NR.23 FUGHE

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SOMMARIO

ITALIA CREATIVA sostegno e promozione della giovane creatività italiana in collaborazione con

Incipit d’autore L’uomo che cade di Don DeLillo

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Buon viaggio Testo di Roberto Stradiotti

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Credo di conoscerla Testo di Maria Cerino

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e

realizzato da

edizioni

Dove si toccano i binari Testo di Emanuele Ravasi

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Figurine Testo di Patrizia Patelli

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Fughe Testo di Tommaso Chimenti

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ORGANIZZAZIONE E COORDINAMENTO Mariella Toscani - Responsabile Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia

Insonnia Testo di Alessandro Busi

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REDAZIONE Silvia Bia, Enrico Cantino, Simona De Blasio, Carlotta Fiore, Roberta Gatti, Armando Minuz, Federica Sassi, Denis Zuliani

La terra vista dal bus Testo di Gaia Rispoli

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RELAZIONI ESTERNE Andrea Rabaglia

Passion Testo di Paolo Fortunato

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Rinascere Testo di Enrico Elvis Crotti

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Riempire le fughe Testo di Simone Rossi

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LALUNADITRAVERSO 2009 - Anno 9 - Numero 23 Monte Università Parma Editore - Vicolo al Leon d’Oro, 6 43100 Parma

Un battito in più Testo di Michele Rossini

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Virginia Gogh Testo di Pietro Iannibelli

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INFORMAZIONI Per collaborare alla rivista scrivi all'indirizzo redazione@lalunaditraverso.it oppure telefona all’Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia (Via Repubblica, 29 Palazzo Pigorini 43100 Parma, giovani@comune.parma.it tel. 0521/384469-70).

Chi Siamo DIRETTORE Massimo Carta VICE DIRETTORI Guido Conti, Federica Pasqualetti

IDEAZIONE GRAFICA Alessandro Berti REALIZZAZIONE Simone Pellicelli STAMPA La Stamperia - Parma PROMOZIONE E DISTRIBUZIONE PDE - Promozione Distribuzione Editoriale

Il giudizio e il lavoro editoriale della redazione sono insindacabili e accettati implicitamente.

RUBRICA

Gli autori pubblicati riceveranno due copie in omaggio.

Fuga da Hollywood Testo di Carlotta Fiore

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La Luna di Traverso è sostenuta dall'Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia e dall'Assessorato al Benessere e alla Creatività Giovanile.

Biografie

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Illustrazione di copertina: Fuga di Laura Bernardi

www.lalunaditraverso.it www.comune.parma.it/iniziativeculturali

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Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia Comune di Parma

L’inazione consola di tutto. Non agire ci dà tutto. Immaginare è tutto, basta che non tenda all’azione. Fernando Pessoa

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Il termine “fughe” evoca inevitabilmente orizzonti sconfinati: fuggire dal presente, dagli spettri del proprio passato, da luoghi e da persone; ritirata o diversivo, perdita e crescita. Fuggire da ciò che non ci appartiene, da una realtà che si considera ormai irrimediabilmente corrotta e corruttrice. Fuggire verso se stessi. Di tutt’altra natura, invece, la fuga immobile – ossimoro solo apparente – propugnata da Pessoa nella citazione d’apertura. Supremo elogio all’Immaginazione, alla Creatività, ovvero a ciò che, nel corso dei secoli, ha dato origine a formidabili capolavori letterari in cui l’immaginazione dell’Autore bene si è coniugata con l’azione dei propri protagonisti: dall’Odissea di Omero alle memorabili gesta contenute nei capolavori letterari di Defoe, Twain, Verne, Salgari, Melville, Kipling e London, solo per citarne alcuni. Creare dunque, attraverso l’uso sapiente di Immaginazione e Parole, vere e proprie fughe verso mondi affascinanti, interamente da esplorare, nelle cui pagine – oggi come allora – possa risultare straordinario immergersi. «La Luna di Traverso» si occupa da otto anni di scrittura e si pone come territorio d’esercizio letterario, luogo d’incontro tra nuovi giovani scrittori e laboratorio volto alla crescita delle potenzialità narrative dei giovani scrittori. La rivista viene pubblicata dalla Casa editrice Monte Università Parma ed è condivisa e supportata dall’Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia, struttura dell’Assessorato al Benessere e alla Creatività Giovanile del Comune di Parma. Alla luce di questo impegno, «La Luna di Traverso» è entrata a far parte di un importante Progetto di scrittura denominato “BORN TO WRITE”, inserito all’interno di ITALIA CREATIVA, progetto per il sostegno e la promozione della giovane creatività italiana a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Gioventù in collaborazione con l’ANCI Associazione Nazionale Comuni Italiani e il GAI Associazione per il Circuito dei Giovani Artisti Italiani. Italia Creativa è rivolta a tutti gli artisti italiani attraverso un sistema di attività di network promosse sull’intero territorio nazionale da alcune città capofila. Scopo del progetto è proporre nuove attività in una prospettiva di sviluppo per il sostegno della creatività giovanile attraverso iniziative di formazione, documentazione, promozione e ricerca. Il programma, fondato su linee prioritarie di azione e settori d’intervento primari, affronta a tutto campo temi quali la produzione creativa, il rapporto tra creatività e mercato, la promozione del talento, la conoscenza, la crescita professionale, la creazione di infrastrutture. In questo percorso le azioni concrete già intraprese costituiscono il punto di partenza per indicare le prospettive di sviluppo. “BORN TO WRITE”, realizzato dall’Assessorato al Benessere e alla Creatività Giovanile del Comune di Parma e dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Firenze in collaborazione con Monte Università Parma Editore, intende proporre delle opportunità di confronto fra giovani autori e affermati esperti nel settore della Letteratura, finalizzate alla crescita professionale delle giovani energie creative. Intende inoltre promuovere il lavoro dei giovani autori attraverso strumenti promozionali capaci di presentare le loro opere a un vasto pubblico, nonché agli esperti di settore. “BORN TO WRITE” non rappresenta unicamente un articolato progetto a carattere nazionale, bensì una concreta opportunità. Essa intende offrire ai giovani scrittori esordienti che si sentono “Nati per Scrivere” la possibilità di rendersi visibili e confrontarsi con chi condivide la loro stessa passione. L’iniziativa si prefigge di promuovere un’idea di scrittura intesa come libera espressione del talento letterario. In fuga con le parole, dunque, per chi si sente… “nato per scrivere”. Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia

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Mare forza nove / fuggire, sì, ma dove. La citazione è da Maracaibo. La cantava, tempo fa, Lou Colombo. Fuggire, dice. Dove? Quando? Dove? Come? Soprattutto… Perché? Domande. Sempre domande. E poi risposte. Che generano altre domande. Ogni volta diverse. Secondo chi chiede e chi risponde. Ognuno a modo suo, cercando l’angolazione che gli è più congeniale. La realtà non è la stessa per tutti. Che fare, dunque? Gas spento, spine staccate, ante serrate. In previsione dell’Ultimo Viaggio. Salvo sarcastici inconvenienti dell’ultimo minuto. E i binari, ai confini del muro, cadono come cascate nel buio della festa. A volte capita. Non è detto, però. Vai a capire le alchimie che un uomo si porta dentro. Viaggiare, comunque: di città in città. Cercando immagini o ricordi o entrambe le cose. Non a caso. In ogni città che mi ospita cerco una cartina, in ogni cartina una via dritta, importante, centrale. Poi ognuno fa come crede. Vanno bene anche i mezzi pubblici. Il panorama, in fondo, varia di poco. L’autobus è piccolo, concentrato, intimo. Favorisce la circolazione della Fantasia. Una soluzione potrebbe essere rinascere. A volte lo penso anch’io. E allora mi viene voglia di allontanarmi da questo mondo, rendermi irreperibile, camminare accompagnato da pensieri nuovi, scovare la profonda intimità della mia natura. Crediamo di conoscere tutto e tutti, ma non sappiamo nulla. Ciascuno di noi procede a tentoni, non trova niente e si ferma. Allora non resta che scappare. Un marciapiede. Due ombre. Che si inseguono. Un passo dopo l’altro. Per sottrarsi alla follia incombente, provocata da quel fastidioso ronzio persistente, tipo cartavetro contro la corteccia cerebrale. È l’effetto che fanno i soliti, incomprensibili tecnicismi. Oppure le mogli. Conosco uno che vedeva la sua come una specie di mostro dalle narici gigantesche e rumorose che, per fargli dispetto, ogni notte si metteva accanto a lui, impedendogli di dormire. Alcune sono petulanti. Forse perché non hanno ancora capito quando una persona deve essere lasciata sola. Che poi, magari, uno getta l’occhio casualmente per terra e si accorge che c’è da riempire di sabbia le fughe. La vita, purtroppo, è dolore. Tutte le cose sono in travaglio e nessuno potrebbe spiegarne il motivo. Forse. Ma c’è chi ci prova. Leggete questo numero della Luna. Magari qualche spunto lo trovate.

Illustrazione di Bruna Chierici, Fuga

Editoriale

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Incipit d'autore Non era più una strada ma un mondo, un tempo e uno spazio di cenere in caduta e semioscurità. Camminava verso nord tra calcinacci e fango e c’erano persone che gli correvano accanto tenendosi asciugamani sul viso o giacche sulla testa. Avevano fazzoletti premuti sulle bocche. Avevano scarpe in mano, una donna gli corse accanto, una scarpa per mano. Correvano e cadevano, alcuni, confusi e sgraziati, fra i detriti che scendevano tutt’intorno, e qualcuno cercava rifugio sotto le automobili. Nell’aria c’era ancora il boato, il tuono ritorto del crollo. Il mondo era questo, adesso. Fumo e cenere rotolavano per le strade e svoltavano angoli, esplodevano dagli angoli, sismiche ondate di fumo cariche di fogli di carta per ufficio in formato standard dai bordi taglienti, che planavano, guizzavano in avanti, oggetti soprannaturali nel sudario del mattino. Lui indossava giacca e pantaloni e portava una valigetta. Aveva fra i capelli e sul viso, capsule marmorizzate di fumo cariche di sangue e luce. Superò un cartello, Breakfast Special, e altri gli sfrecciarono accanto, una corsa di vigili urbani e guardie private, con le mani premute sui calci delle pistole per tenerle ferme. Dentro, dove avrebbe dovuto trovarsi, le cose erano distanti e immobili. Stava accadendo ovunque intorno a lui, un’automobile mezza sepolta dai detriti, finestrini sfondati e rumori che fuoriuscivano, voci radiofoniche che sfioravano i calcinacci. Vide persone che correndo spargevano acqua, abiti e corpi infradiciati dai getti dei sistemi antincendio. C’erano scarpe abbandonate per strada, borsette e computer portatili, un uomo seduto sul marciapiede che tossiva sangue. Bicchieri di carta avanzavano rimbalzando in modi strani. Il mondo era anche questo, sagome dentro finestre a trecento metri d’altezza, che cadevano nel vuoto, e tanfo di combustibile in fiamme, e lo squarcio costante delle sirene nell’aria. Il rumore si posava ovunque fuggissero, strati di suono si raccoglievano intorno a loro, e lui se ne allontanava e vi entrava al tempo stesso. 4

Don DeLillo, L’uomo che cade, Torino, Einaudi, 2008, pp. 5-6

Scatto di Giulia Turchet, (Non) Fuga

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Buon viaggio Testo di Roberto Stradiotti Scatti di Eleonora di Mauro, Il cancello e Procedere scalzi

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Gas spento, spine staccate, ante serrate. «Okay», mormorò Gut, «è ora di andare.» Il suo cuore martellava al ritmo di samba. Preso da una stanchezza improvvisa, sedette sul pavimento. Drin. Di nuovo drin. Si alzò con la lena di un centenario e andò a rispondere. «Pronto.» «Ciao, sono la tua Paola.» «Mia?» «Mi avevi promesso che ieri sera saresti uscito con me. Sei proprio un bel bastardo, ma ti perdono. Ci vediamo, stasera?» «Vado via», disse Gut. «Mi hai dato buca per otto appuntamenti: li ho segnati sul calendario. Presentati per salvare il tuo onore. Presentati stasera: ti voglio, Gut, per parlare dei tempi andati e futuri. Ti prego, Gut, non dirmi di no.» Gut chiuse gli occhi e immaginò di addormentarsi senza sentire freddo. «Ho detto che sto partendo, sto chiudendo casa.» «E quanto starai via?» «Ti telefonerò quando torno.» «Non hai risposto alla mia domanda. Voglio…» «Suonano alla porta. Addio», disse Gut e troncò la comunicazione. Stanco di squilli e campanelli, andò ad aprire. Un uomo piccolo ed elegante arrancò fino a lui, trascinando una ventiquattr’ore di piombo. Era calvo e marrone di sole fuori stagione. Sollevò il capo, sorrise e poggiò un palmo sul suo petto. «Buongiorno. Posso accomodarmi?», disse, mentre lo sospingeva indietro. «Uh, che tomba.» «È che stavo uscendo.» Riso profondo, imbottito di gorgheggi. «Stava uscendo dalla sua occasione, dalle sorprese del futuro, dalle tangenti e dalle secanti. In pratica, stava uscendo di senno.» Attese invano una risata, una piega lieve delle labbra. «Bene», mormorò. «Bene cosa?» «Bene!», ripeté l’omino marrone, mentre obbligava Gut a sedere sul divano. Estrasse una torcia e gli illuminò il viso. «Dobbiamo parlare.» «Sto partendo. Mi dispiace, sarà per un’altra volta.» «Stia comodo!», ordinò l’omino. Gut trovò saggio

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obbedire e chiuse di nuovo gli occhi. Il visitatore, che alla luce della torcia aveva preso un colorito giallastro, gli diede un paio di buffetti e s’illuminò di luce propria. «Mi presento: Masi Ennio, della Mea Insurance. Seconda al mondo, prima in Europa: sempre sul podio, per intenderci. Mi dica, in che modo vuole proteggere i suoi soldi dal carovita, dall’inflazione, dai furti delle banche, che erodono i guadagni di un’intera esistenza?». Quando disse erodono posizionò le mani ad artiglio e tentò un ruggito. «I miei guadagni sono al sicuro. Non ho bisogno di nulla.» Masi gettò indietro il capo e gorgogliò. «I suoi guadagni! Si vergogni di dire cose simili: i suoi guadagni non esistono! Sono le grandi eminenze grigie che la convincono che lei… i suoi guadagni… eh, sì, sì, lasciamo perdere…» «Quali eminenze grigie?» Masi fendette l’aria con la mano, come a grattare con le unghie un passato sepolto, o un segreto intoccabile. «Lasciamo perdere, guardi.» Gut guardò l’orologio. «Appunto. Devo andare.» L’assicuratore inscenò una specie di danza della pioggia, un misto di stizza, furore mistico, impellente necessità simile a un bisogno corporale. «Solo cinque minuti.» Gut rabbrividì. «Non ce la farò mai. Alle tredici e dodici mi parte il treno…» «Tranquillo», ribatté Masi, afferrandolo per le braccia. «Si sieda, si rilassi. Se non m’interrompe, basterà un minuto.» Gut, che sentiva addosso una stanchezza mortale, preferì subire. «Questa polizza», declamò Masi, che nella penombra sembrava un bignè abnorme rivestito di pièd de poule, «si chiama Omnia totius orbis». Accompagnava le parole gonfiando le gote. Spalancava le braccia come volesse abbracciare la via lattea. «Non conosco lo spagnolo», mormorò Gut. «Nemmeno io… ma chi se ne importa?», squittì Masi. Saltava sul divano, pregustava la resa, la firma, la provvigione. Avvinghiandosi a lui in un tango all’ultimo sangue, stringeva fra i denti lo stelo della biro. «L’ahhrenna!» Gut lo trascinò verso la porta. «Non capisco, sa. Non capisco cosa vuole dire.» Masi sfilò la biro dai canini. «La prenda! Firmi subito. Dieci, dico dieci milioni di euro per qualsiasi evenienza: un infarto fatale sul water, uno scivolone sotto la metropolitana, un mucchio di ossicini raccolti con la paletta dopo uno schianto in moto. Pensi al valore di quei poveri brandelli sparpagliati: dieci milioni!» Gut mollò Masi che si era prodotto in un caschè da antologia, firmò e corse a piedi alla stazione deserta. Si allontanò di un centinaio di metri, dove il binario uno scompariva dentro le robinie, ci si coricò sopra e attese. Tredici e undici. Pensò a tutti i suoi cari, ai giorni lieti, a quella volta che aveva fatto l’amore con la sua compagna di scuola, alla pagella piena di otto con un dieci in condotta che gli era valso un’esplosione di entusiasmo da parte della madre, al primo giorno di lavoro, alla gita sul Tamigi, alla discesa sulle montagne russe che aveva irrigidito i capezzoli di Annina sotto la maglietta. Proveniente dal vagone fuori uso di un binario morto, un’ombra lo investì. «Aspetti il treno?» Gut riaprì gli occhi. «Vai via, Bruno. Non vedi che sto riposando?» «Allora vai tranquillo.» «Cioè?» Bruno allungò la mano. «Dammi un euro». Dondolando dentro il cappotto grigio di sporco, troppo grande per lui, fissò la moneta, poi la usò per grattare la barba ispida. «Oggi sciopero dei treni. Sindacati di base.» Sorrise, mostrando buchi neri e netti come gallerie vibranti di attesa.

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Credo di conoscerla Testo di Maria Cerino Illustrazione di Federica De Ruvo, Fuga dal presente

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Ho un problema nell’allargare le braccia, io. «Fai come se dovessi prendere una mosca, anzi due mosche, con entrambe le mani, ma ai due versi opposti», diceva mia madre. Quando, per il troppo sforzo – mi venivano gli occhi strabici per non perderle di vista –, iniziavo a sentirlo davvero, il ronzio attorno al collo, facevo che la ingoiavo, la mosca. Come fanno i rospi. E la gola la solleticavano le ali. Così: ridevo. Nonostante avessi un braccio più corto dell’altro e una spalla un po’ monca, nei movimenti lenta. Per un bambino di sette anni che si porta le braccia attaccate al busto gli insetti non sono poi la preoccupazione maggiore. Afferrare una palla per riprendere il gioco da un centrocampo immaginario lo è, eccome. Con Marco avevamo deciso che se proprio il pallone fosse toccato a me, lui avrebbe dovuto seguirmi con aria indifferente, tendere la gamba e stringerlo tra la punta del suo destro e la mia caviglia. Abbassavo la spalla poco a poco, tenendo il mento all’infuori per l’equilibrio. Arrivavo con le dita al piede e cominciavo a rincorrere, su per i muscoli, con i polpastrelli, la sfera di gomma. E dovevo pizzicarla verso le ginocchia, per evitare che mi sfuggisse, la palla. Per riuscirci meglio, per tutto il tempo che richiedeva l’operazione, intrappolavo la lingua tra i denti e allargando le labbra ne lasciavo metà fuori a penzolare. Quindi, una volta recuperato il pallone, avevo una gran sete. Per l’aria calda che avevo lasciato ad occuparsi della mia lingua e per l’enorme fatica fisica che richiedeva il mio piano. Per un uomo di quarant’anni che si porta le braccia attaccate al busto le partite di calcio non sono poi la preoccupazione maggiore. Abbracciare Milena dopo l’amore lo è, eccome. Mi dorme accanto, ora. Al lato sinistro del letto, con il volto completamente affondato nel cuscino. Riesco a vedere a malapena, tra i capelli, un orecchio. Mi chiedo come faccia a respirare. Milena. Le guardo la schiena, provo a toccarle la pelle. Mi accorgo che ho di nuovo sbagliato lato. Il braccio più corto non arriva a lei. Dovrei allora rigirarmi. Mettermi con la pancia sul materasso e sprofondare anch’io con mezza faccia nel cuscino. No, non potrei, grazie all’altra mano, tenermi per più di un secondo in equilibrio. Il mezzo busto eretto non è una concessione semplice per il mio fisico. In questa posizione, almeno. Ci provo. Tanta volontà e ricado – con un dito allungato, il medio, teso verso la spina dorsale – al mio posto. Mi arrendo. Dovrei accontentarmi – da questa prospettiva di uomo/faccia sprofondato in piuma d’oca – di toccarla solo con una mano o di guardarla solo con un occhio? Mi rigiro. Milena scuote le spalle, magari un brivido di freddo. Si porta le lenzuola fino su alla nuca e poi piazza il naso di nuovo nel cuscino. Profuma del sapone liquido per le mani che uso io. Si sta muovendo ancora, cerca di recuperare un sogno. Tenendosi di spalle porta verso di me il suo braccio con una torsione della clavicola perfetta. Cerco di afferrarlo ma ho di nuovo verso di lei quello più corto. Procede a tentoni, non trova niente e si ferma. Mentre io ancora mi affanno a stiracchiare al massimo i miei muscoli. A pensarci sarebbe bastato fare un piccolo salto, avvicinarmi al suo corpo. Ma avrei voluto che fosse calore concesso nella naturalezza del sonno. Quando ci si cerca per olfatto o per ricordo. Con gli occhi impastati e le membra indolenzite dal riposo. Dovrei accarezzare un suo piede con il mio alluce. Mi riconoscerebbe. Alzerebbe la testa abbandonando il cuscino e prenderebbe il suo posto con il naso nella mia ascella. Le accarezzerei dolcemente il collo con le dita. E ci arriverebbero, così vicine, fin lì. Forse.

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i r a n i b i o n a c c o t Dove si Testo di Emanuele Ravasi Illustrazione di Ilaria Arpa, More than this

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Sul palco un cantante si liscia il riporto. Invita il paese e le signore a farsi avanti nella penombra della sera. I mariti, sotto i tendoni, aspettano che le ragazze servano porchette ai tavoli di plastica. Nascosto dalla festa, chino di fronte ad un muro, Alex agita una bomboletta. Dietro di lui, un mazzo di persone, con frittelle e birre trasparenti in mano, ne segue i movimenti. Allungano i colli e cercano di scorgere linee e colori oltre la schiena dell’autore. Alex spruzza e schizza da un lato all’altro della tela muraria e i capelli ondeggiano come una tendina troppo piccola che tenta di coprire un’opera appena accennata. Un signore dal volto rosso-cantiere indica con la mano: «È un treno. Guarda là se non è un treno.» Un ragazzo, ancora in sella al suo scooter, non ne è convinto: «Ma che treno… Mettiti gli occhiali, va.» Alex posa la bomboletta e rovista nella borsa dei colori. «Là! Cos’avevo detto! Quello lì è un treno.» Al centro del graffito, da una stazione sghemba, esplodono binari a freccia in ogni direzione e locomotive con reattori arcobaleno volano insieme a stormi di biplani vermiglio. E poi frecce come vento e vagoni passeggeri in corsa con aerei cargo e convogli merci con elicotteri da guerra. I binari, ai confini del muro, cadono come cascate nel buio della festa.

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Le bombolette vuote si accatastano sul prato. Le ragazze finiscono il turno e i mariti frugano nelle tasche in cerca delle chiavi dell’auto. Gli altoparlanti stridono e si spengono. Sotto i tendoni rimangono solo boccali di plastica con fondi di birra e mozziconi di sigarette. Alex raccoglie lo zaino e si volta. A guardarlo non è rimasto che un ragazzino, a bocca aperta, con la mano sospesa sopra un tovagliolo di patatine raggrinzite. Le locomotive planano lungo i binari e i biplani mitragliano le frecce. Un cerchio di parenti, al centro della stanza, si apre ai piedi della bara. Il sole pomeridiano spacca la finestra e li colpisce tutti, tagliando alcuni al petto, altri alle ginocchia. L’ultimo raggio cade ai miei piedi, sul parquet. I disegni su ogni piastrella sono spigolosi e consumati e corrono paralleli lungo tutto il pavimento. Li seguo con lo sguardo e finisco contro le gambe della vedova: scarpe nere, tacco laccato. Lì il sole non arriva. Poi una scrivania. Risalgo i cassetti, su, fino allo scrittoio. In cima, poggiata su cunei di legno, c’è una nave in bottiglia. Muovo un passo e guardo meglio: non è una nave, è un treno. Dentro un Martini Bianco, oltre il riverbero del vetro, è poggiata una locomotiva nero carbone con tanto di fischio e comignoli. «Dottore, vuole pregare con noi?» C’è altro. Mi allungo in punta di piedi e, sopra una piccola mensola, scorgo un TGV francese, con locomotore elettrico e vagoni passeggeri incastrati lungo il collo di una bottiglia di Limoncello. «Dottore?». Più giù, su una sedia impagliata, è poggiata una bottiglia di Cognac. Mi chino e cerco oltre il vetro opaco. È un convoglio da guerra tedesco, con carrozze blindate. Uno dei vagoni è armato di minuscoli cannoni e piccole mitraglie. «Dottore!» Mi volto. Le scarpe laccate spezzano le linee sul parquet. Vado a chiudere il cerchio e mi accodo all’elenco di preghiere. A terra, le rotelle dei supporti per la bara si incastrano perfettamente sui binari del parquet. Dietro una di esse spunta un tappo. Mi chino sotto il morto e raccolgo un Cordiale impolverato. Dentro, le fiancate dei piccoli vagoni di un trenino svizzero sono coperte da graffiti e frecce. Alla dodicesima Ave Maria arretro e spezzo il cerchio. I parenti sottovuoto sono ancora concentrati a completare la lista di orazioni. Stringo in mano il mio treno mentre scavalco la linea della porta. «Si pregano i signori viaggiatori di non oltrepassare la linea gialla.» Sulla banchina, una donna in uniforme ferroviaria appoggia al muro la sua mole da convoglio. Gli occhi, stretti come feritoie, puntano l’orizzonte che separa la campagna dalle nuvole. Il vento scende a tratti a piegare l’erba secca tra i binari consumati. «Dottore, ha sentito cos’ha fatto ieri il figlio di Zanardi? È andato a vedere?» All’orologio sopra la banchina manca uno spicchio di vetro. La lancetta delle ore è ferma e quella dei minuti cade, spezzata sulla mezz’ora. Sotto i minuti, un uomo in giacca osserva la linea da non oltrepassare. «Parla della festa della birra? Sì, ho sentito, ma ieri sera ero in visita su, nelle borgate». «Eh, il ragazzo… dopo la morte del padre…» La donna scuote la testa. Una folata si infrange silenziosa contro le braccia conserte. «Ero andato alla veglia, lo sapeva?» «Ah no, non lo sapevo. Chi c’era?» «Oltre a me, tutti i parenti. Una bella veglia…». L’uomo si toglie gli occhiali ed estrae una pezza dal taschino della giacca. «… e anche una bella casa, devo dire.» La campanella comincia a trillare. Due rondini schizzano lungo la ferrovia. «Era ora… Ma quanto ritardo ha fatto, oggi?» «Dottore, qua i regionali nessuno sa quando arrivano. Bisogna avere pazienza, non sono mica treni svizzeri». «Svizzeri…». La pezza è troppo unta e gli occhiali troppo sporchi. «Direi proprio di no». Nel punto di fuga, dove si toccano i binari, un treno, in prospettiva, sembra quasi planare sulla ferrovia.

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Adesso non lo so. Ma ad agosto, una volta, a Torino non c’era più nessuno. I negozi erano chiusi e col caldo si passeggiava bene, senza troppa gente addosso, nelle vie scure e sotto i portici del centro. Tutti i pomeriggi, per quindici giorni, mio padre prendeva la macchina e mi portava in Piazza Statuto. Parcheggiava sotto il sole e mi prendeva la mano. La prima tappa della gita erano le bancarelle sotto i portici della piazza. I libri esposti mi sembravano usati, brutti, per gente triste. Non erano come quelli delle librerie chiuse, più lucidi e colorati. Facevano tenerezza, cambiavano di fila, si prestavano il prezzo, ma non partivano mai. A casa ne avevo di bellissimi, tutti nuovi, ben foderati, sempre al loro posto. A scuola non avevo mai preso i libri in prestito d’uso, perché li volevamo nuovi, i libri, io e mio padre. Le bancarelle finivano sull’angolo, poi si svoltava a sinistra, subito dopo a destra, e si proseguiva dritti all’infinito, fino alla luce della piazza reale, fino al castello. Con calma. Finiti i portici, attraversavamo Corso Palestro, di pomeriggio senza mercato, poi entravamo in Via Garibaldi. Piazza Statuto è una piazza quadrata e Via Garibaldi è una via dritta, pedonale, di negozi di scarpe, vestiti, borse e di gelati. C’è anche un cinema. Perpendicolari piccole e buie la spinano ai lati. Erano le vie per i grandi, strade un po’ pericolose, dove noi non entravamo per non complicarci la vita. Sui sassi che conoscevamo, camminavamo all’unisono, stesso passo, io e mio padre. Ci separavamo una volta sola, per pochi metri, quando sulla sponda sinistra della strada, quella al sole, cominciava una nuova fila di bancarelle di libri, bella, chiusa, con le vetrine, quasi un negozio normale. Papà mi accompagnava all’entrata e mi aspettava all’uscita. Mio nonno ha lavorato alla Fiat tutta la vita. Era venuto dalla campagna di Bergamo con sua moglie poco prima che mio padre nascesse. Si era sposato in fretta appena tornato dalla guerra. Aveva marciato sulle nevi di Russia e sapeva una canzone cosacca che aveva insegnato a me e a mia cugina. Mentre era prigioniero in Grecia, al suo paese l’avevano dato per morto. Si era trattato di uno sbaglio di nome. Si chiamava Andrea, mio nonno, non Francesco. La notte, a letto, per fargli spegnere la luce gli dicevamo: Cechi, smüsa la luce. A Torino, dopo mio papà, aveva avuto altri due figli e a un certo punto la Fiat gli aveva dato una casa. Una volta anche mio papà aveva lavorato alla Fiat. Per poco tempo, non gli piaceva stare al chiuso. Aveva vent’anni e lì aveva un amico che veniva dalla Sicilia. Un’estate era partito da Torino su una Cinquecento ed era stato ospitei a casa del suo amico, a Còmiso, in provincia di Ragusa. Aveva mangiato tanto pesce ma in casa non aveva mai parlato. Per nascondere le origini settentrionali si limitava ad annuire alle domande della famiglia. Ha una doppia vita, Via Garibaldi. Sia d’estate sia d’inverno, di notte, non si aggira anima viva. La gente ha paura perché il pavimento sotto è scavato. Dalle bocche degli scantinati sulla strada si sentono canti straordinari. Sotto Torino celebrano le messe nere, la gente si incappuccia e beve il sangue delle donne. Magari avremmo camminato così per sempre, io e mio padre, che aveva gli stessi profumi della nostra città: di nebbia e di freddo in inverno, la sera, quando tornava a casa dal lavoro, e di deodorante ingiallito d’estate. Scriveva le canzoni e le poesie. Era giusto che io fossi sua figlia. In Piazza Castello la luce era fortissima, entrava anche sotto il porticato e faceva più caldo di prima. Attraversavamo tutti i portici per tre lati. Poi la scelta: proseguire per Via Roma che cominciava di fronte al castello o continuare dritti per Via Po. In genere ci piaceva Via Po. Via Roma assomigliava troppo alla passeggiata della domenica mattina, quella col tramezzino, uovo e pomodoro e il cappuccino. All’entrata di Via Po c’è una galleria con un cinema, il caffè Baratti e dei negozi antichi. È su due piani, la galleria Subalpina, ed è un posto molto elegante. La balconata credo sia piena di uffici, ma una volta era diverso. C’erano le case editrici musicali, un po’ come a Milano. Via Roma punta dritto alla stazione di Porta Nuova. Via Po a piazza Vittorio, al fiume, alla Gran Madre della magia nera, alla collina. Piazza Castello è quasi un rombo con al centro un gran palazzo marrone, coperto d’edera. Era l’armeria del re, circondata dalle rotaie di molti tram, ora anche da gincane per auto, civili ma poco intonate ai clacson torinesi. In Piazza Vittorio non ci arrivavamo mai. Facevamo dietrofront poco prima, ripercorrendo le stesse strade e le stesse piazze, ma dal lato opposto, fino alla macchina bollente. Era ora di andare a prendere mia madre al lavoro, in periferia. L’aspettavamo con un ghiacciolo in bocca e il futuro negli occhi degli innamorati. In ogni città che mi ospita cerco una cartina, in ogni cartina una via dritta, importante, centrale. Senza, nonostante il tempo, ogni altra geometria non è che caos.

Testo di Patrizia Patelli

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Scatto di Maura Ghiselli, Fuga in musica

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Testo di Tommaso Chimenti Scatto di Cristina Mauri

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Un marciapiede. Due ombre. Che si inseguono. Un passo dopo l’altro. Le gambe si muovono, nere come le braccia, indistinte come i volti. Un marciapiede grigio asfalto calpestato. I pugni chiusi, le voci urlanti. Parole dai decibel troppo alti per essere capite. Capite dai passanti che guardano, che vedono, ma non sanno. Forse immaginano. Forse un film. Una fiction. Di quelle da prima serata. Di quelle che lasci tanto per addormentarti sul divano. Da lunedì sera, quando in tv non c’è niente tranne che moviole e rigori e ammonizioni. Le due ombre non hanno occhi. Le loro bocche sono confuse nella pece della sagoma. Una è più alta, l’altra leggermente più bassa. Ma sono schiacciate a terra, non hanno prospettiva, accartocciate su se stesse, in quel continuo movimento. Come un mulino di pale al vento che rotea rotule e gomiti a formare angoli retti. «Scappa, corri.» «Cosa credi che stia facendo?» «Secondo te ci stanno inseguendo?» «È da una vita che ci stanno inseguendo. È da sempre che mi sento braccato. Da mai che mi sento tranquillo. Mi sono sempre guardato le spalle. Come se da dietro l’angolo dovesse arrivare chi sa cosa, chi sa chi.» «Sono sudato. Ho sete.» «Non ti preoccupare, tra poco sarà tutto finito.» «È sempre un lampo.» Le due figure si imboscano tra la folla con le sporte della spesa in mano, con le sacche piene di libri, gli zaini da scuola, i cappotti con il cappuccio che cola sulla schiena, gli occhiali da sole che calano sul naso e tirati su con l’indice guardandosi in una vetrina, un colpo di mano tra il ciuffo ribelle, tacchi che picchiettano scaltri, suole di cuoio come per avvertire dell’arrivo imminente in un coinciso “scansatevi”. «Avrei voluto essere diverso», i capelli appiccicati alle tempie. «Non puoi fuggire al tuo passato», le mani strette a stritolare le nocche bianche, le mani rosse zeppe di capillari rigonfi di sangue. «Non mi è servito a niente correre e correre e correre», i riccioli sbattono tra la fronte e la nuca. Sono neri, nonostante l’età. Corrono veloci, nonostante l’età. Non sono mai stati due atleti. A nessuno dei due è mai piaciuto allenarsi, sudare in maglietta e pantaloncini. Nessuna gara. Nessun avversario, nessun cronometro. Nessuna tribuna a incitarli. Nessuna vittoria ma neanche nessuna sconfitta. «Non ho mai sopportato perdere», la maglietta svolazza lasciando intravedere i peli spuntati sullo stomaco. «Io ho sempre perso. Nella vita. Mi ci sono abituato», ha una scritta bianca sulla maglia blu, che muovendosi diventa illeggibile. Il marciapiedi è lungo e dritto. Da questo lato della strada non si capisce perché non cambino direzione, perché si ostinino in quel vicolo cieco. «Non voglio esser preso. Non voglio esser preso di nuovo.» «Non possiamo fuggire per sempre.» «Mi fanno male le gambe. Ho il fiato corto. Prendetemi e buttate via la chiave. Non ho mai fatto niente di buono. Ho avuto mille possibilità. Ma le ho tutte fallite, bruciate, buttate nel cesso.» «Corri e stai zitto.» «Hai guardato se qualcuno ci sta seguendo?» «Anche se non li vedi ci sono, ti dico che ci sono, che ci stanno alle costole. Che se ti fermi un attimo, ti agguantano. E non ci sono più scuse.»

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«Volevo patteggiare con la vita, chiedere il rito abbreviato, confessare. Volevo un’altra occasione, un altro corpo, nascere da un’altra parte», i pantaloni larghi frusciano tra le cosce. «Mi sono accorto che è impossibile scappare dal proprio volto nello specchio, mi sono accorto che la mia ombra rimane impigliata alle mie caviglie, anche a mezzogiorno», le scarpe da ginnastica legate strette nei piedi magri e sudati. «Non me la sento più di andare avanti.» «Non puoi fare altrimenti. Dietro non c’è più niente. È terra bruciata. Ci hanno sparso il sale, il fuoco, la peste. E, secondo me, hanno fatto anche bene.» «Non siamo mai stati raccomandabili. Non sono mai stato affidabile. Pensavo di essere eterno. Invincibile. E ho visto che non lo ero. Non lo sono. Ho perso un sacco di tempo. A correre lontano da me.» «Se penso alla mia vita, mi vedo con i capelli appiccicati, gli occhi che mi bruciano, le ginocchia che mi scricchiolano. Non ne posso più. Non ne posso più di me, di stare con me ventiquattro su ventiquattro.» «Non so. Forse ci potremmo anche fermare. Qui a un angolo.» «E se arrivano?» «Se arrivano non farò resistenza. È tutta la vita che faccio resistenza. Che lotto. Che tiro, che strappo. Ora sono stanco. Prendetemi, io non voglio più scappare. Non ho più forze, non so dove andare. Sento solo il mio cuore che pulsa, il sudore che mi cola dalle ascelle alle costole fino al fianco.» «Mi sembra un po’ poco per chiamarla vita.» «Voglio fermarmi, tu fai come vuoi. Prosegui, non farti più vedere o sediamoci sul ciglio della strada.» «Se non verrà nessuno?» «Voglio solo sdraiarmi. Respirare. Come tutti gli altri. Come tutti questi sul marciapiede.» «Credi che loro non stiano scappando da qualcosa?» «Almeno non sono sudati.» «Secondo me lo sono anche loro, sotto i cappotti e le giacche e gli scialli e le borsette, sono sudati anche loro. Respirano per poco a casa, buttandosi sulla loro poltrona. Tirano il fiato un attimo prima di tornare ad essere ciò che sono sempre stati».

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I n s o n n i a Testo di Alessandro Busi

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Illustrazione di Lucia Perugini, Fuga

La radiosveglia sonnecchiava sul comodino di legno e, con i suoi led verdi, indicava le 3:37AM. Mario era seduto sul cuscino, aveva la schiena curva e stava poggiato allo schienale del letto. La luce verde gli illuminava la pancia coperta dalla canottiera azzurra. I rumori della città erano quasi tutti sopiti, tranne il ronzio proveniente dall’acciaieria poco lontana. Dovrei andarmene… ormai non ha più senso che io rimanga… Sentiva gli occhi pesanti, ma non riusciva a dormire. Erano notti che non chiudeva occhio. Una sera per un motivo, una sera per un altro… si stava preannunciando la sessantaseiesima ora di fila senza riposo. Senti come russa, lei… ma come fa?! Era distrutto. Aveva come l’impressione che tutto il mondo si fosse accanito contro di lui. Guardava la moglie, distesa al suo fianco, e gli sembrava che lo facesse apposta a respirare così forte. La vedeva come una specie di mostro dalle narici gigantesche e rumorose che, per fargli dispetto, ogni notte si metteva accanto a lui, impedendogli di dormire. Ma sì, certo… lo fa apposta per uccidermi… Era sicuro che se avesse fatto un’altra notte insonne sarebbe morto. Sentiva che, a ogni ora che passava, il suo cuore era sempre più affaticato, i polmoni sempre meno elastici e lo stomaco sempre più bruciato dagli acidi. Il problema che più lo affliggeva, però, era il dolore elettrico di una scossa leggera e continua che sentiva nella testa. Non era la solita emicrania che lo colpiva ormai da anni, quella che lo costringeva a tenere tende e persiane chiuse per tutto il giorno. No. Era più come una specie di pioggia di scintille che, ogni volta che sua moglie inspirava ed espirava, si faceva fitta e dolorosa. Sicuro: se non me ne vado, muoio… sicuro… In un attimo di lucidità, dopo che lei si era girata e il suo respiro si era fatto più leggero, ebbe l’illuminazione: la fuga. Si disse che era quella l’unica risposta possibile. Per un istante, aveva anche pensato di ucciderla. Poi, però, aveva ragionato che, sicuramente, in carcere non avrebbe chiuso occhio. Sarebbe di certo finito in cella con altri tre, quattro, cinque, o chissà quanti energumeni col naso tappato. L’unica possibilità che aveva era la fuga. Già si immaginava in un monolocale con le pareti insonorizzate, in un paese silenzioso e senza anima viva a disturbargli il sonno. Ok… è ora di andare… conto fino a tre e vado… uno… due… Arrivato al tre sentì un’altra pioggia elettrica ma la ignorò. Spostò piano il copriletto e girò le gambe verso l’esterno. Poggiò i piedi a terra e sentì il freddo del pavimento che gli fece venire i brividi. Inspirò profondamente e, cercando di essere il più delicato possibile, si alzò. Per quanto leggero, il rumore delle molle sembrò un’esplosione devastatrice in mezzo al silenzio della camera. Mario trattenne il fiato e, ricontrollato che il mostro non si fosse svegliato, si avvicinò alla porta con passo felpato. Ce la stava facendo. Già sentiva l’agrodolce profumo della libertà… Mise la mano sudata sulla maniglia d’ottone e chiuse gli occhi. Era l’ultimo ostacolo, poi ci sarebbero state solo vita, silenzio e sonno… «Mario, torna a letto!», la voce della moglie sembrava uscire da una caverna e tuonò, imperativa, nelle orecchie del marito. «Tutte le notti la stessa storia…» Lei si voltò e riprese a dormire, mentre lui, col capo chino e la schiena gobba, fece dietro front e si rimise sotto le coperte. Con gli occhi aperti e la radiosveglia che segnava le 4:49AM, poggiò la testa al cuscino e rimase lì, sveglio e immobile, a fissare il vuoto.

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Ogni mattina mi siedo sul lato destro, per vedere il panorama. Con me ci sono preti e suore che vanno all’università pontificia; parlano tra loro in mille lingue diverse, si conoscono tutti, e ragazzi e ragazze flirtano, mentre uno intorno si chiede com’è possibile che flirtino, vestiti come sono. Al capolinea scendono in fretta: le lezioni cominciano presto. Io, invece, cammino piano. Non voglio regalare tempo al mio capo. Non voglio mettere piede dentro prima delle 9.00, orario ufficiale e inderogabile. Le 9.03 è considerato un grave ritardo. Allora mi sono allenata, ho studiato, calcolato, misurato passi e percorsi: dopo due mesi arrivo alle 9 spaccate. L’autobus è piccolo, concentrato, intimo. Si arrampica su al Granicolo. Oltre ai preti e alle suore, lo prende chi accompagna il figlio a scuola e chi lo porta in ospedale. Ci sono molti padri con i bambini, e una sola madre finora, l’americana dal fisico perfetto, che lascia il figlio e comincia il suo allenamento mattutino. C’è un padre che fatica più degli altri. Quello con la bambina che sembra morta. Fa due sole fermate, carica di peso in salita e discesa il passeggino con la figlia agganciata dentro. Avrà quattro, cinque anni, e io non le ho mai visto il viso; dorme sempre, non si sveglia in nessuna operazione del trasporto. Io li vedo dal finestrino quando arriviamo alla loro fermata: la piccola ha già la testa accasciata in avanti, un po’ di lato, e non cambia posizione di un millimetro. Credo che sia viva perché è vestita sempre in modo diverso, ma comunque ben imbacuccata, sciarpa guanti e cappello, piumino abbottonato fino in cima. Non varrebbe la pena cambiarla ogni giorno e fingere di portarla a scuola, non è mica un giallo di quelli che piacciono al mio capo. Forse la svegliano e la preparano troppo tempo prima dell’uscita da casa. Alla mia destra, dopo le curve in salita, compare Roma. Tutto quello che conosco della città è qui, ai miei piedi. C’è un lungo tratto in cui non ci sono alberi, edifici… niente, solo marciapiede e spazio, e un belvedere dove c’è sempre qualcuno che fotografa. Si apre un pezzo di cielo enorme, che rende incredibile la vista con qualsiasi tempo: l’azzurro forte, il grigio del vento, la cortina fitta di quando piove e non smette più. Sotto ci sono i palazzi, le cupole, le strade, i mattoni, gli alti e bassi che riempiono gli occhi. Da qui Roma è bellissima. Solenne e compatta. Vorrei scendere e visitarla angolo per angolo, invece di limitarmi a guardare l’insieme dall’alto. Ma lavoro sei giorni a settimana, e il settimo non riesco nemmeno a riposare. Mi tocca fare la spesa e le pulizie come l’impiegato medio. In effetti sono proprio un’impiegata. Non credevo che sarebbe andata in questo modo. Rispondo al telefono e compilo le prenotazioni del magazzino, faccio i pagamenti e mando fax ai fornitori, prenoto gli aerei per il mio capo. Gli ordino i libri da portare in viaggio. Certa robaccia thriller che non sorprende mai, e fantasy per adulti da mettersi le mani nei capelli. Non ho un attimo per me, dalle 9 alle 19. Quello che resta è fame e occhi che bruciano. Dopo la panoramica sull’autobus entrare in ufficio è un pugno allo stomaco. Alzo la serranda e mi assale la puzza di muffa. Lascio aperto, poi arriva l’altra impiegata che soffre il freddo e chiude subito tutto. Non ci sono finestre. Solo la stanza del capo ce l’ha, le altre sono circondate da pareti di plastica insonorizzanti. Vivo in un acquario. Vedo quello che dice l’altra impiegata ma non la sento, vedo solo la luce dei neon. Fuori potrebbe piovere a dirotto, o potrebbe esserci un sole rosso che infuoca la terra: io non lo saprei mai. Entro con la luce ed esco col buio, almeno adesso che è inverno. Alle undici arriva il capo. Ha cinquant’anni e la faccia da tartaruga. Quando sorride i denti scompaiono, pare quasi inoffensivo. Ma è sempre nervoso, e comincia a strillare appena entra: non riesce a dire a un volume accettabile nemmeno buongiorno. Assume solo donne e ha la fissa degli orari, guai a sgarrare di un minuto. Non abbiamo il badge, il suo sistema è molto più efficiente. Telefona alle 8.59, entro l’ultimo squillo devi aver risposto, altrimenti sei in ritardo. Sull’autobus mi siedo e mi preparo al pezzo di cielo e città, l’unica cosa bella della giornata. Do un’occhiata alla mamma americana, alla ragazza che per tutto il tragitto parla nell’auricolare, alla signora che scende prima della fontana, alle due infermiere dell’ospedale con i tacchi altissimi. Al papà che si carica tra le braccia la bambina morta nel passeggino. Ogni giorno, dopo il respiro lassù, penso che non doveva andare così, e che sono ancora in tempo. Ora scendo, ora scendo, ma poi arrivo e cammino nei tunnel del capolinea, che sarebbero l’ambientazione ideale per un libro da comprare al capo. Oggi non ci vado, oggi non ci vado… ma poi controllo l’ora per non mancare la telefonata mattutina. Adesso tocco la bambina per vedere se respira, ma poi mi manca la forza di muovere un muscolo, riesco solo a guardare fuori del finestrino la meraviglia che si stende ai miei piedi. Sono un’impiegata, una co.pro, una terrona emigrante, un topo, una trentenne vecchia chiusa in un acquario di plastica, in una vita 9-19. Forse domani.

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Testo di Gaia Rispoli Scatto di Valentina Scaletti

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Testo di Paolo Fortunato Illustrazione di Beatrice Poggio, Fuga 2, penna su carta, cm 16x10

Misteri silenziosi ti conducono in ville abbandonate, povere, da ristrutturare. Le vedi dal cancello, diroccate e malmesse, sperando di vederle poi splendenti e luccicanti, come fossero uscite dall’autolavaggio. Le affitti o ci vai a vivere. Il cane è di scorta: lingua di fuori, aria triste ma giocosa. Insomma, un cane. Ti danno tutto chiavi in mano: chiavi di casa insieme al cibo e alla cuccia per l’animale. Quando piove poi, perché anche il sole deve riposarsi, guardi fuori dalla finestra e, citando Conrad, speri che quello sia il tuo lavoro. La pioggia scende e sorridi. Sorseggi acqua, credendo sia Martini. Ma sei un pessimo favoliere. Il buio della stanza si inchina al chiaroscuro della notte piovosa. Non è freddo, ma indossi un maglione senza maniche di lana marrone. Lo tocchi e riconosci al tatto il tessuto invernale. Quello che d’estate ti dà fastidio indossare. Ma l’estate non c’è. L’autunno sì. In cucina tua moglie sta preparando polpette di pesce. Ti parla. Lo fa gridando per sovrastare il volume rock della radio. Lei grida, ma tu non la senti. Sei troppo immerso nel tuo silenzioso pensare. È mora, capelli ricci legati con un mollettone nascosto dalle ciocche. Ha l’aria pulita, come il suo viso. Bianca, forse un po’ pallida, ma questo è sempre stato il suo colore naturale. È sempre stata così, bianca. Corpo proporzionato, magro e armonico. Una tipa standard, normale. Il classico tipo che sposi perché piace ai tuoi, ai tuoi amici e un po’ anche a te. «Con lei vai sul sicuro», ti disse un giorno un tuo amico caporeparto di un grande magazzino sulla Cassia. Infatti, lei è una di quelle che trovi pure al supermercato. No, non parlo di hard discount, parlo di quelli grossi, con l’insegna altrettanto grande, ben in vista, che vendono prodotti desiderati da tutti, quelli di marca. L’hai presa perché mancava poco ai tuoi quarant’anni. I trentanove sono una brutta bestia. Ormai è fatto. Lei grida e sembra chiederti qualcosa. «Francesco, mi prendi la farina?» Rimani sospeso a contare le gocce di pioggia. È impossibile farlo, ma ci provi. È chiaro che non ci riesci. Lei continua, imperterrita: «Francesco? Mi senti? Ti ho chiesto se per favore mi prendi la farina?» È testarda, cocciuta. La radio è accesa. Lei non fa alcuno sforzo a spegnerla o ad abbassarne il volume. Tu, da bravo Scorpione, non gliela dai per vinta. Rimani chiuso nel tuo silenzio. Ma sai che cederai, che perderai. Ti accorgi che il soggetto che stai osservando riflesso sulla finestra è già stato fotografato. Le sue parole, la musica rock, per di più commerciale, ti stanno svegliando dal torpore in cui eri avvolto. Questo brusco risveglio ti irrita. Sono cose che non sopporti. Non le sopportavi nemmeno quando eri giovane, quando vivevi ancora a casa con i tuoi e con tua sorella: i rumori delle porte che si aprivano e si chiudevano con violenza, i passi, la radio accesa, un mucchio di parole gettate lì, ad alta voce, i colpi di tosse, la tua porta che si apriva, una figura nell’oscurità e, alla fine, la luce accesa. Una tortura che non sopportavi all’epoca, figurati ora. E tua moglie non ha ancora capito quando una persona deve essere lasciata sola. Un difetto che avevano quelli della tua famiglia. «Francesco? Fra? Puoi venire un secondo in cucina?» Non ne puoi più. Ti stai innervosendo, i tuoi occhi si fanno di ghiaccio. «Hai gli occhi da matto», ti diceva tua madre, quando notava, preoccupata, il tuo cambio d’umore. Smetti di attendere, di soffrire. Decidi di reagire. Distogli lo sguardo dalla “fiction” che stanno girando. Si tratta solo di una vecchia replica. L’hai già vista mille volte. Posi il bicchiere d’acqua sul tavolo

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da pranzo e, concentrato per mantenere il controllo, sgusci via, tra i mobili antichi che ha scelto lei, verso la via di fuga. Prima di uscire di casa, prendi un soprabito e un cappello beige da pescatore. Indossi entrambi e chiudi la porta sul suo: « Francesco? Ma che stai al bagno?» È finita. Ti fermi, respiri profondamente, lasciandoti alle spalle i pensieri di ieri e di oggi. Li archivi e poi li cestini. Svuoti il cestino e, per concludere il lavoro, riavvii il sistema. Il suono di Windows ti rilassa. Sul pianerottolo la luce è fioca. La pioggia è rumorosa e pressante. Inizi a camminare lentamente verso la rampa delle scale. È quasi buio. «Quando ti decidi a cambiare le lampadine?»; la sua voce ritorna. Pensi che forse non l’hai cestinata. Non ci riesci. Ti mancano solo un paio di rampe di scale. Fai gli scalini lentamente come se il rischio di essere visto e catturato non ti toccasse. È l’incoscienza di chi pensa di aver già vinto, di essersela cavata alla grande. Ora sei libero. O almeno pensi di esserlo. Sei di sotto, nello spiazzo che prima vedevi dalla finestra. La pioggia è terribilmente costante. Guardi verso il cielo scuro e poi verso la cuccia del tuo cane. Nessun rumore o movimento. Probabilmente starà dormendo. «Meglio così», pensi. Rimani coperto dalla tettoia delle scale. Rimani immobile come un manichino. Aspetti che venga l’uomo della vetrina. Sai che non arriverà, perché ormai è tardi e i negozi sono chiusi, anche quelli del centro. Rimani lì a fissare l’acqua che scende costante sul terreno e sulla tua vita. Ti senti legato. Senti che dentro di te qualcosa piange. Una cascata di tristezza scende giù, dalla laringe fino all’intestino, passando per il cuore. Ti senti come se fossi arrivato lungo su un pallone. Sei in un campetto di calcio. Indossi una divisa a scacchi bianchi e rossi. Indossi il numero 7, sei un’ala. Ti lanciano spesso. Corri per raggiungere uno di questi, ma il pallone sguscia via sulla terra, rimbalza in maniera strana e poi prende velocità. Corri, ansimando. Provi a prenderlo con una scivolata, ma il pallone se ne va fuori dal campo. Ti senti come se non avessi avuto la prontezza a frenare. Ti senti che le ruote scivolano via sul terreno bagnato. Senti che ti manca l’Abs. Sei lungo pure stavolta. Ti senti perso. Nel vuoto. La cascata poi la senti improvvisamente risalire, come in un circuito. La bocca comincia a tremare, a balbettare. Strani miagolii provengono giù dalle viscere. Hai gli occhi gonfi e la vista attorcigliata. La malinconia e il magone che ti comprimono lo stomaco, devono uscire, sfogarsi: come un vomito di lacrime, fatto di acqua mista a tristezza. Senti il rigurgito venire su dalle viscere, ormai è arrivato il momento di tirar fuori tutto. Ora sei solo, nessuno può vederti. Ti togli il cappello e lo getti su uno scalino. Sei spoglio. Chini il capo, che incontra le tue mani. Ormai è fatta. Inizi a piangere. Lo fai in modo sommesso per non disturbare il rumore della natura e della pioggia o forse perché non vuoi essere sentito né visto. È come se stessi al cinema a vedere uno di quei film che ti risuonano dentro allo stomaco. Quelli che ti distruggono ogni tipo di vergogna, di pudore. Piangi senza fermarti. Le mani passano dal viso ai capelli. Mescoli tutto: lacrime, gel e capelli. Un pianto sommesso come quando eri piccolo. Improvvisamente senti un corpo estraneo sulla tua spalla. Ti spaventa e ti irrigidisce. Ricordi che eri solo. «Questo tocco non esiste», pensi. Decidi comunque di voltarti. Allora fai marcia indietro. Plachi la cascata di emozioni, ricomponi la realtà che stai vivendo. Ti ritrovi con stupore alla finestra, a guardare quell’ennesima “fiction” che sai a memoria e, inspiegabilmente, non stai piangendo. Guardi meglio. Il piazzale e la cuccia sono sempre al solito posto. La pioggia cade ancora. La mano di tua moglie ha interrotto la corsa delle emozioni. Ancora una volta sembra sia stata provvidenziale. Ti dice una cosa banale: «Caro, ma oggi, al supermercato, l’abbiamo comprata la farina?» Se vuoi, è tutto finito.

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Come ogni notte attraverso le stanze segrete del tempio. Come ogni notte, mi muovo in questo luogo inanimato, circondato dal ronzio algoritmico dei computer. La luce dei neon, bianca e lattiginosa, è trafitta da led verdi che pulsano sui dorsi satinati dei server. Acuminate luci rosse si accendono costanti sui battiti binari dei processori. Cammino stanco. Ogni passo risuona pesante e fuori equilibrio. Vivo circondato da programmi in esecuzione, dal respiro asincrono di computer mai spenti, come un guardiano inefficiente, un essere imperfetto, una creatura in fase di deterioramento: cellule che muoiono a ogni istante, capelli caduti rimasti in bilico sui vestiti, pelle morta. Sono solo al mondo, orfano e senza eredi. I miei movimenti sono immortalati da telecamere a circuito chiuso. Compaio e scompaio nei monitor controllati dal sergente. Il sergente è un uomo grasso, stretto in una divisa blu, con un baffo giallo cucito sulla manica sinistra della giacca. Senza fermarmi seguo con lo sguardo la rotazione circoscritta delle telecamere, il groviglio di fibre ottiche azzurre, la corsa di grigi cavi contorti. In fondo alla sala, su piccoli schermi, si susseguono segnalazioni d’allarme ininfluenti. Davanti all’ingresso della sala cinque il freddo diventa più intenso. Numeri digitali risaltano vivaci sugli sportelli grigi dei condizionatori. A fine ispezione, passo il badge sul lettore magnetico. Lo scatto meccanico della porta blindata mi proietta nel mondo polveroso e impreciso degli uomini. Di spalle, in una guardiola male illuminata, il sergente sta accasciato su una sedia, le braccia conserte sul tavolo sono circondate da bicchieri di plastica. Tiene gli occhi fissi sui monitor. Ora tutte le sale del tempio sono deserte. Quando deposito il badge, il contorno sfuocato della mia figura appare sul monitor numero tre. «Finito per stanotte?» Non rispondo. «E i cuccioli di là, stanno bene?» Ancora silenzio. Conosco le possibili litanie di un guardiano abbruttito da troppe notti insonni. «Fortunato te. Adesso torni a casa, t’infili a letto e buonanotte» sussurra stritolando un bicchiere. Nessuno conosce le mie vere intenzioni. Per questo sorrido, abbassando la testa. Lui, sollecitando il minor numero di muscoli possibile, prima mi allunga la carta d’identità, poi attiva, con l’indice della mano destra, l’apertura automatica delle porte. Fuori, l’aria gelida d’inverno sferza i rami più fragili di pochi alberi malati. L’insegna del tempio illumina il parcheggio deserto. Getto, in un cestino, la mia carta d’identità. Cammino con più convinzione, attraverso un piccolo parco. Da lontano l’edificio centrale della banca appare raffinato ed efficiente, in linea con i canoni estetici dell’architettura moderna. Imbuco, in una grata metallica fissata al marciapiede: la carta di credito, il codice fiscale, la fidatycard, la tessera fnac. Cadono nel vuoto, appendici di plastica con il mio nome in rilievo. Gratto il ghiaccio dai vetri dell’automobile. Metto in moto, abbandono le strade della metropoli in direzione delle montagne. È sempre più buio. Dopo pochi chilometri incrocio un camion, sul parabrezza risplende la croce di Gesù illuminata da led iridescenti. Il viso sofferente del Signore risplende nelle tenebre, lasciando negli occhi di chi guarda un bagliore vano. L’autostrada è percorsa da lunghe colonne di autotreni. Dal finestrino, nel pieno della notte, gli autogrill sembrano frequentati da fantasmi stanchi e malfermi. Il cibo stantio è illuminato da alogene sfolgoranti. Nella luce intima e ambrata dell’auto riguardo le foto dei miei cari. Riconosco la magrezza di mia madre, fissata in bianco e nero, in giardino. Mio padre immortalato mentre imbraccia una carabina al luna park. Tu, sdraiata sul divano, il viso stanco e quello sguardo incantevole. Strappo ogni foto senza emozione. Le riduco tutte in piccoli e spessi coriandoli. Lascio l’autostrada per imboccare la statale in direzione delle montagne. Abbasso il finestrino e aprendo il pugno libero i coriandoli che si disperdono nel vento, in un volo disarmonico. Le foto ricordo sono inutili: il dolore e l’abbandono restano codificati nel corpo, nei sogni notturni, nelle aritmie del cuore, nel ronzio insensato del mondo.

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Testo di Enrico Elvis Crotti Illustrazione di Ettore Tomas, Impiegato in fuga, febbraio 2009, china e digital art

Dopo ogni tornante la montagna si annuncia sempre più maestosa, la sua cresta scura sovrasta le prime luci dell’alba. A ogni curva l’automobile sbanda su cumuli di neve sciolta. La strada s’inerpica stretta, attraversando fitti boschi di conifere. Il posteggio è una distesa bianca illuminata dai primi bagliori del giorno. Il candore della neve è infranto da piccole impronte: i passi rapidi di una lepre, zampe di uccelli circondano i tronchi degli alberi più grandi. Più lontano, riconosco le orme profonde e randagie di un cane. Allaccio gli scarponi, carico sulle spalle lo zaino con i viveri, osservo l’ago calamitato della bussola. Getto le chiavi dell’automobile, lontano nel bosco. La neve attutisce il tonfo della caduta. Attraverserò gli Appennini, cercherò di raggiungere la tua casa al mare. Dimenticherò passo dopo passo, insieme con la fatica, i codici d’accesso, i numeri segreti, le password, il gelido soffio dei computer, l’insensata dinamica della vita di un informatico. Ricorderò, a ogni respiro affannoso, i gesti amorevoli dei miei cari, la grazia del tuo corpo, la curva rotonda dei seni, le tue cosce robuste. E quando la mancanza della tua carne mi toglierà il fiato, penserò alla devozione del tuo amore, ai tuoi baci profondi, ai tuoi occhi azzurri e luminosi. Alle occasioni perdute. Voglio allontanarmi da questo mondo, rendermi irreperibile, camminare accompagnato da pensieri nuovi, scovare la profonda intimità della mia natura. Voglio irrobustire le gambe, trovare il mio respiro, rafforzarmi giorno dopo giorno, dimenticare il ronzio perpetuo del tempio: rinascere.

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Testo di Simone Rossi Scatto di Marta Santacatterina, Memoriale alla Shoa, Berlino, 2007, stampa su carta fotografica

La fuga, nella vita, chi lo sa che non sia proprio lei la quintessenza? (P. C.)

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C’è un condominio con sei appartamenti, due per piano su tre piani. Questo condominio ha una villetta attaccata a destra e una villetta attaccata a sinistra. La villetta di sinistra è roba nostra: di mia madre, di mio padre, mia. Ho ventidue anni, e fra venti giorni sarò dottore. Dottore in una materia che mia madre non ha ancora capito che cosa sia. La Rita – con l’articolo davanti – è una delle inquiline del condominio. La Rita ha un marito molto ricco che fa l’assicuratore e una figlia molto brutta che fa la terza elementare: sta in casa tutto il giorno, la Rita. Un martedì di tre settimane fa, la Rita si presenta al cancello di casa nostra alle undici e mezza della mattina. Orario d’ufficio. Io sono in tuta e calzini sporchi e maglietta davanti al pc, nella perfetta imitazione di uno scrittore di tesi. «Ciao, Gianluca.» «Ciao Rita.» Ha un catalogo in mano, la Rita. Ha anche le pantofole e un piumino viola allacciato fino a metà. Il catalogo sembra quadrato e plastificato, con parecchie foto. Un campionario. Difficile, distinguere da questa distanza. «Ci sono i tuoi?» «No, Rita: lavorano.» «Ah.» «Eh.» Rimane un attimo interdetta, la Rita, appesa tra il palmo della mano e la punta della lingua. Ha già aperto la bocca, ma non ha ancora parlato. Mi dirà cosa vuole? Mi farà vedere il catalogo? È lontana dieci metri, in fondo al vialetto, dietro il cancello automatico. Non le ho ancora aperto. Fa in tempo a passare una macchina rossa dietro le sue spalle. Decido di incoraggiarla, senza avvicinarmi. «Posso lasciar detto qualcosa? Se no, torna sulle due. O stasera.» «No, ecco… Ho il catalogo.» «Di che cosa?» A questo punto, mi avvicino: senza premere il pulsante per aprire il cancello, copro in sette passi i dieci metri di vialetto che ci separano. Io dentro, tu fuori. Ecco che la sgrammaticata Rita mi racconta di come lei e Le Altre abbiano deciso all’unanimità che il prato comune tra condominio e villette non è più bello come sette anni fa, quando siamo venuti ad abitare qua. «Ti ricordi?» E allora, ta-dààà! «Rivestiamolo. C’è da colare del cemento e da posare dei bei mattoni rosa antico, guarda come sono belli! Io e la Maria siamo andate dal geometra ieri: in foto non rendono, ma un rosa antico, Gianluca, un rosa antico così non l’hai mai visto.»

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Riprende fiato. «Senti cosa ne pensano i tuoi.» «Vabenegrazieciao.» Mio padre sfoglia il catalogo e dice: «Dalle foto non si capisce niente.» Mia madre sfoglia il catalogo e dice: «Speriamo di spendere poco.» Una settimana e nove visite della Rita dopo, i miei capitolano: mettono imprecisate centinaia di euro a disposizione di questo entusiasmante progetto di riqualificazione ambientale. Senza aver potuto toccare un mattone prima che iniziassero i lavori. I lavori sono iniziati giovedì scorso. Due giorni dopo i miei avrebbero avuto venti ospiti per cena. «Dai, che schifo! Vuoi che sia il caso di iniziare a lavorare di giovedì? Così no che non finiscono ‘sta settimana!» «Fino a ieri ha diluviato», osserva mio padre, «come facevano?» «E vabbeh! E allora vuol dire che dovevano aspettare che si asciugasse e iniziare lunedì!» (Sempre urlando, tutto ciò) Sabato sera mia madre ha ripetuto a ogni ospite il battutone che si era preparata, ridendone fortissimo ogni volta: «Eh, ci stiamo costruendo la piscina». Capace che alla sera sia pure andata a letto soddisfatta della propria inappuntabile reazione all’increscioso inconveniente. I lavori sono finiti ieri: da stamattina il panorama ha definitivamente cambiato fisionomia, schierando al suolo un’ordinata e immobile processione di mattoncini a zig-zag. Parecchia sabbia. Torneranno a pulire, pensavo. Pensavo male. Mezzogiorno. Mia madre torna a casa. «Uuuuuh! Visto che bel lavorino che hanno fatto?» «E la sabbia, mamma?» «Ecco, quello è un lavorino che dovresti fare te.» «Eh?» Metti la cera, togli la cera. Si tratta di questo: i mattoncini rosa antico sono disposti a elle, e siccome il cemento sotto è ancora fresco perché sono stati appena posati, le fessure fra uno e l’altro sono larghe. Nel gergo dei posatori di mattoncini, gli spazi tra uno e l’altro si chiamano: fughe. C’è da riempire di sabbia le fughe. Prendere una scopa, spargere la sabbia accumulata in piccoli vulcani e stenderla bene bene in modo che nelle fughe ne vada giù il più possibile. Sabbia, buchi da riempire: infantile, ed erotico. Diceva bene Barthes: «Amore è un bambino con il pistolino dritto, come i putti delle fontane. Il desiderio è innocente solo quando è sfrenato». «Occhei», ho detto alla mia mamma. Ho riempito le fughe di sabbia, e mi ci è voluta mezz’ora. È stato più divertente che scrivere la tesi.

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Da bambini abitavamo nella stessa via. A separare le nostre case c’era solo un fazzoletto di terra che mio nonno aveva adibito a orto e dove d’estate si vedevano i pomodori maturare lungo improvvisati filari di canne. Io crescevo per strada, correndo tutto il giorno per il paese assieme a quella che al tempo consideravo la mia banda. Ne combinavamo di tutti i colori e passavamo le giornate rincorrendo un pallone o nascondendoci dietro alle macchine parcheggiate per fuggire dalle urla dei genitori. Soltanto Riccardo se ne rimaneva sempre per conto suo. Non ricordo d’averlo mai visto giocare e solo qualche volta si può dire che, a suo modo, partecipasse ai nostri svaghi rimanendo a osservarci dal bordo del marciapiede, immobile come una bambola rotta. Non ci stava né simpatico né antipatico, lo salutavamo appena e a volte ci chiedevamo se fosse proprio come noi o avesse qualcosa di diverso. Qualche tempo dopo i miei genitori cambiarono lavoro e andai a vivere da un’altra parte. Malgrado da allora, negli anni, lo abbia rivisto migliaia di volte, non ho mai neppure cercato di rivolgergli la parola. Lo incontravo spesso mentre si allenava, e mi sembrava che avesse in faccia l’espressione spaventata di un uomo che sta scappando da un incendio. Perché nel frattempo Riccardo era diventato quasi un campione, una piccola gloria locale, un fondista che s’era distinto in molte maratone anche di buon livello. Usciva di casa ogni mattina portandosi appresso un paio di scarpe leggere e non appena finiva di lavorare, con le unghie e le mani ancora luride del grasso delle caldaie che aveva pulito per otto ore filate, correva fino a non poterne più. Non usava cardiofrequenzimetri né tabelle d’allenamento: Riccardo correva, correva e basta, e alla fine, ogni sera, spegneva la giornata passando al bar per quello che sembrava ormai essere un rito. Lo vedevi sedersi a un tavolo appartato e ordinare una birra, e nel frattempo si accendeva una sigaretta dietro l’altra, masticando con le mani i gusci d’arachidi sempre un po’ più a lungo del necessario, così che, per quanto si sforzasse, non gli riusciva mai di mangiarsene una sana. Continuava a bere fino a quando non vedevi le palpebre calargli sugli occhi come una vecchia saracinesca arrugginita: solo allora se ne andava, trascinando le gambe sul pavimento, due stecchi di legno sproporzionati e gonfi come le mani di certi vecchi. Per Riccardo ogni giorno era identico all’altro, così che per anni l’unica certezza della mia vita è stata quella di ritrovarmelo al bar e di chiedermi come fosse possibile che in quello stato gli riuscisse di tornare a casa. L’incidente è avvenuto la scorsa estate, anche se non credo che sia esatto definirlo a quel modo. Ferragosto era passato da pochi giorni e Riccardo stava tornando da una delle eternamente ripetute gare podistiche con cui ingabbiava tutti i suoi giorni liberi. Non era neppure una cosa importante, ma una di quelle gare da quattro soldi in cui al massimo puoi sperare che ad aspettarti dietro al traguardo ci sia qualche forma di pecorino e un salame o due. Forse è stato perché la considerava una cosa da niente che scelse di andarci in bicicletta, dopotutto tra casa sua e il nastro di partenza c’erano meno di settanta chilometri. Poi la corsa: venti chilometri al trotto tra salite e discese sotto il sole infuocato di fine agosto, e non appena conclusa raccontano che sia risalito in bicicletta e abbia preso a pedalare verso casa. Non aveva neppure vinto, era arrivato secondo ed è probabile che sia stato per questo che nel tornare avesse pedalato un po’ più del dovuto. Quando l’hanno ritrovato, dentro alle borse della sua bicicletta c’erano due forme di formaggio e un trancio di salame sottovuoto; poco distante da lui una mezza bottiglietta d’acqua, che ancora oggi qualcuno maligna fosse allungata col vino. Nessuno ha potuto stabilirne la ragione: era un atleta, Riccardo, e neppure guardandogli dentro con l’autopsia si è riuscito a trovare in lui qualcosa che non andasse. Pare che a pochi chilometri da casa sua, d’improvviso, si sia fermato. Ma secondo me era già da un bel po’ che era stanco, perché batti oggi e batti domani, batti sempre per niente, anche un muscolo involontario, un muscolo senza cervello, penso finisca con lo stancarsi. O forse è stata la birra o sono state le sigarette, due sigarette in meno un battito in più, magari proprio quello che un giorno arrivi a scoprire quanto ti serva disperatamente. Vai a capire le alchimie che un uomo si porta dentro: magari non è stato neppure per qualcosa che ha fatto, ma per qualcosa che non ha fatto. Forse una mezza pinta in più gli avrebbe allungato il sangue quel poco che bastava per farlo tornare a casa. E invece si è piegato sulla bicicletta e la bicicletta è scivolata sull’asfalto. Una macchina è addirittura finita contro un albero per evitare di cacciarlo sotto. Quello dentro l’automobile per fortuna non si è fatto niente: uscendo dalle lamiere contorte ha solo maledetto la sorte che quel giorno l’ha voluto lì e anche il governo, perché non obbligando le biciclette a farsi l’assicurazione non ci sarebbe stato nessuno a ripagargli la macchina. Qualche giorno dopo l’incidente i genitori di Riccardo hanno ricevuto una lettera dal suo avvocato in cui veniva loro intimato di pagare i danni. Non hanno ancora risposto.

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Un battito in pi첫

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Testo di Michele Rossini Scatto di Daniele Romano, Bianco e nero

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Virginia Gogh

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Gli interminati cerchi delle sere e delle aurore abbelliscono il rugoso collo della tua persona e rifulgono sull’orlo del cristallo di vino che hai sempre al tuo fragile fianco. Il segreto senile che divulghi a chi ti parla (intanto che continua il tuo pianto interiore) è di equivocare, di fraintendere, di tradire la realtà, di pensare ad altro o, infine, di non pensare affatto. Nelle notti blu fondamentale e nei mattini vermigli di luglio, basterebbe rivolgere gli occhi all’ingiro per capire che ebbri sono tutti e che il mondo ha perduto la sua ratio. Un canicolare mezzogiorno (nel quale in un orto ammiri un albicocco) ti pende dal lobo molle e fiacco dell’orecchio e quasi ti sfiora la spalla mentre oscilla, mentre ovvero tu muovi la mano al bicchiere di vino e la porti alla bocca dipinta di viola. Dall’altro pendulo lobo pende un momento stanco del dì, un dopopranzo in cui il tempo è fermo, tace il silenzio e ai vetri della stanza una mosca torna e ritorna con insistenza asinina. Il segreto di cui dici a chi ti ascolta è di trascendere la parte o le minutaglie e, da una bruma, da una confusione, considerare il tutto come appare attraverso la cruna del profondo del bicchiere. Il cuoco che cucina non aduna nel tegame la catalogna sbollentata e un poco d’aglio e un po’ di sale e un pizzico di peperoncino allo scopo di ottenere il verde degli ulivi? Tutte le cose sono in travaglio e nessuno potrebbe spiegarne il motivo, i volti degli uomini alla finestra sono vinti, strani, compunti (la loro ragione non è desta, essi sono disgiunti da loro stessi e non sono vivi), e gettano sassi. Dolente si staglia la tua faccia di pieghe a mezz’aria fra la porta socchiusa e la brocca dell’acqua. Sulle ciglia variopinte del tuo sguardo si trova un carnevale che il viso intero contraddice: sull’una dorme una sera aurata in cui tanti tavolini ordinati ricevono la luce della luna e dei lampioni, sull’altra vicina si desta un’amica che ti era d’accanto e divampa un fuoco giallo. Eppure di tra un sorso e il successivo il debole insieme acquista una nuova coerenza, così cade dal piano della credenza al suolo un oggetto dopo la causa efficiente dell’urto: vi sono istanti in cui si capisce quel che si vuole e quel che accadrà: fugge la cicala dal ramo del pruno, vola la vespa dal fiore di prato, scappa la zebra al fruscio leonino. La tua espressione non ha dove, se non il nulla iperuranio tinto di realtà; non ha come, se non la dimenticanza delle cose che sono; non ha quando, se non l’eterno abisso del tempo nel quale rimugini tormenti e paure; non ha perché, se non la fuga dalla serenità come una nuvola scacciata dal grecale. Quel che in libertà si capisce diverrà futuro, “a me la vita è male”. È vero, com’è bella una bottiglia di vino piena e come trascende le parole umane! Che il mondo giri e rigiri e vada come vuole laddove gli pare portando tutti nel suo ventre cavo e irrazionale: importa dissetarsi infine o potersi dissetare! E nel medesimo vino bere il senno che rimane, le residue speranze, le belle intenzioni finite, le case e le stanze passate, tutto il blu del tubetto e il bianco con cui si rappresenta il cielo. Quando dall’angolo del labbro scivola una goccia d’uva, questa lentamente segue il solco della ruga sino al mento, e là traccheggia indecisa tra lo stare e il cadere. Il palmo della mano bruciato dalla candela cancella indifferente tali schegge di morte e di pensiero con un gesto qualunque. Tu sei pazza, e per di più le sarte cuciono vesti con le tasche. Tutte le finestre hanno delle sbarre nel loro vano e al di là di esse un ameno giardino da guardare; sulla fronte non porti il segno dell’illusione che vi ha lasciato il tuo poggiarvi il capo? Tu sei stanca e vecchia per accumulazione, il sasso è accosto e pronto, il fiume scorre limpido, diafano, chiaro e profondo sul limitare delle tue azioni. Come spiegare il dolore che adduce nell’immenso mio cuore l’atto consueto, usuale, del percepire il giorno che passa e diviene sulle altalene delle ore lunghissime, nefaste, senza potere neppure levare parola che sia epitome di questa mia vita finita nel nulla e nel vuoto? Fra vette e abissi si consuma quel che si ha e quel che si è avuto è perduto, un vento ritroso lo muta in niente: scoscende dal monte dell’intelletto il masso che investe i nostri pensieri. La temperatura è tuttavia mite, l’acqua scorrendo gorgoglia come quella dei ruscelli dei sogni, troppe cose avrei da dire in questo vano presente che non hanno significati e i girasoli li ho già dipinti e dipinti da tutti i punti di vista. Si è concluso l’universo da me conosciuto. Vorrei forse un aiuto, ma intorno si estende un deserto o un campo di grano, un altipiano ove aggrovigli di sterpi e di rovi si dipartono dal mio povero capo ed arrivano al cielo: nulla si muove, nessuno vive: quando la cameriera mi parla io non capisco quel che sussurra, forse mi dice che sulle calle si posano sempre farfalle caduche. Solo il fiume pende al mare ed ha un’eterna aspirazione. Le cose liquide hanno ragione.

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Testo di Pietro Iannibelli Illustrazione di Silvia Panzani, L’attimo fuggente, china e acquerello b/n, cm 21x29,7

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Fuga da Hollywood Rubrica a cura di Carlotta Fiore Scatto di Matteo Varsi, Runaway

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Fughe. È questo il tema del 23esimo numero de La Luna Di Traverso. E fuggire è quello che fecero anche gli spettatori presenti nella sala di un cinematografo francese il 6 gennaio 1896, quando il cinema fece la sua prima scioccante apparizione. Almeno così narra la leggenda. In realtà L’Arrivée D’Un Train En Gare De La Ciotat non fu il primo cortometraggio proiettato, ma poco importa: fu il più memorabile. Lo schermo si riempì del treno in corsa, lanciato verso il piccolo manipolo di esseri umani, ignari di trovarsi sulla soglia della grande entrata nella storia. Mi piace immaginare di essere stata là, allora. Mi piace pensare a quale mano avrei stretto forte, a chi potesse essere seduto accanto a me. Mi piace immaginare il battito accelerato del cuore, allo stesso tempo affascinato e terrorizzato. Rapito. Sarei fuggita, insieme agli altri, convinta che il treno avrebbe continuato la propria corsa, destinata a spazzare via sedili e sigarette, nell’assurdo. Avrei urlato, forse, avrei giurato di essere scampata a un grave pericolo. Avrei ignorato che cosa il cinema fosse destinato a divenire, giurando che si trattava di un’invenzione senza futuro. Mi piace pensare che, da quel giorno, il cinema e la fuga abbiano il loro piccolo, segreto, inscindibile legame. Un legame che prende la forma di un percorso, attraverso grandi capolavori e più leggeri esempi di artistico intrattenimento. C’è il treno di Schindler, colmo di vita e di speranza, lanciato altrove, lontano dall’odio. C’è la fuga animata di Peter Pan, rubata alla letteratura, un desiderio di evasione tanto intenso da riuscire ad ingannare le leggi del tempo. Michel Gondry ci regala un altro tipo di fuga, nel suo Eternal Sunshine Of A Spotless Mind: la negazione dei propri ricordi, nel vano tentativo di ingannare un destino che si rivelerà ineluttabile. Più immediati e convenzionali sono gli esempi dei memorabili Papillon, La Caccia, Fuga Per La Vittoria, Thelma & Louise. Senza trascurare Il Fuggitivo Harrison Ford, alla ricerca della più improbabile verità, per demolire l’erroneo sospetto di una colpevolezza apparentemente certa. L’allontanamento dal pericolo, dalla prigionia, dall’orrore. Dalla parte più buia di noi stessi. Come nel caso del Tyler Durden di Fincher, emblema della fuga dalla nostra personalità più debole e fallibile. Aronofsky ci propone l’abbandono della banalità di una vita sbagliata nel suo The Wrestler, che parla la lingua dell’eroe. Un eroe imperfetto e umano che riesce a strappare le etichette imposte dal proprio presente, per raggiungere il ring della realizzazione più cruda, in una strana forma di pericolosa e fugace felicità. Il Cavaliere Oscuro di Nolan scappa per poter essere cacciato, perché, «è l’eroe che Gotham merita, non quello di cui ha bisogno.» Fughe può essere ricerca, riscatto, nella sua accezione più positiva. Il cinema ha esplorato ogni angolo di questo termine solo in apparenza privo di segreti, per arricchirci con immagini in cui sembra possibile incontrare le nostre stesse paure e le speranze. Scorgere il riflesso delle nostre potenzialità e credere di essere migliori, più coraggiosi, un passo meno imperfetti. Chissà che cosa hanno provato, quei pochi uomini, seduti davanti al treno, se mai sono esistiti. Chissà se per un istante hanno immaginato tutto quello che sarebbe arrivato dopo di loro. Chissà se hanno semplicemente chiuso gli occhi, perché quello che stavano guardando era troppo per poterlo davvero capire. O chissà se, anche loro, sono davvero semplicemente fuggiti. Come tutti, prima o poi. E senza nemmeno sapere da cosa.

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BIOGRAFIE PENNA Alessandro Busi è un tentativo di scrittore nato a Brescia nel 1984, poco prima della grande nevicata dell’inverno 1985. Ha concluso da poco i suoi studi da psicologo all’Università di Padova, scrive e lavora. Ha pubblicato racconti in alcune antologie di Giulio Perrone Editore come Vite sportive, Matrimoni scoppiati, Hai da accendere? e su riviste letterarie come “Paradiso degli orchi”, “Il foglio clandestino”, “Il primo amore” e “Rumori”. Il suo racconto Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto è arrivato secondo al concorso Parole Contro ed è presente nell’antologia uscita in seguito. Collabora inoltre con alcune webzine: “Indie-zone” e “Musicletter”. Ha aperto un blog: lagentestamale.wordpress.com Maria Cerino è nata a Salerno nel 1984. È pubblicista e collabora con la rivista europea Cafebabel.com. Tommaso Chimenti è cintura nera di parole sconnesse e guru shintoista delle virgole arcuate, imbratta fogli, ma non Riccardo, palleggia con le parentesi, fa capriole con le maiuscole. Laureato in Scienze Politiche, giornalista e critico teatrale per “Il Corriere di Firenze”, giurato per il Premio Ubu. Adora il sole e la Nutella, i marciapiedi sconnessi, i bambini in bicicletta, le giornate ventose, il miagolio estenuante dei gatti in amore. Ha vinto i concorsi: Io alla Feltrinelli, Firenze 2005; Subway, Milano 2006; terzo al Fragori di solstizio, Castiglioncello 2006; terzo al Castelfiorentino 2006; segnalato al Premio Boccardi, Massa Marittima 2006; secondo a Lama e Trama, Pordenone 2006; primo al concorso di haiku La volpe e l’uva, Roma 2006; secondo al Centorighe, Firenze 2007; vincitore del Premio Confidenze, Milano 2007; secondo al Premio Poesia e Racconti, Pavia 2007; vincitore dell’Eppur si stampa, Firenze 2007; terzo al Maremma Mistery, Grosseto, 2007; secondo Raccontare la Toscana, Firenze 2009. Pubblicato in numerose antologie – L’Arno raccontato e La ricetta raccontata, Polistampa; Tutti esplosi e Sotto la lente, Giulio Perrone; Primo Amore, Mondatori; Godeva di ottima salute, EdiGiò; Racconti frizzanti, Damster Edizioni – e varie riviste e quotidiani cartacei come “Cronaca Vera”, “Toilet”, “Fatece Largo”, “Beatiful Freaks”, “L’Informazione”, “Experience”, “La Repubblica” e sul web come “Sagarana”, “Orient Express”, “Thriller Magazine”, “Opifice”. Ma, alla fine, sono solo canzonette. Nel 2008 ha curato il volume Mare, Marmo, Memoria sull’attrice-autrice Elisabetta Salvatori (Edizioni Titivillus). Enrico Elvis Crotti è un informatico che ha scoperto da qualche anno che ci sono storie che meritano di essere raccontate. I suoi racconti più riusciti si possono leggere su alcune riviste e antologie. Abita a Sulbiate, in provincia di Milano e non possiede animali domestici.

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Carlotta Fiore ha 25 anni e vive a Parma. Non può rinunciare alla letteratura contemporanea e al cinema americano. A volte finge di fare l’attrice, infiltrandosi in piccole compagnie teatrali. Quando nessuno la vede scrive poesie e racconti brevi. Dice di aver trovato l’ispirazione per dare inizio alla stesura del suo primo romanzo. Paolo Fortunato è nato a Roma ed è laureato in Economia Aziendale. Scopre tardi di essere comunicativo e creativo ma inizia a scrivere, durante il viaggio dopo la laurea, su un piccolo diario di bordo condiviso da tutti i compagni. Dopo un’esperienza come responsabile commerciale di Taxi Channel, canale satellitare, è assistente autore e organizzatore della serata televisiva di gala del Primo Premio Nazionale Montesilvano Cinema del 2006 e con lo stesso gruppo di lavoro collabora anche all’evento “Anffas” La libertà di… nel 2007. Nello stesso anno inizia una collaborazione con la rivista di marketing e comunicazione, “7thfloor” ed è relatore al IV Convegno Annuale della Società Italiana di Marketing con la presentazione del volume Marketing e design. Il design italiano come fattore competitivo: il caso Covo. Nel Gennaio 2008, inizia un percorso personale di comunicazione, frequentando il laboratoriocorso di formazione, “La Persona e i Mass Media”, organizzato da Italia Solidale Onlus. Pietro Iannibelli ha 31 anni e vive a Parma. Predilige Andrea De Carlo, Dan Brown e gli Harmony.

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Patrizia Patelli ha 34 anni e vive a Verona da quasi sette. Nata a Torino, città che ha lasciato subito dopo la maturità, si è dedicata al teatro sperimentale lavorando con il Cust di Urbino con cui ha girato un po’ il mondo: San Pietroburgo e Avignone sono state le tappe più importanti. Ha studiato lettere moderne e discipline dello spettacolo all’università La Sapienza di Roma e si è diplomata alla Scuola Holden di Baricco a Torino e tra poco discuterà la sua tesi in Scienze della Comunicazione a Verona. Ha due bambini, Lorenzo e Benedetta, di sette e cinque anni. Scrive testi – manuali di ogni genere – con contratti a progetto per una casa editrice veronese. A giugno 2009 uscirà per la casa editrice Sironi il suo primo romanzo, Gli ultimi occhi di mia madre. Emanuele Ravasi è nato nel 1975 e ha frequentato scuole seguendo una sua vocazione informatica che lo ha portato a diventare web designer e programmatore, destreggiandosi tra passione e lavoro. Nonostante i suoi studi siano di carattere scientifico, la scrittura gli è rimasta sempre accanto e, incoraggiato da un amico, ha scritto alcuni racconti rimanendo invischiato nel fascino delle parole. Ha cominciato a partecipare a concorsi e non ha mai smesso di scrivere. Anni dopo si è iscritto ad un corso di scrittura e narrazione e ha compreso quanto potrebbe essere sia faticosa, sia appagante l’attività di scrittore. Grazie a quell’amico e al corso ha deciso di continuare a coltivare questa passione sperando, forse un giorno, di trasformarla in qualcosa di più serio. Gaia Rispoli è nata a Napoli nel 1983. Laureata in Economia aziendale, ha poi “cambiato strada” per diventare redattrice editoriale a Roma. Ha pubblicato racconti nell’antologia Fiocco Rosa edita da Fernandel, nell’antologia Racconti Diversi, in due cataloghi John Ross, in un’antologia edita da Graus & Boniello, nell’antologia Donne in cammino curata dall’Associazione Culturale Evaluna, e nell’antologia La città difficile, Edizioni L’Ippogrifo. Simone Rossi nasce a Forlì il 17 marzo 1982. Venticinque anni dopo va in Etiopia, e il suo viaggio diventa un libro: La luna è girata strana, Zandegù (2008). Laureato in semiotica a Bologna, è stato per un anno e mezzo il caporedattore delle pagine Cultura&Spettacoli in un (poco) noto quotidiano romagnolo. Poi ha smesso. Nel novembre 2008 ha partecipato a Esor-Dire, un contest per giovani scrittori organizzato dalla Scuola Holden di Torino, e ha vinto (www.scrittorincitta.it). Dal suo romanzo ha tratto un reading con musica dal vivo: lo spettacolo ha replicato una ventina di volte in giro per l’Italia, in contesti più o meno istituzionali: Festivaletteratura di Mantova, Festival della Piccola e Media Editoria di Roma, librerie, locali, circoli culturali, angoli di strada. Michele Rossini è nato a Fano nel 1974. Dopo essersi laureato in Chimica e aver girovagato un po’ di qua e un po’ di là, è tornato a vivere a Fano, dove si occupa di ambiente. Ha pubblicato racconti per diverse riviste, tra cui “Toilet”,“‘tina”, “Eleanore Rigby” e altre. Ha un gatto e aspetta un figlio che si chiamerà Andrea. Roberto Stradiotti, laureato in filosofia, è impiegato presso una azienda cartotecnica di Cremona, per necessità più che per passione; vive un minuto alla volta, senza progetti. Scrive da sempre, per rimediare all’onta di un benino meno meno preso nel primo pensierino delle elementari, che ancora gli brucia. Grazie ai notevoli sforzi profusi negli anni, sacrificando viaggi, affetti e relazioni sociali, pensa di avere rimediato. Benino.

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CAMERA Eleonora Di Mauro è nata a Catania 26 anni fa. Ha svolto studi classici ed è attualmente iscritta al corso di laurea in Giurisprudenza. La sua passione per il cinema l’ha portata a collaborare con diverse riviste specializzate di critica cinematografica; è stata membro della giuria per l’assegnazione del premio Leoncino D’Oro alla 58° Mostra internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. L’amore per la fotografia le appartiene fin da piccola. Una vecchia Canon manuale ha accompagnato i suoi primi scatti; oggi fotografa principalmente in digitale e ama moltissimo la fotografia naturalistica, ma in realtà non sa scegliere fra i generi: c’è qualcosa che non merita di essere impresso? Maura Ghiselli è nata a Genova nel 1981. Dopo la Maturità artistica si laurea in Arti Visive e Disci-

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pline dello Spettacolo presso l’Accademia Linguistica di Belle Arti di Genova e frequenta il Master in Visual Merchandising presso lo IED Moda Lab (Istituto Europeo di Design, Milano). Dopo aver partecipato, tra il 2001 e il 2004, a numerose installazioni e rassegne in collaborazione con spazi teatrali e l’Accademia di Belle Arti di Genova, inizia ad ampliare le sue attività artistiche. Nel 2004 partecipa con una mostra personale al progetto Music For Peace, nell’ambito dell’Exhibition Area della Fiera del Mare di Genova e finalizzato a raccogliere aiuti umanitari per le popolazioni di Iraq e Palestina, e al progetto De Fabula, realizzato in collaborazione con Biblioteca Berio e il Comune di Genova. Nel 2005 partecipa all’edizione genovese del Progetto Illegal Art, manifestazione indipendente col fine di promuovere e valorizzare la cultura e l’arte underground. Inoltre dal 2007 collabora con la Satura Gallery (Genova) con mansione di critico, addetta all’ufficio stampa, progettazione ed allestimento delle esposizioni d’arte contemporanea ed organizzazione di eventi culturali fra cui i più importanti sono: nel 2008 Volando con la Gazza Ladra, Festival della Letteratura del Crimine, Saturarte 2008, Genova e il Mare; nel 2009 Volando con la Gazza Ladra, Presenze personale di Francesca Ghizzardi. Cristina Mauri è nata nel 1986 a Lecco e vive a Bellagio, in provincia di Como. Si è diplomata al liceo linguistico “G.Bertacchi” di Lecco. Attualmente frequenta il terzo anno accademico di Graphic Design all’ISGMD, Istituto Superiore Grafica Moda Design, di Lecco. Da circa un anno e mezzo si è avvicinata alla fotografia, materia che studia all’accademia, e ha iniziato a sviluppare con entusiasmo questa passione che l’ha portata a partecipare a numerosi concorsi. Daniele Romano è nato a Brescia nel 1984 ma vive a Parma. Nel 2007 ha conseguito la laurea in Scienze della Comunicazione presso la facoltà di Lettere e Filosofia di Parma ma la sua attività artistica in ambito fotografico è attiva dal 2003. Ha partecipato a numerose mostre e collettive: nel 2005, nel 2006 e nel 2007 ha esposto al Tonic (Parma), al Rangon (Parma), al Pirù (Parma), e a La Table (Parma); nel 2004, nel 2005 e nel 2007 ha esposto a Remedello presso l’Associazione Giovanile Empatia Blu (Brescia); nel 2006 ha esposto a Stereomono (Parma) e nel 2007 a I 3 Porcellini (Parma), Chien Bizarre (Parma) e 051 Parma. Nel 2008 ha esposto le sue fotografie all’ArtBox in una mostra a cura dell’Archivio Giovani Artisti di Parma. Ha lavorato come fotografo nelle agenzie 0521 e 00.AM di Parma e per il quotidiano “Gazzetta di Parma”.

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Marta Santacatterina ha cominciato a fotografare l’11 agosto 1999, il giorno dell’eclissi solare. In montagna per vedere lo spettacolo un po’ più vicino alla stella, suo padre le ha messo in mano una Nikon FM2, e ha scattato un’immagine che rimane ancora tra le sue preferite. Da allora, lentamente e senza forzature, si è concentrata sul bianco e nero, sulle altissime sensibilità della pellicola, ha imparato a stampare in una camera oscura home made, ha capito quali sono i suoi interessi. Le Biennali di Venezia, ad esempio, con le opere che rappresentano il presente, le città in mutamento, come Berlino, le grandi architetture dell’oggi. Ha cominciato a non farsi scrupoli nel tagliare ciò che vedeva. È la sua percezione dello spazio quello che conta davvero, e non importa se le immagini non sono più riconoscibili. La linea, la geometria, la composizione, sono elementi che non hanno bisogno di essere identificati con maggior precisione. Cerca ancora di seguire le strade di una vecchia tecnica, perché le piace l’oggetto-fotografia, la sgranatura irregolare dell’argento ossidato, l’odore degli acidi e la consistenza della gelatina quando è ancora bagnata. E rimane fedele alla sua Nikon FM2, dove la batteria serve solo per l’esposimetro, tutto il resto è meccanica, rotelle che girano e lenti che si spostano. È la resistenza di una materia forte, che regge i trasporti nelle borse più improbabili, le cadute e le sue pretese. Valentina Scaletti è nata nel 1983 a Parma dove vive e lavora. Nel 2008 si diploma in scultura 110/110 all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Durante gli anni trascorsi all’Accademia, oltre alla modellazione della creta, si è avvicinata alla fotografia e alle tecniche di incisione e fonderia, ottenendo ottimi risultati. Nel 2001 partecipa alla collettiva di scultura, grafica e pittura Omaggio a Marzaroli Scultore presso le Serre Comunali di Salsomaggiore Terme (Parma). Nel 2001 e 2002 espone a due edizioni della Mostra Nazionale di Ceramica presso il centro Allende dell’Associazione Culturale Dante Alighieri (La Spezia). Dal 2004 collabora con la Galleria d’Arte Babele di Firenze. Sempre nel 2004 partecipa alla collettiva di scultura Visioni Plastiche al castello di Felino (Parma). Nel 2006 partecipa a un’esposizione di terrecotte e ceramiche nel parco di Villa Malenchini, a Carignano (Parma) e nel 2007 partecipa all’evento culturale Arte e Portici a Bologna e alla collettiva di fotografia, scultura, gra-

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fica, pittura con l’Associazione Culturale Veda-Visioni a Medesano (Parma). Sempre nello stesso anno, partecipa anche alla collettiva di scultura e fotografia presso il convento dei Cappuccini di Fontevivo (Parma), alla terza edizione della collettiva di scultura Terrecotte del Po a Mezzano Inferiore (Parma) e alla collettiva di scultura e pittura presso la Scuola di Arti e Mestieri F. Bertazzoni di Suzzara (Mantova). Nel 2008 partecipa alla collettiva di scultura Eventi scultorei cinque, presso le sale del Comune di Crespellano (Bologna), alla quarta edizione della collettiva di scultura Terrecotte del Po a Mezzano Inferiore (Parma). Nel 2009 partecipa alla collettiva di scultura, fotografia e pittura Alla ricerca del filo bianco presso Palazzo Giordani a Parma ed espone una personale Alice e My secret garden al Ground’s Art Gallery dell’Associazione Culturale 360° (Parma). Giulia Turchet è nata ad Aviano nel 1979. Nella sua città ha frequentato il liceo e a Padova l’università. Pordenone è la sua città di nascita, Padova è la sua città di elezione. Attualmente lavora presso una multinazionale tedesca. A Padova. Matteo Varsi nasce a Levanto, in Liguria, nel 1970. Fotografia e letteratura costituiscono la sinergia delle sue prime ricerche. Dal 1998 inizia a collaborare con “Boomerangmedia” e “Photonica”. Pubblica su “La Luna di Traverso”, rivista letterario-fotografica, ed è presente nell’antologia I lunatici (MUP, 2006). Su richiesta di Franco Fontana, l’immagine “Vertigo” (tratta da Itinera) viene acquisita presso il Museo di Fotografia Contemporanea di Modena. Nel 2003 vince una borsa di studio per accedere all’ultimo anno dell’IIF (Istituto Italiano di Fotografia) a Milano, dove si diploma l’anno successivo. Contemporaneamente approfondisce il suo interesse per la camera oscura e la stampa fine art presso il laboratorio CBS, sempre a Milano. La fotografia diventa il mezzo per raccontare, per dire, per affabulare. Predilige un approccio primitivo al mezzo fotografico, rifiutando manipolazioni di tipo digitale. Si avvale di strumenti molto rudimentali quali il foro stenopeico, la camera box e spesso sono gli oggetti di uso comune ad agevolare e caratterizzare le sue ricerche visive. Dal 2004 vive e lavora tra Milano e Levanto. Gian Guido Zurli è fotografo, editor video e grafico. Scrive e pubblica manuali di fotografia e informatica. Organizza corsi di Adobe Photoshop, Apple Aperture, Keynote e Mac OS X per professionisti ed amatori. Si è specializzato in ambito professionale nella fotografia di matrimoni e in filmati di carattere scientifico. Le fotografie Fine Art, specialmente in bianco e nero, sono principalmente ambientate in luoghi misteriosi. Gian Guido Zurli ha visitato centinaia di “luoghi infestati”, ritraendoli in fotografie molto particolari. Ha esposto i suoi lavori a Pesaro, Sabbioneta e New York. Vive e lavora a Parma. MATITA Ilaria Arpa è nata in un lontano e nevoso febbraio. Dimostra fin da piccolissima una spiccata indole artistica e i genitori, per evitare di farle imbrattare i muri di casa, svaligiano cartolerie e negozi di belle arti per rifornirla di album e blocchi da disegno (si calcola che un quarto delle foreste svedesi siano state abbattute per fare fronte alle esigenze della piccola artista). La strage silenziosa di carta, penne, inchiostri, pastelli e pennini da disegno continua alle superiori dove frequenta con successo l’Istituto d’Arte cittadino. Alla fine del regolare corso di studi, non sazia e non doma, si iscrive al Corso in Conservazione dei Beni Culturali, riuscendo a terminare anche questa immane missione in un numero ragionevole di anni (molti dei quali trascorsi lavorando come grafica pubblicitaria). Artista per vocazione come ama definirsi, scrittrice discontinua, grafica da studio, casalinga (spesso) disperata, ha intrapreso da poco oltre alla via tradizionale della pittura, quella della creazione digitale.

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Laura Bernardi è nata nel 1982 a Parma, dove vive e lavora. Nel 2005 si è diplomata in Illustrazione presso la Scuola del Fumetto di Milano. Ha partecipato a numerosi concorsi nazionali ed internazionali d’illustrazione per l’infanzia. È stata selezionata ai concorsi di Illustrissimi 2005 e Peer a colori 2006, in occasione dei quali le sue opere sono state esposte rispettivamente a Riccione e a Ischia. Nel 2006 le è stato attribuito un Award dall’Associazione Illustratori con relativa pubblicazione sul volume Illustratori Italiani Annual 2006. Nell’anno scolastico 2006/2007 ha tenuto un laboratorio di disegno presso una scuola elementare di Parma. Nel 2007 è stata selezionata al concorso indetto dall’Associazione Tapirulan di Piadena (CR) e una sua illustrazione è stata pubblicata sul Calendario

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Tapirulan 2008. Alcune delle sue immagini sono state pubblicate sul catalogo 2008 dell’Archivio Giovani Artisti di Parma. Emiliano Billai è nato il 28 agosto del 1977. All’età di undici anni partecipa al suo primo laboratorio di disegno, della durata di… una settimana? A dispetto delle tempistiche, gli piacque un sacco e da allora fino alla fine del liceo trascorse molto tempo a vagabondare per la provincia (Cagliari) parassitando estemporanee gare di pittura, corsi di pittura per anziani, per bambini, sedute di arte-terapia organizzate dal centro di igiene mentale del suo paese (Villacidro), raccattando tutto quel che di utile poteva raccattare. Sì, questa è la sua formazione: quindi niente diplomi artistici, accademie o roba varia; si definisce un illustratore dalla formazione opportunista d’una zanzara, con una maturità classica. Concorsi? Qualcuno: Humor Fest di Foligno, Martelive di Roma (2007). Pochi lavoretti da illustratore: due pannelli, sfondi scenografici per gli spettacoli teatrali dedicati ai bambini durante il premio letterario Giuseppe Dessì XXI edizione 2007, poi un set di illustrazioni vettoriali per una linea d’abbigliamento. Attualmente lavora come illustratore erotico (forse più porno che erotico, a dire il vero) per una piccola casa editrice di Cesena. Eh già, la vita! Bruna Chierici nasce a Genova e dopo varie esperienze lavorative nel campo della grafica pubblicitaria diventa disegnatrice specializzata presso l’Istituto Idrografico della Marina. Bruna, insieme a Anna Zampieri e Roberta Firpo, porta avanti, dai tempi della scuola e dei “cavalletti”, una bellissima amicizia “creativa” che le porta a partecipare a numerose attività nel campo dell’arte applicata e ad aprire una bottega artigiana denominata “Maga Robanella” dove decorano tessuti e oggetti di vetro. Nel tempo si appassionano anche all’illustrazione per l’infanzia che le porta a partecipare a numerose mostre e eventi d’arte. Fra le numerosissime attività ci sono: … Le donne amano ancora i sogni, mostra itinerante lungo le vetrine di Borgo Solaro a Varazze (2005); La Fiaba in gioco, mostra presso la Scuola Germanica di Genova (2006); In questo mondo di Fiabe, mostra allestita all’interno della biblioteca di Arenzano (2006); Tra poetico e fiabesco, mostra presso il Centro Civico “Buranello” (2007). Partecipano a numerosi concorsi nazionali, organizzano laboratori e progetti artistici presso scuole e enti e nel 2003 Bruna Chierici illustra Ghe divan Cenerentola, volume di Nino Durante, scritto in genovese e pubblicato per la Nuova Editrice Genovese. Federica De Ruvo è nata a Teramo nel 1981. Laureata in Decorazione presso l’Accademia delle Belle Arti di Bologna, è attualmente iscritta al Biennio specialistico di Illustrazione per l’Editoria. Ha partecipato al Premio Morandi, al Premio Samp e al Premio Arte e Scienza ed è stata selezionata per l’Arte Fiera di Reggio Emilia “Imagina 2009” e al concorso Haiku per l’Arte Fiera del Libro del 2009. Silvia Panzani è nata a Rovigo nel 1987. Dopo aver frequentato l’Istituto statale d’arte di Ferrara “Dosso Dossi” si è diplomata Maestra d’Arte nel 2007. Nel 2001-2002 ha pubblicato un suo lavoro sull’opuscolo Atleti e giochi nei vasi greci di Spina per conto del museo archeologico di Ferrara; nel 2005-2006 si è classificata al secondo posto al concorso per la rassegna culturale Variabile di Ferrara, città europea della disabilità, con il proprio lavoro stampato sulle cartoline promozionali. Nell’estate del 2008 partecipa al concorso Talento delle Donne, Occhiobello (RO) con riconoscimento finale e nell’autunno 2008 espone alcune sue opere nella mostra Un Po d’Autunno…, Occhiobello (RO). 36

Lucia Perugini è nata a Fano il 26 agosto 1980. Diplomata presso l’Istituto d’Arte di Fano in Decorazione pittorica, nel 1999 frequenta un corso bimestrale all’Istituto d’Arte di Urbino, diplomandosi così in disegno animato e illustrazione. Per altri 3 anni frequenta corsi privati; da allora non ha mai abbandonato questa passione e ha iniziato a partecipare a mostre e concorsi. Beatrice Poggio è nata a Genova e studia al Liceo Artistico Sperimentale “Paul Klee” della sua città. Si perfeziona alla Scuola Professionale di Fotografia “F:64” di Firenze e inizia a lavorare come fotografa di moda a Firenze, Milano e Parigi. Nel 1997 inizia la sua carriera artistica come pittrice, illustratrice e insegnante di arte e creatività in vari paesi europei (Irlanda, Gran Bretagna, Francia, Spagna). Dal 2002 vive ad Ibiza ed alterna periodi di vita sull’isola a viaggi all’estero per esporre e far circolare il suo lavoro. Il viaggio è un tema importante che influenza l’opera dell’artista: viaggio come contatto con nuove culture e come ricerca di ispirazione e viaggio emozionale, verso se stessa, per esplorare l’universo umano. L’opera di Beatrice Poggio parla direttamente al subcosciente, attraverso l’uso di simboli riconoscibili e di temi universali come la natura, il divino, il tempo, il femminile e il mondo

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onirico. Le tecniche utilizzate dall’artista sono varie: china, acrilico, collage, penna, si fondono per dar vita a immagini su diversi supporti come la carta, la tela, il legno e i mobili. Ettore Tomas è nato in provincia di Napoli nel 1979 e vive a Sasso Marconi. Dopo una maturità scientifica e una laurea presso l’Accademia di Belle Arti in Decorazione, è attualmente iscritto al biennio specialistico nell’indirizzo Grafica all’Accademia di Bologna. Dal 2003 partecipa a mostre, concorsi, progetti Mail art: mostra Indicativo Presente a cura dell’Associazione Artincanti presso Palazzo Albertini a Forlì (2007); mostra personale presso l’ex Convento di San Francesco a Bagnacavallo (2007); partecipazione alla mostra Libri mai mai visti organizzata dalla Biblioteca comunale di Sasso Marconi (2007); partecipazione alla mostra La collana bianca si colora in collaborazione con l’agenzia Einaudi di Forlì presso la Biblioteca Giovanni Ghigini Ricci a Conselice (2007, RA); selezionato e pubblicato nel catalogo al III Concorso Internazionale Ex Libris “Biblioteca di Bodio Lomnago” Opera e Melodramma, (2007, Varese); partecipazione e pubblicazione nel libro-catalogo, al progetto The screamer company (2007, Austin, Texas); partecipazione alla manifestazione Abstracta presso Filmstudio 80 a Roma (2007), selezionato al concorso internazionale ex libris Tauragei 500 presso Tauragé (2007, Lituania), partecipazione al progetto ART=START+ a cura di Ko De Jonge (2007, Middelburg, Olanda). Nell’ambito dei progetti Mail art, nel 2008 ha partecipato a: The mailartists’horse a cura del dr. Lutz Wohlrab (Berlino); MAILARTISSIMO a cura di Karin Weber (Dresda); Energy for You and Me a cura di Ebedhard Janke (Edizioni Janus Mail Art Catalogue 4); Mail Sound Art Project “1 minute Auto Hipnosis” a cura di Pedro Bericat (Mute Sound); MAILARTISSIMO 2007, comprensivo di catalogo, a cura di Svetlana Serebryakova presso The A.S. Popov Central Museum of Communications, Saint-Petersburg, I° Bienal Internacional del pequino formato, comprensiva di catalogo (Venezuela). Nel 2008 ha partecipato al concorso internazionale Exlibris Exhibition “50 years of Siuliai University Humanities Faculty”, Siauliu, Lituania e al relativo catalogo e all’intervento murale a Creativa 2008, a cura di Franco Piri Focardi, Rignano sull’Arno (FI).

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ITALIA CREATIVA sostegno e promozione della giovane creatività italiana in collaborazione con

e

realizzato da

edizioni

La rivista letteraria «La Luna di Traverso», edita dalla Casa editrice Monte Università Parma, condivisa e supportata dall’Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia, struttura dell’Assessorato al Benessere e alla Creatività Giovanile del Comune di Parma, bandisce un NUOVO CONCORSO PER NARRATORI, FOTOGRAFI e ILLUSTRATORI, numero facente parte di “BORN TO WRITE”. “BORN TO WRITE” è un programma inserito all’interno di ITALIA CREATIVA, progetto per il sostegno e la promozione della giovane creatività italiana a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Gioventù in collaborazione con l’ANCI Associazione Nazionale Comuni Italiani e il GAI Associazione per il Circuito dei Giovani Artisti italiani. Italia Creativa è rivolta a tutti gli artisti italiani attraverso un sistema di attività di network promosse sull’intero territorio nazionale da alcune città capofila. Scopo del progetto è proporre nuove attività in una prospettiva di sviluppo per il sostegno della creatività giovanile attraverso iniziative di formazione, documentazione, promozione e ricerca. Il programma, fondato su linee prioritarie di azione e settori d’intervento primari, affronta a tutto campo temi quali la produzione creativa, il rapporto tra creatività e mercato, la promozione del talento, la conoscenza, la crescita professionale, la creazione di infrastrutture. In questo percorso le azioni concrete già intraprese costituiscono il punto di partenza per indicare le prospettive di sviluppo. “BORN TO WRITE”, realizzato dall’Assessorato al Benessere e alla Creatività Giovanile del Comune di Parma e dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Firenze, in collaborazione con Monte Università Parma Editore, intende proporre delle opportunità di confronto fra giovani autori e affermati esperti nel settore della Letteratura, finalizzate alla crescita professionale delle giovani energie creative. Intende inoltre promuovere il lavoro dei giovani autori attraverso strumenti promozionali capaci di presentare le loro opere ad un vasto pubblico, nonché agli esperti di settore.

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Il Bando di concorso “BORN TO WRITE” è articolato in due distinte sezioni per giovani autori: Narrativa e Poesia. Il premio del concorso consiste nella pubblicazione delle opere degli autori selezionati in due antologie, BORN TO WRITE - Narrativa e BORN TO WRITE - Poesia, che saranno pubblicate nel 2010 dalla Casa Editrice Marcos y Marcos.

Per ulteriori informazioni e per scaricare il Bando di concorso “BORN TO WRITE” www.borntowrite.it

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REGOLAMENTO Art. 1 - TEMA DEL CONCORSO Il nostro nuovo tema è FOLLIA: follia vera o presunta, alienazione o eccesso di lucidità, maschera o gabbia. Libertà di dare voce alla parola, perché è la parola che rende l’uomo libero. Libertà verso i «passanti misteriosi dell’anima», come definiva Victor Hugo le parole, ben ricordando che «chi vive senza follie non è savio quanto crede.» (François de La Rochefoucauld) Art. 2 – REQUISITI PER LA PARTECIPAZIONE Il bando è rivolto a giovani autori operanti nei settori della narrativa in età compresa tra i 18 e i 35 anni residenti, domiciliati, studenti o lavoratori nel territorio nazionale. Si richiede materiale inedito in lingua italiana, che non sia stato premiato ad altri concorsi o già pubblicato anche parzialmente oppure presente in Internet. La partecipazione al bando è gratuita. Art. 3 - MODALITA’ DI PARTECIPAZIONE Opere narrative: si ammettono racconti originali ed inediti per una lunghezza massima di 5400 battute, spazi inclusi. Il materiale dovrà essere inviato via mail a giovani@comune.parma.it o tramite posta su cd rom. Opere fotografiche: si accettano opere originali e non pubblicate. Ogni autore dovrà presentare 5 fotografie in formato 10x15 in bianco e nero facendole pervenire su file, su negativo o su supporto magnetico (cd rom). Illustrazioni: si ammettono da un minimo di 3 a un massimo di 5 tavole in bianco e nero del formato massimo di un foglio A4 (21x29.7 cm). È preferibile scansionare ed inviare il materiale via mail o tramite posta su cd rom. Chi volesse, può comunque inviare le proprie opere per posta tradizionale, facendolo pervenire al seguente indirizzo: Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia c/o Palazzo Pigorini, via Repubblica, 29 – 43100 Parma. Per una maggiore valorizzazione, fruizione e aderenza agli intenti artistici e comunicativi di ogni fotografo o illustratore si richiede, ove lo stesso autore lo ritenga utile e necessario, di indicare il titolo della propria opera, le dimensioni e la tecnica utilizzata. Questi dati verranno indicati come didascalia di accompagnamento alle fotografie o illustrazioni che verranno scelte per la pubblicazione. Le opere di tutti i partecipanti dovranno essere accompagnate da una breve biografia dell’autore corredata dai dati personali (nome, cognome, indirizzo, recapiti telefonici, indirizzo e-mail). Farà fede il timbro postale. In relazione alla previsione che il materiale possa essere pubblicato, si richiede inoltre il consenso al trattamento dei dati personali ai sensi della legge 675/96 sulla privacy. Inoltre i candidati si faranno garanti dell’originalità dell’opera da loro presentata. Le decisioni della Commissione saranno inappellabili e il materiale non verrà restituito. Eventuali attestati di partecipazione al concorso saranno assegnati agli artisti che ne faranno richiesta solo qualora i loro lavori vengano selezionati. Art. 4 - CRITERI DI SELEZIONE e PREMIO Per la valutazione delle opere si terrà conto della qualità, dei percorsi di ricerca formale e dell’originalità dei testi e delle immagini. Il premio del concorso consiste nella pubblicazione dell’opera sulla rivista «La Luna di Traverso». Solo i vincitori saranno contattati dalla redazione e riceveranno al proprio domicilio due copie omaggio. Non si accettano racconti già editi o che hanno partecipato a bandi precedenti.

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Art. 5 - SCADENZA Le opere devono essere consegnate entro e non oltre le ore 12.00 del 20 luglio 2009. INFORMAZIONI Per ulteriori informazioni, rivolgersi al seguente numero di telefono: 0521-384469, oppure agli indirizzi di posta elettronica: giovani@comune.parma.it; redazione@lunaditraverso.it Orari di ufficio Archivio Giovani Artisti: dal lunedì al venerdì, dalle ore 8.00 alle 13.00; lunedì e giovedì anche dalle ore 15.00 alle 17.00. Siti web: www.comune.parma.it/iniziativeculturali; www.lalunaditraverso.it; www.parmacultura.it

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IN LIBRERIA

I LUNATICI 15 NUOVI SCRITTORI ITALIANI con una introduzione di Fulvio Panzeri

€ 15,00 A tutti coloro che con racconti, fotografie ed illustrazioni hanno partecipato alla realizzazione della rivista “La Luna di Traverso”, siamo lieti di proporre l’antologia al prezzo speciale di

€ 10,00

Più che un’antologia di autori esordienti, il luogo in cui incontrare gli autori da bestseller di domani. Dopo sei anni di attività della rivista di narrativa “La Luna di Traverso”, esce il libro che racchiude i suoi pezzi migliori. Da Gianluca Morozzi a Monica Pistolato, una quindicina di autori che oggi escono con libri di successo, propongono i loro primi testi che già mostravano quel talento esploso proprio sulle pagine della rivista. La Luna, nata nel 2001, celebra con questa uscita i suoi autori migliori, proponendone i racconti più piacevoli e succulenti alla scoperta del fare narrativa oggi in Italia. Risultato del fermento creativo che pervade la penisola dei giovani autori, il libro è soprattutto una lettura piacevole, pervasa da invenzioni originali e punti di vista mai scontati, alla riscoperta di una realtà di tutti i giorni in veloce evoluzione.

«“La Luna di Traverso” in questi anni è stata uno degli esempi più felici di uno spazio dedicato alla “nuova scrittura”, spazio gestito all’insegna dell’apertura e del confronto tra narrazioni diverse come segno stilistico e come autenticità delle storie. Con una novità sorprendente: la capacità dei giovani di autogestire un progetto, di sentirlo proprio e, in questo senso, vivo e vitale, come dimostrano I Lunatici». Fulvio Panzeri

FULVIO PANZERI ha collaborato con Vittorio Tondelli alla realizzazione di “Un weekend postmoderno” e ha curato la pubblicazione di tutte le sue opere postume, edite da Bompiani e l’opera completa in due volumi nei “Classici Bompiani”. Con Generoso Picone ha pubblicato il libro-intervista, Tondelli. Il mestiere di scrittore. Si è occupato attivamente della nuova narrativa italiana, con vari volumi di saggi, da I nuovi selvaggi (Guaraldi, 1995) a Altre storie (Marcos y Marcos, 1996) fino a Senza rete (PeQuod, 1999). Sta curando la ripubblicazione delle opere di Giovanni Testori nei Classici Bompiani e negli Oscar Mondadori e ha pubblicato da Longanesi, Vita di Testori (2003). Nel 2000 è uscita da Guanda la sua prima raccolta di poesie, L’occhio della trota.

PER INFORMAZIONI E PRENOTAZIONI MUP EDITORE - VICOLO AL LEON D’ORO, 6 - 43100 PARMA www.mupeditore.it - info@mupeditore.it - tel. 0521 386014 - fax. 0521 506588

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