Promozione Distribuzione Editoriale LALUNADITRAVERSO 2010 - Anno 10 - Numero 27 Monte Università Parma Editore - Vicolo al Leon d’Oro, 6 43121 Parma INFORMAZIONI Per collaborare alla rivista scrivi all'indirizzo redazione@lalunaditraverso.it e lalunaditraverso@ gmail.com Il giudizio e il lavoro editoriale della redazione sono insindacabili e accettati implicitamente. Gli autori pubblicati riceveranno due copie in omaggio. La Luna di Traverso è sostenuta dall'Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia dell'Assessorato al Benessere e alla Creatività Giovanile. Illustrazione di copertina di Emanuele Capicci, Nella notte un bicchier d’acqua
RUBRICHE La casa della vita Testo di Andrea Rabaglia
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Impressione trasparente Testo di Andrea Tinterri
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Biografie
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www.lalunaditraverso.it www.giovaniartisti.comune.parma.it
Illustrazione di Dolores Fasulo, Una bici antica
Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia Comune di Parma
I fantasmi sono reali. Vivono dentro di noi e, a volte, vincono. Stephen King Fantasma [dal greco phántasma: apparizione] è un’immagine creata dalla fantasia che non ha alcuna corrispondenza precisa con la realtà: una visione poetica, legata all’intuizione artistica, ma anche una vera e propria allucinazione, evocata dall’immaginazione e considerata come reale. In letteratura, la figura del fantasma si è mossa su piani diversi: non solo su quello facilmente intuibile del filone gotico e horror, ma anche in virtù di un più generico escamotage – basti pensare allo spettro del re di Danimarca che appare ad Amleto in Shakespeare – per rappresentare figure defunte che veicolano un messaggio ben preciso dall’aldilà. Il tema Fantasmi, poi, si lega inscindibilmente a quel territorio misterioso che ci porta al confronto con la realtà e con il suo contrario: l’inquietante fascino di castelli e antiche magioni infestati da spettri, ma pure il mistero ambiguo e insondabile che separa Vita e Morte, confronto che da sempre atterrisce e al contempo attrae l’uomo. Scrivere, infatti, significa indagare, mettere a fuoco i propri pensieri, così come rappresenta inevitabilmente la creazione di mondi “paralleli”, frutto di intuizione e di tanto lavoro di sapiente artigianato, prim’ancora che di labor limae e cesello. Scrivere, inoltre, implica anche – e inevitabilmente – leggere, mostrarsi ricettivi, mantenendo occhi e orecchie sempre bene aperti, senza avere mai il timore di confrontarsi. Fin dalla sua nascita, “La Luna di Traverso” si è posta come obiettivo quello di creare nelle proprie pagine un luogo d’incontro tra nuovi giovani autori, nel quale essi potessero sperimentarsi e, appunto, confrontarsi, dando vita ad uno spazio dove vedere finalmente pubblicati i propri scritti. L’Archivio Giovani Artisti, attraverso le pagine de “La Luna di Traverso”, nel corso del tempo ha sicuramente dimostrato di ascoltare le voci dei tanti giovani narratori, fotografi e illustratori che dal 2001 rispondono puntualmente ai suoi appelli. La pubblicazione quadrimestrale di un bando a tema, infatti, rappresenta, oltre ad uno stimolo, una concreta opportunità: una possibilità di confronto, di crescita e di miglioramento delle potenzialità narrative dei giovani artisti. Dato il tema di questo numero, dunque, ci piace considerare la rivista come uno spazio “evanescente”, perfettamente riempito da voi, dalle vostre storie, dai vostri racconti, oltre che dalle vostre immagini e illustrazioni. Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia
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Fotografia di Mauro Leoni, Presenza assenza, Hasselblad 500c, 40 mm, Crotta d’Adda, 2010
Editoriale
Il tema del nuovo numero de “La Luna Di Traverso” è Fantasmi e la sola parola basta a suscitare memorie dai differenti sapori. I Fantasmi vengono spesso citati con accezione negativa. Infestano l’immaginario umano a partire dall’infanzia. Sono dormienti nella parte di noi che si apre all’idea del soprannaturale, ma non sempre coincidono con “illusione”. Fantasma è sinonimo di simulacro ingannatore, certo, ma anche scia di qualcosa che abbiamo perduto a cui non vogliamo dire addio. Fantasma è qualcuno che non è più con noi, ma anche una parte di noi stessi, cambiata, perduta, un ricordo di come eravamo. Assenza e presenza al tempo stesso, ricerca introspettiva. Un’impressione, come quella lasciata nella pellicola fotografica. Un’idea, una speranza, un timore. Siamo noi stessi, talvolta, a sentirci spettri, quando non troviamo il nostro spazio, siamo soli e galleggiamo alla ricerca di una dimensione che ci sembri più reale. Sebbene parlare di Fantasmi ci faccia immaginare case spettrali e susciti in noi reminiscenze gotiche, i racconti di questo numero parlano prevalentemente di perdita: la donna che abbiamo amato e che non è più con noi, una parte di noi stessi persa per sempre, persone che hanno cambiato la nostra vita e che ci piacerebbe sapere immutate in un altrove non meglio definito. A dispetto della tradizione narrativa, ciò che abbiamo letto e selezionato ha dimostrato come anche l’idea di fantasma sia cambiata nel corso del tempo. Attraverso i secoli ha abbandonato lo stereotipo e ha assunto una valenza più personale, spesso intimistica, legata a emozioni ben lontane dalla paura. Racconti di memoria, dunque, come a voler dire che gli odierni fantasmi non spaventano, piuttosto somigliano a una compagnia e rispecchiano quella che al giorno d’oggi, forse, è l’unica, vera angoscia: la solitudine. Nelle illustrazioni e nelle fotografie che accompagnano le parole scopriamo dimensioni che scivolano tra il reale e l’irreale, recuperano paure bambine e le annullano con ironia e la poetica delle immagini. E voi, credete ai fantasmi? Cercateli qui, nel luogo a loro più caro: sulla carta, tra le pagine. Dopotutto possiamo negare che la letteratura sia la casa preferita dagli spiriti? Che siate grandi o piccoli, che abbiate fede oppure siate scettici, lasciatevi infestare e liberate i fantasmi.
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Incipit d'autore La notte del 17 gennaio 1930 leggevo un romanzo d’amore. Il fuoco crepitava nel camino. Coricato nel soffice letto, interrompevo ogni tanto la lettura per ascoltare i sibili del vento fra gli alberi della foresta. I vetri tersi della finestra lasciavano scorgere il cielo pallido e due alberi, sulla collina, ornati di neve. Guardai il pendolo: segnava le due. Spensi la luce, mi rannicchiai sotto le coltri. − Dormiamo − dissi. Trascorsero venti, trenta minuti: mi accorsi che avevo gli occhi aperti. Un’ora dopo ero ancora incantato a guardare le stelle che alcune nubi venute dal mare a poco a poco coprivano. Stavo meditando sulla mia insonnia, quando le nubi si sciolsero in una pioggia fine e lenta. Voltai fianco e decisi fermamente di dormire. A un tratto, quasi mi ero appisolato, strani rumori e fruscii colpirono le mie orecchie. − Saranno gli spiriti − pensai. Pian pianino sollevato il capo, guardai intorno. La stanza era rischiarata dal bagliore degli ultimi tizzi. Non mi ero ingannato. Vidi le loro diafane forme simili a veli fluttuare tra i mobili, confondersi nel fumo del camino, indugiare davanti allo specchio. Invece di accendere la luce, restai fermo e finsi di russare.
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Fin da bambino mi ero abituato alle visite degli spiriti. La mia casa vasta e antica, circondata dai cipressi e distante un tiro di fucile dall’abitato, una vecchia zia smorta, vestita di nero e taciturna, erano certo buoni richiami. Quando stavamo raccolti nella fredda sala da pranzo, noi stessi sembrando ombre fuori dal cerchio che il lume segnava sulla tovaglia, e si udivano nelle camere di sopra cigolii, sbattere di usci, la vecchia zia diceva: − Sono gli spiriti. − Noi continuavamo a mangiare, seri e corretti. Siamo giusti, che cosa fanno di male? Spostano una sedia, fanno scricchiolare i mobili. Aspettano l’oscurità e cominciano i soliti giochi: chi sfoglia un libro, chi soffia nelle tendine delle finestre, chi apre adagio adagio l’armadio. Confesso che talvolta mi diverto a spaventarli. Entro in camera di botto, accendo il lume: allora vedo la sedia sospesa nel vuoto, la pagina del libro alzata. La gente li calunnia. Con la sua ostilità li confina nei palazzi diroccati, in soffitta. Starebbero tanto volentieri fra noi. Mi pare di udirli: − Facciamo i buoni e i bravi, ma lasciateci un’oretta qui. − Poverini, si accontentano di guardare, di accostarsi al fiato caldo dei vivi. Invece l’uomo, appena si accorge di loro, urla, strepita, chiama i vicini. Calma, calma, verrà il vostro turno e proverete il dispiacere per essere trattati così. Sono i compagni futuri, infine, con i quali starete sempre. Preparatevi un ambiente favorevole… Parole al vento, lo so. Ma, intanto che sono sull’argomento, voglio avvertire le madri. Sappiano che anche i bambini piccoli diventano spiriti. Conobbi una giovane donna, che andava tutte le sere vicino ad un boschetto dove era stata vista l’ombra del suo povero figlio. Facciamo così anche noi; anziché recarci a teatro, andiamo in quei posti battuti dalla luna che gli spiriti frequentano, presso le cascatelle d’acqua, lungo i pendii delle colline. Scambieremmo tre o quattro chiacchiere con i nostri defunti. Non diventerebbe una cosa leggera, la morte? Potremmo con l’ultimo filo di fiato assicurare i restanti: − Arrivederci domani, alle venti, alle ventuno, alle ventuno e un quarto… Forse, stabilendosi, tra i vivi e i morti tanto confidenziali rapporti, con l’andare del tempo sarebbero i vivi a mancare agli appuntamenti. Lord Welcome ragionava assai diversamente. Ricordo che un mattino fu trovato nella sua biblioteca morto di sincope. Lord Welcome aveva davanti un foglio di carta su cui leggemmo: “Questi spiriti! Continuano a far parlare i giornali, sono dovunque. Mentre sto scrivendo ce ne può essere uno dietro le mie spalle e chissà che non mi lasci andare uno di quei ceffoni per cui vanno famosi. Dà fastidio il pensiero che in certi momenti vi sia dietro di voi uno spirito a spiarvi. “Sovente, mentre noi siamo sulle loro tombe a piangere, possono essere, come si sente dire, in giro per il mondo a fare buffonate.” Cesare Zavattini, Parliamo tanto di me, in Opere 1931.1986, Milano, Bompiani, 2001, pp. 4-6.
7 Fotografia di Mara Gallo, L’anima dei muri, pellicola diapositiva, senza l’uso dei filtri, 30x30
L’ultima moglie di Barbablù Racconto e Fotografie d’Autore
Testo di Guia Risari Fotografia di Vasco Ascolini©, dalla serie “D’aprés F. Bacon...”, elaborato su carta argento e stampato in digitale “Baryta”, inedito, 2010
You must realize that I was suffering from love and I knew him as intimately as I knew my own image in a mirror. In other words, I knew him only in relation to myself. Angela Carter, Souvenir of Japan L’apparenza inganna, dicono. Invece io dico: fidati delle apparenze. In fondo, sono l’unica cosa di cui siamo certi. Il resto, chissà se c’è e, se c’è, dove si trova. Per cui, badiamo alle apparenze, amministriamole, ammaestriamole e dirigiamole sugli occhi di chi ci guarda come un riflesso, trasformandoci in ciò che vorremmo essere, o meglio, nella sua immagine. Poi, magari, all’apparenza seguirà la sostanza. Se così non sarà, pazienza, almeno avremo dato una buona impressione, qualcuno prenderà il nostro bagliore per un raggio di sole e ci farà sentire migliori di quello che siamo. Per me, l’apparenza è stata tutto o quasi e a lei mi affido per il buon proseguimento della mia vita, anzi per la vita e basta.
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Lui non c’è più. Pietra al posto di carne e muscoli, terra invece di occhi, i suoi capelli scomparsi. Il blu, ora lo devo cercare nella notte. Quando l’ho visto per la prima volta ho pensato fosse Dio. Un Dio più giovane, arcaico; non suo figlio, quello che tutti chiamiamo Cristo perché la sua figura non aveva niente di fragile. Tutto in lui pareva accompagnato da una potenza incontenibile. Sembrava che nei suoi occhi abitassero dei lampi e che delle fiammate potessero nascere dalle sue dita. Io non gli arrivavo neanche alla vita e lui aveva posato su di me uno sguardo severo che si era subito addolcito e mi aveva presa in braccio. La testa mi era affondata nella barba serica e scura, lucida come le piume di un merlo. Era tornato dalla guerra. Vittorioso. Ancora più forte di prima. Raccontavano che fosse partito seguendo una fanciulla guerriera, una specie di santa che più tardi sarebbe stata bruciata come strega. Ma lo sapeva, allora, lui che aveva obbedito a una strega? Gliene importava? In guerra aveva imparato due cose: che i cadaveri parlano e l’inglese. Questa bizzarra lingua accompagnava le sue espressioni di stupore, quasi gli fosse rimasta impressa la meraviglia che i nemici dovevano aver provato davanti a lui. La lingua dei cadaveri è l’ultimo soffio di vita, quello che di poco precede lo spegnimento della loro fiammella, quando in un respiro si concentra tutto: gioie, rimpianti, speranze, paura, un ultimo bagliore prima del buio eterno. Lui si chinava sempre per raccogliere quei momenti, incurante del pericolo, insensibile ai richiami di chi lo metteva in guardia contro gli inglesi. “La morte ci fa uguali” ripeteva ed era stato così che aveva imparato quella lingua. Di lui, poiché non sapevano cosa dire, dicevano di tutto. Dal momento che non frequentava locande e non insidiava le mogli altrui o le pastorelle, pensavano fosse un pervertito. Aiutava i bambini poveri, quelli abbandonati in mezzo a una strada, trasformati in piccoli schiavi gobbi di fatica. Bussavano alla sua porta e nessuno li vedeva più. Ma non perché lui li mangiasse, come raccontavano al villaggio. No, lui li nutriva, li ripuliva e li affidava a persone degne di fiducia. Diventavano valletti, amici, figli di qualcuno che la sorte non aveva benedetto con una nascita. Io questo lo vidi coi miei occhi dopo. Ma già bambina lo intuivo che quell’uomo non poteva fare del male a nessuno; le sue braccia forti quando mi stringevano parevano fatte d’aria. La prima volta che lo vidi ero una bambina. Mio padre commerciava in tessuti e lo riforniva di broccati, cotoni e pezze di lino che lui sceglieva personalmente.
«Sapete cucire?» domandava la mia sorella maggiore che non era mai stata timida. «Solo le ferite» rispondeva lui. «Ne avete tante?» domandava ansiosa mia sorella. «Quel che basta per avere voglia di tenerle al caldo» replicava lui asciutto. Non era infastidito, quasi più esausto, come se un semplice scambio di battute attingesse al pozzo della sua pazienza. Ma era appena tornato dalla guerra. Bisognava capirlo. Aspettare che risalisse dalle profondità e vedesse la luce. Lo dicono di tanti uomini che dopo la guerra paiono incupiti e vecchi: la guerra passa sul di loro una patina di morte che solo molta vita può eliminare. Ma ce ne vuole molta. La sua prima moglie era morta di polmonite, dopo un inverno particolarmente duro. La seconda di cuore, quando ricevette la falsa notizie della sua morte. Ma la colpa era stata sua. Gli piacevano quelle donne delicate che sembrano quasi degli spiriti con mani bianchissime e colli che sembravano sul punto di spezzarsi. Donne inclini alla malinconia e all’infermità. Si fosse scelto una di quelle contadine robuste che spezzano le noci coi denti e spaccano la legna con un braccio solo non gli sarebbe successo. Mia sorella, la più grande, aveva tutto per piacergli tranne la lingua. Ma lui sapeva non ascoltare e quindi la chiese in moglie. La ottenne subito. Mio padre considerò un privilegio che un nobiluomo come lui si degnasse di fargli tanto onore, a lui, un commerciante vedovo con tre figliole, a lui che fino a pochi anni prima era ancora imbrattato di terra e di sangue di maiale. Così preparò tutto in un baleno: grandi tavolate imbandite per il matrimonio e stoffe preziose per la dote. Mia sorella si cucì il corredo in un mese e confezionò per il promesso sposo una giacca di seta blu con dei bottoni di metallo istoriato che aveva acquistato al ghetto, da un commerciante ebreo. A lui quella giacca preziosa piacque molto, tanto che da quel giorno non la tolse mai. La stoffa lucida e iridescente gli illuminava il volto con riflessi blu cobalto. Le spalle larghissime sembravano ricoperte di scaglie, come quelle di un tritone. Mia sorella era felice, ma quell’opportunità le era piovuta dal cielo, senza quasi che lei avesse avuto il tempo di immaginarsela, di desiderarla. Quel matrimonio era un evento inaspettato per lei, che lei accolse come una giornata di sole in inverno: sorrise e si mise comoda a godersi ogni tepore. Secondo me, non se lo meritava. Lui era troppo per lei, ma mi guardai bene dal dirlo. Quanti anni avevo in fondo? Undici? Come figlia minore, avevo a malapena diritto di esistere. Perciò, anche se ero ferita, delusa, arrabbiata, quel matrimonio si fece e mia sorella partì a vivere nel palazzo di quell’uomo misterioso e incantevole. Io attesi. Ogni giorno. Quando torneranno a farci visita? Quando lo rivedrò? A quella stupida di mia sorella pensavo poco. Avevo sempre considerato che fosse un’oca. Un’oca fortunata, però. Dopo qualche settimana li vidi. Lui più bello e gagliardo che mai, lei più adulta, come ammantata da un velo di stanchezza. L’amore le faceva quell’effetto? L’amore può consumare? Presto mi resi conto che quel matrimonio comportava dei vantaggi per me. Finita la quarantena della luna di miele, avevo libero accesso al loro palazzo. Potevo vederlo, quindi, quasi tutti i giorni. Con la scusa di voler imparare da mia sorella tutti i segreti del ricamo, eccomi lì, annidata nelle loro stanze come una malattia grave, in attesa di balzare fuori allo scoperto. Nel frattempo studiavo tutto: comportamenti, espressioni, abitudini. Quando nessuno mi vedeva, entravo nella sua camera e annusavo le lenzuola, una camicia lasciata a terra, rubavo un fazzoletto. Mia sorella, pur essendo magra come un salice, era molto golosa. Lo sapevo, così come sapevo riconoscere le buone dalle cattive erbe, i funghi che nutrono da quelli che stroncano la vita. Non è faccenda di streghe, questa, ma di buon senso e di osservazione. Così colsi un certo fungo che feci opportunamente seccare. Per fortuna ci furono splendide giornate di sole all’inizio di quell’estate, di modo che la mia attesa non fu lunga. Seccato e ridotto in polvere finissima, avevo l’epilogo di quell’idillio così ingiusto. Funzionò, lo mangiò in una zuppa, soffrì un po’, ma fece una bella morte pulita. Niente sangue, niente escrementi o vomito. Ero soddisfatta. Lui non venne più per giorni e giorni. Furono mio padre e mia sorella che dovettero recarsi al suo palazzo per confortarlo, nutrirlo, fargli compagnia. Quanto a me, stetti un po’ in disparte, fingendo di essere distrutta dal dolore e solo dopo un lungo periodo riapparvi. Lui mi considerava come una sorellina e fu felice di vedermi. Voleva prendersi cura di me e istruirmi. Così pagò un istitutore che m’insegnò a leggere e a scrivere. Ma quel che più conta, cominciai a frequentare il palazzo con assiduità.
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I tre anni che seguirono furono i più felici della mia vita. Io imparavo in fretta, destando l’ammirazione del mio istitutore, ma anche e soprattutto la sua. Suonavo il liuto e cantavo come un angelo, benché alcuni lo considerassero un passatempo sconveniente. Ricamavo fenici e scene di battaglia per grandi arazzi che andavano ad adornare la sua casa. Crescevo e mi facevo donna. Un corpo esile addolcito dalle prime curve e un viso non perfettamente regolare ma vivo, espressivo. Avevo fretta di vedere il risultato di quei cambiamenti e la mia forma definitiva, ma non si può mettere pressione alla natura e poi così avrei avuto più tempo per studiarlo, non mi sarebbe più sfuggito. Ma il brutto dell’essere una sorella minore è che vieni sempre dopo. Dopo la prima e dopo la seconda. E la seconda era ben più temibile dell’altra. Bionda, piccola e fragile, assomigliava in tutto alla mia povera mamma. Due grandi occhi celesti che parevano due nuvole, riccioli dorati che le incorniciavano il volto e labbra gonfie e rosse. E poi, per mia disdetta, un modello di virtù, un raro esempio di intelligenza e delicatezza. Mia sorella era come una poesia che si può tornare a sentire senza stancarsi mai. E lui se n’era accorto. Quell’amore pareva averlo risvegliato alla vita. Ricominciava a parlare, a sorridere, ad andare a caccia. Solo per questo e solo per un po’, perdonai mia sorella. L’aveva risvegliato da un dolore sordo che lo stava lentamente uccidendo. Almeno questo dovevo riconoscerglielo. I miei sentimenti si congelarono e presi posto nella tribuna degli spettatori: assistetti al lento corteggiamento, ai dialoghi muti di occhi e spalle, alle passeggiate, ai doni, alle promesse e vidi mia sorella, come l’altra, preparare il suo corredo. Stavolta lo sfarzo della cerimonia fu ancora più grande, quasi che mio padre cercasse di scacciare i fantasmi della figlia defunta. Vennero invitati i miei sette cugini, appena tornati dalla guerra. Anche loro rivolgevano al mondo quello sguardo assente che avevo già visto e furono poco meno di comparse a quella sontuosa festa. A palazzo ormai non osavo più andare. Lo spettacolo di quella felicità mi stordiva, mi pugnalava a morte. Lo odiavo, la odiavi o odiavo tutti quanti. Presi a detestare anche il mio genitore per quanto decantava le virtù di mia sorella e la perfezione del loro amore. Ma dovevo reagire. Non mi sarei mai rassegnata a quel ruolo passivo. Se volevo l’uomo, dovevo diventare una donna, una vera donna pronta a tutto. Attesi che la mia rabbia sbollisse e che i due sposi tornassero ad occuparsi del mondo. Nel frattempo crescevo e festeggiai i miei quindici anni con la certezza che, prima dell’inverno, avrei trovato la soluzione al mio problema. Di nascosto, nel bosco, mi esercitai: sui tronchi, sugli animali, nell’aria. Imparai insomma a maneggiare il coltello e l’arco. Non avevo deciso ancora quale usare. Non avevo deciso ancora nulla. Capitò per caso. Un pomeriggio. Lei era lì, come un cerbiatto, con gli occhi sgranati e il fiatone, appoggiata a un tronco. E lì rimase, trafitta. Nessuno sapeva delle mie esercitazioni. Chi d’altronde poteva sospettare che una fanciulla uccidesse la sua propria sorella con una freccia al cuore? Avevo buona mira. 10
Era ovvio che alla fine sposasse me. O per lo meno, era ovvio per me. Gli altri non lo sapevano certo. In parte perché ero tanto più giovane di lui e poi perché ero stata molto abile a nascondere i miei sentimenti. E i suoi nei miei confronti quali erano? Simpatia? Amore paterno? Compassione perché ero così meno attraente delle mie sorelle? Bellina, capace, allegra ma non fascinosa e tanto meno angelica. Capelli neri – l’unica delle tre – folti e dritti, spessi come corde; un naso con una leggera curva aquilina, due occhi di carbone sotto sopracciglia decise e una mascella dura, inquieta che mi faceva somigliare, quando non sorridevo, a una specie di armatura. Per questo cercavo sempre di essere allegra. Mentre lui non poteva chiudere occhio per la sofferenza, sorridevo. Mentre mio padre aveva quasi perso il senno, sorridevo. Sorridevo anche quando i miei cugini lanciavano maledizioni e minacce velate alla volta
del “maledetto barbuto” che aveva ucciso le sue mogli. Io lo difendevo, ma con scarso vigore. Non era nei miei compiti fargli da balia. Io volevo essere sua moglie, l’unica non potevo, ma l’ultima almeno, quello sì. Finsi quindi di sprofondare in una crisi depressiva che avrebbe potuto uccidermi. Non mangiavo più (in presenza d’altri), non parlavo più. Sospiravo e piangevo, finché il mio volto non fu smunto a dovere e solcato da profonde occhiaie. Fu a questo punto che lui si scosse dal suo torpore, mosso evidentemente da quello che ormai considerava un dovere di famiglia. Feci di tutto per procurarmi una bella febbre e lui mi vegliò, mi fece mangiare, mi asciugò la fronte. Io mi agitavo nel letto, avendo cura di sbottonarmi la camicia sul petto e nel delirio lo chiamavo, come se fosse l’unica medicina che mi potesse salvare. Lui capì. Era un uomo sensibile e, credo senz’amarmi, mi sposò. Lo fece per il mio bene e per quello di mio padre. Non vivevo che per lui. Attendevo che aprisse gli occhi e che, la sera, li chiudesse. Dopo, niente aveva più senso. Mi mostrai devota, gentile, di buon umore, attenta, appassionata. Ma lui, pur sforzandosi di condividere i miei sentimenti, restava altrove, in uno spazio privato cui non avevo accesso. A cosa pensava? A chi? La mia rabbia era smisurata. Avevo fatto fuori le mie due sorelle per niente? Avevo sognato un paradiso che mi sarebbe sempre stato precluso? E solo perché avevo avuto la sfortuna di nascere dopo? Di tutta questa furia fui ben attenta a non far trasparire niente. Con lui dovevo essere tutta miele e dolcezza. Ma non c’è essere umano che possa sopportare una così tenera indifferenza. Per sfogarmi cominciai a uccidere gli animali del bosco e da cortile. Li guardavo agonizzare e mi sentivo alleggerita dalle mie pene. Presto, però, non mi bastò più. Odiavo tutte le fanciulle che vedevo pascolare le greggi nel bosco o attingere l’acqua alla fonte o accompagnare i padri o gli sposi al mercato. Quelle, mi dicevo, non hanno voluto niente, non hanno cercato nessuna felicità e ce l’hanno. Lui era accanto a me, ma era come se non ci fosse e io volevo che qualcuno mi notasse, anche per temermi, anche per odiarmi, ma mi vedesse una buona volta. Le attiravo al palazzo con una scusa qualunque e le invitavo immancabilmente a visitare la mia dispensa, della quale vantavo le meraviglie. Era naturale che quelle pidocchiose vi si precipitassero con l’acquolina in bocca: la maggior parte di loro non aveva nemmeno mai visto un sacco di farina tutto intero, figurarsi prosciutti, forme stagionate, salami, fagioli, patate, zucchero. Ma in quella cantina non c’era niente, solo mattoni grigi con pesanti uncini di ferro alle pareti, una grata piena di ragnatele da cui entrava a sibili un’aria fredda e minacciosa. Le facevo fuori lì, con un colpo in testa. Poi le sgozzavo, le sventravo e preparavo delle ottime salsicce. Lui non si è mai accorto di niente, l’unica cosa che sembrava importargli è che fossi viva, per il resto avevo la trasparenza delle cose inutili. Mi parlava, si confidava, eppure era come se fosse in compagnia di un secondo se stesso. Un giorno ho cercato di scuoterlo, di dirgli tutto il mio amore, spiegargli che per lui avevo attraversato il fuoco dell’inferno, superato la barriera che divide i santi dai diavoli, che per lui avevo... Mi guardò con aria assente, poi si risvegliò e rimase muto a fissarmi. Si alzò e in silenzio si diresse verso la cantina. Non lo fermai. Mandai un servitore dai miei cugini a chiedere soccorso. Il resto della storia è noto a tutti. Sulle mie panzane hanno scritto fior fior di libri. Su un uomo mostruoso dalla barba blu, assassino di mogli e assetato di sangue. Non del mio, in ogni caso, perché, uscito dalla cantina, lui si sedette e rimase ad attendere il suo destino con la lunga barba serica illuminata di blu sul petto.
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Si inizia tutti morendo Testo di Davide Carrettin Illustrazione di Silvia Lonati, Paura, china e matita su carta d’acquerello
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Se c’è una cosa da tenere a mente è che la superstizione è ben più esatta della scienza. Non esiste possibilità di sgarro nelle leggi dettate dagli spiriti e, al contrario di quel che si potrebbe pensare, esiste ben poca libertà d’interpretazione nel mestiere di chi scruta i segnali che essi ci inviano. Un esperimento scientifico può essere contestato e i suoi risultati possono essere presi per veri un giorno e dimostrati erronei il giorno dopo. Quel che Dio ci comanda e i suoi prediletti e demoni ci suggeriscono è invece vero da qui all’eternità, com’è vero che se smetti di mangiare ci rimetti la trippa. E così, quando la moglie di Guglielmo si ritrovò ad aver partorito una testa di lupo e il barbiere prese a dar la colpa a certi alimenti sbagliati con cui s’era saziata per una vita, fu messo a bruciare insieme ad ella poiché le teste di lupo, si sa, non son roba per barbieri ma per vescovi. Ancora giorni dopo il falò purificatore non si faceva che parlare di quella testa di lupo e di quella testa di rapa del barbiere che aveva provato a contraddire Sua Santità. Di Guglielmo nessuno osava più pronunciare il nome, anzi, per strada gli si faceva largo non certo per rispetto ma per timore, e persino il Vescovo in persona ci mise una settimana buona prima di concedergli udienza. Lo accolse pallido come se si fosse trovato un leone sulla scrivania e, se lo invitò ad accomodarsi, sembrò più per dovere che per piacere. «Padre, credo che il demonio se la sia presa per qualcosa che ho fatto», fu la supplica disperata di Guglielmo. «Raccontatemi, figliolo, che cosa vi accade». Così dicendo, le mani del Vescovo presero a tormentare il crocifisso appeso al collo. «Al posto del bambino mi è nato un lupo a metà, la vedova mia è stata arsa con il barbiere che erano anni che ce l’avevano a morte l’uno con l’altra, e ora i fantasmi!» «I fantasmi?!!», fu l’esclamazione di Sua Santità che si spalmò letteralmente sullo schienale della poltrona. Gli occhi strabuzzati sembravano voler dire qualcosa di preciso. «I fantasmi!», precisò Guglielmo, che poi continuò: «L’altro giorno mi sono recato al camposanto per portare un fiore sulla fossa della mia santa donna, e chi vi trovo? Ci stava un certo generale morto da cent’anni che in vita tutto gli riuscì tranne che di conquistare l’amata. E ha continuato a farneticare per ore sul modo di rapire un cuore, e sosteneva che bisogna farlo rubandogli il passato, mica progettando un futuro! Ed è ancora lì che rovista nei cimiteri, poiché è nei cimiteri che finisce il tempo andato. Robe da matti o da indemoniati!» A questo punto il Vescovo, per poter star calmo, dovette dar fondo a tutta la disciplina che gli inculcarono negli anni di seminari: «E ditemi, Guglielmo, vi era mai capitato di vedere altri fantasmi?» Guglielmo scattò in ginocchio con le mani giunte a mo’ di preghiera: «Ma no, ma no, che dite? Non sono forse roba del demonio? Non ho mai avuto a che fare con morti che parlano e camminano, e non mi è mai stato bruciato parente prima! Gliel’ho detto, devo aver fatto qualche dispetto a qualche guardiano degli inferi, non c’è altra spiegazione. Ma cosa ne posso sapere io di inferi che mi son sempre e solo occupato di melanzane?! Coltivo melanzane da quando ho dieci anni e ricordo ancora quel che diceva mia madre: “Le melanzane fan schifo anche ai morti, per questo è il mestiere più sicuro!”» Ci fu un momento di pausa nella narrazione di Guglielmo. I suoi occhi si assottigliarono e le mani sciolsero la rigida posa della preghiera e presero a strofinargli il mento: «Adesso che ci penso bene è
da un po’ che non si tirano su melanzane dalla terra... e che non si seminano nemmeno! Che sciagura, prima la testa di lupo, poi la morte della mia vedova ed ora non mi restano neanche più melanzane da vendere!» Il Vescovo si alzò in piedi all’improvviso e, menando sotto gli occhi di Guglielmo il crocifisso, tuonò: «Ora basta! Ma non sentite come e di cosa parlate?!?» E Guglielmo, che dovette spaventarsi non poco, fece un balzo all’indietro superando la sedia come se niente fosse e atterrando al centro della stanza: «Ma che dite, Padre? Non capisco proprio. Che sia io da purificare come la mia vedova? Forse che le melanzane diedero fastidio a qualche spirito della terra?» Dopo aver gonfiato il petto, alzato il crocifisso al cielo e invocato lo Spirito Santo in persona, il Vescovo puntò gli occhi diritto su Guglielmo: «Nemmeno vi accorgete che siete appena passato attraverso la poltrona? E la testa di lupo, poi, non avreste potuto far niente di più crudele che mettere incinta vostra moglie che, come voi stesso non vi stancate di ripetere, era vostra vedova! Guglielmo, le teste di lupo nascono solo dai rapporti con l’altro mondo! Sono due inverni che delle tue melanzane si sente la mancanza perché smettesti di coltivarle il giorno che ti prese quell’attacco di cuore! Via! Via!» Il Vescovo superò la scrivania e si scagliò contro il Guglielmo con il crocifisso ben in vista: «Fuori da qui, essere dannato! Raggiungi il regno infelice dal quale scappi o chiedi perdono affinché il Signore ti recuperi tra le sue fila!!!» E lo si vede ancora oggi Guglielmo delle melanzane a girovagar per il paese, a meravigliarsi del terrore della gente, a sparlar del Vescovo buono solo a sventolare crocifissi e a cercare una spiegazione per quella testa di lupo. E mentre attraversa una parete o una porta, glielo si legge negli occhi che il riposo è solo per chi sa riposare.
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Testo di Enrico Elvis Crotti Illustrazione di Farinella Matteo, Fantasmi, inchiostro su carta, 21x29,7
Ci sono uomini il cui genio è conclamato fin dalla più tenera età. Crescono strani. Non sono troppo bravi a vivere e a volte, purtroppo, muoiono presto. Katie Hafner
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Che meraviglia. Un passo dopo l’altro, la luce si dirada. Fra qualche metro, tutte le piante svaniranno avvolte dall’oscurità umida del bosco. Rari spiragli di sole tatuano la terra con la sagoma dentata delle foglie. Circondato dalle tenebre, impugni un bastone. Non conosci la paura, ti piace colpire le ortiche cresciute all’ombra delle querce. Dopo ogni fendente, l’aria odora di pere acerbe. Nascosto nella penombra, ascolti gli spostamenti guardinghi degli animali. Aumenti l’andatura. L’odore d’aglio selvatico diventa più intenso. Il chiarore lattiginoso del giorno scivola lungo i tronchi ruvidi degli alberi. Ragni nell’oscurità tessono geometrie primitive, l’incrocio esatto di fili viscosi. Trappole in controluce. Un passo dopo l’altro il buio comincia a svanire. In lontananza intravedi, alla fine del bosco, una radura. Alzi gli occhi, fronde sovrapposte spezzano i contorni delle nuvole. Lasci cadere il bastone, gli uccelli smettono di cantare. Ogni rumore si dissolve. Davanti a te si apre un prato immenso. Per un istante, il riverbero accecante della luce cancella il contorno preciso delle cose. Alzi gli occhi al cielo per scorgere la forma mutevole che assumono le nuvole invase dal vento. Fuori dal bosco, sparse nel prato, incontri delle uova gigantesche appena dischiuse. Viste da vicino, queste ellissi biancastre sembrano vecchie vasche da bagno abbandonate. Cammini sbalordito. Sgrani gli occhi incredulo. La prima vasca è di color avorio, i piedi a zampe di leone affondano nella terra. Immerso c’è Jim Morrison, barba lunga, una stilografica in mano, le dita macchiate d’inchiostro. Fogli scritti e appallottolati ricoprono l’erba, piccoli fiori azzurri sbucano fra le parole. Qualche metro più avanti, Janis Joplin si protegge dal mondo, inforcando un paio d’occhiali tondi dalle lenti viola. La sua vasca ha tre gambe dorate. Un registratore a bobine sostituisce la gamba mancante. Poco distante da lì, sul bordo della vasca occupata da Ian Curtis, le parole Love will tear us apart risaltano graffiate nella ghisa. Due metri più a destra, John Lennon sta appendendo alla sua vasca il cartello rosso: Strawberry Fields. Se potessi sorvolare questo spicchio di terra, vedresti una pianura verde costellata da trentadue confetti bianchi disposti in ordine sparso. Soltanto allora riusciresti a scorgere, al margine opposto della radura, la sagoma di una grossa farfalla dalle ali dischiuse: il corpo lucente e silenzioso di un pianoforte. Nel prato davanti a te, immersi dentro vasche laccate riconosci: Elvis Presley, Joe Strummer stretto in un chiodo di pelle nera, Kurt Cobain, Otis Redding con un microfono in mano, Jimi Hendrix, la faccia divertita di Frank Zappa. Tutti tacciono, tutti scrutano in lontananza la fine del prato, nessuno si scompone. Pochi istanti dopo, vicino al pianoforte compare un uomo minuto, emaciato, con le
mani protette da mezzi guanti beige. Indossa un maglione di lana grigio. L’uomo ti guarda torvo. Nel fondo dei suoi occhi si agita un barlume di follia. Sei l’unica persona in piedi. L’ultima vasca libera è stata occupata da Jeff Buckley. Tutti i cantanti, i poeti, i miglior musicisti rock di questi ultimi anni accennano un applauso. Brian Jones addirittura lo chiama per nome: «Glenn. Welcome Glenn!». Glenn Gould − sì, perché è lui l’uomo col maglione grigio − si accosta al pianoforte, lo accarezza dopo essersi tolto i guanti, si accomoda su una sedia pigmea malconcia, la sua preferita. Appollaiato, con la testa incassata nelle spalle, sfiora appena la superficie lucida dei tasti. È in attesa del momento propizio, tutto il corpo in raccoglimento. Respira, legge lo spartito, solleva le mani sulla tastiera. Lo sguardo arcigno si scioglie in un sorriso autentico, come se riuscisse a immaginare i gesti precedenti alla trascrizione delle note, l’esitazione, il respiro di Bach antecedente alla creazione. Glenn Gould comincia a suonare. Simmetrie musicali e matematica si fondono nella melodia. Il pubblico assiste alla metamorfosi corporea di uno fra i più grandi interpreti delle Variazioni Goldberg. Le note si propagano nell’aria, lambiscono i fili d’erba, scalano le zampe delle vasche, sfiorano gli smalti, la pelle delle rockstar, gli occhi lucidi, i loro corpi idolatrati, i tragici rimorsi di ognuno. Questa musica non lascia scampo, lambisce e scava senza tregua, ti riporta indietro nel tempo, raggiunge il bosco, accarezza le radici delle querce, le primule, le foglie d’edera nuove, i nidi di ragno nascosti all’ombra della boscaglia, il buio più profondo, sconfina nell’intimità di chi ascolta. Che sapore hanno i rimorsi? Apri gli occhi. Da una fessura verticale della persiana penetra il chiarore dell’alba. Ti guardi le mani nell’ombra della stanza. Le note delle Variazioni Goldberg suonano da tutta la notte. Sei rimasto solo, la meraviglia, il pianoforte, tutti gli spettatori illustri sono svaniti con il sonno. Arrivi in cucina, la luce sopra il tavolo illumina le forbici. Il rumore delle lame che si congiungono taglienti, anticipa l’attacco della Ventisettesima variazione. Una goccia di sangue macchia il pavimento. E poi un’altra e un’altra ancora. Afferri il barattolo di zucchero. Ci infili le dita insanguinate. La musica non ti abbandona. I cristalli più grossi appiccicati alla pelle luccicano ruvidi. Il sangue li tinge di scuro. Lo zucchero appoggiato alle labbra non si scioglie immediatamente. Oppone resistenza. Tu non vuoi morderlo come facevi da piccolo con grumi amorfi di zucchero. Hai imparato ad aspettare. Anneghi i tormenti spingendo la lingua contro il palato. Nello stesso istante, le note aderiscono al ricordo più doloroso. Il rimorso ha il sapore del sangue e dello zucchero grezzo. Questa musica ravviva la sequenza esatta dei vostri ultimi gesti insieme: le prime ammissioni, le sue mani che impugnano le forbici, le tue bugie, la vostra fotografia più bella tagliata in strisce irregolari. L’ultima sera, tutto era precipitato in fretta: avevi cercato di trattenerla, ti eri ferito alla mano, le forbici erano cadute sul pavimento. Lei era uscita dalla tua vita senza sbattere la porta. E allora ti eri lasciato cadere per terra, avevi cercato di ricostruire quella fotografia, l’immagine di quell’hotel, la stanza da bagno, il vostro abbraccio mutilato, i rubinetti sopra la vasca, i vostri sorrisi luminosi. Sconfitto, proprio come adesso, avevi cosparso di zucchero la ferita della mano. Allora, non potevi sapere che il rimorso per gli errori commessi ti sarebbe rimasto appeso alla carne per la vita, per poi riemergere ogni volta sulle note finali della Trentaduesima variazione. Esausto, chiudi gli occhi, per alleviare il peso della disfatta.
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Mettersi in Gioco Testo di Cinzia Bettineschi Illustrazione di Silvia Lonati, Fantasmi, china e matita su carta d’acquerello
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Rigira il cellulare tra le mani scorrendo le dita sul display. Alle tre. Vedi di esserci. Solo un mese prima quel messaggio l’avrebbe gettato nel panico, ma dopo l’incidente e il risarcimento Gianni ha smesso di preoccuparsi per quel genere di dettagli economici. «Ehilà socio, come va?», bercia un cinquantenne mentre si avvicina. «Ho sentito del tuo piccolo incidente. Una vera fortuna per te incassare i soldi dall’assicurazione!» «Già.» Le pupille di Gianni si dilatano fino a trasformare i suoi occhi celesti in un’enorme macchia scura. «Ma facciamo in fretta, aspetto mia moglie.» Porge all’uomo una tracolla in pelle poi, senza dire una parola, imbraccia le stampelle e si volta verso il centro. «Perché così in fretta?», gli grida l’altro. «Oggi corre Morigi, lo sai?» Gianni si blocca di scatto. Sente un brivido elettrico scorrergli dalla nuca lungo la schiena, raggiungere l’attacco delle ginocchia per poi spingersi ancora più giù, fino alla punta delle dita. L’impressione di poggiare a terra con entrambi i piedi è tanto reale che Gianni è costretto a controllare l’asfalto per convincersi che quella sensazione è solo frutto della sua fantasia. I medici avevano accennato a un’eventualità del genere, l’avevano chiamata sindrome dell’arto fantasma, ma Gianni aveva stentato a credere alle loro parole. Gli sembrava una di quelle frottole che inventano gli psichiatri per tranquillizzare le persone malate di mente. «Allora che dici, te la fai una puntatina?» Le labbra di Gianni si muovono quasi per forza d’inerzia. «A quanto lo danno?» «Venti e mezzo.» Scuote la testa. «Con quella vita ho chiuso.» Attraversa la strada cercando di non voltarsi e si accascia dietro uno dei piloni sul portico della stazione ferroviaria, tra l’immondizia e il piscio di cane. Si è ripromesso di smetterla per sempre con le scommesse, ma qualcosa dentro di lui non fa altro che riempirgli la testa di numeri, statistiche, accoppiate vincenti. La notte non riesce a dormire; mentre è a letto con gli occhi fissi sul soffitto, Gianni vede le corse al rallentatore, assapora l’istante in cui i cavalli tagliano il traguardo – i muscoli contratti e la criniera al vento –, riesce persino a sentire l’odore dell’erba e l’eco degli zoccoli sulla terra battuta. Sbircia da dietro la colonna l’altro lato del piazzale e senza rendersene conto estrae il portafoglio dalla tasca interna del cappotto. Cinquanta euro. La stessa cifra puntata la prima volta che ha messo piede in agenzia, due anni prima. Le immagini affiorano lente e per Gianni è come sprofondare nell’oscurità del ventre materno. La prima giocata fortunata, i tentativi andati a vuoto, l’adrenalina, la volontà di recuperare le perdite. Poi quel giorno di ottobre in cui il mondo gli è crollato addosso, il suo venerdì nero. Da allora tutto è successo troppo in fretta per rendersene conto: la necessità di trovare una soluzione, la telefonata a Marco, la truffa all’assicurazione. Entra nella sala corse e mostra all’addetto la banconota. «Fammi una trio a girare. Nove, set.» Tum-tum-tum-tum, tum-tum, tum Gianni avverte la gamba destra sbattere rumorosamente contro il pavimento in linoleum. «Ha sentito anche lei?», chiede al cassiere. «Sentito cosa?» «Nulla, mi scusi.» «Allora, me li dà questi tre numeri?» Gli fa cenno di voltarsi. Ci sono due persone in fila che lo guardano con espressioni visibilmente scocciate. «Certo, dicevo… Nove, set.» Tum-tum-tum-tum, tum-tum, tum
Di nuovo. E questa volta il rumore e la sensazione sono troppo intensi per ignorarli. Gianni rimane per un attimo immobile di fronte al box della ricevitoria, fissando l’unico piede che gli è rimasto. Intanto alle sue spalle iniziano le prime frecciate di protesta; riesce a cogliere solo qualcosa che ha a che vedere con “lo sterminare i cazzo di storpi” e un’esclamazione in lingua straniera con tutta l’aria di essere un insulto. «Allora nove, sette e poi?», lo incalza l’impiegato. «Ho cambiato idea. Quattro, due e uno fissi», dice Gianni, allungando i soldi. Prende la ricevuta e si lascia scivolare sulle seggiole in plastica di fronte alla fila di televisori appesi al soffitto. Inspira a pieni polmoni l’aria stantia del locale e per un attimo si sente felice; non esiste nessuna moglie che lo aspetta, nessun figlio in arrivo. In quei due minuti sono lui e i cavalli, nient’altro. Red parte in vantaggio, seguito da Morigi e Tea. All’ultima curva, però, Pold sbuca dalle retrovie e si porta davanti, superando in volata gli avversari. Risultato finale quattro-due-uno. Gianni trattiene a stento un grido di gioia. Il suo cuore pulsa a ritmo serrato e l’eccitazione gli procura una leggera vertigine; i sensi di colpa sono solo un ricordo sbiadito. Si avvicina al bancone e avverte lo stesso fremito caldo scorrere lungo la gamba amputata. L’arto fantasma. Il suo portafortuna. Tum, tum-tum-tum-tum-tum, tum-tum-tum «Alla prossima uno, cinque, tre. Punto tutto.» Restituisce il tagliando vincente e ritira quello che gli porge il cassiere. Il cellulare inizia a suonare. Gianni guarda lo schermo e storce le labbra: Michela. Per un attimo è convinto di voler rispondere e dire che, sì, la sta raggiungendo, è già in viaggio sull’autobus, va tutto bene. Poi il richiamo della campanella che segnala l’inizio della corsa lo rapisce al mondo e la sua mano si avventa sul bottone rosso con la scritta off. Alla scusa da inventare ci penserà più tardi.
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Chiusa a chiave Testo di Giulia Valsecchi Illustrazione di Dolores Fasulo, Appendiabiti
All’inizio pensai fosse uno scherzo. Per giorni presi a distribuire colpe a caso, agli sconosciuti, alle pareti nere e agli specchi intatti. Mi scrutai riflessa nell’ombra insistendo con le dita su quel che restava degli zigomi. Sfioravo la fronte riarsa tipica dei campi incolti. All’atelier non esistevano tregue. Mariti e fratelli passavano frenando malamente la voglia di strapparci via gli strati. Per noi era tutto vietato e severo. Erano negate apparenza e sostanza, zittiti i desideri e la pacificazione più immobile. Avremmo dovuto ingessare le facce e i seni caldi di maternità, oscurare le pubertà illecite. Più semplice annullarsi tra ciocche, unghie e peli dei trattamenti, residui che rimuovevo dalle poltrone di finta pelle davanti alla parete specchiata. Shamsya mi aveva affidato il suo salone dopo la diagnosi, si era presa una malattia delle ossa che voleva curarsi da sola. Diffidenza era la parola giusta nei primi tempi, non era affare da poco ereditare un lavoro di oltre trent’anni e la mia onestà sembrava l’argomento più appetibile. Mi sono sempre chiesta se non ci fosse dell’altro, a Kabul infastidiva tutta quella cura e le riviste erano chiuse a chiave in un cassetto. Come una segreta impertinenza concessa solo ad alcune di noi. Avevo succhiato i rudimenti del mestiere da mia madre. Ancora non conoscevo i modi per soddisfare le richieste più comuni e quelle bizzarre mi facevano sudare. Scoprii presto che il cassetto delle riviste era stato vuotato, che c’era dell’altro di cui non si poteva parlare. La notizia attirò una clientela normalmente messa al bando, iniziarono a richiedermi anche le più giovani e, con loro, imparai il mestiere inedito dell’atelier afghano: abbellire per nascondere.
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Capii che non poteva essere uno scherzo, non ne aveva l’istantaneità. Da tempo Shamsya aveva smesso di parlarmi, le sue ossa si erano indebolite ulteriormente e il mutismo pareva il miglior complice della rabbia. Non mi ero mai mescolata al buio, mi ci ritrovai immersa una sera non appena festeggiati i primi sei mesi di lavoro. Ero sola e il rumore delle chiavi nella serratura faceva da metronomo rotto. Ricordo soltanto un girare a vuoto, era successo altre volte, ma senza l’impressione d’essere osservata. Non si può puntare qualcuno che non ha labbra e sensi scoperti, è una vigliaccheria. Quella sera mi guardai le mani sporche di tintura, l’ultimo paio di guanti si era bucato e mi ero impiastricciata quel poco di pelle che sbucava da sotto il pastrano. Nonostante il crepuscolo, la fronte bolliva rallentando la sensazione di un mirino fisso. Mi seguì al ritmo del mio passo a metà tra la fuga e l’obbligo d’indifferenza. Avrei girato un’altra toppa difettosa andando a sbattere contro la luce fioca dell’atrio. Sarei quindi entrata camuffando impazienza e lì sarei morta. Per la prima volta. Shamsya si spense al mio terzo mese di lavoro. Non lasciò nemmeno un biglietto. Era rimasta sola, il marito in coma da un anno per tentato suicidio proseguì il suo decorso. Dicevano che le avesse fatto violenza e fu sempre meno credibile la storia del pentimento e della fune intorno al collo. Ma Shamsya interessava alle autorità per altro, per quel cassetto proibito dove custodiva le immagini di un circolo dei mestieri: donne afghane e occidentali a volto scoperto tra stoffe, disegni e quaderni di poesia. Morendo, si era risparmiata una condanna senza appello. Interrogai chiunque all’atelier, non potevo credere che la spia fosse una delle apprendiste. Scansai il pregiudizio e mi ripromisi di non considerare la vulnerabilità della solitudine, né il silenzio di chi, come la mia famiglia, si era votato all’ortodossia.
La punizione scortava i miei movimenti e non si arrese fino alla porta di casa. Ricordo solo che aveva la barba cosparsa di foglie secche, di sicuro se ne stava seduto dietro un cespuglio carbonizzato dai mezzogiorni. Fu una mossa feroce, senza ripensamenti. Riconobbi l’odore dell’acido, lo sentii colare sugli occhi e, come una stupida, provai a rimuoverlo senza saper calmare le fiamme nelle mani. Per qualche secondo sbandai forse gridando per il dolore. Un vecchio mi urlò di andare all’ospedale che lì c’era posto per le zitelle impazzite. La barba e le foglie sparirono nella nebbia in cui non distinguevo più nulla. Un buio perenne e implacabile. Le rividi solo una notte, in clinica, dopo il terzo trapianto di tessuti. Non avevo previsto gli effetti delle anestesie e, da allora, il risveglio fu sempre più mordace. Nessuno parlò delle foto finché non furono ritrovate nella tasca di un vecchio abito di Shamsya destinato ai poveri. Le bruciarono nel giro di pochi giorni e io con loro. O almeno la mia sostanza. Non volli sentire ragioni di sopravvivenza, adottai la linea dura all’insaputa di tutti. Per la seconda volta, andai a nero come le pellicole sotto censura. Rifiutai il mio orrore contro il privilegio delle chirurgie, le manie occidentali di un naso alla francese. Fui sempre più lontana. All’atelier vorrebbero soltanto rivedere la porta spalancata e i muri nuovamente affollati. Non è buona abitudine restare al buio, inciampare nella geometria delle mensole e in tutto quanto richiami una linea retta. Metto piede qui ogni notte, senza più sostanza da dover nascondere. Aspetto che l’ombra venga definitivamente recisa dall’alba. Cammino verso la porta e aspetto.
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Quid pro quo
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Testo di Domenico Sivilli Fotografia di Sara Guarracino, Assenza
Aperta la borsa capì il motivo di tanta agitazione. All’inizio si era trattato di puro istinto, una palla di piombo sulla bocca dello stomaco che in un batter di ciglia si era liquefatta in un travaso di paranoia. Fino alla naturale chiusura del cerchio. Erano identiche, ovvio, altrimenti non si sarebbe potuto sbagliare. Cinque giorni alla settimana per quarantasei settimane l’anno prendeva quel regionale, casa-lavoro e ritorno. E mai prima d’allora gli era capitata una simile disavventura. Ma come aveva fatto a non accorgersene già alla stazione? Eppure in macchina gli era preso il dubbio, repentino e ineffabile. Quella ventiquattrore era più pesante della sua. Non troppo, ma quel tanto che bastava per fargli riavvolgere il nastro degli eventi mattutini, non appena l’abitacolo della vecchia utilitaria lo aveva accolto nel suo sonnacchioso tepore. Immerso nel traffico cittadino aveva cominciato a frullargli nella testa un’idea stramba: accanto a lui, nel viaggio di ritorno, non si era seduto nessuno. Perciò quella borsa doveva essere la sua, impossibile che l’avesse scambiata per errore. Ed era sicuro che il leggero aumento di peso si fosse verificato, per chissà quale intervento divino, nel momento esatto in cui prelevava la valigetta dalla cappelliera. Una volta varcata la soglia di casa, d’altronde, un lampo di lucidità gli fece notare la completa idiozia di quell’ipotesi e dunque si persuase che ci fosse stato davvero un involontario quid pro quo, qualunque cosa volesse fargli credere la sua fervida immaginazione. Sicché iniziò uno scrupoloso auto-interrogatorio per cercare di capire come e quando fosse stato possibile. Al chiosco dei giornali? No, no! Non aveva mai lasciato la presa della maniglia. E in treno, poi, non si era appisolato neppure per un attimo. Allora dove? E perché? Neanche a dirlo, l’anamnesi, per quanto serrata, non produsse frutti. Ciononostante, né si era deciso a sbirciarne il contenuto, né tanto meno aveva chiamato la polizia ferroviaria per avvisarli del malaugurato “incidente”. E se l’uomo dello scambio fosse andato a consegnare la valigetta che non gli apparteneva presumendo che lui facesse la stessa cosa? Certo che ci aveva pensato, però non si era mosso dalla poltrona. Secondo il suo intuito non era affatto una buona idea. Così aveva lasciato trascorrere più di tre ore prima di costringersi a guardare dentro quella dannata borsa e solo alle sei del pomeriggio si convinse che il tempo fosse maturo. Come volevasi dimostrare, l’impulso inconscio gli aveva detto giusto. Immobile, di fronte allo scrittoio ingombro di scartoffie, attese fiducioso il momento delle spiegazioni. Suonarono il campanello dopo alcuni minuti, in perfetto orario. D’un tratto, risoluto e padrone di sé, si avviò verso la porta e quando l’uscio fu spalancato la sua ventiquattrore sostava inerte sullo zerbino grigio, accanto all’ombra longilinea del legittimo proprietario. Avrebbe dovuto saperlo. Una pace inconsueta lo svuotò di ogni precedente angoscia. Raccolse la borsa e si diresse allo studio. Le adagiò entrambe sul piano della scrivania. I nodi stavano tornando al pettine. Confrontò i contenuti e anche quelli erano identici, fatta eccezione per un piccolo, grazioso oggetto che trasferì dall’una all’altra. Scambio ultimato. Le due valige erano di nuovo una e per un po’ si fece ammaliare dalla forma sinuosa dell’articolo in essa contenuto, dopodiché ebbe la chiara cognizione che la turpe scena si stava svolgendo, per la millesima volta, nella camera matrimoniale… Ah, grandioso! Adesso ricordava tutto!
La donna giaceva sveglia accanto al compagno di turno. Avevano fatto l’amore e immancabilmente lei aveva fantasticato del suo primo marito. O meglio, del suo unico marito. Ogni volta che scopava non poteva proprio esimersi dall’immaginarlo sopra di lei come ai vecchi tempi. Forse era a causa del senso di colpa misto alla malinconia. Il sesso continuava a piacerle malgrado il trauma vissuto. Anzi, in un certo modo alquanto perverso le piaceva persino di più. Come una sublime legge del contrappasso auto-inflitta. Ora, mentre il suo amante ronfava beato, lei aspettava di sentire lo scoppio sordo della pistola. Alle diciotto e trenta in punto. Mancavano solo pochi istanti, quindi si sarebbe allontanata dall’infausto talamo per recarsi nello studio in disuso, senza coprire le proprie nudità, senza alcun pudore. Lì avrebbe adocchiato l’unico ricordo che conservava del defunto sposo. Una ventiquattrore nera da lavoro. L’avrebbe aperta e le sarebbe parso di scorgere il piccolo oggetto metallico al suo interno. Avrebbe infilato la mano destra per controllare… e non avrebbe trovato niente. Ogni giorno la medesima sciarada. Per fortuna lo sparo poteva udirlo solo lei, altrimenti si sarebbero dati tutti alla fuga dopo due o tre episodi al massimo. Le case stregate non andavano più di moda. E in ogni caso non ne aveva fatto parola a nessuno, neppure alla sua psicoanalista. Certe cose è meglio tenerle per sé. Certe nostalgie, certe maledizioni corredate da sciocchi rituali. Ai molti amanti che si erano avvicendati nel corso degli ultimi quattro anni e che avevano chiesto perché mai volesse fare sesso sempre alle sei del pomeriggio, lei aveva risposto con tre semplici parole: quid pro quo. E a quelli poco importava che uno scambio come tanti potesse a volte tramutarsi in un tragico errore.
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Fantasmi Testo di Graziano Delorda Illustrazione di Ettore Tomas, Oggi spavento io, disegno con elaborazione digitale, 2010
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Ieri sera, di fronte al mio villino, al calar del sole ho incontrato il Marocchino: in una mano stringeva un fazzoletto chiazzato di verde, nell’altra il cartone di vino. Scorrete lacrime, scorrete (il poliziotto disse). «È morto mio patri…» Ciccio il Marocchino parla male, il suo dialetto si perde tra suoni arabi, insopportabili piagnucolii, denti rotti e spiccioli sporchi. Anni or sono, alla bottega del vino, ho visto Don Carmelo bottigliare in bocca il Marocchino, una promessa non mantenuta si disse, ma il Marocchino sa piangere anche senza denti. «Mi dispiace per tuo padre Ciccio, ti ho portato delle scarpe nuove, sono invernali però.» «Hai na sigaret?» «No Ciccio, niente sigarette.» Seguo una sua lacrima fermarsi su una pustola sotto l’occhio, il pus perde colore mentre il liquido scivola via denso. Ciccio il Marocchino continua a cantilenare: «È morto mio patri… è morto mio patri», gli occhi pestati freschi, un’invisibile sigaretta mossa tra le dita. Son troppo vicino al viso di Ciccio, sulla guancia ha un taglio nuovo che gli porta un sorriso fuoriposto, noto ai suoi piedi i miei vecchi stivaletti con la pelle strappata sulle punte, li riconosco… vecchio, nuovo, invernale, poco importa al Marocchino, oggi è morto suo padre e qualcuno gliel’ha pure suonate. Ciccio lacrima verde e si lamenta, in una mano il fazzoletto, nell’altra l’inutile cartone di vino. Il sole alle nostre spalle sta tramontando, piego il viso in un lato, adagiandolo sulle mani unite nel gesto del cuscino, chiudo gli occhi e forse potrei addormentarmi lì, sul marciapiede di fronte al villino, io e Ciccio il Marocchino. Ciccio ride, conosce la parola fantasma o almeno percepisco tale suono in un nugolo di nuove parole, sento anche un grazie, afferra la busta con le sue scarpe nuove, getta il fazzoletto per terra e zoppica via bestemmiando. Nel quartiere si dice che Ciccio il Marocchino abbia dormito in più di cento macchine diverse, che sia morto almeno tre volte e che non sia marocchino. Osservo il fazzoletto del Marocchino planato sull’immancabile stronzo canino, sembra un fantasma in miniatura. Scosto il lenzuolo con la punta della scarpa e l’illusione svanisce al riapparire della merda.
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Il domani avrà già le sue inquietudini il fantasma del pesciolino Rosso Testo di Giorgia Bandini Fotografia di Maura Ghiselli
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La signora sta seduta con una gallina sulle ginocchia, mentre l’ombra dei limoni cade profumata sulle sue guance: ci si potrebbe addormentare. La gallina bianca, quella rossa, quella nera. Le prende una ad una, accarezza loro la testa, infila la mano nel caldo e nel viscido tra le piume: il giorno dopo avrà un uovo. Prende una manciata di grano duro, a terra si sente picchiettare. Piume bianche volano nell’aria. La signora non aspetta visite quel giorno, ma entra nel suo orto il parroco del paese, tutto rosso in faccia. L’avrebbe certo ringraziata, peccato non sentire cosa dicesse: aveva lasciato l’apparecchio acustico in casa. Mario suona un campanellino quando il parroco bagna le speranze della gente. Quando alla fiera vinse un pesciolino rosso si sentì tanto felice. Ora lo guarda per ore guizzare nell’acqua, ma dentro quella palla di vetro anche la felicità, come la sua faccia, diventa deforme. La vita dei pesci rossi è decisamente troppo breve. Pensa Mario. E il cielo scoppia e lascia cadere le nuvole. La faccia del bambino che guarda dentro la palla di vetro ha paura. Quando deve piangere la signora si chiude nella sua stanza, si trucca con cura e poi guarda allo specchio le lacrime che le lavano il viso. Le pellicce rendono le donne superbe. Dice. A Dio non piacciono le donne superbe. Il giorno prima le aveva fatto visita il parroco tutto rosso in faccia. La signora s’era introdotta di soppiatto in sacrestia e aveva rubato dieci madonnine piene d’acqua santa. Ne era testimone un chierichetto. Il parroco, tutto rosso in faccia, voleva sapere cosa ne avesse fatto. Il giorno prima la signora aveva trovato il parroco accasciato a terra nel suo orto. Si era presa un gran spavento. Era contenta che fosse passato per ringraziarla. Davanti a quell’orrore ha incominciato a piangere. Galleggia a pancia all’insù. Con il naso pieno di muco si trascina giù dalle scale. I pesci e le pellicce non piacciono a Dio. Dice. Mentre il prete cala nella terra suona il campanellino e legge: «Non vi angustiate dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. Basta a ciascun giorno la sua pena.» La sua pelliccia le avvolgeva le guance quando avevano molti anni in meno, quando picchiettava con i suoi tacchi i sassi delle strade del paese. Così con i lunghi capelli neri e quel visone al collo, quei giorni, più di ogni altro, le avevano sorriso. E quando il cielo scoppiò sulla sua testa e lasciò cadere le bombe lei salvò la sua pelliccia e l’incoscienza salvò lei. Ora la signora ha una borsa della spesa con delle rotelle e i suoi capelli sono corti e radi, ma alla sera si avvolge nella sua pelliccia e davanti allo specchio canta. La domenica il parroco aveva chiesto ai suoi parrocchiani un’offerta per il nuovo oratorio. Il parroco del paese soffriva di pressione alta. E lei l’aveva fatta: aveva portato la sua pelliccia in sacrestia seguita da un biglietto. Quel giorno nello specchio vide per la prima volta le guance di una vecchia, ebbe paura e non cantò. Anni dopo quando in aula chiesi che colore i ragazzi associassero alla morte un ragazzo mi rispose stranamente il rosso. Mario odiava il rosso. Disse che da bambino lo stesso giorno erano morti il parroco presso cui prestava servizio e il suo pesce, entrambi erano rossi. Raccontò inoltre come il fantasma del pesce lo perseguitasse ancora e che, tutto sommato, tra un pesce e un prete gli fosse anche andata bene. Aggiunse infine come la cosa non lo stupisse: del resto, il suo pesce era morto in acque sante. Gli diedi una nota e lo mandai dritto dalla preside.
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Il cane nero
Testo di Ugo Sette Illustrazione di Emanuele Capicci, I gatti vedono tutto
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Continuo a sognare il cane nero che ho ucciso, quello che mi ha aggredito e da pochi giorni ho cominciato a sognare pure Marianna, la mia ex. Stanno insieme, a volte limonano, a volte scopano e mi parlano dicendo cose che non capisco. Però mi sveglio confuso e resto confuso tutto il giorno. L’altra notte ho sognato la nonna, buonanima, che si è avvicinata e mi ha detto: «sei proprio come il nonno.» Io mi sono svegliato in un lago di sudore, ero bagnato fradicio. Faceva caldo e molto probabilmente la pizza coi peperoni non era stata la scelta giusta per la cena. Ho ricevuto una citazione in giudizio. Il cane nero era di un certo Baragozzi, imprenditore della nostra zona molto conosciuto e molto facoltoso che ha deciso di non farmela passare liscia. Ha detto che ha pianto per quindici giorni perché era molto affezionato a quel cane e pure la sua famiglia si è chiusa in un lutto pesante. Io gli ho detto che il cane mi ha aggredito, avevo ancora i punti; e lui che il cane non avrebbe fatto male a una mosca. Ho chiamato un mio amico avvocato e gli ho chiesto di difendermi. Lui ha guardato le carte e ha detto: «tranquillo Ugo, è un gioco da ragazzi. Gli facciamo il culo a questi qui. E poi il cane ti ha morso, capisco se gli sparavi così senza motivo…» Solo che poi ci sono messe di mezzo le Associazioni Animaliste e la stampa ci sta andando a nozze con ‘ste cose. Marzio, per la faccenda del cane, dice che andrà tutto a posto. È normale che si scateni il caso tutt’intorno, ma siamo in Italia. Qua la fanno franca anche i criminali veri. Poi hanno fatto persino un servizio al Tg regionale in cui mi dipingono come un mostro, un criminale, un alieno. Ma loro che ne sanno di me? Loro sono razzisti, stuprano, rubano, uccidono persone. Non sono meglio di me. Anzi peggio. Hanno solo bisogno che qualcuno paghi per i misfatti del mondo, per ripulirsi la coscienza. Fortunatamente, per aver sparato a un cane ancora non ti danno la pena di morte. Ma non si sa mai. E meno male che ho accoppato un cane, pensa se uccidevo una razza in via di estinzione. Al processo mi interrogano varie volte. Da principio non gli do molto peso. Poi il mio amico avvocato viene da me. Mi dice che gli istruttori del processo, non si sa come, hanno saputo che «ho dato prove di insensibilità.» Che al funerale della nonna non ho pianto. Io gli ho risposto che, effettivamente, non provo rimorso per il cane e molto probabilmente premerei il grilletto nuovamente se mi trovassi in pericolo. Per la nonna è un discorso diverso. Le volevo bene, ma questo non significa nulla. Tutte le persone normali, gli ho detto, hanno una volta o l’altra desiderato la morte di coloro che amano.
Lui ha cominciato ad agitarsi. Mi ha pregato, mi ha fatto promettere di non dire queste cose durante l’udienza, né davanti ai giudici. Poi mi ha chiesto se, per caso, magari, mi ero trattenuto, se avevo soffocato i miei reali sentimenti al funerale ed io, senza esitazione, ho risposto di no e lui ne è stato disgustato. Mi ha fatto notare che Alberto, l’amico della nonna, e tutti quelli che avevano partecipato al funerale sarebbero stati ascoltati come testimoni e io gli ho risposto che questo non aveva niente a che vedere con la vicenda del cane. L’avvocato se n’è andato di cattivo umore. Qualche tempo dopo il giudice mi ha mandato a chiamare, mi ha chiesto di raccontare i fatti, ancora una volta. E io li ho raccontati ma non ne avevo più voglia. Poi mi ha chiesto se volevo bene alla nonna. Io ho risposto, sì, come tutti. Il silenzio è calato nella stanza. Poi il giudice mi ha chiesto se, quando ho ucciso il cane, ho esploso i quattro colpi uno dopo l’altro. Io ci ho pensato un po’. Uno l’avevo esploso subito, poi gli altri. Lui mi ha chiesto come mai non avevo sparato subito e io non ho risposto. Mi ha chiesto se credo in Dio. Avevo caldo. Gli ho risposto di no. Lui ha detto, accalorandosi, che era impossibile, che tutti gli uomini credono in Dio. Si è incazzato come una pantera. Io ne avevo abbastanza, là dentro si moriva dal caldo. Allora l’ho guardato con l’aria di essere d’accordo e lui ha fatto spuntare un sorriso. Si è placato. Ho un umore pessimo. Sogno e penso continuamente al cane nero. Ho impresse le parole di Baragozzi che, dopo il processo nel quale vengo scagionato con formula piena, mi grida: «farabutto me la pagherai.» Confuso, infilo la giacca, esco e cammino per la città. Guardo gli alberi, i giardini che costeggiano la strada, mi fisso sui volti dei passanti e mi rendo conto che nessun luogo è adatto a me. Penso alle persone che conosco e ai loro cani. Si costruiscono tutte piccoli muri per recintare i loro pensieri e dentro ci infilano qualsiasi cosa pur di non rimanere sole con se stesse e con la nullità che avanza. Hanno una paura fottuta di guardarsi allo specchio, hanno paura di fare i conti con se stessi. E quindi accettano un dio che non hanno mai visto, accettano convenzioni, accettano relazioni fasulle piuttosto che precipitarsi nel baratro e vedere. Non li giudico, forse un po’ li invidio. Io non ne sono capace. Comincio a pensare che la Felicità non esiste e che siamo su questo pianeta solo perché biologicamente compatibili con l’habitat. Non c’è condivisione. Ci sono solo piccoli momenti di passaggio, un apparente scambio di segnali. Poi, il vuoto.
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Il fantasmino
Testo di Roberto Stradiotti Illustrazione di Emiliano Billai, Fantasmi
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Alle ore 23,49 l’auto segnalata transitò sulla provinciale 39. Il poliziotto motociclista chiamò via radio. «Aspetta rinforzi», gli dissero. «Prosegue molto piano. Non sono lampi, è una luce. Viola, azzurra, cambia continuamente.» «Aspetta rinforzi.» «Procedo», disse il poliziotto. Si accorse che l’auto stava già accostando, ma levò la paletta, tanto per far capire che era lui a comandare. Slacciò la fondina. Il finestrino si abbassò due dita e comparve un fazzoletto bianco, che sventolava debole nella brezza. Ringalluzzito dalla resa spontanea, l’agente estrasse la pistola e puntò la torcia tascabile contro il vetro. Pensò a una frase ad effetto. Vieni fuori con le mani alzate, pensò. Esci da lì, mani bene in vista, pensò. Mani sulla testa ed esci piano, pensò. «Esci», disse alla fine. Una scarpetta bianca da ginnastica si appoggiò al suolo con circospezione, come se sotto ci fosse un pavimento appena lavato. Una mano afferrò il bordo della portiera, con la forza disperata di chi riemerge da un abisso. Era bianca sotto la luce dalla luna, un bianco di guanto; l’omino che stava scendendo, di colori cangianti, quando fu fuori era fratello della luna o della morte. «Non mi fare del male…», mormorò. L’agente gli ordinò di prendere i suoi documenti. «Cos’è quella roba sul sedile?» «Il mio fantasmino luminoso.» «Fantasmino luminoso? Lo sai che hai terrorizzato mezza città, con questa storia della luce? Credevano tutti a un’invasione aliena.» L’uomo fece un riso isterico che lo rese sinistro nella sua magrezza quasi trasparente. I fari delle automobili lo passavano da parte a parte senza pietà. «Non riesco a tornarmene a casa.» «Che problema abbiamo, Antonio?», chiese l’agente restituendogli i documenti. Antonio scuoteva la testa. «Non ce la faccio, proprio non ce la faccio. Avevo chiesto alla mia ragazza di venire al cinema con me a vedere Paranormal Activity e lei mi ha detto: “non ci penso nemmeno”. “Ma io da solo ho paura”, le ho detto, e lei mi ha dato il fantasmino che fa la luce e dentro il cinema tutti mi dicevano: “Spegni quella luce”, ma io avevo una paura bestia anche ad alzarmi dalla poltrona perché intorno c’era tutto buio e dai diffusori usciva quel ronzio cupo della presenza del diavolo. Ancora adesso lo sento dentro l’abitacolo, come se fosse seduto di fianco a me. Domani comprerò una tavola Ouija.» «Sentiamo», disse l’agente, «tu cosa proponi?» Antonio sorrise. «Accompagnami a casa.» «Sto tornando in caserma.» «Che combinazione! Io abito proprio lì di fronte.» L’agente gli fece segno di seguirlo.
Antonio lo chiamò, con la cantilena di un bambino che l’ha fatta grossa. «Agente, non ho solo paura della macchina, sono rimasto senza benzina.» L’agente sospirò. «Chiudi la macchina e vieni con me.» Antonio prese il suo fantasmino e lo seguì a piccoli passi, pestando il fango con le scarpe candide. L’agente aprì la borsa ed estrasse un altro casco. «Ti porto in moto.» Antonio saltò di gioia. «Ho sempre sognato di salire su una moto della polizia. Da piccolo avevo una moto a batteria con la scritta police sulle fiancate e questa moto aveva anche due rotelle laterali, sennò cadevo, e…» «Muoviamoci, prima che diluvi.» Antonio con la sinistra si teneva aggrappato al giubbotto dell’agente e con la destra teneva ben alto il fantasmino e tutti i nottambuli dicevano ehi, la moto della polizia ha un nuovo lampeggiante. Antonio lo faceva oscillare piano sopra la sua testa, come una bandiera, e sentiva le zampe triforcute del demonio artigliare l’asfalto per recuperare metri e il calore dell’alito sul collo e parole irripetibili fra l’andirivieni dei pistoni, condite da schizzi di saliva sulla visiera. La moto si fermò davanti alla caserma. Antonio puntò il fantasmino verso le strade vuote e le finestre chiuse dei palazzi. Tolse il casco e sospirò. «Grazie di tutto», disse e rimase fermo, come se si dovesse addormentare subito. «Che aspetti? Non vorrai il bacio della buonanotte, spero?» Antonio scoppiò a ridere. Aveva un riso infantile, squillante. L’agente attraversò la strada, poi si voltò e lo vide seduto sul marciapiede. «Ti hanno chiuso fuori?» «Aspetto il mattino», rispose. Tremava. «Non era a casa che volevi andare?» Antonio si morse le labbra. «Forse, forse.» Sembrava un lenzuolo vuoto gettato sull’asfalto. «Qual è il problema, adesso?». «Si è esaurita la pila del mio fantasmino. Le lampadine delle scale sono tutte fulminate.» Avanzarono piano, in punta di piedi, su per i gradini stretti di marmo scollato, aggrappandosi al corrimano fatiscente. I muri si sgretolavano ad ogni urto e le scarpe frantumavano i detriti. Antonio si tastò nelle tasche e s’avvicinò alla finestra per scegliere, alla luce del lampione, la chiave giusta. «Ci siamo», mormorò. «Ti porto in casa.» «Ci contavo.» Attraversarono il corridoio, sfiorati dai lembi dei vestiti appesi. Le piastrelle, cedevoli e irregolari, non erano meglio delle scale. Nell’aria ristagnava un odore di minestrone. Antonio socchiuse la porta della propria camera da letto. «E io che avevo paura anche di lei», sussurrò. L’agente sbirciò attraverso la fessura. La luna illuminava una corona di capelli biondi sparsi sul cuscino, intorno a un viso pallido, sottile, in pace col mondo.
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Attesa assordante
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Testo di Tommaso Chimenti Illustrazione di Valentina Scaletti
Ora torna, ora torna, mi sono detto. L’hai lasciata così, l’anta dell’armadio: aperta come una voragine, come una fossa comune, come la bocca di un vulcano, il cratere di un’esplosione. Non ho il coraggio di chiuderla. Ho messo le mani dentro con la paura di spostare qualcosa. Spero di trovare un biglietto. Una scritta. Alzo le maglie ripiegate, sposto le camicie. Con calma, con cura, con preoccupazione, con precisione. Potrei scompaginare le trame del destino. Non voglio muovere foglia, non voglio toccare nemmeno la polvere. Ora torna, mi dico, non può non tornare. Ha lasciato tutte le sue cose qui. Ci sono le tue mutandine colorate nel primo cassetto. Ne prendo una. La stringo nel pugno della mano con delicatezza. La porto al naso. L’odore del detersivo alla vaniglia mi prende alla testa. È il tuo odore, quello che avevi sulla pelle, sulle braccia quando mi accoglievi al mio ritorno. Ogni sera. Quello che mi braccava la mattina prima del caffè. Ora torna, perché non dovrebbe tornare? La tua assenza è un vuoto proprio qui tra le costole, un senso di dissoluzione, di decadimento fisico. Le braccia penzolano come un burattino senza fili. Impossibile alzarle, riuscire a comandarle. Hai detto soltanto: «Basta». E te ne sei andata. Pensavo fosse com’era stato tutte le altre volte. Ma qui c’è un deserto, un buco nero che inghiotte tutti gli oggetti. La stanza mi gira intorno e sento la tua voce nell’altra stanza. Mi volto di scatto. So che non ci sei, ma provare non costa niente. Ora torna, dove sei andata? Non ero preparato a trovarmi in mezzo a tutte le tue cose, a tutti i tuoi oggetti. Sono passati dei giorni. L’armadio è ancora aperto. Non ho la forza di toccare niente. Tutto deve rimanere com’è, aspettando il tuo ritorno. Ho sfiorato il bordo delle gonne e ho sentito le tue gambe che accavallavi la notte sopra le mie fin quando non mi si informicolavano. Ho passato l’indice sulle camicette. Quelle con i bottoni piccoli di madreperla, quelle con i merletti, quella a righe che a me piaceva moltissimo, quella rosa aderente sui fianchi, quella verde che a te ricordava la campagna dopo un giorno di pioggia e a me, invece, il mare tra gli scogli. Ora torna, lo sento. Sento i tuoi passi sul marciapiede. Sento il tuo classico ticchettio con il tacco a sbattere lieve. Ti sentivo quando rincasavi. Adoravo quell’attesa. Quei passi che precedevano il bacio del rientro, del saluto, del ritorno. Il tuo bentornato che mi davi sulla soglia, insieme a uno dei tuoi sorrisi aperti, dilanianti, con i quali mi aprivi come una scatoletta, come un coltello caldo nel burro. Nell’aria tutto parla di te. Ci sono le nostre fotografie. Sul mobile in salotto, sulla libreria in camera da letto. Ci sono i tuoi libri dove nella prima pagina in alto a destra c’è scritta la tua iniziale. «Così, se un giorno dovessi andarmene», dicesti ridendo, mentre portavi gli scatoloni marroni di cartone ruvido per le due rampe di scale. Ora torna, è questione di minuti, forse di ore. In cucina c’è il rosmarino che hai colto per me. Nel frigorifero ci sono barattolini con sopra etichette colorate. Andrà tutto a male. Si seccheranno i fiori ai quali non ho più dato l’acqua. Il cibo scadrà. Fino a puzzare. La polvere soverchierà tutta la casa. Ci sei ancora tu qua dentro, ma non riesco a trovarti, non riesco a vederti. Vado allo specchio sperando di vederti apparire da dietro. Faccio la doccia e con la testa sotto lo scroscio immagino di sentire le chiavi che entrano nella toppa. Il rumore metallico della serratura che si apre. Spalanco gli occhi sotto il getto che a stento riesco a combattere con le ciglia. Chiudo l’acqua. Il fumo ha avvolto il bagno. Quasi non mi asciugo e corro in salotto. Sento i piedi bagnati che fanno ventosa sul pavimento. Arrivo alla porta. Dietro di me una striscia d’acqua. Sto gocciolando. Apro la porta di scatto. Niente. Né l’odore di vaniglia, né il rintoccare dei tacchi sull’asfalto, né una camicetta colorata che sale le scale. L’armadio è sempre aperto. Nessuno ha portato via i tuoi libri, nessuno ha indossato le tue gonne. Ora torna, perché le manco, perché senza di me non può stare. Andrà tutto bene, mi dico. Tornerà tutto a posto. Tutto come prima. La tua essenza aleggia in casa. Non la sento più mia. Dovrei togliere i tuoi vestiti. Ammassare i tuoi libri. Togliere le fotografie dalle cornici e lasciare il vuoto. Dovrei cancellare le tue scritte con il gesso dalla lavagnetta. Ricordati che ti amo, c’è ancora scritto. Io non me lo sono scordato.
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La Casa della Vita
Testo di Andrea Rabaglia Fotografia di Cristina Mauri, Ghost’s house
RUBRICA - ARTE e LETTERATURA
Mi sono chiuso tutto nella mia anima e le ombre mi sono piombate addosso turbinando. Dante Gabriel Rossetti Per parlare di fantasmi, provando a coniugare Arte e Letteratura, in questa rubrica si è pensato di prendere in esame Dante Gabriel Rossetti. D’origine italiana, Rossetti nacque a Londra nel 1828, esattamente sette anni dopo la scomparsa dello zio materno, John William Polidori, l’autore di The Vampyr (1819). Al pari dello zio, morto suicida, fu uomo assai tormentato. Appassionato lettore, fin dall’adolescenza divorò volumi di poesia medievale italiana e francese, iniziando parallelamente a tradurli in lingua inglese e a scrivere poemi e poesie di proprio pugno. Figure capitali, certamente, furono per lui Dante, Keats, Shakespeare e Poe. Quest’ultimo, in particolare, esercitò una vera e propria attrazione nei confronti dell’artista, che si specchiava in una medesima sensibilità morbosa, predisposta al soprannaturale e ai vaghi e indefiniti stati della psiche. Esperimenti medianici, ricerche nell’ambito dello spiritismo e dell’occultismo, l’abuso di alcol, cloralio e laudano testimoniano un’inquietudine esistenziale mai sopita, che l’accompagnerà fino all’ultimo dei suoi giorni, insieme ai fantasmi della propria esistenza – il suicidio della moglie e musa Elizabeth “Lizzie” Siddal, per di più incinta, si sommò infatti ad una precedente sciagura famigliare, la nascita di una figlia nata morta. Le figure che ci appaiono ritratte nelle opere di Rossetti – pittura o poesia, in fondo, non ha grande importanza, se si considera la sua produzione artistica come un unicum –, a ben vedere, altro non sono che apparizioni, spettri che affollano la mente del loro artefice. Visioni ora sensuali, ora evanescenti, languide, fatalmente distaccate: fantasmi che affiorano dalla memoria o da fonti letterarie riadattate alla bisogna. Siano esse figure fatali – a partire dall’archetipo della femme fatale espresso nel disegno La Belle Dame Sans Merci del 1848, tratto dall’omonima ballata di John Keats, passando per tele quali Fazio’s Mistress-Aurelia (1863), Helen of Troy (1863), Lady Lilith (1868) e Venus Verticordia (186468) –, oppure figure tragicamente inchiodate al proprio infelice destino di donna, come Proserpina, Desdemona e Pia de’ Tolomei (le fonti letterarie, in questi ultimi casi, sono ovviamente Ovidio, Shakespeare e Dante). Ma per un artista-poeta come Rossetti, la Letteratura è anche un modo per dare forma allegorica ai propri fantasmi privati. È così che Lizzie Siddal, dalle stilnovistiche sembianze, vestirà i panni eterei di Beatrice dantesca, mentre per Jane Morris vi saranno quelli di voluttuose regine adultere e spose infelici. Sotto mentite spoglie, tali figure incarnano realtà e tormenti bene a fuoco nella mente dell’artista: egli si trova a dover combattere contro spettri che popolano costantemente i suoi pensieri. Ad alcuni anni dalla morte della moglie, Rossetti, in una vicenda degna del miglior Poe, giungerà persino ad esumare un suo manoscritto, sepolto assieme a Lizzie, in un ennesimo tentativo di venire a patti con i propri fantasmi.1 Sorta di dono sacrificale, i versi vengono poi pubblicati, quasi a voler porre rimedio ad una vicenda finita come non avrebbe dovuto – Rossetti si tormenterà e si sentirà sempre responsabile per la morte dell’amata. Tentare di esorcizzare il passato, scontando comunque in vita le pene dell’Inferno, resterà per lui l’unica strada percorribile, auspicando che il futuro lasci spazio non più alle tante, troppe ombre, bensì all’eterna unione degli amanti celesti, tema vagheggiato nel suo poema The Blessed Damozel, presente inoltre in tantissimi altri suoi versi. La poesia di Rossetti, pur molto apprezzata da Wilde e Pater, fu inevitabilmente accantonata dai suoi contemporanei e spazzata via dal puritanesimo “illuminato” delle università inglesi; tuttavia, come sostenuto dal grande critico statunitense Harold Bloom: «un lettore solitario, estremamente intelligente, dovrebbe invece tornare a cercare i sonetti di The House of Life e le traduzioni da Dante. Nella nostra era, l’essere esclusi dalle università è quasi una nota di merito.»2 L’arte di Rossetti, simbolista, romanticamente malinconica, attraversata da un morboso, funereo e struggente sensualismo, ospita all’interno della sua raccolta The House of Life amore, ossessioni, rimorsi, miraggi, dolore, sensualità, ombre, riflessi, assenze, solitudine, rimpianti, incubi e insoddisfazioni. Una “Casa” – come detto, tutta da (ri)scoprire – senza alcun dubbio infestata da innumerevoli fantasmi.
Note 1 2
“Non sono io che mi avvolgo nelle mie immaginazioni, sono loro che mi trascinano via dal mondo, che lo voglia o no”. Harold Bloom, Il Genio, Milano: Bur Saggi, 2004, p. 500.
RUBRICA - ARTE e LETTERATURA
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e t n e r a p s a r t e impression Testo di Andrea Tinterri Illustrazione di Cristina Mauri, Ogni volta, al mare, la tua ombra mi riappare
Il cadavere che vedete qui è quello di Monsieur Bayard… L’Accademia, il Re, tutti quelli che hanno visto le sue immagini le hanno ammirate, come fate voi. L’ammirazione gli ha portato prestigio, ma neppure un soldo. Il governo, che ha dato tanto a M. Daguerre, ha detto che non poteva fare assolutamente nulla per M. Bayard, e l’infelice si è annegato.
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La breve dichiarazione sopra riportata capeggiava sul retro di una fotografia datata 1840. L’autore, come lui stesso precisa, è Hippolyte Bayard, un funzionario del Ministero delle Finanze francesi, uno dei primissimi sperimentatori del metodo con cui sensibilizzare la carta sulla quale impressionare una qualsivoglia immagine. Com’è facile intuire dalle poche righe riportate sulla fotografia, la sua fortuna fu piuttosto scarsa, anche se il primo fotografo ad ottenere un positivo diretto su carta fu proprio Bayard. E fu la sua cattiva sorte, la mancata riconoscenza del merito pionieristico, l’assenza completa di una dote in denaro, a condurlo alla messa in scena di quest’immagine truffa, in cui un corpo, all’apparenza senza vita, poggia con la nuca, con una spalla, seduto senza forze e le gambe rimangono avvolte in un lenzuolo, quasi a testimoniare l’avvenuto trasporto dalle rive di un fiume. Ed è da questa fotografia che vorrei partire per capire come il fantasma − e su questa parola a breve dovrò spendere alcune parole − intervenga nel fissare la luminosità degli oggetti, delle persone, della natura su un pezzo di carta adeguatamente preparato. Cos’ha fatto Bayard? Una cosa apparentemente molto semplice: si è finto morto, si è fotografato e per evitare eventuali dubbi ha scritto cosa esattamente quell’immagine descriveva. Quindi ha messo in atto una falsificazione perfetta, concentrandosi sulla specificità della fotografia di riportare il vero. In realtà c’è un altro punto fondamentale, ossia l’accesso alla morte. Il termine «accesso» sintetizza bene la dicotomia tra assenza e presenza, cioè il carattere fondante del fantasma che oscilla tra un altrove indefinibile e la tangibilità della sua presenza. Tangibilità che in questo caso è testimoniata proprio dal foglio di carta stesso che trattiene l’altrove, la mancanza irrecuperabile. Quindi Bayard ha spostato la comunicazione da un soggetto in carne e ossa a una apparizione che in quanto tale riesce ad avere un carattere più pregnante perché percepita come l’ultima possibile voce ascoltabile. E se al posto di Bayard, naturalmente a suo tempo vivo e vegeto, ci fosse stato un vero corpo senza vita (la pratica della fotografia post mortem fu consuetudine per tutto l’ottocento fino ai primi decenni del novecento)? Probabilmente sarebbe venuto a mancare il suo essere meta-immagine, la consapevolezza di giocare con un linguaggio e la sua intrinseca specificità. Perché l’operazione compiuta da Bayard è proprio quella di costruire un fantasma: denunciando la scomparsa d’una sensibilità corporea evidenzia la capacità d’azione di ciò che rimane. E nel fare ciò interroga la fotografia stessa, la sua natura, la sua nascita, la capacità d’accesso che consente all’osservatore. Ed è la volontà comunicativa che trasmette quest’immagine ad avvicinarla ancora una volta all’idea stessa di fantasma. Cercare di focalizzare l’attenzione, come fa Bayard, sulla morte, permette al corpo d’avere ascolto, nuova linfa mediante un oggetto, quasi un amuleto, ma che, come valore aggiunto, ha la sensibilità alchemica del reale, la realtà della conservazione. Un fantasma che rimane rinchiuso in una casa aspettando un nuovo inquilino a cui mostrarsi, a cui far assaporare la propria presenza, a volte fuggevole, ma sempre e comunque presenza. Come se recriminasse qualcosa, e lo potesse fare in virtù del suo stato, grazie alla sua diversità corporea.
RUBRICA - FOTOGRAFIA
Inconsapevolmente o forse no, Bayard ha messo in campo alcuni concetti fondamentali per capire, o meglio, per interrogarci sulla natura e soprattutto sulla possibile evoluzione della fotografia; ha giocato con la morte estrapolando da essa la sua immagine, quel fantasma concreto che non è solamente evanescenza, ma è linguaggio, modo altro con cui comunicare, espressione nuova e di passaggio tra una certezza tangibile e una possibile mistificazione. Ed è esattamente racchiuso in questi passaggi un altro nodo fondamentale; la dissimulazione della finta morte di Bayard si prende gioco delle nostre certezze, della razionalità comune: la storia della fotografia come un fantasma irrequieto che per sua natura non riesce a stare nel proprio recinto e sconfina in una terra non sua. E quindi la molteplicità del reale: dov’è Bayard? È vivo? Il suo fantasma è quello che vediamo nella fotografia? Ecco l’ambiguità del mezzo, ecco l’ambiguità di una presenza che non sappiamo da dove possa aver preso forma, ecco l’ultima possibile restituzione. Un senso di vertigine che è lo stesso provocato da una lingua che si fa fatica a capire, che non sappiamo dominare del tutto: mi hanno sempre ricordato che i fantasmi non sono reali e mi hanno sempre detto di farmi riconoscere appiccicando una mia foto sulla carta d’identità. Chi aveva ragione?
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RUBRICA - FOTOGRAFIA
BIOGRAFIE SCRITTORI Giorgia Bandini è nata a Parma e ha vissuto tra l’Emilia e la Liguria (Cinque Terre). Ha 24 anni ed è neolaureata in Lettere Classiche. Non ha mai pubblicato alcunché, ed è la seconda volta che partecipa ad un concorso letterario. Cinzia Bettineschi è nata in un paesino tra le Prealpi bergamasche ed attualmente vive a Padova, dove lavora nel settore dei beni culturali. Detesta le biografie, ma si diletta a scrivere di qualsiasi altro argomento. Davide Carrettin “Carrettin Davide”, prima il cognome e poi il nome: è così che gli hanno insegnato a fare. Nato, cresciuto e deceduto a Cremona, nella piatta, più che pianeggiante, Lombardia. Vittima di una serie di scelte sbagliate, è tuttora impegnato a cercare una via per riscattarsi. Schiavo di una paura che non aveva ancora conosciuto, molto prima di collezionare gli elementi che servirebbero per fare certe scelte, decise di consacrare la sua vita all’informatica. Attualmente frequenta l’Università degli Studi di Milano, Informatica, e coglie al volo occasioni come questa (concorsi letterari e musicali) per convincersi di essere “altro” dalle sue scelte. Ulteriore elemento di riscatto è la passione per la musica: è tutta la vita che abbraccia una chitarra e, da qualche tempo, ci canta anche sopra provando a mettere in musica ciò che il poco tempo non gli consente di scrivere. Tommaso Chimenti perde capelli ma in compenso aggiunge anni. Si è rassegnato ad essere forzatamente ottimista. Conta le linee spezzate di vernice bianca che dividono le strade. Perde il conto. Adora la nocciola, in ogni sua forma, la salvia e il basilico. L’origano proprio no. Il curry sì, il cumino no. Non si fida delle donne con il labbro superiore fine. Fa tutte le cose che gli fanno paura. Vuole tutto, ma non subito. Se mai avrà un figlio gli darà tre nomi e due cognomi, così, tanto per metterlo un po’ in difficoltà. Soffrendo di vertigini, pensa bene di salire continuamente su torri e campanili. Il giorno lo si può trovare in scooter, la sera a teatro. Sport preferito: spuntarsi la barba. Adora la maremma, la frutta acerba. Fotografa le nuvole e la propria ombra. Odia aspettare. Non ha più l’età per sopportare i rifiuti. Non è assolutamente vegetariano. Enrico Elvis Crotti è un informatico che ha scoperto da qualche anno che ci sono storie che meritano di essere raccontate. I suoi racconti più riusciti si possono leggere su alcune riviste e antologie. Abita a Sulbiate, in provincia di Milano. Non possiede animali domestici. Graziano Delorda è messinese da più di trent’anni e ha pubblicato racconti su antologie, riviste e quotidiani nazionali. In primavera è uscito il suo primo romanzo, Pace (Pungitopo Ed.). Vive in riva allo Stretto ma non a Pace (grazianodelorda.splinder.com). Andrea Rabaglia è nato una settimana esatta prima che Paul Simonon distruggesse il suo Fender Precision sul palco del Palladium di New York, immagine immortalata sulla celebre copertina di London Calling. Laureato in Lettere Moderne, vive e lavora a Parma, ma appena può cerca conforto tra le cime dei monti. Guia Risari è nata nel 1971 a Milano, dove ha studiato filosofia, lavorando come educatrice e giornalista per L’Unità. Ha ottenuto un Master in Modern Jewish Studies all’Università di Leeds e vissuto dieci anni in Francia. Ha pubblicato due saggi – The Document Within the Walls (Troubador 2004) e Jean Améry. Il risentimento come morale (F. Angeli 2002) – e tradotto romanzi di Brasme, Condé, Monénembo, Trudel, Rawicz, e diversi libri per l’infanzia. È autrice di racconti, tra cui Diario di Milaidis De Los Angeles Casanova Carmina (Le Notti, Empirìa, 2003), 25 dicembre 1998 e Il vestito di Juanita (“Nuova Prosa”, n. 31, giu. 2001), Pecore in Terra Santa (“La Luna di traverso”, n. 20, 2008) e In quella strada (“La nuova Palatina”, n. 2, 2009). Per l’infanzia ha pubblicato Pane e Oro (Panini 2004), La macchina di Celestino (Lapis 2006), Achille il puntino (Kalandraka-Italia 2008), Il Cavaliere che pestò la coda al drago (Edt-Giralangolo 2008), La Terre respire (Memo 2008), Gli occhiali fantastici (Panini 2010) e La coda canterina (Topipittori 2010). Infine, due testi surrealisti: Il pesce spada e la serratura (Beisler, 2007) e L’alfabeto dimezzato (ill. Beisler, 2007). Attualmente scrive, traduce e tiene laboratori di scrittura e lettura in biblioteche, scuole e festival. www.guiarisari.com
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Ugo Sette è nato per caso a Parigi il 1° di aprile 1977 e risiede suo malgrado a Mestre (Ve). Assistente precario in via di rinnovo contrattuale (gesto scaramantico) presso una rinomata università della zona, si diletta infaticabilmente a inventare oggetti inutili per la maggior parte delle persone e tenta miseramente la carriera di scrittore. Gestiva un blog, “la rivolta degli infanti” ma si è dimenticato la password. Ha partecipato a un’antologia di Giulio Perrone editore ma non l’ha mai vista da nessuna parte, nemmeno a casa sua. Due suoi racconti appariranno in antologie a cura di Massimiliano Nuzzolo, scrittore mestrino di fama nazionale: Io Sara e il walkman sarà pubblicato su Music is my radar (a settembre prossimo per Ugo Mursia editore) e l’altro, Spritz Time, in Mestre per le strade (ottobre 2010, Azimut libri). Il cane nero è estratto dal suo primo romanzo, L’alieno, che doveva essere pubblicato lo scorso giugno da Edizioni di Latta (Milano), ma la casa editrice è fallita sciogliendo il contratto. Quando si dice una fortuna sfacciata… Domenico Sivilli di origini pugliesi, vive e lavora nelle Marche. Dottore di ricerca in Sociologia, collabora con l’Università di Urbino e con società di ricerca nazionali. I suoi interessi di studio si focalizzano su: processi di costruzione identitaria; analisi delle narrazioni mitologiche, intese come strumenti di comprensione delle culture umane; analisi del linguaggio cinematografico quale principale espressione mitopoietica contemporanea. All’attività di studioso affianca, inoltre, quella di scrittore. Nel 2009 ha pubblicato il suo primo romanzo (La congiura dei Simili, Iacobelli), mentre tra le opere sociologiche si possono citare La società oltre il conflitto (Studi Urbinati, 2003-2004) e Il trionfo delle “tribù” (Studi Urbinati, in corso di pubblicazione). Roberto Stradiotti ha scordato il passato e per quello che lo riguarda potrebbe anche averne venti, di anni. Non ha debiti e non ha intenzione di farne, anche perché versa alla consorte il suo stipendio da impiegato e tira avanti con le paghette. Scrive perché poi prende sonno meglio. Sarebbe grato a chi gli gira 1 euro per il caffè. Andrea Tinterri è nato nel 1985 a Parma, città in cui continua gli studi in Lettere con specializzazione in Storia dell’Arte. Ha pubblicato alcuni racconti sulla rivista letteraria “La Luna di Traverso” e sul quotidiano “L’Informazione di Parma”. Interessato all’arte contemporanea e alla fotografia, cerca di studiarne le possibili interferenze con la scrittura. Giulia Valsecchi, trent’anni, è nata a Bergamo, ma da qualche anno vive a Milano, dove scrive recensioni per testate on line e lavora come redattrice. Nel 2004 si laurea in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Milano con una tesi sul regista lituano Eimuntas Nekrosius.
Nel 2007 consegue il diploma triennale di scrittura drammaturgica presso la Scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi” di Milano, in seguito al quale aderisce a progetti e concorsi poetici, drammaturgici, narrativi e cinematografici. È da poco uscito per le Edizioni Unicopli Istanbul. Dalla finestra di Pamuk, suo primo libro. FOTOGRAFI Vasco Ascolini nasce il 10 maggio 1937 a Reggio Emilia, dove vive e lavora. Fotografa dal 1965. Dal 1973 al 1990 si è occupato di fotografia di teatro. Alcune sue fotografie di genere teatrale si conservano presso il Metropolitan Museum, il MOMA e il Guggenheim Museum di New York, e in tanti altri Musei di tutto il mondo. Già dai primi anni Settanta si interessa e fotografa i Beni culturali e i luoghi, come i Musei, dove si conserva e si espone l’Arte. Nel 1985, per le sue fotografie di spettacolo, gli viene organizzata una grande mostra antologica nei locali espositivi del Lincoln Center di New York. Sul versante dei Beni Culturali viene incaricato di fotografare i grandi Musei francesi come il Louvre, il Rodin, il Carnavalet. Pur continuando a stampare ed esporre queste immagini, già dalla fine degli anni Settanta inizia a occuparsi di fotografia legata ai beni architettonici e museali, sempre conservando la sua “cifra al nero” che lo distingueva già nelle riprese teatrali. Negli anni Ottanta, anche in questo nuovo ambito, gli vengono conferiti incarichi istituzionali, primo fra tutti quello di fotografare la città di Aosta. Ogni incarico sarà svolto mantenendo una visione assolutamente personale e senza condizionamenti. Importante sarà per lui il testo che accompagna il catalogo della mostra di Aosta, scritto da Ernst H. Gombrich, con il quale avrà una lunga corrispondenza epistolare, come pure con Gernsheim, Aaron Scharf e Jacques Le Goff, altri tre studiosi di fondamentale importanza per il suo percorso. Importantissimo poi l’incontro con Michèle Moutashar che, conferendogli un incarico per fotografare Arles ed esponendolo nel 1991 ai Rencontres, gli dà una visibilità internazionale anche in questo nuovo genere. Riceve la Grande Medaglia della Città di Arles. Nel 2000 espone alla grande Mostra D’apres l’antique al Musèe du Louvre che mostra in una collettiva per la prima volta la “fotografia” in quanto tale. Sempre nel 2000 riceve dal Ministero della Cultura Francese la nomina a “Chevalier de l’Ordre des Arts et des Lettres”. Gli sono state dedicate due tesi di laurea (Daniele De Luigi, ora storico e critico dell’arte e della fotografia, nel 2001; Gianna Murazzo, ora laureata in musica e spettacolo, nel 2006). Nel 2007 la Provincia di Reggio Emilia gli dedica una retrospettiva nella sua città, Reggio Emilia, a cura e con testi di Sandro Parmiggiani e Fred Licht (Catalogo Skira). Mara Gallo nata nel 1981, si è diplomata all’Accademia di Belle Arti di Bologna nel 2007. Nel 2004 ha frequentato i corsi del fotografo Roberto Salbitani all’interno della Scuola di fotografia nella natura. Ha iniziato ad esporre nel 2007. Durante Fotoleggendo 2009 ha partecipato al workshop “Dal portfolio alla professione”, a cura di Tiziana Faraoni. Fra le mostre personali: Un catino, un bicchiere e altre storie, 2010, Galleria Ars Mundi, Monforte d’Alba, Cuneo, a cura di Rosemarie Bernhardt; Fotografie, 2010, Libreria Il terzo luogo, Sarzana, La Spezia; La luce dei muri, 2009, Galleria Porta Rose, Garessio, Cuneo, a cura di Leonardo Rosa; La luce dei muri, 2008, Spazio d’arte di Leonardo Rosa, Castelvecchio di Rocca Barbena, Savona, a cura di Leonardo Rosa; Soglie, 2008, Sala del Ristorante Millevini, Enoteca Italiana, Fortezza Medicea, Siena; Passaggi, 2007, Osteria LaSalita, Monforte d’Alba, Cuneo. Fra le esposizioni collettive: Il grigio del bianco e nero, 2010, Installazione collettiva, Laboratorio cornici, Alba, Cuneo; L’ultima carovana. Autoritratti in pensieri, parole e opere, 2009, Fondazione Amleto Bertoni, Saluzzo, Cuneo, a cura di Roberto Baravalle; Ambiente/Trasformazioni. Ipotesi di lettura critica: nuovo naturalismo globale, 2008, Sala Buona Morte, complesso monumentale di S.Paolo, Monselice, Padova, a cura di Alice Zannoni e Daniela Girotto; Sembianti (dittico “In profondità”), 2008, Concorso Nazionale per Giovani Fotografi, Sala Consigliare del Comune, Celle Ligure, Savona, a cura di Norma Stalla e Alessio Cotena. Vive e lavora tra Monforte d’Alba e Torino. www.flickr.com/photos/maragallo Maura Ghiselli è nata a Genova, dove vive e lavora. Compie i suoi studi universitari tra l’Italia (frequentando l’Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova) e la Spagna (frequentando la facoltà di Bellas Artes presso l’Università Miguel Hernandez di Altea). Nell’Ottobre 2006 consegue la laurea in Arti Visive e Discipline dello Spettacolo (specializzazione in Pittura) presso l’Accademia di Genova con una votazione di 110 su 110 con Lode. Da circa 3 anni collabora con la galleria d’arte moderna Satura (Genova), per la quale cura come critico d’arte eventi culturali ed esposizioni. A questa attività affianca lo studio e la pratica delle tecniche della fotografia, partecipando a numerose esposizioni ed iniziative sul territorio nazionale, come Student Performing Festival a Torino, MarteLive a Roma, Food and the City a Firenze e Illegal Art a Genova. Sara Guarracino ha compiuto studi artistici e umanistici… vabbè, diciamola tutta: a quattordici anni voleva fare la pittrice all’Istituto d’Arte, ma poi ha cambiato idea e ha deciso che l’Accademia non faceva per lei. Così si è iscritta a Lettere all’Università per impegolarsi in una tesi pseudofilosofica sulla percezione sensoriale nell’Arte. E una volta finita, neanche quella vita faceva per lei. Nel 2003 ha fatto una mostra con l’Archivio Giovani Artisti di Parma all’Informagiovani dal titolo Le cose cambiano. Infatti cambiano: si è anche sposata. Dopo anni di ricerca per trovare il lavoro che fa per lei è ancora lì a cercarlo, passando dal ruolo ufficiale di insegnante di italiano a laboratori artistici, corsi di pittura e mercatini in cui propone i suoi Animalescamente: animaletti che hanno un occhio grande e uno piccolo, un’espressione stupita verso tutto ciò che li circonda, un po’ come quella che ha lei nel guardare ciò che ha attorno. Per ora, tutto sommato, la vita così com’è le piace: oggi fotografa, domani illustra una favola, dopodomani chi lo sa… Mauro Leoni è nato a Parma nel 1977. Psicologo e psicoterapeuta, si occupa prevalentemente del mondo dei disabili intellettivi (intervento, progettazione e formazione), oltre che di editoria e di ricerca scientifica. Recentemente ha focalizzato i suoi interessi artistici verso la fotografia, come canale privilegiato di comunicazione: il blocco, la difficoltà, l’estremo, il paradosso nel quotidiano, che rivelano possibilità infinite di nessi comunicativi, fuori dai canoni di tempo, spazio e razionalità, ma fortemente dentro la consapevolezza e la visceralità del sé. Cristina Mauri è nata nel 1986 a Lecco e vive a Bellagio, in provincia di Como. Si è diplomata al liceo linguistico “G.Bertacchi” di Lecco e ha conseguito la laurea breve all’ISGMD, Istituto Superiore Grafica Moda Design di Lecco. Continua a coltivare la passione per la fotografia, portando con sé l’amata macchina fotografica in ogni luogo e occasione. ILLUSTRATORI Ilaria Arpa dimostra fin da piccolissima una spiccata indole artistica e i genitori, per evitare di farle imbrattare i muri di casa, svaligiano cartolerie e negozi di belle arti per rifornirla di album e blocchi da disegno – si calcola che un quarto delle foreste svedesi siano state abbattute per fare fronte alle esigenze della piccola artista. La strage silenziosa di carta, penne, inchiostri, pastelli e pennini da disegno continua alle superiori, dove frequenta con successo l’Istituto d’Arte cittadino. Alla fine del regolare corso di studi, non sazia e non doma, si iscrive al Corso in Conservazione dei Beni Culturali, riuscendo a terminare anche questa immane missione in un numero ragionevole di anni (molti dei quali trascorsi lavorando come grafica pubblicitaria). Artista per vocazione, come ama definirsi, scrittrice discontinua, grafica da studio, casalinga (spesso) disperata, ha intrapreso oltre alla via tradizionale della pittura, quella della creazione digitale e della grafica 3D. Emiliano Billai Nasce in un paese depresso-galleggiante in aperto Campidano qualche metro sotto il livello del mare, ma a trecento metri sopra le acque del caldo mediterraneo che circonda un’isola rassegata passa trent’anni della sua vita. Dopo anni trascorsi a parassitare
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estemporanee, mostre, corsi base di pittura e fumetto, stanco di saltellare per ingrate occupazioni non proprio regolamentate secondo criteri di leggi costituzionali, decide di scegliere la fame di cui soffrire e prende a illustrare piccoli, piccoli progetti (rassegne locali di musica, propagande di servizi turistici agonizzanti, loghi per piccole aziende sterili…). Al suo trentesimo compleanno organizza e mette in atto la fuga con i suoi cani e la complicità della sua compagna. Tre anni a Urbino e lavoricchiare è più piacevole, inizia le prime collaborazioni con editori di narrativa erotica, poco dopo passa a più sereni progetti per piccole case editrici con cui ancora collabora (es. Graphe.it Edizioni). Realizza propagande per premi letterari (Premio Letterario Giuseppe Dessì – Villacidro), per iniziative sociali (progetti per L’introduzione allo sviluppo ecosostenibile – Comune di Este) e le prime copertine per editori Francesi (In Octavo Editions). Emanuele Capicci è nato a Terni il 13/11/1975. Diplomato all’Istituto per Geometri di Terni “Antonio da San Gallo il Giovane”, ha poi conseguito il Diploma di laurea presso l’Accademia di Belle Arti di Perugia “Pietro Vannucci”. Nel 2000-2001 ha seguito un “Corso di pittore decoratore per scenografie cinematografiche e televisive” presso la Exon film, in collaborazione con la Fedore S.r.l. e la Regione Umbria. È stato Assistente scultore e Assistente stuccatore presso la Exon film, dal Marzo 2001 all’Ottobre 2001 (per la realizzazione degli elementi di scena del lungometraggio Pinocchio, di Roberto Benigni. Scenografo: Danilo Donati). Ha conseguito un Master in “Exhibit design” presso lo IED di Torino nel 2002. Dal 2002 al 2003 è stato Assistente di studio presso la Crayon’s animazione S.r.l., periodo durante cui sono stati realizzate alcune puntate del cartone animato in stop-motion Taco & Paco, inseriti nei contenitori della RAI “L’Albero Azzurro” ed il “Fantabosco” e il lungometraggio di animazione stop-motion La bisbetica domata. Tra il 2003 e il 2004 è stato fotografo nel settore turistico in collaborazione con la Fotografica S.r.l. di Montella Americo presso S. Martino di Castrozza e presso la struttura “Villaggio Saraceno”, Tortolì- Arbatax. Dal 2004 è docente di Tecnica fotografica presso l’istituto professionale “A. Casagrande” di Terni ed è titolare dello Studio Fotografico l’Arancia di Terni (Servizi fotografici di pubblicità e servizi documentativi per manifestazioni sportive, musicali e teatrali, nonché servizi di cerimonia). Matteo Farinella nasce a Bologna nel 1984. A discapito dei suoi studi scientifici, è un grande appassionato di arte e letteratura. Nel tempo libero coltiva questi interessi dedicandosi alla scrittura e al disegno, spesso combinando le due attività nella realizzazione di graphic novels. Le sue opere hanno ricevuto numerosi riconoscimenti (Flashfumetto, Komikazen, ICEBERG) e nel 2009 è tra i rappresentanti italiani alla Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo (BJCEM). Attualmente vive a Londra, dove lavora come ricercatore nel campo delle neuroscienze presso la University College of London. Dolores Fasulo diplomata presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli, ha poi frequentato la Scuola Internazionale di Comics di Roma, scegliendo l’indirizzo Illustrazione, e ha approfondito la materia partecipando ai laboratori d’illustrazione per bambini proposti da “le Biblioteche di Roma”. Attualmente risiede ad Avellino e ha esposto in varie mostre. Silvia Lonati nasce in provincia di Milano il 24 maggio 1985. L’arte, in qualsiasi forma ed espressione, è sempre stata parte di lei, cresciuta in un ambiente piuttosto creativo, circondata da colori e musica fin da piccola. Le piace dar libero sfogo all’immaginazione e alla fantasia in ogni cosa che fa e osservare il mondo da più punti di vista, per stimolare la creatività, sperimentando sempre nuove tecniche pittoriche. Vuole esprimere questo con i suoi disegni: il mondo, per come lo sente e lo vede. Ha frequentato la scuola del Fumetto di Milano, dove ha ottenuto il diploma in Illustrazione nel 2009. Valentina Scaletti è nata nel 1983 a Parma, dove vive e lavora. Nel 2008 si diploma in scultura (110/110) all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Durante gli anni trascorsi all’Accademia, oltre che alla modellazione della creta, si è avvicinata alla fotografia e alla tecniche di incisione e fonderia, ottenendo ottimi risultati. Nel 2001 partecipa alla collettiva di scultura, grafica e pittura Omaggio a Marzaroli Scultore presso le Serre Comunali di Salsomaggiore Terme (Parma). Nel 2001 e 2002 espone a due edizioni della Mostra Nazionale di Ceramica presso il centro Allende dell’Associazione Culturale Dante Alighieri (La Spezia). Dal 2004 collabora con la Galleria d’Arte Babele di Firenze. Sempre nel 2004 partecipa alla collettiva di scultura Visioni Plastiche al Castello di Felino (Parma). Nel 2006 partecipa ad un’esposizione di terrecotte e ceramiche nel parco di Villa Malenchini, a Carignano (Parma) e nel 2007 partecipa all’evento culturale Arte e Portici a Bologna e alla collettiva di fotografia, scultura, grafica, pittura con l’Associazione Culturale Veda-Visioni a Medesano (Parma). Sempre nello stesso anno partecipa anche alla collettiva di scultura e fotografia presso il convento dei Cappuccini di Fontevivo (Parma), alla terza edizione della collettiva di scultura Terrecotte del Po a Mezzano Inferiore (Parma) e alla collettiva di scultura e pittura presso la Scuola di Arti e Mestieri F. Bertazzoni di Suzzara (Mantova). Nel 2008 partecipa alla collettiva di scultura Eventi scultorei cinque, presso le sale del Comune di Crespellano (Bologna), e alla quarta edizione della collettiva di scultura Terrecotte del Po a Mezzano Inferiore (Parma). Nel 2009 partecipa alla collettiva di scultura, fotografia e pittura Alla ricerca del filo bianco presso Palazzo Giordani a Parma, espone una personale − Alice e My secret garden − al Ground’s Art Gallery dell’Associazione Culturale 360° (Parma) e presenta con Vetrina Flash, a cura dell’Archivio Giovani Artisti di Parma, l’esposizione Alice presso la vetrina d’arte di piazzale Cesare Battisti.
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Ettore Tomas è nato in provincia di Napoli nel 1979 e vive a Sasso Marconi. Dopo una maturità scientifica e una laurea presso l’Accademia di Belle Arti in Decorazione, si è specializzato in Grafica presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Dal 2003 partecipa a mostre, concorsi, progetti, Mail Art: mostra Indicativo Presente a cura dell’Associazione Artincanti, presso Palazzo Albertini a Forlì (2007); mostra personale presso l’ex Convento di San Francesco a Bagnacavallo (2007); partecipazione alla mostra Libri Mai Visti, organizzata dalla Biblioteca comunale di Sasso Marconi (2007); partecipazione alla mostra La Collana bianca si colora in collaborazione con l’agenzia Einaudi di Forlì, presso la Biblioteca Giovanna Righini Ricci a Conselice (2007); selezionato e pubblicato nel catalogo al III Concorso Internazionale Ex Libris “Biblioteca di Bodio Lomnago” Opera e Melodramma (2007); partecipazione e pubblicazione nel libro-catalogo, al progetto The Screamer Company (2007, Austin, Texas); partecipazione alla manifestazione Abstracta, presso Filmstudio 80 Roma.(2007); selezionato al concorso internazionale ex libris Tauragei 500, presso Tauragé. (2007, Lituania); partecipazione al progetto ART=START+ a cura di Ko De Jonge (2007, Middelburg, Olanda). Nell’ambito dei progetti Mail Art, nel 2008 ha partecipato a: The mailartists’ horse a cura del Dott. Lutz Wohlrab (Berlino); Mailartissimo a cura di Karin Weber (Dresda); Energy for you and me a cura di Ebedhard Janke (Edizionui Janus Mail Art Catalogue 4); Mail Sound Art Project “1 minute Auto Hipnosis” a cura di Pedro Bericate (Mute Sound); Mailartissimo 2007, comprensivo di catalogo, a cura di Svetlana Serebryakova presso The A.S. Popov Central Museum of Communications, Saint-Petersburg, I Bienal Internacional del pequino formato, comprensiva di catalogo (Venezuela). Nel 2008 ha partecipato al concorso internazionale Exlibris Exibition “50 years of Siuliai University Humanities Faculty”, Siauliu, Lituania e al relativo catalogo e all’intervento murale a Creativa 2008, a cura di Franco Piri Focardi; selezionato per la manifestazione Quotidiana09, Padova; partecipazione alla mostra Art books, presso la biblioteca di Conselice (RA); partecipazione a Libri d’artista in galleria, a cura di Lamberto Caravita presso Galleria Magma, Bologna (11-18 Giugno). Nel 2009 viene selezionato per la manifestazione Quotidiana09 a Padova; partecipa anche alla mostra Art books, presso la biblioteca di Conselice (RA); partecipa a Libri d’artista in galleria, presso Galleria Magma, Bologna; partecipa a STUPOR MUNDI Metamorfosi di un libro, presso Palazzo Grassi, Aredo (LE) e al Castello angioino di Mola di Bari; partecipa a Lavori in corso d’opera con un intervento pittorico a centro giovani JYL, a cura di Lamberto Caravita. Partecipazione a Fabbricanti di libri edizione internazionale 2009, presso Palazzo Grassi, Aredo (LE); partecipazione a After Berlin 89-09 20 anni dalla caduta del muro, presso Pescherie della Rocca, Lugo (RA); partecipazione a Segni oltre il confine (20 anni dalla caduta del Muro), a cura di Lamberto Caravita, presso la Rocca Sforzesca Bagnara di Romagna (RA); presentazione del corto Micro il circo, con il patrocinio dell’Emilia Romagna Regione Animata Projects Award, all’interno del Futur Film Festival, Palazzo Re Enzo, Bologna (28 gennaio).
ITALIA CREATIVA
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La rivista letteraria «La Luna di Traverso» è edita dalla Casa editrice Monte Università Parma, condivisa e supportata dall’Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia, struttura dell’Assessorato al Benessere e alla Creatività Giovanile del Comune di Parma. “BORN TO WRITE” è un’iniziativa inserita all’interno di ITALIA CREATIVA, progetto per il sostegno e la promozione della giovane creatività italiana a cura del Dipartimento della Gioventù - Presidenza del Consiglio dei Ministri in collaborazione con l’ANCI Associazione Nazionale Comuni Italiani e il GAI Associazione per il Circuito dei Giovani Artisti italiani. Italia Creativa è rivolta a tutti gli artisti italiani attraverso un sistema di attività di network promosse sull’intero territorio nazionale da alcune città capofila. Scopo del progetto è proporre nuove attività in una prospettiva di sviluppo per il sostegno della creatività giovanile attraverso iniziative di formazione, documentazione, promozione e ricerca. Il programma, fondato su linee prioritarie di azione e settori d’intervento primari, affronta a tutto campo temi quali la produzione creativa, il rapporto tra creatività e mercato, la promozione del talento, la conoscenza, la crescita professionale, la creazione di infrastrutture. In questo percorso le azioni concrete già intraprese costituiscono il punto di partenza per indicare le prospettive di sviluppo. “BORN TO WRITE”, realizzato dall’Assessorato al Benessere e alla Creatività Giovanile del Comune di Parma e dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Firenze, in collaborazione con Monte Università Parma Editore, intende proporre delle opportunità di confronto fra giovani autori e affermati esperti nel settore della Letteratura, finalizzate alla crescita professionale delle giovani energie creative. Intende inoltre promuovere il lavoro dei giovani autori attraverso strumenti promozionali capaci di presentare le loro opere ad un vasto pubblico, nonché agli esperti di settore. «La Luna di Traverso» si inserisce in questo programma con l’obiettivo di creare, nelle proprie pagine, un luogo d’incontro tra nuovi giovani scrittori, nel quale essi possano sperimentarsi e confrontarsi, dar vita a uno spazio mirato dove vedere finalmente pubblicati i propri scritti. La rivista vuole porsi, dunque, come territorio d’esercizio letterario, momento di dialogo culturale, aperto alle diverse forme di linguaggio artistico, e come proposta di possibilità di crescita e di miglioramento delle potenzialità narrative dei giovani scrittori.
Per ulteriori informazioni relative all’iniziativa “Born to Write” www.borntowrite.it
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La rivista letteraria «La Luna di Traverso», edita dalla Casa editrice Monte Università Parma, condivisa e supportata dall’Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia, struttura dell’Assessorato al Benessere e alla Creatività Giovanile del Comune di Parma, bandisce un NUOVO CONCORSO PER NARRATORI, FOTOGRAFI e ILLUSTRATORI. REGOLAMENTO Art. 1 - TEMA DEL CONCORSO Il nuovo tema dell’edizione n°28 de “La Luna di Traverso” è Game Over: parola utilizzata nei videogiochi per indicare la sconfitta, ma anche la celebrazione della vittoria e l’eventuale compimento della missione. In entrambi i casi, momento che sancisce il termine dei giochi. Accettate la sfida e giocate insieme a noi: raccontateci il vostro Game Over, insegnateci come evitarlo, accettarlo, oppure raggiungerlo. Inventate un nuovo significato, scopritene il senso, e rivelateci che cosa succede dopo: esiste veramente il Game Over, oppure ci sono giochi che non finiscono mai? Art. 2 – REQUISITI PER LA PARTECIPAZIONE Il bando è rivolto a giovani autori operanti nei settori della Narrativa, della Fotografia e dell’Illustrazione in età compresa tra i 18 e i 35 anni residenti, domiciliati, studenti o lavoratori nel territorio nazionale. Si partecipa inviando materiale inedito in lingua italiana, che non sia stato premiato ad altri concorsi o già pubblicato anche parzialmente oppure presente in Internet. La partecipazione al bando è gratuita. Art. 3 – MODALITÀ DI PARTECIPAZIONE e INVIO DEI MATERIALI Opere narrative: si ammettono racconti originali ed inediti (formato digitale richiesto: *.docx, *.doc, *.rtf - No PDF) per una lunghezza massima di 5400 battute, spazi inclusi. Fotografie: si accettano opere originali e non pubblicate. Ogni autore dovrà presentare 5 fotografie in bianco e nero facendole pervenire via e-mail con risoluzione minima 300 dpi (e di dimensioni mai inferiori a base 21 cm). Illustrazioni: si ammettono da un minimo di 3 a un massimo di 5 tavole in bianco e nero del formato massimo di un foglio A4 (21x29.7 cm). È necessario scansionare ed inviare il materiale via e-mail, con risoluzione minima 300 dpi (e di dimensioni mai inferiori a base 21 cm). Per una maggiore valorizzazione, fruizione e aderenza agli intenti artistici e comunicativi di ogni fotografo o illustratore si richiede, ove lo stesso autore lo ritenga utile e necessario, di indicare il titolo della propria opera, le dimensioni e la tecnica utilizzata. Questi dati verranno indicati come didascalia di accompagnamento alle fotografie o illustrazioni che verranno scelte per la pubblicazione. Le opere di tutti i partecipanti (Narrativa, Fotografia, Illustrazione) dovranno essere obbligatoriamente accompagnate da: una breve biografia (formato digitale richiesto: *.docx, *.doc, *.rtf - No PDF) dell’autore corredata dai dati personali (nome, cognome, indirizzo, recapiti telefonici, indirizzo e-mail). Farà fede il timbro postale. Eventuali attestati di partecipazione al concorso saranno assegnati agli artisti che ne faranno richiesta solo qualora i loro lavori vengano selezionati. I materiali dovranno essere inviati via mail a: lalunaditraverso@gmail.com Chi volesse, può comunque inviare le proprie opere per posta tradizionale, facendole pervenire al seguente indirizzo: MUP Editore, Vicolo al Leon d’Oro, 6 43121 Parma. Art. 4 – TRATTAMENTO DEI DATI PERSONALI e RESPONSABILITÀ In relazione alla previsione che il materiale possa essere pubblicato, in esecuzione del Decreto Legislativo n. 196 del 30 giugno 2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali), il partecipante fornisce il proprio consenso al trattamento dei propri dati personali. Ogni autore partecipante sarà responsabile per i contenuti della propria opera. Inoltre i candidati si faranno garanti che l’opera presentata è originale, che non è mai stata premiata né presentata in altri concorsi, né mai pubblicata nemmeno parzialmente né immessa nella rete internet. Art. 5 - CRITERI DI SELEZIONE e PREMIO Per la valutazione delle opere si terrà conto della qualità, dei percorsi di ricerca formale e dell’originalità dei testi e delle immagini. Il premio del concorso consiste nella pubblicazione dell’opera sulla rivista “La Luna di Traverso”. Solo i vincitori saranno contattati dalla redazione e riceveranno al proprio domicilio due copie omaggio. Non si accettano racconti già editi o che hanno partecipato a bandi precedenti. Le decisioni della Commissione saranno inappellabili e il materiale non verrà restituito. Partecipando all’eventuale selezione, si concede il diritto, a titolo gratuito, di prima edizione delle opere inviate senza avere nulla a pretendere come diritto d’Autore. Art. 6 – SCADENZA Le opere devono essere consegnate entro e non oltre le ore 12.00 del 25 ottobre 2010. INFORMAZIONI Per ulteriori informazioni, rivolgersi ai seguenti indirizzi di posta elettronica: lalunaditraverso@gmail.com – redazione@lunaditraverso.it www.lalunaditraverso.it