SOMMARIO
ITALIA CREATIVA sostegno e promozione della giovane creatività italiana in collaborazione con
Incipit d’autore Follia di Patrick McGrath
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Racconto d’autore Buone Ferie! di Mauro Zucconi
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Caso-studio n.1 Testo di Maria Claudia Bada
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e
realizzato da
edizioni
Interno notte Testo di Paolo Tanzi
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Chi Siamo
L’equazione del Cristo Testo di Luigia Bencivenga
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DIRETTORE Massimo Carta
Povero Gastone che conosci Testo di Pietro Iannibelli
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ORGANIZZAZIONE E COORDINAMENTO Mariella Toscani - Responsabile Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia
Quinto potere Testo di Luis Felipe Quintero Tedesco
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REDAZIONE Silvia Bia, Enrico Cantino, Simona De Blasio, Carlotta Fiore, Roberta Gatti, Armando Minuz, Federica Sassi, Denis Zuliani
Sabato Testo di Roberto Stradiotti
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RELAZIONI ESTERNE Andrea Rabaglia
Don’t eat the yellow snow Testo di Enrico Elvis Crotti
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Nell’erba alta Testo di Alberto Calorosi
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VICE DIRETTORI Guido Conti, Federica Pasqualetti
IDEAZIONE GRAFICA Alessandro Berti REALIZZAZIONE Simone Pellicelli STAMPA La Stamperia - Parma
Sotto gli occhi di almeno una Maria del mondo Testo di Maria Cerino
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PROMOZIONE E DISTRIBUZIONE PDE - Promozione Distribuzione Editoriale LALUNADITRAVERSO 2009 - Anno 9 - Numero 24 Monte Università Parma Editore - Vicolo al Leon d’Oro, 6 43100 Parma
Gli altri Testo di Alfredo Goffredi
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INFORMAZIONI Per collaborare alla rivista scrivi all'indirizzo redazione@lalunaditraverso.it oppure telefona all’Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia (Via Repubblica, 29 Palazzo Pigorini 43100 Parma, giovani@comune.parma.it tel. 0521/384469-70).
Il Dio Motore Testo di Stefano Casacca
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Il giudizio e il lavoro editoriale della redazione sono insindacabili e accettati implicitamente. Gli autori pubblicati riceveranno due copie in omaggio.
RUBRICA Schizzati. Vademecum sulla letteratura punk 32 Testo di Armando Minuz Biografie
La Luna di Traverso è sostenuta dall'Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia e dall'Assessorato al Benessere e alla Creatività Giovanile. Scatto di copertina: Camicia di forza di Chiara Battistini
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Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia Comune di Parma
Gli uomini sono così necessariamente folli che sarebbe folle, d’un altro modo di follia, non essere folli. Blaise Pascal
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La follia, quella propriamente detta, rappresenta uno stato d’alienazione mentale determinato dall’abbandono di ogni criterio di giudizio. Mancanza di senno, dunque, ma anche qualsiasi atto che dall’esterno venga visto o percepito come temerario e irragionevole. Nel corso dei secoli si assiste a una differente visione della follia: nel mondo classico essa si lega indissolubilmente alla sfera religioso-sacrale, dove il folle è voce del divino, da ascoltare per interpretarne la volontà; durante il Medioevo, invece, incarna il demonio e deve pertanto essere esorcizzato, se non addirittura eliminato fisicamente. Nel Rinascimento si passa poi ad una interpretazione diametralmente opposta: basti pensare all’Elogio della Follia di Erasmo da Rotterdam, composto durante un soggiorno presso un altro celebre utopista quale Thomas More, per il quale la follia è sinonimo di conoscenza e di consapevolezza razionale. Tuttavia, è solo verso la fine del Settecento che, grazie a Jacques René Tenon, si giunge a rivoluzionare la mentalità medica, cercando di imporre il concetto di inviolabilità della persona umana e di libertà − seppure all’interno di una struttura − per il malato, distinguendo la terapia medica, da quella solamente repressiva di tipo carcerario in vigore fino a quel momento. A partire dall’Ottocento emerge poi, influenzata dal Positivismo, la visione del folle come “macchina rotta”, ovvero lesionata nel cervello. Nel Novecento, infine, Freud e Jung mutano nuovamente il significato della follia: il primo, attraverso l’intuizione del recupero perseguibile tramite una ricerca interiore e un rapporto più umano con il terapeuta; il secondo, mediante l’indagine dei contenuti simbolici degli elementi della follia e l’introduzione degli archetipi per definirla con più chiarezza. Gli esempi presenti all’interno della letteratura restano ancora oggi memorabili ed emblematici, laddove “follia” diviene eccesso di lucidità, evidente escamotage letterario per parlare senza filtri, espressione limpida, priva di mediazioni raziocinanti della propria mente e del proprio sentire. Follia è dunque il tramite per mostrare l’Altro, il Diverso, l’Anti-convenzionale, anelito supremo alla Libertà. Le tragedie greche e quelle di Shakespeare mettono spesso in scena pazzie − vere o presunte − di esseri umani schiacciati dal fato o da fortissime emozioni, che emergono in tutta la loro sorprendente lucidità; altro illustre esempio è il Don Chisciotte della Mancia di Cervantes, affresco romanzato della schizofrenia, efficace quanto geniale; l’Enrico IV di Pirandello, in cui si intrecciano i temi della solitudine, dell’incomprensione, dei confini tra vero e falso, tra follia e saggezza. Resta, insieme a Uno, nessuno, centomila, un capolavoro indiscusso nel quale rendersi conto della profondità cui l’analisi umana si spinge nella estrema sincerità della follia. Diverso, invece, è quanto accade nell’episodio dell’Orlando Furioso di Ariosto, in cui Astolfo si reca sulla Luna per recuperare il senno di Orlando, impazzito per amore. Ora, tra le varie tipologie passate in rassegna, siamo a chiederci: che cosa significa «follia» oggi? «Tutto ciò che contraddice la ragione», diremmo, di primo acchito. Ma follia non è anche la frenesia dilagante, i falsi valori imperanti, l’azzeramento dei sentimenti, l’apparenza priva di sostanza, il nostro stile di vita imposto o auto-imposto? Come accade per Zeno Cosini, protagonista del celebre romanzo di Svevo, dunque, possiamo dire che forse è meglio essere convinti di essere “malati”, piuttosto che illudersi di essere “sani”. E comunque, per dirla con Proust, per rendere sopportabile la realtà, «siamo tutti costretti a coltivare in noi qualche piccola pazzia.» Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia
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Il tema Follia – per i cui preziosi contributi ringraziamo la Biblioteca Scientifica Carlo Livi (Az. Usl di Reggio Emilia) creata nell’Ottocento come biblioteca dell’Ospedale Psichiatrico San Lazzaro e oggi specializzata nel campo delle discipline della mente – ha purtroppo confermato una tendenza in atto nel materiale – racconti, foto e illustrazioni – che arriva in redazione: la mancanza d’impegno. I partecipanti, scrittori, fotografi o illustratori che siano, non sembrano crederci. A noi della Luna dispiace. La qualità è quello cui aspiriamo da sempre. Però dovete aiutarci. Abbiamo individuato alcuni difetti che riscontriamo ad ogni bando. Qualcuno finisce fuori strada. La colpa potrebbe anche essere nostra: forse non siamo abbastanza chiari nella formulazione. Come si fa, invece, a equivocare sul numero massimo di battute? Continuano ad arrivare racconti che sforano addirittura del doppio. Per non parlare degli autori che propongono più volte lo stesso lavoro. Questo, però, riguarda l’onestà intellettuale, per cui è inutile insistervi. Ci sono cose che non ci si può procurare: Don Abbondio lo sa. Per quanto riguarda il contenuto, riscontriamo un’impressionante e generalizzata mancanza di idee. Perché spesso chi scrive legge soltanto se stesso. Ma se non si confronta con visioni del mondo diverse dalla sua, non cresce. Non vede cosa hanno scritto gli altri, e la testa gli rimane tenacemente abbarbicata su luoghi comuni visti e sentiti troppe volte. Inutile provare a stupire. Si finisce per concludere peggio qualcosa che è stato cominciato male. Molti racconti non hanno nulla a che vedere con la narrativa. C’è il monologo di chi sprofonda nell’estatica contemplazione del proprio ombelico (per non dire di peggio). C’è anche la “riflessione sul tema”: consiste nell’accumulazione di osservazioni banali e, oltretutto, non richieste. Alla carenza di originalità si aggiungono gravi lacune stilistiche. Mancano le basi. La punteggiatura è incerta. Qua e là spuntano errori ortografici che un aspirante scrittore dovrebbe evitare a ogni costo. I dialoghi sono farraginosi. E la costruzione della frase, in alcuni casi non rispetta le più elementari regole grammaticali. Vorremmo che vi impegnaste di più. Vorremmo trovarci in difficoltà, quando selezioniamo cosa pubblicare, un po’ come quegli allenatori che non sanno quale formazione schierare perché i giocatori sono tutti campioni. Vorremmo trovare quel racconto, quell’illustrazione oppure quella foto talmente belli da toglierci il respiro. Ecco ciò che vorremmo: che cresceste insieme a noi. Basta poco. Leggete. Confrontatevi con altri scrittori. Non ricorrete agli amici, però: la loro indulgenza provoca soltanto danni. La scrittura è lavoro. Se non avete la cassetta degli attrezzi di cui parla Stephen King nello splendido saggio On writing, createvela pezzo per pezzo. Senza fretta. Noi siamo qui. E vi aspettiamo.
Scatto di Gian Guido Zurli, Ex paziente dell’ospedale psichiatrico di Cogoleto (GE)
Editoriale
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Incipit d'autore
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Le storie d’amore catastrofiche contraddistinte da ossessione sessuale sono un mio interesse professionale ormai da molti anni. Si tratta di relazioni la cui durata e la cui intensità differiscono sensibilmente, ma che tendono ad attraversare fasi molto simili: riconoscimento, identificazione, organizzazione, struttura, complicazione, e così via. La storia di Stella Raphael è una delle più tristi che io conosca. Stella era una donna profondamente frustrata, che subì le prevedibili conseguenze di una lunga negazione e crollò di fronte a una tentazione improvvisa e soverchiante. Come se non bastasse, era una romantica. Traspose la sua esperienza con Edgad Stark sul piano del melodramma, facendone la storia di due amanti maledetti che sfidano il disprezzo del mondo in nome di una grande passione. È stata una vicenda il cui corso ha distrutto quattro vite, eppure Stella, ammesso che abbia mai provato rimorso, è rimasta fedele alle sue illusioni fino alla fine. Io ho cercato di aiutarla, ma lei mi ha tenuto lontano dalla verità finché non è stato troppo tardi. Non aveva scelta. Non poteva permettersi di lasciarmi vedere le cose come stavano: sarebbe stata la rovina delle poche, fragili strutture psichiche che le erano rimaste. All’epoca dei fatti Stella era sposata con Max Raphael, uno psichiatra criminale; avevano un figlio di dieci anni, Charlie. Il padre di Stella, un diplomatico, era stato rovinato anni prima da uno scandalo, ma adesso sia lui che la moglie erano morti. Quando sposò Max, Stella aveva sì e no vent’anni. Max era un uomo riservato, piuttosto malinconico, con buone doti di amministratore, ma debole, e senza fantasia. Fin dal nostro primo incontro capii che non era la persona adatta per una donna come Stella. Quando Max fece domanda per il posto di vicedirettore, lui e Stella vivevano a Londra. Max venne da noi per un colloquio; fece buona impressione sul consiglio direttivo, e soprattutto sul direttore, Jack Straffen. Nonostante il mio parere contrario, Jack gli offrì il posto, e qualche settimana dopo i Raphael arrivarono in ospedale. Era l’estate del 1959, e il Mental Health Act era appena diventato legge. Anche se Dio solo sa se non si è preso i miei anni migliori, questo è un posto spaventoso. È un istituto di massima sicurezza, una cittadella fortificata che sorge su un alto colle e domina la campagna circostante: fitte pinete a nord e a ovest, bassi acquitrini a sud. È costruito secondo il tipico schema lineare dell’architettura vittoriana, con i bracci che si irradiano dai corpi principali in modo che tutti i padiglioni abbiano la vista libera sull’aperta campagna al di là del Muro. È un’architettura morale, che esprime regolarità, disciplina e organizzazione. Tutte le porte si aprono verso l’esterno, perché non si possano barricare, e tutte le finestre hanno le sbarre. Solo le terrazze digradanti, che scendono fino al muro ai piedi della collina e ricoperte di alberi, manti erbosi e aiuole fiorite, ingentiliscono e rendono in qualche misura più umana la tetra architettura carceraria che le sovrasta. Patrick McGrath, Follia, Milano, Adelphi, 2007, pp. 7-8
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5 Scatto di Fabrizio Cavalleri
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Racconto d’Autore Testo di Mauro Zucconi aka Chinaski77 Illustrazione di Chiara Battistini
Buone ferie!
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Siete assurdi. Non siete degli esseri umani, siete dei canovacci. Vi rendete conto di quanto siete patetici? Arriva l’estate, le ferie, e via, tutti in vacanza, novanta milioni tutti contemporaneamente in vacanza nel mese più schifoso dell’anno, incastrati al casello a farvi intervistare da Studio Aperto. Vi sta bene. Ma poi, che dico? Siete persino contenti: pensate che Studio Aperto sia un telegiornale, quindi ve lo meritate. Io vi guardo, con quelle facce paonazze, sudate, assolutamente cretine, la macchina piena di stupide cianfrusaglie di plastica colorata che non servono a niente, mentre ridete delle vostre sventure come a dire: «Eh, siamo incastrati, stanchi, incazzati, depressi e delusi, ma che ci possiamo fare? Questa è la vita! Le vacanze! Allegria!» Imbecilli, ecco cosa siete. Questa è la vita? No, non è la vita, è la vostra vita. Che ci potete fare? Cambiarla. Stare a casa. Potete stare a casa. È tanto difficile? State a casa. Andate in vacanza in primavera. Ma meglio così, che io me la godo. Ho comprato apposta nove televisori per guardarvi. Nove televisori da quindici pollici, come la società autostrade, disposti a casellario uno sopra l’altro, come la società autostrade, proprio per guardare le autostrade, per guardarvi affogare negli ingorghi che voi stessi avete creato a vostra immagine e somiglianza. Ma fatela, ‘sta partenza intelligente, una volta. Vent’anni che sento parlare della partenza intelligente, la partenza intelligente, la partenza intelligente, la partenza intelligente, e poi partite tutti di sabato alle otto e un quarto e venti minuti dopo vi ritrovate tutti insieme tutti lì nello stesso posto nello stesso preciso momento («Ohi, ciao! Partenza intelligente anche tu, quest’anno?»). Lo so perché controllo tutti i caselli di tutta Italia, è il mio passatempo estivo. Mi metto lì sul divano e vi guardo mentre suonate i clacson, come a dire ai vostri simili: «Eh, cazzo, muovete il culo!» Ma non possono muovere il culo, lo capite? Perché è finito lo spazio. Non puoi spingere via le auto con la stupidità del pensiero. Ma io vi guardo e mi stupisco più che altro per quanto siete brutti. Io in televisione sono abituato a vedere solo belli: Johnny Depp, Salma Hayek, George Clooney… ma voi siete orripilanti, degli orrendi sgorbi coi denti storti, calvi, gli occhi protuberanti. Tornate negli uffici, mostri! Tornate nelle officine, nei vostri loculi, dove vi pare, ma sparite! Fortuna che posso in qualsiasi momento spegnere il televisore (ma non lo spengo, siete troppo brutti e assurdi per non guardarvi). Ah, no, per favore: non venitemi a dire che andate al mare proprio perché agosto è un mese schifoso. Ci sono stato, al mare, che vi credete? Ci sono stato e agosto fa schifo anche là, lo so benissimo, fa schifo forse persino di più: il caldo, l’umido, le zanzare, le file di macchine sul lungomare, le file di persone sul lungomare, i bambini, cristo santo, i bambini mostruosi, e la spiaggia, l’apoteosi della merda, e non solo in senso figurato, l’acqua piena di gente che nell’acqua ci piscia e ci caga. Ho visto gli stronzi galleggianti, sapete. I vostri stronzi galleggianti, li ho visti. «È una questione di principio!», «Il rispetto!», «La morale!», «Nostro Signore!»: sono parole vostre, e poi, quando nessuno vi guarda,
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fate la cacca nel mare. Che non è come la piscina, no, che fate girare la leggenda del liquido invisibile di contrasto che se fai la pipì l’acqua diventa fucsia e tutti ti vedono e ti prendono in giro. Perché è di questo che avete paura: che vi prendano in giro. Cioè pisciare nell’acqua in cui voi e io facciamo il bagno no, non vi turba, ma se vi prendono in giro, allora… ma nel mare non c’è il liquido di contrasto e, così, via! Altro che pipì… giù tutti a fare direttamente quella grossa! Oh, sì. Ero lì a mollo fino ai lobi delle orecchie, tranquillo, mi godevo la frescura e le abrasioni solari e facevo gli spruzzi con la bocca, prendevo una piccola quantità di acqua di mare e la sputacchiavo lontano, così, tanto per fare qualcosa, perché mi fidavo, ero un bambino, mi ci facevo pure gli sciacqui, tanto che c’ero, ed ecco che a un tratto passa uno stronzo, un autentico stronzo uscito dal culo di un essere umano − uno dei vostri culi puzzolenti e mai lavati («Non ti fai il bidet, caro?», «Ma no, tanto oggi vado al mare!», «Ah, ah! Che incorreggibile aborto di Dio che sei, tesoro! Ti amo!») − che passa galleggiando, plop, plop, passa e se ne va, così, in silenzio. Avete cagato nel mare in cui facciamo il bagno, vi rendete conto? Vi auguro tutto il peggio. E poi il mare fa schifo perché ci siete voi. Questo è un problema irrisolvibile, lo capisco: il posto in cui andate, siccome ci andate voi, fa schifo per definizione. L’unico modo per evitare questo problema sarebbe prenotare l’albergo, le sdraio, l’ombrellone, caricare la macchina, metterci su la nonna, fare il pieno, tutto, e poi non partire, rimanere a casa, così a fine agosto il vostro vicino, cretino anche lui e appena tornato da un altro posto schifoso perché c’è stato lui, vi chiederebbe «Dove sei stato, quest’anno?» e voi potreste dire «Sono stato a Forte dei Marmi» e lui direbbe «Ah, bello!» e finalmente voi potreste dire «Sì, bello», perché non c’eravate voi quest’anno, capito? Sì, ok, fa comunque schifo perché c’erano tutti gli altri, ma un po’ meno schifo perché stavolta non c’eravate voi, e infatti gli altri, tornando e parlando coi vicini, diranno «Si stava meglio del solito, quest’anno», ed è vero, si stava meglio, perché non c’eravate voi, capito? Basta, ho finito.
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Caso
-studi
o n.1
Testo di Maria Claudia Bada Illustrazione di Alessio Maggioni
In capsule La mia vita inchiavata su questi cartoni, dove sono, cherchez la femme, La mia vita, non la immagino più, solo voci, non immagino più senza Può un corpo solo sopportare più di un’anima? Una stagione pallida, fiati spenti, tutto poroso. Solo io Corrosa.
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«Cavolo, alza la radio, che ci sentono i vicini. Per favore, alzala.» Gaia si era lasciata andare a quell’amoroso scambio di fluidi, a quei picchi ormonali scaricati dentro e fuori, per sentire poi di appartenere solo a una specie che si riproduce meno autonomamente di un’ameba o di una scolopendra. Quel pomeriggio tamburellava con le dita il ritmo di una canzone che tentava di non dimenticare, mentre scappava via dal suo letto. A che ora ritorni, non so, devo lavorare alla tesi, che palle sempre ‘sta tesi, vai a cagare, stop, fine del discorso, troncato dalla porta sbattuta. «Diciamoci la verità: è finita, tra noi.» Digliela, la verità. Sei ancora instabile. Totalmente. Panico. Perdi i giorni, li lasci scivolare sulle autostrade, li ficchi in valigia, in lista d’attesa per un aereo, li dimentichi come bottiglie vuote nel vagone di un treno; eppure il loro fantasma permea tutti i ricordi, rilasciando una cedola di validità alle vituperate occasioni ripetute che chiami abitudini. La strada in bici per il supermercato, sempre e solo quella, come i piccioni, in automatico verso il nido di aria condizionata e merci in esposizione. La strada verso l’ufficio, sempre quella, così arrivi prima, e intanto ti fermi dal panettiere, dall’ottico, dal macellaio. Il ritorno a casa, sempre quel sollievo sottile, I made my day, hai finito, ce l’hai fatta, ti dedichi solo a sbrogliare davanti a un film l’accumulo di immagini che la giornata ti ha portato. Neanche questo riusciva più a fare. Lasciato il lavoro, allontanati gli amici. E adesso anche Andrea non c’era più. Era instabile. Pericolosamente. Rabbia. Alcuni giorni erano graziati da un’amnesia tempestiva: Gaia li aspettava per ricomporre la sua mappa interiore completamente esplosa. L’originale si era sperduto in un mare di assuefazioni che pure la sostenevano un tempo. Un tempo voleva tutto e subito, ingolfando corpo e anima. Non sentiva niente, dopo. «Si, è vero: sto male, dottore. Sono instabile. Continuamente. Dolori in tutto il corpo.» Stringimi, dottore, che stanotte ho brutto-sognato una distesa di croci bianche, immacolate piantate sulla spiaggia al posto degli ombrelloni, cielo scuro, silenzioso, solo la risacca risuonava e io, seduta sulla sdraio, aspettavo.
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Stringimi, che stanotte ho brutto-sognato mia nonna buon’anima che correva lungo la distesa di croci, zigzagando. Mentre cercavo di fermarla mi ha urlato di andarmene e di non seguirla. Svegliami, dottore, che sono pronta alla penetrazione della verità con cui speri di salvarmi: filamentosa, dolce e paziente penetrazione lingua-cervello; quanto hai ragione, ci si accompagna a troppa gente, costretti dalle circostanze, dalle formalità, ci si accompagna ad una finzione di affetti, amore, sicurezza. «Guarirà, Gaia, e senza usare pillole. Ho trattato in terapia molte donne nelle sue condizioni, con buoni risultati.» Guarirà dalla sindrome post-traumatica. La psicoterapeuta lo aveva detto con empatia vera. Gaia ci aveva creduto, nonostante procedesse con il freno a mano del dolore tirato su da quasi due anni. La vorace Làmia che le stava divorando l’anima non avrebbe deposto a suo favore nel Tribunale dell’Inquisizione Casalinga, con i parenti costernati e compassionevoli per i poveri genitori, tutti affranti dall’avere una figlia e una nipote pazza. Con questo giudizio la tenevano ferma, incatenata, così malata, povera creatura. Ha senso chiedersi: «Perché sei carne assemblata dal desiderio del futuro e dalla paura del futuro?». La risposta che nessuno voleva accettare la custodivano lei e la sua bambina, la sua piccola bambina tenuta stretta in catene dentro, che urlava giorno e notte, la sua piccola, dolce bambina-ragno che una volta si era anche incarnata in tubi e respiratori tracheali. Niente è così lungo come il passo che avvicina a sé stessi, e Gaia si era persa in superficie, tentando di ammazzarsi due anni prima. Insufflarono vita, espirarono vita, non la lasciarono diventare cenere. «Did you dream a sofa?», le chiese il cartellone pubblicitario anche questa volta, mentre usciva dal terapeuta per infilarsi giù nei gas di scarico, attorcigliata alla borsa. «So many times», pensò stanca. Attenta guardò la strada logorata, si concentrò sul fetore dell’asfalto, dolente per essere stato abusato da tante di quelle auto, camion, clacson; si ricordava del suo fetore carnoso per essere stata violata così tante volte da aria condizionata, fax, telefoni. Ancora una volta violata. Si mise a piangere, disorientata. Un cane impietrito davanti a una vetrina; come una statua di carne, non muoveva un muscolo: troppa paura del chiassoso chiudersi delle saracinesche, kaboum. In mezzo a quel caos nessuno li notò. Gaia era salita svuotata sull’autobus, il frastuono di fuori coperto dallo sferragliare delle ruote enormi sulla strada, another day has passed by; andava a casa, verso il mare, verso il suo balcone che si apriva sul porto ad aspettare i marziani-aereoplani delle 11 p.m. che sfioravano il tetto e le trombe di Eustachio. Drin drin, hallo sono io, aprimi amore, sono Andrea, devo parlarti, ok, ti apro.
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Interno notte Testo di Paolo Tanzi Scatto di Gian Guido Zurli, Incubi a Volterra (interno dell’ex Manicomio)
Lo svegliò un terrificante fragore di tuono. Rimase con gli occhi spalancati a fissare il buio della stanza e ad ascoltare il ritmo accelerato del suo cuore e l’affanno del suo respiro. Si passò una mano sulla fronte. La scoprì perlata di sudore, come fosse stato reduce da una mezza giornata in sauna. Aveva avuto un incubo. Uno strano incubo. Uno di quegli incubi dove riesci a sdoppiarti, dove sei tu il protagonista e contemporaneamente riesci a vederti dall’esterno. Protagonista e spettatore, anche se non conosci la trama e ignori completamente chi ti ha dato il ciak. Gli rimaneva nella mente solo il tema di una canzone che non aveva mai sentito, una specie di colonna sonora obliqua scritta da chissà quale serial killer del pentagramma. Tentò di allungare la mano verso il filo dell’abat-jour, ma non lo trovò. Si sporse ancora un po’, si mise a tagliare l’aria con le mani, si scostò ancora. Un altro centimetro e sarebbe volato giù dal letto. Niente filo, niente abat-jour, niente luce. Roteò nuovamente gli occhi: giù in fondo, alla fine del letto, vedeva un’ipotesi di chiarore. Si alzò di scatto e andò verso quella luce accennata. Accarezzò qualcosa che sapeva di legno. Le sue mani incontrarono la freddezza inanimata del metallo della maniglia. Indugiò un attimo, poi aprì il battente della finestra e spalancò le persiane. Fuori, sul lungomare, non c’era anima viva. I lampioni illuminavano come sentinelle tremolanti un inutile confine d’asfalto che nessuno avrebbe varcato. Non quella notte, almeno. E pioveva, pioveva forte, con una violenza e una pervicacia strane per il mese di novembre. Stette per un tempo indefinito a prendersi gli spruzzi della pioggia sulla faccia. Rientrò in camera, ma senza chiudere la finestra. Prese il computer portatile e lo accese, attese con pazienza che apparisse il paesaggio tropicale che aveva come desktop, aprì un nuovo file e iniziò a scrivere con una determinazione che non conosceva da mesi: 10
tu non sai scrivere Johnny lei è veramente bravo ma non ha la misura dannata macchina del caffè dannatissima macchina del caffè del cazzo nossignore nossignore se lei non legge non può capire e lei non legge lei sa solo trangugiare pezzi di frase e poi vomitarli con il suo alito fetente non è colpa mia se quel cazzo di macchina del caffè si è rotta che vada alla malora insieme a te brutta stronza colpa tua solo tua se non riesco a infilare soggetto e predicato colpa tua e delle tue cazzate vroom vroom voglio una moto stronza tu non capisci nulla sai solo progettare di andare a prendere il tè con le tue amiche viziate grandissimo pezzo di merda d’un direttore gnè gnè gnè il badge gnè gnè gnè il badge il badge se lo infili nel culo il mio badge lei non rende lei ha la testa tra le nuvole gnè gnè gnè poi torni a casa e non puoi farti manco il caffè perché quella demente non ha comprato la macchinetta nuova faccio tutto io qui faccio tutto io sempre tutto io una volta eri diverso una volta mi sapevi stupire una volta mi facevi sognare gnè gnè gnè sognare sognare svegliati l’ora della merenda è finita non c’è la Nutella non c’è nemmeno il caffè non c’è mai niente in questo cazzo di casa solo macerie non c’è mare non c’è montagna non c’è niente niente niente. «Niente», ripeté a bassa voce fissando ciò che aveva scritto. «Niente, niente, niente, niente, niente…»
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L’equazione del Cristo 12
Testo di Luigia Bencivenga
Scatto di Fabrizio Cavalleri
Il matematico tedesco Bernard Riemann Junior s’era trasferito a Napoli dopo aver dedicato un terzo della sua vita alla risoluzione del celebre Teorema di Fermat; nel 1994 riuscì a risolverlo, ma solo trentasei ore e quarantadue minuti dopo l’occhialuto Andrew Wiles di Cambridge. Avviato a un lento declino, Bernard non nascondeva un continuo malumore che talvolta si colorava di melanconia, tanto che cominciò persino a trascurare le elementari regole d’igiene personale e a chiudersi in un rigoroso silenzio rotto dalle note – non certo briose – del Palestrina di Hans Pfitzner. °°° Il presidente dei matematici teosofici napoletani, un certo Giulietto Esposito, riuscì ad ottenere un appuntamento con Bernard, complice la segretaria Dunka che – mossa da femminile pietà – deside-
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rava rivedere il suo capo alle prese con uno dei suoi teoremi. I matematici teosofici s’erano messi in testa di dimostrare l’esistenza di Dio proprio come fosse stato un quesito di matematica pura, suscitando ilarità negli ambienti accademici. Quell’appuntamento era l’ultima spiaggia. Il matematico napoletano si trovò nello studio di Bernard insieme a Carmelo, l’altro associato. Giulietto era decisamente iperattivo: talvolta mangiucchiava le unghie oppure contraeva e decontraeva le natiche secondo un ritmo ternario. Carmelo aveva con sé una grossa valigia zeppa di appunti, ma non nascondeva una certa rassegnazione; altre volte s’erano rivolti ai luminari del calcolo algebrico ricevendo insulti e porte in faccia. Bernard, chiuso in una fetida vestaglia da camera, aveva ricevuto di malavoglia Giulietto e Carmelo. Il primo spiegò di aver trovato nell’oscuro trattato Teoria dei miracoli, scritto da Vincenzo Flauti nel 1863, un’equazione la cui risoluzione avrebbe permesso la materializzazione del Cristo, forse nelle catacombe di San Gennaro. «Sono ormai dieci anni che dedico la mia vita alla risoluzione di questo calcolo e non ne sono venuto a capo.» Bernard guardò “l’equazione del Cristo”, così come era stata denominata dal Flauti poco prima della morte avvenuta in circostanze misteriose. La soluzione del problema rinviava (aritmeticamente) all’ora in cui si sarebbe verificata l’apparizione in un luogo determinato (geometricamente) da una retta su un piano cartesiano le cui coordinate – riportate sulla pianta della città di Napoli – conducevano ad un luogo sotterraneo, forse le catacombe di San Gennaro. «Temo che la proiezione sia sbagliata. Datemi qualche giorno.» Giulietto e Carmelo si guardarono a lungo senza dir nulla, prefigurandosi la celebrità che sarebbe giunta di lì a poco. Bernard, invece, pensò di darsi una ripulita e di mettersi al lavoro, il suo unico amore. Faticava nelle quotidiane operazioni che gravano l’essere umano (fare la spesa o contrattare sul prezzo di un’autoradio di dubbia provenienza, ad esempio), ma era a suo agio a contatto con quesiti di matematica pura. All’età di 63 anni non aveva ancora conosciuto una donna e la cosa non lo disturbava. In ogni caso, era in buona compagnia. Uno studio condotto da un gruppo di ricercatori del Meryland aveva dimostrato che l’83% degli iscritti a Matematica si laurea vergine, senza che questo fattore risulti destabilizzante. Lo stesso gruppo di ricerca condusse una indagine simile su un campione di matematici statunitensi di successo, dimostrando che il 76% era ancora illibato e che solo il 9% aveva un’attività sessuale regolare. Bernard amava, sì. Ma solo i numeri, la logica, il paradosso, il più e il meno. Non aveva bisogno d’altro. Nemmeno di parlare con Gesù. «So qual è la soluzione.» A queste parole, i due teosofici improvvisarono balli del folklore vesuviano nello studio polveroso. Bernard li richiamò al decoro mostrando un grafico che faceva pensare alla pianta semicircolare di un’abitazione, come quella di un teatro greco o romano. Carmelo alzò il dito come un ragazzino delle medie che vuol fare bella figura con il professore: «È il teatro romano di via Anticaglia.» Si riferiva ai resti di un teatro romano che erano serviti da rifugio nel corso di rivoluzioni e guerre, e da cantina per una famiglia napoletana che vi aveva abitato fino al 1980. Bernard intuì che l’apparizione dovesse avvenire proprio in quel luogo, in quella data, tra le due e le quattro di notte. I tre uomini si diedero appuntamento a via Anticaglia. S’erano accordati con il custode che, per poche centinaia di euro, affidò loro le chiavi di riserva. Aprirono il portone e, attraverso una botola, raggiunsero il teatro interrato illuminando il percorso con la torcia di Carmelo. Si sedettero un po’ impauriti su una panca ricavata dal tufo e attesero il Cristo che, alle due e dieci del mattino, si materializzò.
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Il Cristo indossava pantaloni di tela ecru, una camicia a quadroni, sandali di cuoio e fumava tabacco Old Holborn Blu avvolto in comuni cartine rizla corte. «Mi hai trovato. E adesso che hai superato il tuo limite, cosa ti resta da fare?» Gesù pareva non accorgersi dei due teosofici che in ginocchio pregavano e imploravano la grazia. «Altri mi hanno incontrato su strade diverse. Altri credono di avermi trovato e s’uccidono per me o per mio padre. Pensa a questi due idioti: per cercarmi, hanno dimenticato l’amore delle donne e dei figli! Adesso sai. Cosa ti resta da fare?» Bernard si portò le mani agli occhi per coprirsi il pianto che lentamente si faceva singhiozzo e lamento. «Ora so. Conosco il mio limite. E ho paura. La mia vita è stata questo. Solo ora mi sembra inutile. Indicami tu la strada». Gesù calpestò la sigaretta e rise di gusto. «La strada è questa ed è finita.»
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Povero gastone che conosci
Testo di Pietro Iannibelli Scatto di Maura Ghiselli, L’anatroccolo che si credeva cigno
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Gastone che conosci il tiglio posto in un canto del giardino e lo guardi, quel tiglio non è come ti sembra, ma più verdi sono le fronde e più torti sono i suoi rami. Generalmente, fra quel che è (cosa che Apeirone stabilisce e Apeirone mi dice) e quel che è per te, scorre un fiume di qualità perdute, il quale, curvando negli istanti e nei momenti dei giorni, arriva al mare vuoto che mai certamente esperirai, dove rabidi flutti di nulla formano vane schiume di niente su un arenile inesistente. L’incompletezza che ti riguarda s’immilla e abbaglia gli occhi, le orecchie, le mani con cui conosci, e fida risplende, e si manifesta giusta, esaustiva, al tuo intelletto sitibondo di certezze. Ma questo di quella è contesto. Gastone che mistifichi il mondo posto di là dalla punta del naso, quel mondo non è come tu lo tradisci, ma più aspra è la frusta che sferza il cavallo carico di canestri di sassi, e il cavallo è un somaro, e il somaro è uno stanco dromedario che in sé trasporta acqua piovana. Oltre quel che guardi accade l’accadimento, il sole ad esempio nasce da un paravento orientale dipinto di bianco, di gracili giunchi e ginestre solo accennate, ma tu non lo puoi percepire, così Apeirone ha comandato. Dietro il quadro che ti ammanniscono i sensi le verità si dispongono in fila e seguono come pulcini la gallina che li ha generati, gallina di cui forse discerni la coda quando la nobile dama, per vezzo, si fa aria con un ventaglio di piume. La realtà è illusoria come un profumo che giunge alle tue nari e non sai se è aroma o olezzo o afrore o fragranza o puzza o miasma o odore e che svanisce mentre ancora non l’hai percepito. Ma non è soltanto questione di significanti, o Gastone. Difatti, più oggettivamente, i punti diventano tratti, i tratti diventano linee, le linee diventano onde, le onde diventano cerchi, i cerchi diventano sfere, le sfere diventano frecce, le frecce diventano spine, le spine diventano rose, e queste diventano facce, e queste diventano cose, e queste divampano come fuochi generali di scintille e fiamme e faville e vampe fosche, e accese diventano rese, battaglie perdute, incomprensioni: un carbone nero, una cenere bruna, un tizzone bruciato. Tu perdi, o Gastone, hai perduto, ogni noumeno che hai guardato e trattieni, hai trattenuto, le cose come non sono: dell’addio non carpisci o possiedi il saluto, ma l’abbandono. Quando fuori infuria la notte e la tempesta e tu cerchi nel letto di dormire fra milioni di paure, non giunge il lampo all’intelletto, ma il tuono, non la luce, ma un suono, un rumore cupo. Gastone che conosci il tiglio del giardino, quel tiglio è un ippocastano. Se ti avvicini puoi tu stesso vedere gli ovali frutti autunnali chiamati olive che solitamente produce. Queste per uso le raccoglie un leone immateriale e le spreme fra la terza e la quarta onda del mare sino a che non ne viene un gufo accigliato e fermo s’un ramo notturno di pruno che dunque l’astratto leone pone con cura sulla luna in attesa che da ciò derivi un canto greve lieve neve rêve sogno atto a suscitare sentimenti di sbaglio e di colpa nel cuore felino e buono che ruggisce alla savana e governa il branco provando rettitudine e sgomento fra l’esse e il re nella pianura infinita intorno al filo di paglia e di trifoglio ove cade l’astro infuocato e un timore s’infiocca al collo della zebra china al fiume di fango in cui l’ippopotamo sta la ninfea cresce il coccodrillo si dirige piccolino e nuota nelle giostre dell’alghe corrive all’acqua che le inabissa e torce lombriche come un’iperbole viva e conversa sensibile ai venti superni nati dalle grotte nascoste di Camalogna Ardantina u casa ombrigena cada tar spernaldo core fratto et abissale certaldo more fros unde gelido fardegìdo ve nise bioca vespa almutiva bano coc tundo ef gaspiglio pito ferovando cetto a “tuva vesto cud” apistra ventintina lada vonde dene gra sperti runcolane ol ort zinata razina trizia dardufa fata sterna e spirta. Famiglia della margherita, Compositae ombrella: infiorescenza in cui i piccioli fiorali nascono tutti da uno stesso punto. Spesso ombrelle più piccole (secondarie) partono dai piccioli principali. Gastone che conosci e speri, questo Apeirone ha stabilito, ma tu non lo puoi sapere. Sulla punta del tuo dito, all’estremo del tuo sguardo e della ratio langue e dorme questo:
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; e fugge dalla punta della lingua, e fugge dallo spazio del ricordo. Povero Gastone che conosci, cosa vedi, cos’hai veduto?
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Quinto Quinto potere Testo di Luis Felipe Quintero Tedesco Illustrazione di Carlo Costanzelli, Ignaro d’essere privato della ragione
Quella mattina il PM Salvaterra si alzò di buon’ora, come di consueto. Ebbe il solito caffè a letto ma, questa volta, nell’afferrare la tazza per avvicinarla alle labbra, si rese conto che nell’impugnatura entravano tutte le dita tranne il mignolo. Si affrettò a telefonare al suo amico Rutigliano. Rutigliano, Ministro degli Interni, comprese subito a cosa si riferisse l’amico Salvaterra. La settimana prima, una feroce discussione era nata tra i banchi del Parlamento su chi, ma soprattutto quanti, avrebbero dovuto fare cosa. Se non si fossero presi provvedimenti immediati l’opposizione li avrebbe accusati di non essere in grado di dare risposte concrete alle esigenze del Paese e gli elettori avrebbero capito quanto fosse vero. Occorreva un diversivo. La stampa avrebbe di certo scatenato una tempesta mediatica di almeno un paio di settimane. Giocando d’anticipo, loro ne avrebbero tratto vantaggio. Occorreva avvertire immediatamente i vertici dello Stato. Era l’occasione per dimostrarsi pronti e forti. Ma occorreva agire con cautela, poiché – se diffusa da certe fonti – la notizia del rischio di estinzione del dito mignolo avrebbe anche potuto rivolger l’opinione pubblica contro di loro. Il ministro Rutigliano, appoggiato dai principali gruppi bancari del Paese, agitò il Consiglio dei Ministri affinché si prendessero provvedimenti. Nell’interesse del popolo, una legge ad effetto immediato rese obbligatorio l’uso del dito mignolo per evitarne l’estinzione. L’opposizione percepì da subito che qualsiasi rigida presa di posizione avrebbe rischiato di contrariare gli elettori, per cui preferì aderire timidamente alla legge. Ma presto arrivarono critiche pesanti dai sindacati che l’accusavano di non opporsi in modo adeguato al Governo. Perciò l’opposizione organizzò gruppi spontanei che scesero nelle piazze a protestare e dichiarò – attraverso un comunicato stampa – che «questa è una legge incostituzionale. È moralmente inaccettabile che si sopraffacciano i diritti della società civile per il tornaconto della coalizione in carica. È l’ennesima dimostrazione che il Governo è assolutamente antidemocratico».
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I sindacati si dichiararono soddisfatti. Nei mesi successivi, infatti, si sarebbero chiuse le trattative per determinare la proprietà di una rilevante quota di un’impresa di sanitari e i sindacati volevano contrapporre alcune imprese amiche ai gruppi bancari alleati di Rutigliano. Un vecchio partigiano, fatto senatore a vita nella speranza che finalmente smettesse di rompere le scatole, chiese perché mai il mignolo fosse a rischio di estinzione se bastava comprare solo tazze dall’impugnatura grande che permettessero di usare tutte e cinque le dita, mignolo compreso. Gli fu risposto di non mettere in dubbio la buona fede degli uomini di partito. E il senatore tacque. Ma dalle formazioni di centro si distaccò un gruppo indipendentista che proponeva – in alternativa all’obbligo dell’uso del dito mignolo – il divieto del non utilizzo. A chi gli fece notare che non v’era alcuna differenza sostanziale, gli indipendentisti risposero fondando un nuovo partito che raccoglieva i deputati più eccentrici e i centrifughi. Solo l’intervento del Cardinale Ill.mo Carissimo placò le polemiche di quei giorni di tensione tra parti politiche. «Non bisogna dimenticare il ruolo fondamentale della Chiesa, unica guida possibile per l’Umanità in questo nuovo e difficile percorso».
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Qualche giorno dopo, il Salvaterra telefonò al suo amico – il Rutigliano – complimentandosi per la celerità con cui si era agito e per l’ordine degli interventi. Lodava in particolar modo il tempismo nel dare voce al Cardinale, l’amico Carissimo. Il Rutigliano dovette confessare all’amico di non aver avuto parte in altro che non fosse la legge ad effetto immediato. Le polemiche – inconsistenti –, le scissioni politiche ed i dibattiti – scimmieschi –, pur sembrando un teatrino perfetto, erano assolutamente spontanei. Così com’era assolutamente spontaneo l’intervento del Cardinale Carissimo, incontinente interventista. La legge entrò immediatamente in vigore e sconvolse in breve la vita di tutti i giorni. Gli uomini presero a scuotere i mignoli come non li avessero mai avuti prima, mentre le donne si soffermarono ad ammirarli come li avessero appena ricevuti per posta. Cartelloni pubblicitari – di dimensioni abnormi – si ergevano lungo le tangenziali, raffigurando un volto illuminato dal piacevole uso del dito in questione nelle cavità nasali ed auricolari. Le signore bene – quelle che pubblicano ogni anno un libro sulle buone maniere – aggiornarono le recenti edizioni con il paragrafo relativo ai Molteplici usi del dito mignolo che ti renderanno attraente ad un cocktail party. I giornalisti offrivano dimostrazioni pratiche di tali attività – tra le previsioni del tempo ed il saluto di commiato – mentre l’Istituto di Cinematografia Nazionale produsse una serie di cartoni animati da divulgare nelle scuole per “divertirsi imparando”. Un vecchio professore, di cui nessuno aveva mai sentito parlare, dichiarò di aver redatto una relazione sull’argomento già trent’anni prima, ma il Ministero della Salute ne aveva sotterrata ogni traccia. Il vecchio professore, che prendeva sempre e solo l’espresso al bar, disse che anche l’anulare era a rischio di estinzione.
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abato Testo di Roberto Stradiotti Illustrazione di Ettore Tomas, Qualcuno mi dice UCCIDI, disegno, elab. digitale, 2009
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«Sei pronto?» I muscoli di Uovo, coperti da un soffice strato di grasso, guizzarono appena. Intonò un triste canto: Cara mamma, parto volontario, dammi un bacio e più non lacrimar. Emi gli tolse il cappellino e baciò la sudaticcia palla da bowling. Uovo si batté una mano sul petto. «Non ho messo la mimetica», si scusò con un filo di voce. Accese il tosaerba e iniziò con passo sicuro, schiacciando con gli anfibi le poche margherite miracolosamente illese. Sono giovane, forte e ben armato, cantava. Emi applaudì. Dopo la tosatura levarono la testa, perplessi. «Forse non avremmo dovuto mettere i copritende», osservò Uovo. Emi celò con le mani il disappunto sul volto. «I copritende sono indispensabili. Ricordatelo bene.» Le tende proteggevano le imposte in legno e i copritende erano riparati da parallelepipedi di alluminio sormontati da lastre di vetro brunito. Vista da lontano, la casa somigliava a una stazione sperimentale per captare segnali alieni. «Chi lava il suv?», chiese Emi di punto in bianco, senza staccare gli occhi da quell’intrico di scudi e parabole. Uovo lesse fra le righe, perché sua moglie scriveva solo lì, negli spazi bianchi fra un pensiero e l’altro. La cosa lo irritava alquanto, perché una parola doveva essere una parola e un punto un punto. Senza compromessi. Tenne il mento in alto, come un soldatino sull’attenti, aspettando che l’ombra importuna di fianco a lui se ne andasse. Niente. «Chi lo lava?» «Dammi un bacio e non più lacrimar!», riprese Uovo, mentre si chinava a preparare l’attrezzatura necessaria. Normo abbaiò di gioia, con un salto gli fece volare via il berretto e leccò la sua palla da bowling stillante fatica. Emi lavava i vetri delle finestre con acido muriatico e Uovo la grossa scatola di latta. Normo sfidò il getto d’acqua, poi si spostò al centro del giardino, piegò le zampe posteriori, fiutò la sua opera, se ne andò in un angolo all’ombra. «Quel cane non doveva essere di nostro figlio, nel bene e nel male?», ringhiò Uovo. «Eccolo, il momento del male. Dov’è nostro figlio?» «Com’è che fa quella canzone?», chiese Emi accomodante. Uovo attaccò il cane al guinzaglio e lo portò verso i campi. Vittorioso voglio ritornar!, cantava, con una vibrazione inquietante nella voce. Emi lo guardò allontanarsi e si fece cullare dal dubbio che l’aveva tormentata mille volte nelle notti insonni. E se suo marito non fosse più tornato? Se non provasse più amore, o anche solo trasporto? Era il sottile piacere dei pensieri sciocchi, il gioco dell’abbandono. Che sarebbe stato della scaffalatura in legno che era costata decine di pomeriggi passati in rimessa a martellare? E della prolunga dell’antenna della tv portatile nell’angolo del giardino, per godere della trasmissione dei quiz immersi nella natura? Dell’impianto di condizionamento polare? Della sauna con musica? Del candido colore della loro casetta, da rinnovare almeno una volta l’anno, del legno brunito dei serramenti, profumato di boschi lontani e ormai sconosciuti, così amorevolmente nutrito di cera d’api? Del laghetto di pesci rossi e del recinto delle tartarughe? Del loro figlio Paolo, che a diciassette anni non ancora sapeva scaldare una scodella di latte? Che sarebbe stato della loro vita tranquilla, silenziosa come un motore spento, negli agi della campagna? Nop-duì, nòp-duì! Emerse dal verde la possente figura di Uovo a passo di marcia, un eroe stanco al
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ritorno da una guerra impossibile. Normo guardava il padrone e cercava di imitarlo, ma più per farlo contento, perché percepiva che anche gli umani hanno bisogno di qualcuno che li assecondi. La gioia della moglie fu improvvisa e fanciullesca. Paolo spalancò la finestra. «Mamaaà», ragliò. «Dov’è il latte? Dov’è la scodella? Dov’è la fiammella?» Ma lei pensava ad altro. La sera sarebbero arrivati gli Amarosa e c’era ancora da posizionare le torce antizanzara e cambiare la lampadina al faro che illuminava lo stagno che specchiava la felce che nascondeva un idrante che irrorava le ortensie che decoravano la recinzione la brutta recinzione zincata che indicava la fine della proprietà e dei sogni inconfessati. Uovo provò a cantare, ma non gli venivano le parole. Una voce affranta scavalcò la finestra della cucina: «Come faccio a scaldare il latte?» Emi abbandonò le braccia sui fianchi, sconsolata. I doveri si accumulavano come un cancro maligno. Gli Amarosa erano così esigenti, preziosi, attenti ai minimi particolari. Avevano notato, l’ultima volta, una formica solitaria su una pianta di rose in ombra, quasi dimenticata. «È normale che ci siano formiche sulle rose», si era difesa Emi. E il piccolo Amarosa, quasi con aria di rimprovero, lui che era abituato con la servitù e faceva lustrare persino le volte del cielo: «Un insetto è sempre un insetto.» Emi sparò una nuvola di insetticida e presto tutti, compresi pesci e tartarughe, non si sentirono più molto bene. Eppure, nella nebbia chimica, qualcosa apparve fuori posto. Emi puntò il dito e Uovo eseguì l’ordine. Strisciò nell’erba, estrasse il coltello militare, affrontò la margheritina ribelle adagiata su un filo di gramigna. Entrambi gli steli caddero con un fragore così assordante che le tortore, atterrite, si allontanarono, ma con un battito d’ali stanco e rassegnato, come se quello fosse stato per tutti, uomini e bestie, l’ultimo volo.
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Don’t eat the yellow snow Testo di Enrico Elvis Crotti Illustrazione di Ettore Tomas, I miei pensieri, disegno, elab. digitale, 2009
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«Tu ragioni proprio come Frank Zappa!» «Come dovrei ragionare, altrimenti? Sono circondato da persone poco centrate che vivono ispirandosi alla musica leggera italiana. Gente nata in Brianza. Romantici soltanto al primo appuntamento, diffidenti spesso, egoisti per natura. Prendi Jerry, il gelataio, sempre a cantare: Rose rosse per te. Una vita spesa a inventare gelati. Gusti che nessuno ha il coraggio d’assaggiare. Per non parlare di Gino, il benzinaio. Lui ragiona come un disco di Zucchero. Il suo desiderio segreto è: farsi succhiare gli alluci da una bionda naturale. E di Ignazio, cosa mi dici?» «Ignazio chi? Il sagrestano?» «Certo. Ignazio, per esempio, ragiona come un disco di Amedeo Minghi. Sai che predilige indossare un maglione scuro per fare sapere a tutti che gioca nella stessa squadra di Dio? Peccato per tutte quelle macchie sul pullover, decisamente sospette. Non riesco a rinunciare al gelato, dice lui, anche se Jerry giura di non averlo mai visto entrare in gelateria. E di Aldo, e il suo fanatismo per Morandi e Polifemo, il suo inseparabile alano? Se ti dicessi che Aldo ama Polifemo! Non fare quella faccia, hai capito benissimo. Detto questo, loro ti sembrano persone centrate?» «Ok, ma questi sono casi limite. Ogni paese ha i suoi personaggi strampalati. Prendi Agata, lei quando piove preferisce dormire con l’impermeabile o Loris quello appassionato di tutte le donne senza limiti d’età. Vocabolario ridotto all’osso, intercalato da sospiri e pause: Mmm... bella bocca. Mmm... belle gambe. Mmm... belle tette.» «Ti prego di non confondere il folclore con le patologie! Io sto parlando di patologie musicali legate al territorio. Per dirti, conosci qualcuno in Brianza che ragiona come i dischi dei Pooh?» «Fammi pensare… L’idraulico, forse.» «Giovanni? No, lui vive con il medesimo trasporto emozionale la musica classica, i film porno e la Formula Uno. Amico, qui siamo in pieno territorio Minghi. Riconosco il rigore e la devozione fusi in un profondo misticismo. Per trovare chi ragiona come i Pooh, devi scendere nella bassa padana. Devi crescere con l’odore delle porcilaie, per cogliere il senso delle loro canzoni.» «Stai dicendo che per ogni territorio esiste un cantante predestinato?» «Sicuro! È per questo, che il Festivalbar era una truffa.» «Una truffa?» «Certo. La vendita dei dischi è proporzionale alla presunta disponibilità sessuale del cantante. I successi dell’estate, inoltre, si fermano al primo stadio della percezione. Niente regionalismi, nulla che oltrepassi la pelle arrossata dei giovani. I sedicenni sono il target di riferimento del mercato discografico.» «Figurati che io ascolto solo musica hard-rock.» «Tu ragioni proprio come i Deep Purple! Quando li avevamo visti dal vivo, la prima volta?» «Trent’anni fa, credo.» «Eravamo così giovani… Vivevamo di rock e delusioni d’amore. Domeniche invernali trascorse nel parco, proprio come oggi. Sai, penso che quella sofferenza sia stata propedeutica. Oggi, possiamo dire orgogliosi di essere due precursori delle tendenze di provincia, due meteorologi dell’estetica. Gente che non si lascia incantare dalle poesie di Ligabue, dalla resurrezione musicale di Morgan,
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dalla moda stancamente omofobica di D&G. Prendi il mio preferito: Frank Zappa. Musicista nato a Baltimora nel ’40, morto nel Dicembre del ‘93, suonava con un gruppo di musicisti poliedrici: the Mothers of the Inventation, pochi seguaci al mondo. Rare le magliette in vendita con la sua effige, zero merchandising. Solo e soltanto grande musica, canzoni mai banali, citazioni retrò, vinili quasi introvabili. Zero gossip. Zero modelle lasciate seminude nella suite dell’Hilton. Zero limousine con l’autista, Zero documentari firmati Scorsese. Nessun video curato da John Landis. Hai mai sentito Frank fare un appello per salvare il pianeta, andare a Live-Aid, stringere la mano al presidente degli Stati Uniti, pretendere fragole fresche in camerino, sniffare cocaina, volare su jet privati? Frank preferiva ammirare i panorami americani dai finestrini di un furgone, dosare sapientemente l’uso dei fiati, scrivere canzoni planetarie, fondere rock progressivo e musica colta, annegare sprazzi di puro jazz in strampalate ballate folk: un vero genio.» «Già, dici bene. Ma, tu non senti freddo?» «Con tutta questa neve intorno, difficile non sentir freddo.» «Che dici, aumentiamo il passo?» «Forse conviene. Tornando sul discorso, i tuoi preferiti, sono come i Rolling Stones. Si sono bruciati dopo i primi dischi appena hanno odorato dollari, femmine e privilegi.» «Finché Brain Jones è rimasto nel gruppo, gli Stones facevano della gran musica.» «Vero.» «Ma per i Deep Purple è diverso. La loro musica mi emoziona ancora.» «Il motivo è semplice. Tu sei un nostalgico, un disoccupato senza famiglia. Un uomo sopra i 50 anni comincia a fare bilanci: solitudine, hard rock, confusione emozionale, problemi di prostata.» «Ti ricordo che la tua situazione non è così diversa.» «Non discuto, io non lavoro per vocazione, ho scelto di vivere da antagonista, imponendomi regole ferree: niente matrimonio, abuso di droghe sintetiche fino ai 25 anni, bere un bicchiere di vino ai pasti. Ho autoprodotto i miei libri di poesia, abbracciato la macrobiotica per un decennio, ho pilotato un gommone di Greenpeace contro l’uccisione delle balene, ho navigato in acque poco rassicuranti, bevuto tequila col verme alla sagra del riso di Vercelli. Non si può dire che non sia una persona aperta a nuove esperienze.» «E adesso dove stai andando di corsa?» «Voglio scrivere un poema su quel prato innevato. Userò le mie impronte. Soltanto lettere in stampatello nel candore della neve. Scriverò una poesia mandala destinata a sciogliersi al sole.» «Ma come ti vengono certe idee?» «Dai, aiutami: non stare lì impalato. Calpesta con i piedi la neve e scrivi: Io non ho idoli.» «Frank Zappa non è forse un idolo per te?» «No.» «Non farmi ridere! Ogni giorni parli di Frank, mangi come Frank, vesti come Frank, hai i muri della stanza tappezzati dalle sue foto. Ascolti la sua musica, studi a memoria le risposte che dava durante le interviste. Dal suo funerale porti un paio di baffi come lui. Ti stai trasformando nel suo perfetto sosia. Potresti andare in televisione insieme ai sosia di Liz Taylor e Adriano Celentano in uno show condotto da Mammucari e rischiare di vincere. E adesso dove stai andando?» «Ti dimostro che non ho idoli.» «Non devi dimostrarmi proprio niente.» «La vedi la neve vicina a quell’albero?» «Quella macchiata di giallo?» «Sì, proprio quella!» «Ma potrebbe averci pisciato Polifemo!» «Appunto! Adesso ti faccio una domanda facile facile. Qual è la canzone che preferisco di Frank Zappa?» «Senza dubbio Don’t eat the yellow snow.» «E allora guarda cosa faccio. Io preferisco la neve gialla, a quella immacolata. Ogni anno, quando nevica, attendo che un cane pisci vicino a un albero per poi avvicinarmi furtivamente e raccogliere un pugno di neve gialla. Nel freddo e nel silenzio ovattato del bosco, appoggio la neve alla bocca fino a perdere la sensibilità delle labbra e poi la mordo facendola sciogliere lentamente contro il palato fino all’ultimo cristallo, contro il suggerimento spassionato ma perentorio di Frank Zappa. Ti basta come dimostrazione?»
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Testo di Alberto Calorosi Illustrazione di Ilaria Arpa, In bilico
Ero ritornato con Sara sul finire dell’estate. In quei primi giorni insieme solevamo fare lunghe passeggiate nei campi oltre la ferrovia. Io, lei e Axel, il suo cane. Ai tempi soffrivo di forti tremori e camminavo a fatica, ma quelle passeggiate rappresentavano un’occasione speciale per stare un po’ soli, io e lei. Lei mi guardava intimorita e si avvicinava a me con le orecchie basse, come un cagnolino si avvicinerebbe a un cane più grosso. Io facevo lunghi discorsi per spiegarle come mai, dopo tutto ciò che c’era stato tra noi, avevo sentito quella necessità irrefrenabile di tornare indietro a cercarla di nuovo. Quanto al tremore, i dottori sostenevano che fosse tutto nella mia testa. Dicevano di non pensarci, che sarebbe svanito da solo. Lo specialista mi aveva ascoltato per neanche cinque minuti, annuendo, senza mai guardarmi negli occhi. Non mi aveva neanche visitato. Aveva scribacchiato qualcosa su un foglietto intestato e me l’aveva porto. «Con questa roba le passerà tutto immediatamente e dormirà splendidamente.» Poi mi aveva accompagnato alla porta. «Fossi in lei, strapperei quella ricetta e filerei un mesetto al mare, per dirne una», aveva aggiunto dal ballatoio. Io mi ero messo in testa che stavo male per Sara. Perché in quei due anni mi era mancata maledettamente, Sara. Quel pomeriggio di inizio settembre il cielo era più terso che mai. Camminavamo nei campi trebbiati di fresco, il cane che annusava gli odori e correva dietro a ogni farfalla scodinzolando, la mia mano stretta saldamente in quella di Sara. Le parlavo di una vita insieme e di come lei fosse tutto per me. «Sai, credo che mi farò un mesetto di mare», dissi a un certo punto. «Per via del tremore, capisci? Sono convinto che mi aiuterà a ritornare in forma.» Esitai alcuni istanti, quindi aggiunsi: «Mi piacerebbe che venissi con me. Vuoi?» Sara guardò in basso, i ricci che cadevano indomiti sulla fronte e lungo le tempie diedero forma alla sua perplessità. Nell’istante in cui aprì la bocca per rispondermi, Axel cominciò ad abbaiare. Fu allora che notammo il pescatore. Indossava grandi stivali in gomma alti fino al sedere, verdi, con le bretelle, una camicia a quadretti e un cappello da pescatore anch’esso verde. Teneva tesa davanti a sé una lunga canna da pesca. Faceva il gesto di lanciare, poi recuperava la lenza e infine lanciava di nuovo. Fischiettava. Di tanto in tanto apriva un barattolo bucherellato e vi immergeva la mano. Poi faceva un ampio gesto con la mano aperta, come se stesse spargendo semi invisibili. Pochi metri più in là c’era una sedia da giardino. Davanti a lui l’erba alta si stendeva uniforme per un centinaio di metri fino al boschetto di cipressi. «Andiamo via», disse Sara strattonandomi. In quell’istante l’uomo alzò la mano e mi fece un cenno. «Salve!», disse.
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Sara mi tirava per un braccio. Con l’altro risposi al saluto. «Salve a lei!» Vincendo la resistenza di Sara, mi avvicinai all’uomo. «Posso domandarle che diavolo sta facendo?» Mi esaminò. «Che sto facendo, dice? Spreco il mio tempo, ecco che sto facendo!» Si girò a guardare la sedia vuota. «Dico bene, Inès?» Appoggiò la canna nell’erba e mi posò una mano sulla spalla. «Se anche lei si diletta di pesca saprà certamente che non c’è momento peggiore delle cinque del pomeriggio per pescare qualunque cosa che non sia un vecchio scarpone. Sarei dovuto venire stamattina all’alba. Alle sei, alle cinque. Magari alle quattro e mezzo. Ma sa com’è. Tirare fuori di casa quella crisalide di mia moglie è un’impresa… dico bene, Inès?» Guardai la sedia vuota. Guardai l’uomo. Si era rimesso la canna sotto l’ascella e fischiettava un motivetto allegro. Sara mi parlò in un orecchio. «Questo tizio è completamente fuori di testa, Alberto. Andiamo via, dai. Mi fa paura.» «Le posso presentare Sara, la mia neo-fidanzata? Siamo stati lontani a lungo, sa, ma ora siamo innamoratissimi e presto andremo a vivere insieme.» L’uomo appoggiò nuovamente la canna e strinse la mano di Sara. «Incantato», disse, baciandole il dorso. Sara tirò gli angoli della bocca in un sorriso, come si sorriderebbe a un dentista con un trapano in mano. «Grazie», disse. «Lieta di conoscerla.» «Sentite, amici: vi andrebbe di unirvi a Inès e me per uno spuntino? Inès sarà anche una gran dormigliona, ma fa una crostata di lamponi senza eguali. Abbiamo anche un thermos di caffè e uno pieno di tè al bergamotto. Vi piace il tè al bergamotto? Guardate voi stessi. Guardate che meraviglia, la crostata della mia Inès». L’uomo indicò un punto imprecisato nei pressi della sedia. Intorno c’era soltanto erba. Coda dritta, Axel si avvicinò ad annusare. «Io non so se…», temporeggiò Sara. «Ma certo», intervenni io. «Accettiamo volentieri». Sara mi lanciò un’occhiataccia. «Bene: intesi, allora.» Ma, in quell’esatto istante, nelle mani dell’uomo la canna imbizzarrì come un cavo dell’alta tensione reciso. Egli la strinse con tutte le forze e imprecò. «Quest’affare è dannatamente enorme!», esclamò. Diede filo. I sussulti lo fecero sobbalzare in avanti di qualche passo. Strattonò la canna. «Maledetto, MALEDETTO!» Non appena ebbe ristabilito il controllo, retrocesse a piccoli passi. Iniziò a recuperare col mulinello. Molto lentamente. Di tanto in tanto cedeva un po’ di filo, mai più di un paio di mulinelli, ma subito recuperava prontamente. «Sei spacciato. Meglio per te se ti arrendi subito!» A un certo punto l’uomo diede uno strattone talmente forte che rinculò in terra. La canna frustò l’aria e la lenza descrisse un arco sopra le nostre teste. Il cane osservò la scena attentamente, mugolando di piacere. All’estremità del filo c’era un amo. Per quanto potessi distinguere, l’amo era sprovvisto di esca. Quando l’amo toccò terra, venti metri dietro di noi, Axel partì a razzo. Si avventò in quella porzione di prato dove era atterrato l’amo. Raccolse qualcosa tra i denti e, baldanzosamente, ce lo riportò. Giunto ai piedi del pescatore, divaricò le mascelle e lasciò cadere qualcosa. Mi avvicinai a guardare. Dalle fauci di Axel non era fuoriuscito alcunché. Il pescatore accarezzò il cane. «Bravo cagnone, bravo.» E poi: «Come si chiama?», domandò rivolto a noi.
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«Axel.» Il cane gli leccò la mano e poi annusò l’erba davanti a sé. Abbaiava per l’eccitazione. «Bravo, Axel. Bravo cagnone. Inès, guarda cosa ci ha riportato il nostro Axel. È una carpa enorme. Sarà almeno due chili, due chili e due. Guarda, amore. Guarda qua che roba!» Lo sguardo dell’uomo palleggiava dalla sedia al prato al cane a noi. Era raggiante di gioia. «Senta, se non la offende… ci avrei ripensato», dissi. «Il fatto è che, ecco, vorremmo terminare il nostro giro finché il sole è alto nel cielo e… insomma, ci scusi, eh. Ci scusi tanto». L’uomo raccolse un retino da pescatore. Disse: «Ma certo, si figuri. Capisco bene». Infilò nel retino una porzione di aria usando la massima cautela, dopodiché appoggiò nuovamente il retino nell’erba alta. «Bene, allora. Arrivederci». Si mise la canna sottobraccio e sventolò nell’aria l’altra mano. «Arrivederci, amici». Presi Sara per mano e ci incamminammo insieme verso i cipressi. Il piccolo boschetto era la meta abituale della nostra scampagnata. «SENTA!» Era lui. Mi girai. «Sì?» «Volevo solo dirle che mia moglie è morta», sbraitò l’uomo. «Otto anni fa. Una tremenda disgrazia. Vede, non appena giungeva la bella stagione, la domenica, io e lei si andava al lago. Io pescavo e lei prendeva il sole. Verso metà mattina ero solito fare un tratto di fiume alla mosca. Risalivo il fiumiciattolo per un chilometro o due. Al mio ritorno, diciamo verso mezzogiorno, Inès mi faceva trovare pronto il pic-nic. Ma quel giorno, al mio ritorno, trovai soltanto mia moglie morta stecchita. Era scivolata e aveva battuto la testa su una roccia appuntita. La trovai così, avvolta nel suo prendisole color ambra, gli occhi sgranati per lo stupore, un rivolo di sangue che fuoriusciva dalla bocca spalancata e si confondeva tra i ciottoli coi lamponi della crostata». La tesa del cappello ombreggiava l’espressione sul volto dell’uomo in un’equivoca eclissi parziale. «Pensi, mia moglie diceva sempre che io pensavo soltanto a pescare, che la pesca era tutto il mio mondo. Ma il mio mondo era lei, mia moglie. La amavo da morire. E ora sono otto anni che il mio mondo non esiste più. Non faccia come me, mi dia retta. La smetta con quella merda finché è ancora in tempo.» L’uomo tirò su col naso due o tre volte, dopodiché se lo soffiò alla maniera dei ciclisti. Quando fu nuovamente padrone di sé lanciò con tutte le sue forze. Io e Sara riprendemmo a camminare. Axel scorrazzava avanti e indietro e, di tanto in tanto, abbaiava. Sara appariva un po’ turbata e continuava a dire di volere ritornare. «Siamo arrivati ai cipressi, no? E ora torniamo indietro. Guarda, si sta pure rannuvolando.» In alto, il cielo era chiazzato da piccole nuvole malaticce simili a schizzi di schiuma. Erano striate di un rosso bruno, il colore del sangue rappreso. Ma io volevo camminare ancora. Io dovevo camminare ancora. E così oltrepassai i cipressi e continuai a camminare nell’erba alta, fino a quando il cielo non fu completamente coperto di nuvole e cominciò a piovere sangue, fino a quando le proteste di Sara non si affievolirono in un bisbiglio e infine sparirono del tutto, fino a quando nemmeno sentii più la sua mano nella mia. Fino a quando non mi accorsi che la notte era scesa del tutto e che avevo cominciato a tremare di nuovo.
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Testo di Maria Cerino Illustrazione di Ilaria Arpa, Mechanical Life
Tutto è cominciato con una bambola di pezza trovata a terra, lasciata forse da una bambina in orario di visita, se volete sapere di Hanna. Raccogliendola dal pavimento, l’aveva poggiata al cuscino e le si era distesa accanto controllandola con la coda dell’occhio, temendo forse di poterla schiacciare con la testa, o che l’infermiera gliela portasse via di notte. Canticchiava una nenia tenendo la distanza. «Non le pettini i capelli?», le dicevano alcune. «Non le accarezzi le guance?», urlavano altre. «Non le dai da mangiare?», si sentiva dalla stanza vicina. E lei: «Che farà la mia bambola di pezza se un orco con i suoi capelli la strozza? Cosa farà la mia bimba bella quando il sole girerà altrove?»
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Hanna è arrivata qui da sola, tre anni fa. Senza chiedere parere ai custodi, né ai medici e figurarsi alle infermiere, aveva preso posto in questa camera dopo averle ispezionate tutte; ci aveva guardato una ad una negli occhi terminando con un sorriso rivolto a nessuna delle presenti ma perduto nel bianco della parete. Noi non siamo abituate ai pazienti di una certa età, cioè di un’età di mezzo: o sono giovani che vogliono – o meglio, volevano – diventare sentimentali o, invece, vecchi che hanno perso il ritmo del tempo e dicono ancora d’aver conquistato l’Etiopia invece che di aver votato Berlusconi e, allora, i nipoti li portano qui in attesa che le lancette nella testa si fermino. Del tutto. Quindi, come ho detto, non sappiamo nulla di quelle dei quaranta che i quaranta li hanno fatti fuori. Così Hanna è un mistero. Per un paio di settimane abbiamo creduto che fosse una spia, una delle donne delle pulizie camuffata da paziente per controllarci: lo sapevamo che non volevano che andassimo a lavare la frutta nel bagno e la nascondessimo tra le lenzuola del letto facendo un doppio danno, ovvero il pavimento segnato da gocce e le coperte impiastrate di ciliegie. Solo che non ha senso fare l’intrusa per più di cinque mesi dopo che si ha la prova provata che siamo noi a posare in lavanderia lenzuola bianche di cotone e rosse di frutta di stagione. No, non ha alcun senso. È stata silenziosamente presente nel suo angolo così a lungo, e noi avevamo l’impressione che la stanza abitasse Hanna e non il contrario e a volte quasi avevamo paura che, alzandosi di scatto, potesse scaraventare noi tutte giù dal letto e trascinarci, con i capelli e i vestiti attaccati alla sua ombra, in giardino. Senza coperte e magari pure d’inverno. Poi sono arrivati i giocattoli e abbiamo tremato all’idea di doverci, scivolando, addirittura aggrappare alla lana e ai bottoni delle finte bambine. “Quella delle bambole”, la chiamano qui. Non solo per la bambola che prese dal pavimento quel giorno, ma per tutte le altre che ha iniziato a collezionare d’allora. Forse collezionare non è proprio la parola giusta perché Hanna non le ha mai messe una accanto all’altra tutte insieme sulla mensola, sul mobile, sul davanzale o sul letto; lei dice che lascia una e prende l’altra solo quando una è cresciu-
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ta e l’altra è appena nata. Che fine facciano le pezze riempite diventate maggiorenni non ne ho la più pallida idea; magari gli paga la retta dell’università e le manda con il pullman in città, a studiare. Non gliene avrei mai sottratta una, io, si vede che ci tiene tanto pure se le fa ammuffire dopo averle portate a passeggio sotto la pioggia. Le stringe nei fianchi mentre le veste, forse per reggerle e fare delle proprie mani le loro ossa o, magari, per misurarne la vita e avere un’idea di quanto sia lontano il loro diventar donna. Intona i vestiti al colore degli occhi, poi. Sembra proprio una madre adorabile; se sapessi con certezza di averne avuta anch’io qualcuna di queste figlie la darei ad Hanna per farla benedire; ma i miei genitori erano poveri e nella nostra famiglia partorivamo al massimo palle di cartone. Gianna voleva scherzare quando le ha nascosto Franza. Hanna, rientrata dal bagno, non trovando la bambola dove l’aveva lasciata a riposare, aveva preso ad urlare: «Dov’è Franza? Dov’è? Cosa avete fatto alla mia bambina? Non può esser uscita da sola, lei ha pochi mesi e proprio non sa camminare. Perché me l’avete portata via? Cosa aveva di sbagliato? Vi infastidivamo, noi due insieme? Non l’allattavo, per questa ragione me l’avete rubata? Ma guardate i miei capezzoli, no, non vi girate ora che li ho scoperti, potrebbero mai dare latte ad una bambina? Non meritavo di dormirle accanto per questo motivo? Perché non avevo abbastanza braccia per accarezzarla? Non abbastanza spazio sul cuscino? Cosa volevate da me? Ditemi cosa? Dovete riportarmela: io, io sono solo il padre.» Questo è quanto.
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Testo di Alfredo Goffredi Illustrazione di Irene Fornari, Giù la maschera, 21x29
Mi capitava di incontrarlo spesso, in giro per il paese. In un buco sterile come questo le stranezze non vengono mai viste di buon occhio, probabilmente perché la stravaganza ricorda ai suoi abitanti quanto monotona e banale sia la loro vita. Questo posso dirlo con certezza dal momento che, in un paese a maggioranza democristiana, girare con una maglietta dell’Esercito Zapatista significa avere un bel riflettore di pregiudizio puntato addosso. Cose tipo “il paese è piccolo, la gente mormora” sembran cazzate, ma son tutte vere, parola mia. E così io ero il comunista, con somma disapprovazione di mio padre, convinto che, testuali parole, «il comunismo ci ha fottuti più del fascismo.» Ho sempre preferito non discuterci. Che poi non ero mica il solo: è che gli altri preferivano mantenere un basso profilo; io, invece, ostentavo. Io ero il comunista e lui, invece, era il matto. A lui era andata meglio. Ci mancava solo un omosessuale e poi la squadra sarebbe stata al completo; certo, in paese “omosessuale” a momenti nemmeno capivano cosa significasse, per loro c’erano solo i froci. I froci e i normali. I comunisti e i normali. I matti e i normali. Germano era “il matto” sostanzialmente per due motivi. Il primo era che diceva di parlare con gli spiriti dei nostri compaesani morti, anche se ho sempre creduto che fosse un bluff. Il secondo era che se ne andava sempre in giro con un barattolo di alluminio chiuso in cui diceva fosse contenuta la sua anima. Era privo di etichetta: al suo posto era stato scritto, a pennarello, Germano. Fatto sta che era piuttosto pesante per contenere un’anima. E, beh, ogni tanto di notte lo si vedeva passare nudo per la piazza. Ma ok, che vuol dire? Ho sempre pensato che, in realtà, lui avesse un animo provocatore, che volesse dare una spallata alla quiete pubblica, che non fosse realmente matto. Che poi cosa significa? In base a che cosa uno è matto e l’altro no? Mi sembrava che la maggioranza si definisse “normale” solo in merito all’adesione a norme comportamentali, attitudinali e mentali definite dalla collettività. Bella forza. Facevano blocco e decidevano cosa andava bene e cosa no. Ancora una volta si andava dietro alla stupida convinzione che la maggioranza dovesse per forza vincere, e chiunque si discostasse dalle sue direttive dovesse soccombere. 28
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Da buon emarginato facevo gruppo con gli emarginati, che poi, nel concreto, significava che facevo gruppo con Germano. Durante le sere d’estate, afose come nessun altro vi potrà raccontare, lo cercavo finché non lo trovavo – il che, di solito, avveniva entro cinque minuti, salvo quando andava in riva al fiume – e passavo il tempo a discutere con lui. Certo, solo metà di quanto mi diceva sembrava avere senso e, di questa, solo una parte era facilmente riconducibile al discorso che stavamo facendo ma, in fondo, aveva poca importanza che io capissi o meno. Starlo a sentire era comunque il miglior modo per passare il tempo. «Germano, hai visto che casino per la discarica? È assurdo.» «Dar querela per diffamazione», dice lui, «e diecimila sterline di danni.» «Domenica», dico, «fuori dalla partita…» «Non mi permetterei mai di mescere vodka a una signora.» «Capisco. Beh, non ti sei perso niente, in fondo.» «Di chi è questo cavallo? Dove l’avete preso?» Ma quale cavallo? pensai. Più che altro capivo se le risposte erano affermative o negative, il più delle volte. Altre volte diceva
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cose comprensibili e mostruosamente lucide, come la sera della sagra, quando tutti se ne erano ormai andati. Dopo avermi offerto una media di scura mi guardò fisso negli occhi per qualche secondo, come stesse cercando di guardarmi non dentro ma attraverso. Poi mi disse: «Qui non va bene, per quelli come noi. Io, ormai, sono vecchio, ma tu dovresti andartene. Studia e vattene lontano. Sei una brava persona, tu, ma in questo posto badano troppo a come appari.» In quelle volte mi prendeva sempre alla sprovvista. Lo fissai, interrogativo. Lui rispose con un enorme sorriso, da un orecchio all’altro, quasi grottesco. «E tu? Perché resti qui?», chiesi di rimando. Ma ormai era troppo tardi. «Al pari delle vertebre anela la mente al riposo.» Vi starete chiedendo perché racconti tutto questo. Lo faccio perché, ormai una settimana fa, una telefonata di mia madre, assieme alle premure e alle curiosità, assieme ai rituali «come stai?», «mangi?», «copriti», mi ha dato la notizia della morte di Germano. A questo si aggiunge quello che è accaduto ieri: alle sette e venticinque, mentre stavo uscendo per andare al lavoro, incontro il corriere espresso con un pacco per me. Firmo, lo congedo e mi siedo su un bidone per esaminarne il contenuto. Era un pacco non troppo grosso, anzi era forse la misura più piccola disponibile, e non sembrava pesare molto; a dir la verità, in un primo momento pensai che fosse vuoto. Al suo interno, accuratamente avvolto in più strati di carta di giornale, stava un barattolo che riconobbi subito come il barattolo di Germano; la scritta a pennarello non tradiva. La cosa che mi insospettiva era il peso. Il barattolo pesava come un barattolo vuoto. Eppure era proprio lui. L’avevo visto così tante volte da poterne riconoscere ogni ammaccatura, ogni graffio e ogni tratto di pennarello. Era insindacabilmente lui, ma non c’era traccia di buchi o saldature. Era lui eppure non era lui. Ho deciso di tenerlo chiuso, a un angolo della scrivania. Non so cosa contenesse davvero ma ho voluto credergli. Significherebbe che stavolta la maggioranza era nel torto.
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Il Dio Motore Testo di Stefano Casacca Scatto di Maria Marilena De Stefano, Minico
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Guardo nello specchietto retrovisore. C’è un tizio con un’auto sportiva, si mette nella mia scia e mi salta con uno scatto rabbioso. C’è stato un attimo, quando mi ha affiancato, in cui tutto è stato rumore. Un rumore che era rombo di un carburatore assistito da tre litri di cilindrata ed era odore d’olio bruciato e benzina tutta ottani. Lo inseguo. Facciamo slalom che non si possono ripetere, oltrepassiamo semafori rossi e strisce pedonali. Incredibile, lo sorpasso e mi porto avanti io. Le altre macchine sfilano via come pagine di un libro. Guardo gli specchietti e chiudo le traiettorie. Faccio curve pulite, senza stressare le gomme. Nell’attimo di un mezzo sorriso che, nel linguaggio dell’automobilista medio, maschio e di razza bianca, vuol dire senza equivoci sono il migliore, beh, in quell’attimo il tizio risveglia il suo propulsore e ricomincia a mulinare giri-per-miglio, sprigionando cavalli. Ora siamo appaiati. Lo sconosciuto cerca di spostarmi, la sua portiera destra sbatte contro la mia sinistra. Il mio sedile trema. Non ci sono vigili in giro, solo gente che insulta. Li vedo maledirci, a queste velocità non li posso sentire. Quando entriamo in città passiamo sotto uno striscione che annuncia la festa patronale. Il tizio rallenta di colpo, accosta l’auto, apre il cofano per farla fiatare. Accosto anch’io. Scendo dall’auto e torno indietro, camminando per cento metri sul marciapiede. «Ma sei pazzo? Mi volevi ammazzare?» «No.» «Imbecille! Potevamo farci male!» «Eh? Sì.» La risposta di un ebete. «Che t’ha preso?» «A me? Niente.» Punta il dito in alto. «È lui.» «Lui chi?» «Dio. Lui mi guida.» «Guida anche me. Altrimenti, con gente come te per strada, sarei già morto.» «Non in quel senso. Lui gioca. Hai presente i videogiochi? Una cosa simile. Lui gioca da lassù. Io sono il suo pilota. Lui schiaccia i pulsanti, muove la cloche. Io agisco di conseguenza.» «Come no.» «Ti dico di sì.» «E adesso?» «La gara è finita.» «Gli altri?» «Ah, uno ha rotto il motore, l’altro è finito in un campo, alcuni avevano mezzi troppo scadenti.» Parla come se nulla di ciò lo riguardasse. «Dio, eh?» «Dio. Mi spiace per la tua macchina.» «Ma figurati. Io i soldi li trovo per terra. Oltretutto, nel giardino di casa mia c’è una pianta su cui crescono le portiere. Ho anche un albero di scocche.» «Mi spiace. Comunque è con Dio che te la devi prendere, non con me. È lui che gioca.» Dico ad alta voce che ho già una buona riserva di motivi per prendermela con lui, ma a questo punto lo sconosciuto è già risalito a bordo, sgommando via.
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Rubrica a cura di Armando Minuz Illustrazione di Alessio Maggioni
And i find it kind of funny I find it kind of sad The dreams in which i’m dying Are the best i’ve ever had Roland Orzabal, Mad World
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Già sei bel po’ fuori di testa se ti metti a scrivere, al giorno d’oggi. In seguito a una statistica svolta su un campione proveniente dal salotto di casa mia, alcuni studiosi hanno concluso che, fra una decina di anni, ci saranno solo scrittori, mentre il lettore sarà una specie protetta. Vivranno in particolari riserve, i lettori, e saranno merce pregiatissima. Come le pinne di squalo oggi, o le zanne di elefante. Rimasugli di età precedenti, età auree di cui il lettore rappresenterà le ceneri ancora tiepide. Dunque, amico: ascolta il mio consiglio. Te lo dico in confidenza, te lo dico da addetto ai lavori: sei fuori di testa se pensi di metterti a scrivere di questi periodi. Perché, parliamoci chiaro, chi ti leggerà? Se poi pensi anche di metterti a scrivere sul video, be’, allora sei del tutto fuori di cervello. E pensare che mi stavi pure simpatico. Ma magari erano gli effluvi della macchinetta per le zanzare. No, ma intendiamoci. Forse non è che ti metti a scrivere proprio sul video, ok. Non è che prendi un Uniposca e ti metti lì, e scrivi sul monitor del tuo computer. È che forse, stanco della diserzione degli editori della carta stampata e del loro menefreghismo, ti sei aperto un bel blog. Che poi non è neanche detto che il motivo dell’apertura del tuo blog sia quello. Perché da quel poco che ci ho capito, su blog e bloggers, l’unica regola è che non ci sono regole. È un vero mondo di schizzati, cazzo. Dunque magari il blog te lo sei aperto perché, tanto per dirne una, non riuscivi a dormire la notte. O per smettere di contare le mattonelle. O perché un bel giorno ha suonato il telefono, e tu hai risposto «Pronto» e dall’altra parte una voce ha detto «Ehilà, sono Dio.» E poi Lui ti ha ordinato di aprire un blog. Fatto sta che il sottoscritto, ogni tanto, sui blog ci bazzica. A dire il vero, per un certo periodo ci ha fatto una vera e propria malattia, ovviamente una malattia mentale. Perché c’era questo tizio, per esempio, un certo Chinaski77 (www.chinaski77.splinder.com). Be’, ti giuro che questo tipo, tanto per restare in tema, ti manda veramente ai matti. Ti scompisci dalle risate. È un tipo un po’ kafkiano, che
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ti sbellichi dalle risate a sentire tutte le panzane che quella testa matta ti tira fuori con la sua fantasia. Poi, sul più bello, il sorriso ti si gela sulla faccia. Perché ti rendi conto che non c’è mica tanto da ridere, a leggere bene dietro le righe. Il suo blog, negli anni, mi è piaciuto così tanto che ho deciso, insieme alla redazione della Luna, di proporvi su questo numero dedicato alla follia un suo post come racconto d’autore. Come dite? Sono un po’ fuori di testa perché un blog non è letteratura? Ah be’. Allora vi presento Mauro Zucconi, in arte Chinaski77, che ha anche scritto un bel libro, di quelli che piacciono a voi, di quelli con la carta e l’inchiostro e tutto al posto giusto: il dorso tondo o piatto, la confezione cartonata o in brossura, i risguardi e perfino due capitelli, mi pare. Si chiama Ristorantopoli. Leggetevelo, va’. E ricordatevi, cari i miei saputelli, che la pazzia è solo una prospettiva diversa. E se è vero, come diceva Amleto, che «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia», ci sarà pure un blog che può essere anche letteratura, tutto o in parte. E vedete di non farmi innervosire con certi argomenti, per cortesia. Sono un po’ fragile di nervi, sapete. Ho degli scatti, qua e là. Scatto. Scatto perché voi proprio non lo volete capire, che la pazzia altro non è che un cambio di prospettiva. E maestri di prospettiva sono i blogger. Guarda che io li citerei tutti, tanto mi piacciono. Ma a dire il vero sono davvero tanti, troppi. E allora sotto con quelli a cui sono più affezionato. C’è, tanto per restare in tema di follia, Quella Visionaria (www.quellavisionaria.wordpress.com). Che, come Chinaski, anche lei ti fa proprio sbellicare. Che poi, anche in questo caso, se leggi bene dietro le righe, non c’è mica poi tanto da ridere. Vi lascerò decidere autonomamente, certo. Però, dai, siamo obiettivi. Basta pensare a certi suoi titoli. Ma leggetevi il sottotitolo del blog: La befana vien di notte e ti ammazzerà di botte. Leggetevi il post stupendo Faremo l’amore solo per scriverlo con le bombolette spray. A volte mi scordo di avere un monitor, davanti agli occhi, e mi pare allora di tenere in mano il libro di una giovane poetessa. Un blog neonato, questo, che raccoglie l’eredità di un blog ora purtroppo morto e sepolto. E io credo darà grandi soddisfazioni. Ah sì, poi c’è quell’altro. Il blueboy, il ragazzo triste. Però vi dico fin da subito che qui proprio non c’è niente da ridere, nemmeno all’apparenza. C’è da chiedersi, invece, perché questa anima fottuta, come si è definito lui stesso, non abbia mai scritto un libro di racconti. Sarebbe un libro stupendo, appassionato e agrodolce. Se volete leggervelo e sognare e avere la dimostrazione pratica che non avete letto proprio tutto ciò che merita di essere letto, andate qui: www.vinsechisinascose.splinder. com. Vi lascio, infine, con tre sorrisi. Il primo mi si disegna sulla faccia se penso a quel neo-illuminista di LiveFast (www.sviluppina.co.uk). Qui si parla, si ride (ma, tanto per cambiare, a ben vedere ci sarebbe da piangere) perché si fa dell’ironia sulle tante miserie del genere umano, sulle piccole o grandi assurdità che può notare solo chi è dotato di senno, e sono sempre meno. Senza contare che l’autore ha ideato un blog dal titolo eccezionale: Cloridrato di Sviluppina. A volte penso che un po’ di questo cloridrato farebbe bene anche a me, alla mia malattia. Ma il dottore non me lo vuole prescrivere, nonostante le mie insistenze: dice che non mi devo sviluppare e allora io mi innervosisco. Ve l’ho già detto di non farmi innervosire, sì? Perché ho gli scatti, sapete. E mi fa bene sorridere, ogni tanto, visto che a ridere faccio sempre più fatica. E allora il secondo sorriso è per quel genio di Astutillo Smeriglia, che deve essere un altro modo per dire Woody Allen, o un suo vicino parente. Non ci credete? Be’, date un’occhiata qui: www.comablog. splinder.com. E lasciatevi sedurre dalla filosofia di fondo del blog, che ci informa fin dal titolo che In coma è meglio. L’ultimo sorriso, anche se so che lui probabilmente mi manderebbe a farmi fottere, è per il blog peggiore della rete. Be’, no. Guardate che non lo giudico io. Si chiama proprio così (www.ilblogpeggiore. splinder.com). E chi lo manda avanti è Il Peggiore. Lo fa con passione e noncuranza, manco fosse un oste di Trastevere, e il nome giusto ce l’ha. Caldamente sconsigliato agli stomaci deboli, ai perbenisti e soprattutto agli astemi. Ah sì, dimenticavo. Fate qualcosa che di solito non fate mai: datevi una mossa, alzate quelle chiappone flaccide che vi ritrovate. Sì, perché se i vostri autori preferiti (Emilio Fede, Bruno Vespa, Stieg Larson, quell’altro che c’aveva la solitudine perché poverino era nato numero primo, Baricco e tutti gli scrittori in barrique, e poi tutti gli altri geni del mainstream), se tutti quei signori li troverete nei mausolei e nelle catacombe della letteratura per ancora molto e troppo tempo, guardate che questi ragazzi hanno le ali ai piedi. Rischiate di accendere il PC, domani mattina, di digitare l’indirizzo del vostro blog preferito e scoprire che «Il blog che hai richiesto è stato cancellato, oppure l’indirizzo che hai digitato non è corretto.» Sarebbe bello, ogni tanto, che questo succedesse non per stanchezza o
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per sfiducia dell’autore, ma perché qualcuno di questi signori ha trovato un editore (intelligente) che ha deciso di fare con lui un libro, magari il primo di tanti. Io credo che, in alcuni casi, ne varrebbe la pena. Ma cosa volete che valga il parere di un matto? Perché ormai l’avete capito cosa sono. O no? Be’, io adesso vado. Ciao ragazzi. Come dite? Oh, le mie sentite scuse. I beg your pardon, avete proprio ragione. Mi sono dimenticato di spiegarvi il sottotitolo di questa mia rubrichetta. Perché Letteratura punk mi chiedete voi. Be’, mi spiace tanto. Se non lo capite da soli, io mica ve lo posso spiegare così su due piedi. Vuol dire che non sapete ancora abbastanza della rabbia di chi sta ai margini, non per mancanza di idee ma perché è brutto, sporco e cattivo. E magari un po’ fuori di testa. Vuol dire che non vi ricordate certi sorrisi acidi e generosi, certi colpi di genio venuti su dal nulla, non a margine del mainstream ma proprio per fotterselo, il mainstream. Fotterselo all’impiedi, con i jeans appena calati, in un vicoletto buio di periferia e con fra le gambe la foia impaziente dell’adolescenza o dei rivoluzionari. A me, alcuni di questi blogger, ricordano un po’ quei genialoidi del punk dei ’70. Zero astuzia, poveretti loro, zero capacità imprenditoriali ma uno stomaco e un cuore da eroi, per non parlare della carica, dell’energia. Ma, adesso che ci siamo presentati, ricordatevi di non ascoltare proprio tutto quello che dico, mi raccomando. E poi, fra me e voi. Perché credete che mi facciano scrivere queste rubrichette? Diciamocelo fra me e voi. È che non sono mica tanto a posto. Con la testa, dico. È che ho gli scatti e la redazione, finché mi fa scrivere, sa che non faccio altri danni. Perché mi vogliono bene, sono tutti bravi ragazzi e vogliono bene a me, che sono la loro testolina matta. Dunque non stupitevi se a volte quello che dico non ha mica tanto senso. Io, poi, a dire il vero e a proposito di follia, la rubrica la volevo fare su Bob Dylan e su Highway 61 Revisited. O su Who’s next degli Who e su come suona la chitarra Pete Townsend. O, al massimo, su Donnie Darko e sulla sua colonna sonora: con la follia ci sarei andato proprio a nozze. Ma loro, quelli della redazione dico, tutti lì a dire: i blog, i blog, i blog, i blog. Scrivi qualcosa sui blog. Dai, testolina matta! Facci la capriola! Facci sorridere! Scrivici qualcosa sui blog! Mi hanno fatto quasi venire uno scatto. Perché poi per me, a differenza della musica, la scrittura non è mica niente di importante. Qualcosa di cui parlare davanti a una birra, come dice sempre un mio amico ancora più fuori di testa di me. Per me, vale ancora meno. È solo un modo come un altro per riempire gli spazi. Gli spazi vuoti, dico.
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BIOGRAFIE PENNA Maria Claudia Bada è autrice di poesia, narrativa e saggistica, vincitrice della XI Edizione della Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo e di vari concorsi nazionali di poesia. Ricercatrice in linguistica e filologia, specializzata sulle parlate alloglotte croate del Molise, la sua tesi di dottorato ha vinto il terzo premio della X edizione del Concorso Internazionale per gli Studi Scientifici sul Plurilinguismo, organizzato dall’Ufficio Bilinguismo e Lingue Straniere di Bolzano. Tra le sue pubblicazioni letterarie: Il sepolcro, Luisa Gasbarri Edizioni; Quattordici giorni a domani, Teramo, Demian Edizioni, 2006; Tracce vol. 72-73, Pescara, Tracce, 2006. Luigia Bencivenga, musicista e scrittrice, nasce a Napoli ma vive e lavora a Bologna, dove ha la possibilità di sperimentare il musical reading in trio (voce narrante, contrabbasso e pianoforte). Dal 2008 è ufficialmente membro de iQuindici Lettori residenti. Ha vinto numerosi premi, tra i quali: Premio Castelfiorentino, L’ora della poesia, Ossi di seppia. Alberto Calorosi è nato a Genova, ha 34 anni e vive a Parma. Lavora nel commerciale in un’azienda nel campo automotive. Quando non lavora e non tracanna birra, trascorre il proprio tempo a leggere vecchie storie di fantascienza, ascoltare Neil Young e De Andrè, guardare film di Russ Meyer e John Carpenter. Scrive per passione e per necessità. Stefano Casacca è nato a Milano. Se le vite di ciascuno di noi dovessero aggrapparsi a pochi dati essenziali, la sua passerebbe attraverso una maturità scientifica, una laurea in Legge, un grande amore, buoni viaggi in tutti i continenti meno l’Oceania; perché bisogna sempre lasciare qualcosa da fare domani. È curioso. Ha scritto vari libri, ma non li ha pubblicati. Legge sessanta libri l’anno. Due quotidiani al giorno. La sua stanza è piena di mappamondi. Ama collezionare carte da gioco trovate per terra. Come iscritto al Settore Giovani del Comune di Milano, ha partecipato a varie iniziative letterarie. In passato ha vinto un concorso dell’osservatorio giovanile di Torino e ha pubblicato il suo lavoro con la casa editrice Rubbettino. Maria Cerino è nata a Salerno nel 1984. È pubblicista e collabora alla rivista Cafebabel.com. Enrico Elvis Crotti è un informatico che ha scoperto da qualche anno che ci sono storie che meritano di essere raccontate. I suoi racconti più riusciti si possono leggere su alcune riviste e antologie. Abita a Sulbiate, in provincia di Milano. Non possiede animali domestici. Alfredo Goffredi è nato a Londra il 3 Marzo del 1982. Cresciuto a Piacenza, vive a Parma e un giorno invecchierà da qualche parte e morirà, come tutti – non c’è da stupirsene. Il resto sono dettagli. Pietro Iannibelli ha 31 anni e vive a Parma. Predilige Andrea De Carlo, Dan Brown e gli Harmony.
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Armando Minuz è nato a Pieve di Cadore (BL) nel 1975. In quell’anno Frank Zappa sciolse i Mothers of Invention e il buon Dio, nella sua infinita misericordia, decise di bilanciare il Karma negativo del mondo destinando il Nobel a Montale e facendo nascere il piccolo Armando. Per il resto non successero grandi cose. Giunto oltre i 30, vanta oggi una laurea in letteratura italiana sulla retorica e il comico nelle opere di Luigi Malerba (relatore l’immenso e funambolico Marzio Pieri), collaborazioni con alcune case editrici, alcuni amori e amicizie indimenticabili (molti dei quali consistenti in libri, cd, film). È il chitarrista del miglior gruppo della storia del rock mondiale dopo gli Who. Il miglior gruppo del mondo, davvero. Solo che il mondo non vuole proprio rendersene conto. Roberto Stradiotti ha scordato il passato e per quello che lo riguarda potrebbe anche averne venti, di anni. Non ha debiti e non ha intenzione di farne, anche perché versa alla consorte il suo stipendio da impiegato e tira avanti con le paghette. Scrive perché poi prende sonno meglio. Sarebbe grato a chi gli gira 1 euro per il caffè. Paolo Tanzi in attesa di diventare definitivamente adulto, fa il portiere in un ospedale privato e ogni tanto riesce a infilare qualche racconto. Nel 2006 ha pubblicato il suo primo romanzo, Soledombra. Ama le piccole cose, il buon vino e la cucina di una volta. Luis Felipe Quintero Tedesco è nato in Colombia nel 1981 ed è cresciuto tra la Colombia e l’Italia. Si interessa di scrittura e teatro.
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Mauro Zucconi, filosofo misantropo non praticante, è nato accidentalmente nel 1977 su un’isola deserta in provincia di Piacenza dove attualmente vive e dove occupa il tempo scrivendo decine di libri e prendendosi cura del suo blog (chinaski77.splinder.com). Di recente ha pubblicato il saggio umoristico antropologico Ristorantopoli, dopo aver riletto il quale ha osservato: «Zucconi, o lei ha copiato, o è Brahms redivivo».
CAMERA Chiara Battistini, dopo studi umanistici e un passato da libraia, lavora da qualche anno come libera professionista nel mondo della fotografia, soprattutto in ambito editoriale e pubblicitario. Passa la maggior parte del suo tempo sperduta tra le colline, nell’agriturismo dove vive, fantasticando su sconclusionati progetti. Ama e si ispira a Sophie Calle, Miranda July, Francesca Woodman, Dave McKean, Joanna Concejo. Il futuro? Forse aprirà un caffè letterario tipo il Library Cafè di New York o, per sfidare la sua natura stanziale, se ne andrà finalmente in giro, zaino in spalla, a dedicarsi al reportage sociale. Fabrizio Cavalleri è nato a Monza, città storica che sorge a settentrione della metropoli milanese e al margine meridionale della regione collinare della Brianza. Ha scoperto nella fotografia uno strumento privilegiato atto ad esprimere la sua sensibilità per la natura, per la mano dell’uomo che con essa interagisce e non ultimo come mezzo per un percorso di ricerca personale in diversi ambiti. Ha preso parte a numerose mostre collettive e personali. Dal gennaio 2006 è collaboratore di una nota agenzia fotografica. Ha pubblicato immagini su: Traveler, Dove, Vanity Fair, Sorrisi, Duesse, Il giornalino. Marianna Costi è nata a Sassuolo (MO) nel 1981, vive e lavora a Parma. Laureata in Architettura, frequenta corsi di disegno e pittura a Firenze e dintorni. Il suo avvicinamento alla fotografia è molto recente. Grazie ad un fotoamatore apprende la tecnica della camera oscura e ne rimane affascinata. Maria Marilena De Stefano è nata a Messina. Diplomata in Decorazione all’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria, si è specializzata in Arti Visive e Discipline per lo Spettacolo. Abilitatasi poi in Discipline Pittoriche, attualmente risulta classificata al primo posto nella graduatoria definitiva presso l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino. Ha insegnato Tecniche dell’Incisione presso l’Accademia Mediterranea di Belle Arti di Messina e Laboratorio di Ceramica presso l’Istituto Regionale Fernando Santi. Ha partecipato a diverse esposizioni artistiche e dell’arte incisoria, sia personali che collettive, dove risulta presente su cataloghi e pubblicazioni. Maura Ghiselli dopo il Diploma di Maturità Artistica, ha conseguito a pieni voti, presso l’Accademia Lingustica di Belle Arti di Genova, la Laurea di secondo livello in Arti Visive e Discipline dello Spettacolo (Specializzazione in Pittura). Lavora per una galleria d’arte contemporanea, curando i testi critici relativi al lavoro degli Artisti che vi collaborano, gestendo l’Ufficio Stampa e aiutando nella progettazione, nell’allestimento delle esposizioni, nell’organizzazione degli eventi e realizzando inoltre le fotografie delle opere destinate ai cataloghi. Collabora con siti di informazione giornalistica sul mercato dell’arte e della cultura. Di recente, durante Genovarte, III Biennale d’Arte Contemporanea, le è stato riconosciuto il “Premio Giovani”. Gian Guido Zurli è fotografo, editor video e grafico. Scrive e pubblica manuali di fotografia e informatica. Organizza corsi di Adobe Photoshop, Apple Aperture, Keynote e Mac OS X per professionisti ed amatori. Si è specializzato in ambito professionale nella fotografia di matrimonio e in filmati di carattere scientifico. Le fotografie Fine Art, specialmente in bianco e nero sono principalmente ambientate in luoghi misteriosi. Gian Guido Zurli ha visitato centinaia di “luoghi infestati”, ritraendoli in fotografie molto particolari. Ha esposto i suoi lavori a Pesaro, Sabbioneta e New York. Vive e lavora a Parma.
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MATITA Ilaria Arpa è nata in un lontano e nevoso Febbraio. Dimostra fin da piccolissima una spiccata indole artistica e i genitori, per evitare di farle imbrattare i muri di casa, svaligiano cartolerie e negozi di belle arti per rifornirla di album e blocchi da disegno (si calcola che un quarto delle foreste svedesi siano state abbattute per fare fronte alle esigenze della piccola artista). La strage silenziosa di carta, penne, inchiostri, pastelli e pennini da disegno continua alle superiori dove frequenta con successo l’Istituto d’Arte cittadino. Alla fine del regolare corso di studi, non sazia e non doma, si iscrive al Corso in Conservazione dei Beni Culturali, riuscendo a terminare anche questa immane missione in un numero ragionevole di anni (molti dei quali trascorsi lavorando come grafica pubblicitaria). Artista per vocazione come ama definirsi, scrittrice discontinua, grafica da studio, casalinga (spesso) disperata, ha intrapreso oltre alla via tradizionale della pittura, quella della creazione digitale e della grafica 3D.
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Carlo Costanzelli è nato a Ferrara il 10 settembre 1990. Fin da piccolo manifesta una spiccata passione per il disegno: sue le illustrazioni di tutti i suoi racconti. Nel settembre 2000 vince un concorso per giovani cartoonist indetto da Disney Channel. Dai suoi disegni è ricavato un cartone animato trasmesso sullo stesso canale e su internet. Il suo primo libro illustrato s’intitola Le Scatole Stregate, scritto a soli dieci anni. Dopo la pubblicazione di alcune fiabe, nel 2007 si avventura per la prima volta nella dimensione del romanzo con Era buio (Ed. Pendragon), per cui realizza il disegno di copertina. Nel 2008 e nel 2009 realizza i disegni per le locandine delle mostre Sposissimevolmente e Vinum in Villa. Nel 2008 espone a Bondeno i disegni di copertina dei suoi libri e le opere di grafica e partecipa, come autore esordiente, alla Fiera delle parole di Rovigo. A inizio 2009, espone il videoclip Ultimo giorno di scuola, nell’ambito della mostra ADRENALINA, tenutasi a Roma. Per tutto il mese di Febbraio 2009 le sue opere sono esposte al Centro Culturale Auxing di Bondeno (FE). Dal 13 al 30 giugno 2009 espone presso la Casa Operaia di Bondeno (FE) insieme ad altri allievi del Maestro Gianni Cestari. Irene Fornari è nata nel 1987, traumatizzando la vista della sorella maggiore che per sbaglio assistette al parto. Sviluppa fin dalla tenera età un interesse particolare verso il disegno, e la mamma ne conserva gli scarabocchi. Alle Scuole medie, l’insegnante di Educazione Artistica le sconsiglia di continuare sulla strada del disegno. Senza darle retta, si iscrive al Liceo Artistico, dove si diploma brillantemente. Si iscrive all’università IED (Istituto Europeo di Design) corso Illustrazione - Animazione multimediale, a Milano, partecipando a diversi contest ed esponendo i suoi lavori in collettive. Nel 2009 si diploma con il massimo dei voti ed è ufficialmente chiusa la sua vita da studentessa. La mamma continua a custodire i suoi scarabocchi. Alessio Maggioni è nato nel 1978 e vive nei pressi di Catania. È un disegnatore che insegna Matematica, ma in fondo non è cattivo (o lo è?). La sua prima maestra, Loredana Catania, gli infonde la passione per il nero; il suo secondo maestro, Angelo Pavone, gli spiega l’importanza del bianco. Il risultato è un maniaco dell’inchiostro sparso o diluito in qualunque maniera. I suoi disegni e fumetti si trovano sul sito www.albabet.net
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Ettore Tomas è nato in provincia di Napoli nel 1979 e vive a Sasso Marconi. Dopo una maturità scientifica e una laurea presso l’Accademia di Belle Arti in Decorazione, è attualmente iscritto al biennio specialistico presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna nel corso di Grafica. Dal 2003 partecipa a mostre, concorsi, progetti, Mail Art: mostra Indicativo Presente a cura dell’Associazione Artincanti, presso Palazzo Albertini a Forlì (2007); mostra personale presso l’ex Convento di San Francesco a Bagnacavallo (2007); partecipazione alla mostra Libri Mai Visti, organizzata dalla Biblioteca comunale di Sasso Marconi (2007); partecipazione alla mostra La Collana bianca si colora in collaborazione con l’agenzia Einaudi di Forlì, presso la Biblioteca Giovanna Righini Ricci a Conselice (2007); selezionato e pubblicato nel catalogo al III Concorso Internazionale Ex Libris “Biblioteca di Bodio Lomnago” Opera e Melodramma (2007); partecipazione e pubblicazione nel libro-catalogo, al progetto The Screamer Company (2007, Austin, Texas); partecipazione alla manifestazione Abstracta, presso Filmstudio 80 Roma.(2007); selezionato al concorso internazionale ex libris Tauragei 500, presso Tauragé (2007, Lituania); partecipazione al progetto ART=START+ a cura di Ko De Jonge (2007, Middelburg, Olanda). Nell’ambito dei progetti Mail Art, nel 2008 ha partecipato a: The mailartists’ horse a cura del Dott. Lutz Wohlrab (Berlino); Mailartissimo a cura di Karin Weber (Dresda); Energy for you and me a cura di Ebedhard Janke (Edizioni Janus Mail Art Catalogue 4); Mail Sound Art Project “1 minute Auto Hipnosis” a cura di Pedro Bericate (Mute Sound); Mailartissimo 2007, comprensivo di catalogo, a cura di Svetlana Serebryakova presso The A.S. Popov Central Museum of Communications, Saint-Petersburg, I Bienal Internacional del pequino formato, comprensiva di catalogo (Venezuela). Nel 2008 ha partecipato al concorso internazionale Exlibris Exibition “50 years of Siuliai University Humanities Faculty”, Siauliu, Lituania e al relativo catalogo e all’intervento murale a Creativa 2008, a cura di Franco Piri Focardi; selezionato per la manifestazione Quotidiana09, Padova; partecipazione alla mostra Art books, presso la biblioteca di Conselice (RA); partecipazione a Libri d’artista in galleria, a cura di Lamberto Caravita presso Galleria Magma, Bologna (11-18 Giugno).
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ITALIA CREATIVA sostegno e promozione della giovane creatività italiana in collaborazione con
e
realizzato da
edizioni
La rivista letteraria «La Luna di Traverso», edita dalla Casa editrice Monte Università Parma, condivisa e supportata dall’Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia, struttura dell’Assessorato al Benessere e alla Creatività Giovanile del Comune di Parma, bandisce un NUOVO CONCORSO PER NARRATORI, FOTOGRAFI e ILLUSTRATORI dal tema STANZE, che andrà a costituire l’edizione n° 25 quale parte dell’articolato programma di narrativa e poesia “BORN TO WRITE”. “BORN TO WRITE” è un’iniziativa inserita all’interno di ITALIA CREATIVA, progetto per il sostegno e la promozione della giovane creatività italiana a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Gioventù in collaborazione con l’ANCI Associazione Nazionale Comuni Italiani e il GAI Associazione per il Circuito dei Giovani Artisti italiani. Italia Creativa è rivolta a tutti gli artisti italiani attraverso un sistema di attività di network promosse sull’intero territorio nazionale da alcune città capofila. Scopo del progetto è proporre nuove attività in una prospettiva di sviluppo per il sostegno della creatività giovanile attraverso iniziative di formazione, documentazione, promozione e ricerca. Il programma, fondato su linee prioritarie di azione e settori d’intervento primari, affronta a tutto campo temi quali la produzione creativa, il rapporto tra creatività e mercato, la promozione del talento, la conoscenza, la crescita professionale, la creazione di infrastrutture. In questo percorso le azioni concrete già intraprese costituiscono il punto di partenza per indicare le prospettive di sviluppo. “BORN TO WRITE”, realizzato dall’Assessorato al Benessere e alla Creatività Giovanile del Comune di Parma e dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Firenze, in collaborazione con Monte Università Parma Editore, intende proporre delle opportunità di confronto fra giovani autori e affermati esperti nel settore della Letteratura, finalizzate alla crescita professionale delle giovani energie creative. Intende inoltre promuovere il lavoro dei giovani autori attraverso strumenti promozionali capaci di presentare le loro opere ad un vasto pubblico, nonché agli esperti di settore.
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«La Luna di Traverso» si inserisce in questo programma con l’obiettivo di creare, nelle proprie pagine, un luogo d’incontro tra nuovi giovani scrittori, nel quale essi possano sperimentarsi e confrontarsi, dar vita a uno spazio mirato dove vedere finalmente pubblicati i propri scritti. La rivista vuole porsi, dunque, come territorio d’esercizio letterario, momento di dialogo culturale, aperto alle diverse forme di linguaggio artistico, e come proposta di possibilità di crescita e di miglioramento delle potenzialità narrative dei giovani scrittori.
Per ulteriori informazioni relative all’iniziativa “Born to Write” www.borntowrite.it
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REGOLAMENTO Art. 1 - TEMA DEL CONCORSO Il nuovo tema dell’edizione n° 25 de «La Luna di Traverso» è STANZE: ambienti, spazi fisici e metafisici, ma anche luoghi interiori che appartengono esclusivamente alla fantasia. Descrivete le vostre stanze, dentro o fuori, raccontateci che cosa accade al loro interno e, se volete, invitateci ad entrare. Art. 2 – REQUISITI PER LA PARTECIPAZIONE Il bando è rivolto a giovani autori operanti nei settori della narrativa in età compresa tra i 18 e i 35 anni residenti, domiciliati, studenti o lavoratori nel territorio nazionale. Si richiede materiale inedito in lingua italiana, che non sia stato premiato ad altri concorsi o già pubblicato anche parzialmente oppure presente in Internet. La partecipazione al bando è gratuita. Art. 3 – MODALITÀ DI PARTECIPAZIONE e INVIO DEI MATERIALI Opere narrative: si ammettono racconti originali ed inediti per una lunghezza massima di 5400 battute, spazi inclusi. Il materiale dovrà essere inviato via mail a giovani@comune.parma.it o tramite posta su cd rom. Opere fotografiche: si accettano opere originali e non pubblicate. Ogni autore dovrà presentare 5 fotografie in formato 10x15 in bianco e nero facendole pervenire su file, su negativo o su supporto magnetico (cd rom). Illustrazioni: si ammettono da un minimo di 3 a un massimo di 5 tavole in bianco e nero del formato massimo di un foglio A4 (21x29.7 cm). È preferibile scansionare ed inviare il materiale via mail o tramite posta su cd rom. Chi volesse, può comunque inviare le proprie opere per posta tradizionale, facendole pervenire al seguente indirizzo: Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia c/o Palazzo Pigorini, via Repubblica, 29 – 43100 Parma. Per una maggiore valorizzazione, fruizione e aderenza agli intenti artistici e comunicativi di ogni fotografo o illustratore si richiede, ove lo stesso autore lo ritenga utile e necessario, di indicare il titolo della propria opera, le dimensioni e la tecnica utilizzata. Questi dati verranno indicati come didascalia di accompagnamento alle fotografie o illustrazioni che verranno scelte per la pubblicazione. Le opere di tutti i partecipanti dovranno essere accompagnate da una breve biografia dell’autore corredata dai dati personali (nome, cognome, indirizzo, recapiti telefonici, indirizzo e-mail). Farà fede il timbro postale. Eventuali attestati di partecipazione al concorso saranno assegnati agli artisti che ne faranno richiesta solo qualora i loro lavori vengano selezionati. Art. 4 – TRATTAMENTO DEI DATI PERSONALI e RESPONSABILITÀ In relazione alla previsione che il materiale possa essere pubblicato, in esecuzione del Decreto Legislativo n. 196 del 30 giugno 2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali), il partecipante fornisce il proprio consenso al trattamento dei propri dati personali. Ogni autore partecipante sarà responsabile per i contenuti della propria opera. Inoltre i candidati si faranno garanti che l’opera presentata è originale, che non è mai stata premiata né presentata in altri concorsi, né mai pubblicata nemmeno parzialmente né immessa nella rete internet.
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Art. 5 - CRITERI DI SELEZIONE e PREMIO Per la valutazione delle opere si terrà conto della qualità, dei percorsi di ricerca formale e dell’originalità dei testi e delle immagini. Il premio del concorso consiste nella pubblicazione dell’opera sulla rivista “La Luna di Traverso”. Solo i vincitori saranno contattati dalla redazione e riceveranno al proprio domicilio due copie omaggio. Non si accettano racconti già editi o che hanno partecipato a bandi precedenti. Le decisioni della Commissione saranno inappellabili e il materiale non verrà restituito. Art. 6 – SCADENZA Le opere devono essere consegnate entro e non oltre le ore 12.00 del 23 novembre 2009. INFORMAZIONI Per ulteriori informazioni, rivolgersi ai seguenti numeri di telefono: 0521.384469-468-467-470, oppure agli indirizzi di posta elettronica: giovani@comune.parma.it - redazione@lunaditraverso.it Orari di ufficio Archivio Giovani Artisti: dal lunedì al venerdì, dalle ore 9.00 alle 13.00; lunedì e giovedì anche dalle ore 15.00 alle 17.00. Siti web: www.giovaniartisti.comune.parma.it - www.lalunaditraverso.it
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