NR.28 GAME OVER

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SOMMARIO La Luna di Traverso GAME OVER

Incipit d’autore Stramonio di Ugo Riccarelli L’acchito di Pietro Grossi

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Laboratorio di Narrazioni 2010 - Anno 10 n° 28 MUP Editore

Aspetto un bambino Testo di Roberto Stradiotti

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ISBN 978-88-7847-361-4

Chi Siamo

Chi mi dice ti amo, escluso il cane? Testo di Giorgia Bandini

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Discorso allo specchio Testo di Alessandro Milani

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Insert Coin Testo di Enrico Cantino

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ORGANIZZAZIONE E COORDINAMENTO Associazione Culturale “Lunatici”

Non mi avrete vivo Testo di Alfredo Goffredi

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REDAZIONE Silvia Bia, Enrico Cantino, Simona De Blasio, Carlotta Fiore, Roberta Gatti, Armando Minuz, Silvia Pelizzari, Federica Sassi, Andrea Tinterri, Denis Zuliani

60 Testo di Paolo Fortunato

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Benedetto da Sheeva Testo di Giorgio Pirazzini Rincasare Testo di Evelyn De Simone

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PROMOZIONE E DISTRIBUZIONE PDE - Promozione Distribuzione Editoriale

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LALUNADITRAVERSO 2010 - Anno 10 - Numero 28 Monte Università Parma Editore - Vicolo al Leon d’Oro, 6 43121 Parma

Quello che resta Testo di Fabio Pirola

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INFORMAZIONI Per collaborare alla rivista scrivi a: redazione@lalunaditraverso.it lalunaditraverso@gmail.com info@lunatici.net

L’attimo fuggente Testo di Raul Faraoni

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Il giudizio e il lavoro editoriale della redazione sono insindacabili e accettati implicitamente.

Game Over Testo di Michele Spagnolo

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DIRETTORE Massimo Carta

RELAZIONI ESTERNE Andrea Rabaglia REALIZZAZIONE GRAFICA Simone Pellicelli STAMPA La Stamperia - Parma

Gli autori pubblicati riceveranno due copie in omaggio. La Luna di Traverso è sostenuta dall'Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia dell'Assessorato al Benessere e alla Creatività Giovanile. Fotografia di copertina di Erjon Nazeraj, Senza titolo

RUBRICHE Formule magiche misteriose e segrete Testo di Giuseppe De Francisco

VICE DIRETTORE Federica Pasqualetti

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INTERVISTA La Luna di Traverso intervista: Antonella Cilento, scrittrice

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Biografie

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www.lalunaditraverso.it www.lunatici.net


Fotografia di Marco Losito, Ooops, I forgot my lasers at home...


realizzato da

Game Over è solo l’ultima, stimolante provocazione che arriva da “La Luna di Traverso”. Sembra quasi un modo originale e creativo per rilanciare una sfida. E non è forse un caso che questo tema così spiazzante arrivi proprio alla fine del 2010: una tappa senza dubbio speciale, che segna i dieci anni di questa rivista, capace di imporsi, allo stesso tempo, come cantiere di idee, piazza virtuale, proficuo punto di incontro e di confronto tra autori, linguaggi, tecniche espressive differenti e complementari. Insomma, quest’anno che si conclude segna il raggiungimento di un traguardo che vuole diventare un nuovo inizio. Ed ecco allora che il Game Over di questo primo ciclo, segnato dai tanti successi di una missione brillantemente compiuta, non sarà altro che la porta aperta sul futuro. Un futuro che sarà colorato dalle tinte forti di un’altra importante fase di vitalità creativa. Agli amici de “La Luna di Traverso”, dunque, il compito di stupirci ancora, di regalarci nuove idee e di farci vivere nuove emozioni. Noi, come sempre, saremo al loro fianco. Intanto li ringraziamo di cuore. Lorenzo Lasagna Assessore al Benessere e alla Creatività Giovanile

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Editoriale

Il tema di questo numero della Luna di Traverso è Game Over. Poteva apparire difficile, lo sappiamo. Poteva sembrare riduttivo, sia per i narratori sia per i fotografi ed illustratori, e poteva essere un ostacolo a chi necessita di temi ariosi, “larghi”, non opprimenti. Siamo forse stati un po’ sadici, noi Lunatici, a presentarvelo e a chiedervi cosa avevate da raccontarci. Perché è una scritta, Game Over, che abbiamo letto centinaia di volte e che continuiamo a leggere, sia con questo preciso significante sia con espressioni diverse, ma che non è facile da raccontare. Una scritta che, però, è forse anche presente nei nostri giorni più spesso di quel che pensiamo, e che la mente ci ripete ogni qual volta ci troviamo di fronte a una fine. Poco importa che sia la fine di un gioco, di una vita, di una storia d’amore, di un progetto, di un lavoro, di un libro. Riecheggia con la sua prepotenza e il suo ronzio. Eppure. Eppure le fini, perdonate la retorica da quattro spicci, coincidono quasi sempre con l’inizio di qualcosa d’altro; lasciano carta bianca a nuove esperienze, a nuove pagine, reali e metaforiche. È forse anche per questo che siamo felici sia un tema capitato proprio ora, alla fine di questo anno, il decimo dall’uscita del primo numero de La Luna di Traverso. Vorremmo che fosse una svolta, per noi e per voi. Una nuova spinta, un nuovo stimolo; che non faccia dimenticare tutto quello che c’è stato prima, ma che anzi faccia tesoro del passato e, arricchendosi di quel tesoro, ne crei uno nuovo, diverso; se possibile migliore. Noi de “La Luna di Traverso” il nostro passo lo abbiamo fatto, fondando un’associazione culturale senza scopo di lucro, Lunatici, che oltre a realizzare una rivista possa essere stanza, dimora, parafulmine di attività letterarie e, per parlare ad ampio spettro “artistiche”; che ci riunisca e vi riunisca, e che abbia, come sottofondo, le parole e le immagini. Un laboratorio volto a favorire la cultura e ogni espressione creativa; che possa promuovere eventi, come corsi di scrittura creativa e bookcrossing e che possa sostenere e aiutare giovani aspiranti scrittori tramite servizi editoriali come l’editing e la correzione di bozze, la creazione di e-book e attività di traduzione. Il 2010 si chiude con Game Over. Il 2011 nasce con tante novità e tanto entusiasmo, da parte nostra. Di leggervi, di guardarvi, di ascoltare la vostra voce e origliare nelle serrature delle vostre case. Nasce con un nuovo bando, Origini, che non ha bisogno di spiegazioni. E allora, inserite una moneta, e buona lettura.

Illustrazione di Ettore Tomas, Senza titolo, disegno con elaborazione digitale, 2010

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Incipit d'autore In ogni caso, ora so dove andare. Ascoltate ancora un momento: scendo da qui, con la mia volontà e con la speranza, ma con cautela, senza cadere. Passo a prendere Nova, assieme partiamo e andiamo dall’unica persona che sono sicuro abbia voglia di ascoltare. Non sarà difficile, conosco il nome del posto e inoltre lo voglio assolutamente fare, e quando sarò arrivato entrerò a cercare in fondo al locale il suo tavolo dove so di trovarlo seduto. Allungherò la mia mano come si fa tra uomini e gli dirò: «Buongiorno signore, io mi chiamo Stramonio, e ho raccolto la sporcizia del mondo. Se lei permette ho una storia che le vorrei narrare» e il signor Hrabal, da dietro a una birra mi stringerà forte la mano piegandosi leggermente in avanti e dirà: «Prego, si sieda, prenda da bere e cominci, ma faccia con calma, perché ci vuole tempo per raccontare». Allora, seduto su quella sedia, sorriderò candidamente e forse non ricorderò più il bruciore di tutti gli abbandoni e la fatica di essere uno sputo, non sentirò più gli scarichi della gente precipitare sulla mia piccola testa dall’alto delle case e non vedrò più salire verso il cielo il fumo nero del torracchione. Non avrò più i piedi piantati sulla spazzatura del mondo, ma allungherò le gambe sotto il tavolo e così potrò finalmente piangere in pace, felice davanti a una birra come solo gli uomini sanno fare, perché ormai sarò seduto su una sedia nel cuore del Paradiso terrestre. Ugo Riccarelli, Stramonio, Casale Monferrato (AL), Edizioni Piemme, 2000, pagg. 186-187.

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La palla se ne partì morbida come un pezzo di pane verso la sponda opposta, sfiorò appena l’altra alla sua destra e prima di fermarsi a tre dita dal castello mandò la palla avversaria dritta contro il birillo rosso, che si appoggiò sul panno come per caso. «Vabbè, Cirì» disse Dino mentre dava una passata alla sua stecca con il panno azzurro e la rimetteva nella bacheca alle sue spalle. «Mi sa che me ne vado verso casa.» «Di già?» domandò Cirillo mentre con due dita tirava su i birilli e rimetteva le palle in posizione. «Sì, stasera mi sa che non è serata.» «Perché non vinci?» «Non fare lo stronzo, Cirì.» Cirillo abbozzò un sorriso e osservò Dino infilarsi nel suo vecchio giacchetto di pelle marroncina tutto liso che gli aveva sempre visto indosso. «Non è mai una buona idea tornare a casa prima del solito» disse Cirillo. «Lo so» disse Dino mentre si avviava di spalle verso il .fondo della sala e alzava una mano per salutare. Mentre passava due ragazzetti al penultimo tavolo abbassarono appena il mento per salutarlo, e quando Dino mise il piede sul primo gradino della scala si avvicinarono l’uno all’altro per bisbigliarsi qualcosa. Pietro Grossi, L’acchito, Palermo, Sellerio, 2007, pag. 13.


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Fotografia di Imma Grimaldi, Razorwire, fotocamera digitale


Aspetto un bambino Testo di Roberto Stradiotti Fotografia di Maura Ghiselli, Game Over

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La “Porco mondo S.r.l.” aveva chiuso i battenti e d’altra parte ne avevo abbastanza di giustiziare maiali con una pistolettata in testa, come nei film di guerra. Il mondo stava diventando vegetariano, tutti avevano paura dell’influenza suina e alla fine era giusto così. Però ero rimasto a piedi e questo non aiutava il mio rapporto con Ella. Ultimamente ci parlavamo poco: sì, no, forse. Tornavo dal bar, la vidi alla fermata dell’autobus. Mi sorrise come avrebbe fatto a un pettirosso. «Aspetto un bambino», mi disse. Dentro di me reagii in modo strano, un po’ come quando mi avevano comunicato che mio padre era morto. Rimasi in silenzio e aspettai che continuasse. D’altra parte non avrei saputo cosa dire. «Da questa mattina. Mi ha telefonato Anna e mi ha detto se mi andava di fare la baby sitter di suo figlio. Lo vengo a prendere alla fermata, lo porto a casa mia, gli do da mangiare e gli faccio fare i compiti». Disse “casa mia” e questo mi ferì, come se quella mattina fossi uscito per non rientrare più. «Non sei contento che racimoliamo qualche soldo?», disse. «Contentissimo. Davvero. Solo che io non ho ancora trovato nulla.» «Non farne un dramma. Passerà. Oh, eccolo che arriva.» L’autobus sporco e puzzolente si fermò con un fischio di freni, e tutti i bambini si rovesciarono in avanti con le bocche spalancate dalla sorpresa, ma senza un rumore, perché si sentiva solo il rantolo del diesel. Si aprì lo sportello e scese un formicaio di marmocchi che squarciavano l’aria, le uova di rondine, le linee telefoniche. Un mostriciattolo robusto con i capelli lucidi come una scodella di pece si avvicinò a noi e rimase fermo in piedi senza dire nulla. Ella gli tese la mano e gli sorrise. «Tutto bene?» «Lui sta con te?», chiese. «In un certo senso.» «L’hanno bocciato?» Ella scoppiò a ridere e solo per quello tornai ad amarla. «Sta da me.» «Ti paga l’affitto?.» «In un certo senso.» «Ce l’ha il certificato antimafia?» «Senti, piccolo sgorbio», lo interruppi, «ti sembra il modo di parlare?» Lo sgorbio chinò il capo, non rispose, tirò Ella per la veste. «Oggi ho molti compiti.» Ella mi rimproverò con lo sguardo. Allargai le braccia.


Tornai a cercare lavoro nel pomeriggio. Avevo mangiato un boccone alla tavola calda, poi ero stato da mia madre. Mia madre non mi contraddiceva mai. Fin da piccolo mi aveva incoraggiato a seguire la mia strada e le mie idee. Strappai un paio di margherite cresciute contro il muro e le depositai sulla tomba. «Ce la farò», le dissi. Portai la domanda di lavoro in un paio di catene della grande distribuzione e mi fecero compilare dei moduli qui e qui e mi fecero delle domande strane per capire se avevo dei problemi di psiche. La luce del giorno mi portava ansia? E quella notturna? Amavo parlare? Il contatto verbale? Quello fisico? Mi masturbavo? Qualcuno che ci era passato prima di me mi spiegò che volevano sapere il livello di attrazione erotica che i clienti potevano esercitare sui candidati. Mi chiesero se desideravo avere figli, se mi sarebbe piaciuto abbracciare le religioni orientali, che effetto mi faceva guardare il sole dritto nella palla, se a tavola avevo l’abitudine di percuotere i bicchieri con le posate. Tutte domande difficili. Ogni volta che rientravo, Ella mi guardava senza parlare e io emettevo il mio bollettino: «Un paio di promesse, devo tornare per un altro colloquio.» A volte era vero, a volte no. Il fatto è che passavo la maggior parte del mio tempo nei bar, per non dover rincasare con la luce del sole, umiliato, con quel moccioso che mi guardava sempre con insistenza senza rivolgermi la parola. D’altro canto anche Ella non mi parlava molto di sé. Sedevamo a tavola con il collo teso, come in ascolto di rumori lontani o dimenticati, limitandoci a dire mi passi il sale mi passi il pane, e ci muovevamo con lentezza, come se anche uno spostamento d’aria potesse destabilizzarci. Il tempo e le stagioni erano divenuti gli argomenti caldi. Alla fine trovai lavoro come commesso nel negozio di ferramenta sotto casa. Non sapevo distinguere una brugola da un cacciavite, ma avevo il vantaggio di costare poco. Il principale, un tipo gonfio che rimbalzava contro gli spigoli del bancone come una palla da biliardo, si fregava continuamente le mani, anche quando sbagliavo o non capivo. «Bene, bene», diceva. «Lavoro già da una settimana», dissi quel sabato ad Ella, tutto contento. Si torturava le dita. Le torceva, le strizzava. «Aspetto un bambino», disse. «Non che un futuro da baby sitter sia il massimo… però, vedi? Le voci girano, tu sei brava a tenere i bambini, no? Chi è il moccioso in questione? Un altro diavolo come Luca?» «Si chiama Lorenzo.» «Lorenzo o Luca, tutti uguali.» «Sono incinta.» Immaginai un paio di stereotipi. Io che cambiavo il pannolino, io che accompagnavo a scuola il ranocchio, io che lo rimproveravo o lo facevo giocare. Io che lo portavo allo stadio solo per non essere diverso dagli altri padri. «Non sei tu il padre», aggiunse. Aprii i cassetti dell’armadio, tirai fuori le mie robe. Mi aveva seguito fino in camera, era rimasta appoggiata con una spalla allo stipite della porta, con le braccia incrociate. «Puoi rimanere un po’, se vuoi, intanto che cerchi una stanza.» Infilai i vestiti a palla dentro la borsa. «Non importa, vado da mia sorella.» Scesi lento le scale. Avevo preso tutto? Il ferramenta, sulla porta del negozio, si carezzava la pancia. «Mi raccomando lunedì», disse, «non tardare di nuovo.» «Non dubiti, non succederà.» Si fregò le mani. «Bene, bene.»

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Chi mi dice ti amo, escluso il cane? Testo di Giorgia Bandini Fotografia di Francesca Parenti Brambilla, Senza titolo

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Vidi il mio cane al guinzaglio di uno sconosciuto. Una mattina come tante sulla via del lavoro. Le case e le persone che ci passano accanto. Dappertutto una nostalgia ed una fretta sconsiderata. I volti per la strada non hanno alcun bordo. L’animale annusa meticolosamente i muri, gli alberi, le persone. Dapprima mi colpisce l’incredibile somiglianza, poi, in uno sbadiglio, lo stupore scompare. Continuo a camminare fra quell’immensa rete di pensieri che si intreccia tra noi, il letto e l’ufficio. Spingo i miei passi vuoti, un passo lungo e uno corto. La strada davanti a me. La prima luce in fondo alla strada tremola. Conta l’andare e io vado sempre più rapidamente. Vivevo di pensieri di fuga. Volevo saltare i fossi e rincorrere i campi finché la terra non fosse diventata straniera. All’arrivo delle mie scarpe i topi tra l’erba sarebbero scappati. Avevo camminato su quella via accanto a quel cane tutte le mattine. E una sera avevo acceso una sigaretta, tra di noi, in modo da non dover sentire tra le mani, al ritorno, che stavo rientrando a casa da solo. L’animale alza le orecchie, scodinzola freneticamente, si agita, guaisce, tira con forza il guinzaglio: sembra proprio il mio cane. Ecco, siamo di fronte. Sono un funambolo su un unico sottile pensiero: sembra indubbiamente il mio cane. Spingo i miei passi vuoti, un passo lungo e uno corto. Il filo teso davanti a me. Il respiro si fa corto. Nelle orecchie il battito del mio cuore. All’arrivo delle mie scarpe il filo si piega. Vertiginosa prospettiva: nessuna certezza. I volti laggiù non hanno alcun bordo. Il mio numero, seppur pericoloso, nessuno lo vede e la rete dei miei pensieri non è una buona protezione. Solo il cane mi riconosce. Desideravo vedere un volto. Desideravo che l’amore fosse una guancia o una fronte. Ma dimenticavo che quel volto non lo potevo più accarezzare, che a me non era più concesso. Generosa illusione: lei alla finestra di camera nostra. Lei trasparente e la pioggia della città nei suoi occhi. C’era ordine nei suoi pensieri. Voglio abitare il cielo e coltivare il campo, aveva scritto nel suo diario. Mi salta addosso e mi imbratta come al solito i pantaloni. La gioia dell’animale e dell’uomo: mi sento per un istante bambino. Felice gli tengo la testa tra le mani umide di saliva, le passo tra il pelo. Poi, accertandomi della mia salute mentale, un controllo fugace alla medaglietta. Ti consiglio un filtro senza erbe, né veleni: se vuoi essere amato, ama. Lo diceva mia nonna. Lei amava i rimedi della nonna. Mitigava con l’olio le vampate della testa. Soffriva di tremende emicranie tutti i giorni. Le cercava nelle mie scarpe sporche, nel disordine in bagno e nelle camicie stropicciate. Nella luce che entrava dalla finestra il turbinio del pulviscolo. La polvere che giaceva sul tavolo era un campo grigio di cenere ed ombra. Ma quel campo non si poteva coltivare. Quella stanza non si poteva abitare. Anche il nostro cane le procurava tremendi capogiri con i suoi peli sul divano. Eravamo complici. Ma lui sapeva bene quale belva sonnecchiasse nel cuore della sua padrona. Lo sconosciuto incredulo si scusa per il comportamento dell’animale. Si scusa e respira tra i denti. Vedo un uomo uguale a me, in giacca e camicia: di lei le guance di carne sul suo volto rasato e di lei le mani bianchissime e sottili nel nodo della cravatta. Lo guardo velocemente negli occhi: «Vedo che alla mattina anche a te fa portare a spasso il cane». E a lui, che non capisce, aggiungo semplicemente: «Sono il marito di Maria». Ultima carezza: me ne vado, sconfitto. Le mie scarpe sporche sul filo teso. Il funambolo trema nel cuore e nelle ginocchia, traballa su un’unica idea: «Quella troia ha trovato di meglio da fare nel suo “periodo di riflessione”». Poi cade. Il numero è finito.


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osrocsiDDiscorso ollaallo oihccepsspecchio Testo di Alessandro Milani Illustrazione di Valentina Scaletti, November, disegno con elaborazione digitale

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Ero con Chiara e la bambina a una di quelle cene che si fanno prima di Natale quando mi spiegarono che il dolce viene prima della frutta. Non ricordo chi fece la domanda su cosa fosse realmente scritto nel galateo, ma tutti gli invitati si diedero da fare con le loro opinioni. Il padrone di casa, fratello maggiore di Chiara e zio della bambina, uscì dalla stanza mentre la discussione stava continuando. Tornò quando l’argomento era ormai cambiato, tenendo tra le mani il Galateo a tavola (illustrato), che sfogliò di un paio di pagine prima di avere l’attenzione di tutti e scandire l’ordine esatto: dolce, frutta, caffè. Qualcuno disse due parole in proposito, credo per non dargli l’impressione di essersi fatto un giro a vuoto per una domanda che salta fuori quando a tavola non si ha più niente da dire. Appena il Galateo a tavola (illustrato) uscì dal salotto, ricominciai ad ascoltare frammenti del dialogo tra Chiara e una sua ex collega d’ufficio, annuendo con qualche uhm e ogni tanto aggiungendo parole che si spegnevano poco prima di arrivare a loro due. La bambina era seduta tra Chiara e me, intenta a schiacciare delle briciole di pane con le unghie. «Ti stai annoiando?», le chiesi. «No», disse la bambina. «Sei sicura?», dissi piegando per la centesima volta il bordo del mio tovagliolo. «Beh, adesso dovrebbe arrivare la torta.» Chiara aveva ventitré anni e studiava biologia all’università quando restò incinta. Si sposò subito. Ora la bambina era in prima elementare e Chiara e suo padre avevano divorziato due anni prima. Dalla cucina portarono il dolce e vidi le persone rianimarsi per un istante, come risvegliati da un sottile torpore, e lo presi come un segno che la cena non sarebbe finita tanto presto. Con il pensiero tornai a qualche giorno prima, quando avevo scoperto che non funziona preparare un discorso allo specchio. Mi ci ero messo davanti cercando le parole per lasciare Chiara, e mi vedevo sempre con la faccia sbagliata per quello che volevo dire. Allora abbassavo lo sguardo e pensavo a delle frasi, durando forse dieci secondi e poi girando impaziente per il bagno per tornare subito dopo allo specchio. Ripetevo a me stesso che dovevo farlo, con la parola “dovevo” che risuonava come un pallone che rimbalza giù da una scala. Essere sinceri, pensai, è la cosa giusta da fare. Mi guardavo trovandomi con le ciglia corrugate in modo minaccioso e le mani che mi sembrava gesticolassero più del necessario. Essere sinceri: io volevo spiegare a Chiara che non sentivo qualcosa di speciale per lei e che non aveva senso continuare a fingere. E insieme a “dovevo” sentivo rotolare giù dalla scala anche la parola “speciale”, e fantasticavo sul giorno in cui mi sarei chiarito le idee alzandomi in piedi in un vagone affollato di pendolari e chiedendo qualcosa come: «Sentite, avete mai pensato che siete soltanto voi a vedere la vostra donna come qualcosa di speciale, perché un istinto profondo dà al vostro cervello una scossa elettrica che assomiglia alla fame o alla paura?» Poi, una volta che avessi detto a Chiara che tra noi era finita, lei mi avrebbe fatto la domanda: «E la bambina cosa penserà?». A questo chiodo venivo appeso ogni tanto e su di me aveva lo stesso effetto di un richiamo a ultrasuoni su un pastore tedesco. Ubbidivo e seguivo le istruzioni. Col tempo avrei imparato a comportarmi da padre, mi diceva Chiara, e il suo istinto femminile probabilmente si rifiutava di prendere atto che non me ne fregava un cazzo di ricoprire un ruolo del genere e di pagare il mutuo per un nido d’amore che contenesse due persone che tirano avanti insieme perché convinte che da sole è peggio.


Finito il dolce, finita la frutta, bevuto il caffè e l’amaro, sperai che fosse arrivata l’ora di tornare a casa. La bambina aveva smesso da un pezzo di schiacciare le briciole sul tavolo. «La bambina è stanca», dissi a Chiara. Dal fondo della sala il padrone di casa disse ancora una battuta sul galateo e in quel momento mi domandai se ci fosse qualcosa del genere anche per lasciare Chiara, una serie di regole da seguire sapendo che stai facendo la cosa giusta, perché davanti allo specchio, nel bagno del mio appartamento, non riuscii mai a concludere il discorso. Restai molto tempo con le mai appoggiate al lavandino e ogni tanto tiravo l’acqua e ascoltavo il getto scontrarsi contro le pareti in ceramica. Mi spiaceva per la bambina, ma sapevo che non sarei durato con loro molto tempo. Se restavo, un giorno sarei sparito all’improvviso, come nelle storie di quelli che escono soltanto per prendere le sigarette, stando poi chiuso in una camera d’albergo a guardare la mia foto alla televisione, in un telegiornale oppure a Chi l’ha visto?. «Salutiamo tutti», disse Chiara prendendo per mano la bambina. La girandola dei saluti arrivò a una grossa signora sui settant’anni, che baciò la bambina lasciandole il segno rosso sulle guance. «Sei così stanca», disse la signora alla bambina, «ma sei troppo grande per farti prendere in braccio da papà.» «Non sono suo padre», ammisi io, ma nessuno sembrò sentire. Lo dissi talmente piano. Dopo la Befana avrei lasciato Chiara. Aspettavo per non rovinare alla bambina le feste natalizie.

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Insert coin Testo di Enrico Cantino Fotografia di Ugo Baldassarre, Senza titolo (modella Simona di Magro)

«Vi prendete gioco di me?» «Tutto è gioco.» Gabriele d’Annunzio Luglio. Con l’afa ci si squaglia. Si dissolverà, lo sente. Di lui rimarrà appena un alone rosa sulla moquette di casa. A ricordare l’uomo che era e non sarà più. Mai più. Boccheggia per casa in mutande. Sembra un’anima del Purgatorio in cerca di qualcosa da fare. La pelle emana un luccichio oleoso. Se non fosse per la pancia da donna all’ottavo mese di gravidanza, potrebbero anche scambiarlo per uno dei Bronzi di Riace. Nonostante la somiglianza sia molto più che vaga. Mancano dieci minuti. Non di più. Sta cercando in tutti i modi di arginare la copiosa traspirazione. Se ci pensa, è peggio. Ha aperto tutte le finestre che poteva aprire. Ha anche pensato di ricavarne altre dalle pareti che ne sono prive. Per poter aprire pure quelle. Ma c’è caldo lo stesso. 14

Meno cinque. Fra poco si ride. Gli serve un diversivo. Uno qualunque. Per distrarre la mente e, di conseguenza, il corpo. Ingurgitare ettolitri di tè freddo (gusto limone, perché quello alla pesca non gli piace), è inutile. Gonfia lo stomaco. Favorisce la diuresi. Incrementa le gocce di sudore. Un passatempo, ecco. Ma quale? Decide di passarli in rassegna. Niente libri. Non ne ha mai aperto uno. Li compra per far vedere che li ha. Roba impegnata. Difficile. Che tiene svegli la notte. Mentre lui vuole dormire. Niente musica. Lo stereo si è rotto qualche settimana fa. Non ha voglia di portarlo dal tecnico. Gli secca. Niente Internet. Ha navigato ovunque. La Rete non ha più nulla da dirgli (o dargli). E poi, le chat lo


annoiano. Discutere a distanza con finti uomini, finte donne, finte troie, lo porta poco lontano. Forse la tv. È tardi, ma quello che piace a lui di solito lo danno proprio a quest’ora. Va in salotto. Prende il telecomando. Accende la televisione. Meno due. Adesso viene il bello. Il suo apparecchio prende novanta canali. Uno più, uno meno. Ottanta li ha già scartati: schermi neri; palinsesti in elaborazione; lezioni di fisica nucleare; vendite telefoniche; linee erotiche; spogliarelli struggenti; voci sensuali (loro malgrado). Carestia televisiva, insomma. Resta da verificare una decina di frequenze. Le dita sono quasi rassegnate. Tentano ugualmente. Magari salta fuori qualcosa di decente… Un film di fantascienza. Sembra iniziato da poco. È ancora presto per poter operare una distinzione fra buoni e cattivi. Astronavi d’ogni forma e grandezza riempiono lo schermo, scontrandosi negli spazi siderali. Raggi multicolori intrecciano ragnatele luminose (e mancano clamorosamente i rispettivi bersagli…). Sì. Può andare. Mezzanotte. Salta la luce. Proprio quando la vicenda cominciava a farsi un minimo interessante. Sempre così. Qualcuno bussa alla porta. Non fa nemmeno in tempo a dire «Chi è?» L’ingresso si spalanca violentemente. Una forza misteriosa lo risucchia, proiettandolo nel buio. Sviene. Un ambiente grigio. Senza spessore, né profondità. Davanti a lui, quattro porte. Viola. Marrone. Bianco. Arancione. Immagina di doverne scegliere una. Se non vuole restare lì… Si affida all’istinto. Apre quella bianca. Entra in una stanza completamente buia. Cerca l’interruttore della luce, perché sa che deve esserci. Lo trova. Lo preme. Si trova nel suo bagno. Sapevano sarebbe stato divertente. Ma non così tanto. Torna davanti alla tv. Magari fa in tempo a vedere il finale. Accende. Non riconosce il film. Forse è quello di prima. Forse no. Non ha il tempo di appurarlo. Bussano di nuovo. La porta si (ri)apre. Con minore violenza. Viene (ri)preso e (ri)scaraventato nel vuoto. (Ri)sviene. Le porte sono sempre quattro. I colori sono gli stessi. Immagina di doverne scegliere un’altra. Apre quella viola. Ancora una stanza buia. Cerca l’interruttore della luce. Quando lo trova, esita. Ha paura. Chiude gli occhi. Preme. Socchiude lentamente le palpebre. La cucina. Non suda più.

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Il termometro segna trentaquattro gradi, ma è una pura coincidenza. Si aggrappa con forza all’idea di non avere digerito la cena. In fondo, i peperoni sono pesanti. Anche indigesti, a volte… Rumori alla porta. Sta per succedere un’altra volta. Prova ad opporre resistenza, afferrando tutto quello che sembra offrire una minima garanzia d’appiglio. Mobili. Tende. Qualunque cosa. Inutilmente. Viene risucchiato per la terza volta. Le sue bestemmie si perdono nel vuoto. L’ambiente è piccolo, quasi angusto. In fondo non serve molto spazio. Quello che c’è, basta e avanza. L’illuminazione è garantita da un cubo luminoso, sistemato proprio al centro. Intorno a esso, quattro sedili, uno per faccia. E altrettante creature, una per ciascun sedile. Commentano l’immagine sul monitor con parole (ovviamente aliene) dense di rammarico. «Sarai contento, adesso. L’abbiamo perso.» «Mi spiace…» «È già il quarto, questa settimana.» «Ce ne serve un altro.» Uno di loro inserisce qualcosa che sembra una moneta in una cosa che sembra una fessura. Dove sono? Questo non è il mondo che conoscevo. Non mi sembra, ecco. Non riconosco nulla… Magari è solo un incubo. Magari mi sveglio. Ci provo. Adesso chiudo gli occhi. Mi concentro. E ripeto a me stesso che devo svegliarmi. Al tre. Uno. Due. Tre. Cazzo. Sono ancora qui.

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Non mi avrete vivo Testo di Alfredo Goffredi Fotografia di Marco Losito, You lose!

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Alla veneranda età di quasi trent’anni ho visto cose che la maggior parte degli umani non può nemmeno immaginare. Non le può immaginare perché sono custodite da copertine di cartone che mai si azzarderebbero ad aprire, o tra le pieghe di un file eseguibile che si sentono troppo maturi per avviare. Momenti che vivono di vita propria tra un’uscita mensile e l’altra, tra un salvataggio e l’avvio successivo, tra il momento in cui un dado impatta su un tavolo e quello in cui, fermo, costruisce una porzione di realtà che non mi sentirei di definire inesistente solo perché non la si può vedere ad occhi aperti. A volte basta chiuderli, gli occhi. Ma a volte la soluzione è talmente ovvia da non essere nemmeno presa in considerazione. Ho calpestato il suolo di paesi devastati da guerre atomiche, ho guidato auto rubate e semidistrutte ad alta velocità, ho detonato palazzi, piegato mondi al mio volere e visto i più grandi scontrarsi tra loro. Ho vissuto nel passato, nel futuro, in mondi alternativi, in mondi verosimili. Sono morto così tante volte che ormai la morte non mi spaventa più, semmai è il vuoto della non-vita che mi terrorizza. Davanti ai miei occhi è passato così tanto potenziale che ora, guardando voi, non posso che sentirmi profondamente contrariato. Li ho sentiti mille volte i vostri racconti di come pian piano il lavoro prende piede, ti toglie spazio e respiro, ore di vita e ore di sonno, magliette e intrattenimento, e in cambio ci regala nevrosi, grandi fratelli ed obiettivi sempre più piccoli. Obiettivi che col passare del tempo si limitano alla possibilità di dormire cinque minuti in più sulla fòrmica scadente di un piano di lavoro disordinato, proprio come le vostre teste. Attenti a non sbavare. «Si sogna otto ore a notte», mi hanno detto una volta. «Ah si?», ho risposto, «e se ne dormo solo sei?» Ma non è questo il punto, vero? Perché voi non sognate più nemmeno a occhi aperti, costretti in un mondo fatto di cemento inquinato in cui il silenzio non esiste più. Quando dormire non è più sognare ma è solo riposarsi, perché il tempo è talmente poco che non sogni nemmeno a occhi aperti, dov’è la vita? Nella terra desolata che è la vostra mente quale pensiero sostiene la vostra esistenza? Uno schermo luminoso che vi dice come vivere? Come ci si aspetta dunque che possiate armarvi contro qualcosa? E non si tratta più di essere o non essere, per voi, ma di simulare di essere, patetici standie di cartone da un punto ferita. «Io non mi sono mai vestito da adulto, con fare da adulto», canta il frontman, così mentre lo sento realizzo che sì, è proprio così. Passo mentalmente in rassegna il mio armadio: solo magliette ormai lise e camicie ancora inscatolate. Qualcosa vorrà pur dire, no? Se camicie ben stirate rappresentano le vostre vele spiegate verso il futuro, la mia maglietta è il jolly roger che vi fa tremare le mutande quando, all’orizzonte, vi annuncia il prossimo arrembaggio. Siete fregati. Volete un consiglio? Non dateci le spalle, non sbattete gli occhi, o vi saremo addosso. Non mi avrete vivo. Perirete sotto i colpi di un Amleto a 8-bit, giammai disposti a chinare il capo alle vostre follie catodiche da manuale. Resisterete per quanto? Resistere è inutile. La mia vittoria sarà faticosa, difficile e soddisfacente, e alla fine il mio mondo sarà intatto, forte di un sistema preesistente che ho scelto di non sacrificare, e lontano dall’aridità che vi state costruendo. Troppo facile vincere perdendo tutto; vorrebbe dire barattare gli anni migliori con quelli che già vi state preparando a


rovinare. E non finirò da hikikomori, chiuso in una stanza, perché mi basta girare una chiave per essere ovunque, forti di un sistema concettuale che non sono disposto ad abbandonare in cambio del successo. E se vi state chiedendo dove sia la narrazione in tutto questo allora vuol dire che i vostri occhi hanno smesso di vedere. La svolta è qui davanti ai vostri occhi desiderosi di una conclusione convenzionale che passa per lo scontro. Spaventati dall’altro voi stessi, figli dello schermo, lo colpite finché la sua morte non uccide voi stessi. Oh, ma il trucco è accettarlo, invece. Posate le armi! Ritornate ad essere una cosa sola! Unitevi a lui e preparatevi al grande salto. O, se preferite, continuate a colpire e infine disperatevi: i vostri sessanta minuti sono terminati.

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Testo di Paolo Fortunato Fotografia di Maura Ghiselli, Game Over

Scivoli lungo tornanti a strapiombo sul mare su una cabrio anni Sessanta. È primavera sulla costa ligure, le rocce graffiano il paesaggio come il suo sorriso sul parabrezza. Una donna, con un cappello di paglia, ride al tuo fianco, mima la Carrà lanciandosi in trionfi di modestia gioiosa. Camicia nera, capello oliato e sorriso dorato la scaldano. Non tieni la destra, rischiando dopo ogni curva di incontrare lapidi e fiori. Le massaggi le cosce bianche come se le preannunciassi il suo prossimo destino. La Liguria scorre come liquirizia sul palato. Dopo ogni salvezza, ti bacia sul collo e poi su fino alla bocca, confermando la rasatura accurata. Tutto calcolato: il rischio come il colore dell’asfalto, il pantalone beige attillato e stirato come il motore boxer sotto di te. Eccolo il sogno. Si chiama Flaminia, come la Lancia. Doppio cognome, è nobile e francese. L’hai conosciuta ad una festa, quando tutti erano ubriachi e annoiati, mentre lei era ancora liscia come il ghiaccio sui vimini. Mamma sabauda, papà di Berlino. La Francia a metà tra i due: una scelta obbligata dopo la separazione. Scuole in Svizzera, l’Università a Parigi e poi in giro per il mondo a svegliarlo dopo la fine della guerra. Ora, donna matura, vive con le sue arringhe in Tribunale. Continua ad accarezzarti il dolce cuoio capelluto, come margherite agli albori di una silenziosa primavera. Il fischio delle gomme sull’asfalto e il vociare del vento come migliore sottofondo alla vostra relazione. La strada scivola via come a detergere gli anni del boom economico. Il paesaggio è rude, scavato, ma il sole di Maggio lo rende docile come un cucciolo di leone in gabbia. Gli occhiali scuri alla Brigitte Bardot coprono i suoi splendidi occhi verdi: quando la guardi ti ricorda la Sardegna e la vostra luna di miele. Ti chiede di amarla e tu, con un sorriso alla Dynasty, ricambi, facendole allargare i lati della bocca in un sorriso gigante di denti innamorati. Sei sicuro di te. Una sola mano sul volante, l’altra sulle sue sinuose cosce. «Devi starci attento», ti aveva sussurrato il padre con aria minacciosa il giorno del vostro matrimonio. Poche parole, piccoli massi gettati nello stagno a rimbalzare sull’acqua melmosa. Eri un piccolo campione. Ti curavi di tutti, dopo una vita senza ombra passata su fango, terra battuta, neve, pioggia, senza rituali né festività annunciate. La gavetta col tuo fidato co-driver: se avessi fallito avresti portato i fiori anche a lui. Ti accarezza come se spalmasse creme orientali sulla tua vita, per scacciare via traumi e ricordi malsani, in attesa che i diavoli si accompagnino alla lussuria. Sei agile e talentuoso, l’esperienza dei rally ti ha segnato. Salito sulle copertine dei più importanti magazine nazionali, non ne sei mai sceso. Impaginato con coppe, fiori e belle donne: in posa, sulla tua pantera metallica. Scivoli lungo i tornanti ardenti della lingua ligure verso Portofino, dove l’amore ti aspetta. Non hai fretta. Le tocchi i fianchi modellati e fotografati da occhi indiscreti. Le sorridi con sicura malizia, ma quando rimetti gli occhi sull’asfalto, vedi una sagoma nera che viene verso di te. Un motociclista nella tua corsia. Togli la mano dal sesso e la metti sul pomello. Freni e scali come ai vecchi tempi. Lei non è il tuo co-driver. Rimane immobile, pietrificata. Contrai le mascelle, spigoli sul tuo viso abbronzato. Ti cade un ciuffo davanti agli occhi, il gel sta per cedere.


Una macchia nera, con un casco lucente è sbucata dal nulla, dopo una curva che nascondeva il sole a picco e il mare salato. Ti guarda dritto negli occhi, ha solo paura. Vorresti tranquillizzarlo, come hai sempre fatto quando le cose non si mettevano bene. Ma c’era puntualmente la mano di Dio, allora. Giri velocemente il volante con tutte le mani che hai. L’uomo nero è sempre più vicino. Rischi di prenderlo. Lei quasi non si accorge: immobile e immobilizzata. Funziona, il manico è ritornato alla grande. L’impatto sembrava imminente, ma non avviene. Sei ancora il numero uno. Dal tuo viso contratto e stressato trapela un mezzo ghigno di presunta salvezza. Sei preso a festeggiare e ad annaffiare il pubblico con lo champagne, ma sembra che la manovra sia stata azzardata. La macchina scoda via col posteriore come un’anguilla appena pescata. È in preda alle urla delle ruote, ai fischi dei freni, al rumore del motore inferocito. Lei rimane anestetizzata. Mascella bloccata e le prime rughe appaiono morbide sul suo nobile viso. Ha paura, come te. Comincia ad urlare, non vuole morire. Nemmeno tu, che c’entra. Controsterzi per disperazione prima del traguardo. La macchina è ormai incontrollabile, anche se riesci a riportarla dritta, ha troppa velocità, è troppo sicura di sé. Dritta se ne va contro il muro di cinta, giù verso il mare. Un ultimo sguardo a te riflesso nel parabrezza e poi a lei, ma non ricambia. «Amore, da qui il paesaggio è fantastico.»

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Benedetto da Sheeva Testo di Giorgio Pirazzini Fotografia di Cristina Mauri, Senza titolo

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Esco dall’aeroporto di Mumbai e mi tolgo la felpa. L’aria è un muro di umidità calda e la prima boccata è un ansioso respiro asmatico. Ganesh è venuto a prendermi, almeno spero. Abbiamo studiato assieme a Londra, siamo molto legati. Accanto alla folla dei tassisti che si contendono i turisti, riconosco la maglietta All Saints che portava a Londra, quelle piene di buchi che sono alla moda in Europa. Chissà come la vedono qui. «Dudeee, here I am,» ci salutiamo e poi mi indica il suo autista che ci cammina incontro con un braccio disteso verso di me. Io gli stringo la mano e lui fa un passo indietro, Ganesh ride. Voleva portarmi lo zaino e caricarmelo in macchina, è il suo lavoro e, a quanto pare, la sua casta. Ganesh scherza: «Europei… Qua per distruggere le nostre tradizioni.» La mattina io riparto per Delhi e dopo 2 giorni Ganesh mi raggiunge per un viaggio sull’Himalaya passando da Rishikesh. Vogliamo bere un frappé di mango sulla terrazza dell’hotel e Ganesh chiede in Hindi al personale dell’hotel se possiamo lasciare le valigie e loro lo guardano con sospetto, intervengo io in inglese. Mentre saliamo le scale gli dico: «Devi parlargli in inglese. In questa zona gli indiani non li fanno entrare, cercano di fottere i turisti.» Rishikesh è la capitale dello yoga, anche i Beatles sono passati da qua. Quando passeggiamo incontriamo solo Ashram, europei hippie vestiti come si immaginano gli indiani, pantaloni larghi e rasta, e indiani vestiti da europei, in camicia e pantaloni color pastello. Sveglia alle 5:45, direzione Kedarnath, uno dei quattro picchi sacri dell’Induismo. «Mia madre sarebbe fiera di me,» Ganesh ride. Bobby, l’autista, ci aspetta davanti all’hotel appoggiato al cofano della sua Ambassador. Bobby ha gli occhi blu, crede che le montagne dell’Himalaya siano venute fuori dalla gola di Sheeva e guida fottutamente vicino al bordo del burrone. Ci lascia in un affittacamere ai piedi di Kedarnath da cui prenderà una percentuale come da tutti i posti in cui ci siamo fermati oggi. Al mattino Bobby ci accompagna in macchina all’inizio del sentiero per Kedarnath a cui le macchine non possono accedere. Ci ha anche rimediato due muli. Il ragazzo che ci accompagna camminerà per 14 km in salita e per 14 km in discesa, tutti i giorni. Per 2 ore non vedo un altro occidentale sulla strada. Qualcuno mi urla contro qualcosa che Ganesh non vuole tradurre. Incrociamo un monaco in arancione che mi grida e qui invece Ganesh traduce: «Vuole 500 rupie,» ride. Dopo altre due ore avvistiamo Kedarnath, a 3584m. «Vedi le montagne?» Ganesh dice indicando il panorama, «sono dei 7000 e dietro c’è la Cina. È un confine caldo.» Lasciamo i muli ed entriamo nel tempio in una sala piccola che sembra un mercato, piena di oggetti e fiori colorati, di gente che urla e che si china e tocca una roccia viscida che spunta dalla terra. Ganesh mi spiega che dentro al tempio è custodita la scapola di Sheeva. Per fuggire da due noiosi fratelli che lo tediavano con le loro richieste Sheeva si era trasformato in un bue, ma uno dei fratelli lo aveva riconosciuto e inseguito. Sheeva si era tuffato nella terra ma l’altro era riuscito ad afferrargli una scapola che quindi era rimasta sulla superficie. Quella pietra ondulata davanti a noi è la scapola di Sheeva e ci hanno costruito il tempio intorno. Ganesh parla con un sacerdote che comincia una litania e poi ci afferra i polsi e ci fa sfregare i palmi contro la scapola di Sheeva che è ricoperta di una sostanza viscida che sembra cera melmosa. Finito tutto il sacerdote chiede 20 dollari e Ganesh lo trascina fuori dal tempio per un’uscita laterale, parlano un po’ e si accordano per 10 dollari.


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Rin ca sa re Testo di Evelyn De Simone Illustrazione di Valentina Scaletti, Adrift, fotografia con elaborazione digitale

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Quando parcheggiò nel vialetto di casa, notò che qualcosa chiaramente non andava: il citofono era stato staccato dal muro e pendeva a mezz’aria, tenuto solo dai fili elettrici colorati che spuntavano fuori dal buco della sua sede originaria; i mobili da giardino si può dire non esistessero più, se non in pezzi sparsi sul prato inglese; inoltre qualche uccello giaceva morto in quella che fino a qualche ora prima era una residenza rispettabile e adesso era solo uno sfacelo. Qualcosa non andava. Con una pazienza mai conosciuta prima, prese la busta della spesa e scese dall’auto senza la solita accortezza di attivare l’antifurto e, facendosi spazio nel caos che regnava in quel momento, arrancò sino alla porta ma non ci fu bisogno di estrarre le chiavi perchè qualcuno aveva provveduto ad abbattere definitivamente la serratura. Magari un furto mentre lei era in giro a fare shopping, pensò. Magari un maniaco, magari la trovo a pezzi nel frigorifero, magari. Deglutì e cercò di abituare la vista, dopo aver guidato nella direzione del sole di un tipico giugno del Sud, al buio di casa (doveva esser saltato il contatore). Si sentiva musica provenire dalla veranda, forse dallo stereo a batterie che erano soliti ascoltare fumando l’ultima sigaretta, di sera, prima di andare a dormire. Altri uccelli morti tappezzavano il pavimento del disimpegno. Il panico divenne via via più pressante, tanto da spingerlo ad accelerare convulsamente lo svolgere dei gesti che ripeteva ormai ogni giorno, da anni: togliere le scarpe, riporre la ventiquattrore, appoggiare il pane sul tavolo rotondo del tinello. Lo fece in un attimo e si catapultò nel bagno, convinto di trovare sua moglie in una vasca straripante di sangue. E invece niente: uccelli morti anche là dentro, asciugamani distrutti, souvenir schiantati contro lo specchio. Guardandosi per un attimo in quel puzzle di triangoli e trapezi di varie misure, si tamponò la fronte e non poté fare a meno di notare con stupore che la ruga tra un sopracciglio e l’altro era diventata molto più pronunciata rispetto a una manciata di anni prima. Solo da quel punto della casa riuscì a carpire qualche nota familiare della musica che riempiva la veranda. Era Guccini, Venezia. Non lo ascoltava dai tempi dell’università e, a dir la verità, neanche lei aveva mai dimostrato di andarne matta. Uscì dal bagno e proseguì, nel corridoio, in direzione dello studio dal quale avrebbe potuto accedere alla veranda. Non entrò in camera da letto, ci gettò un’occhiata di passaggio che gli bastò per notare che il quadro sopra il letto era stato accoltellato in più punti. Quel quadro entrambi l’avevano sempre adorato. Forse, se lei avesse saputo chi l’aveva dipinto, l’avrebbe adorato un po’ meno, ma era un’informazione che poteva essere semplicemente omessa, tanto era diventata irrilevante anche nella vita di lui. Un rogo stava finendo di bruciare sul davanzale della finestra più grande dello studio, riconobbe un pezzo della copertina di Drugstore Cowboy. I dvd erano ormai diventati granita, scintillante granita che dava luce alla camera più seriosa della casa. Anche Last Year in Marienbad, giaceva lì, distrutto, tra piume di piccioni, sangue e sporcizia varia. Guccini si faceva sempre più vicino. Come aveva imparato nei telefilm polizieschi, durante le splendide serate divano e cioccolata calda, evitò di portare fuori tutto il suo corpo, tutto insieme, verso uno scenario che si faceva sempre più


inquietante: si mise, spalle al muro, in attesa che il respiro si facesse più calmo. Dopo qualche minuto sporse la testa sulla veranda e vide quello che vide. Era sua moglie. Era seduta. Era viva. Prese una sedia e le si sedette di fronte, poi le prese delicatamente il bicchiere dalle mani e diede un sorso per inumidire la gola, secca per la tensione. Era rhum. Ed erano solo le quattro del pomeriggio. «Tesoro,» disse, stringendole la mano. Lei spostò lo sguardo dal muro agli occhi del marito, sospirò come se stesse per giustificare l’acquisto sconsiderato di una borsa troppo cara, sospirò, lo guardò e disse: «Odio Venezia.» E lui sospirò, come a dover escogitare l’apologia di una serie di informazioni taciute negli anni. Quello era il Sud, non era Venezia, era il solare Sud nel quale avevano trovato il Proprio Posto nel Mondo. Sospirò e pensò al quadro accoltellato, ai piccioni morti, a Piazza San Marco, ai libri bruciati, ai dvd rotti e poi di nuovo a quel quadro, quel preciso quadro accoltellato, a quella cascata di capelli rossi e a quel torrente emozionale che aveva attraversato il suo Maggio ‘99, lasciandosi dietro un letto in magra di ciottoli e pensieri rotti… quel quadro, quei capelli rossi, Venezia, quel quadro, quelle mani e quei pennelli tra quelle mani, quel quadro, Venezia, i treni notturni, i vestiti nuovi per vecchie menzogne, i finali inaspettati, il carattere omertoso del tempo, la supremazia delle intuizioni, sua moglie che a suo modo amava, nonostante quel quadro. Essenzialmente, prima pensò al quadro e poi pensò di non essere nella posizione di poterle rimproverare alcunché.

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Quello che resta Testo di Fabio Pirola Fotografia di Sara Guarracino, Senza titolo

Era un pomeriggio di metà ottobre ancora così ostinatamente caldo e soleggiato da fare venire i brividi agli amanti del freddo inverno, che sembrava non volere arrivare mai, quell’anno: la natura cittadina, dal canto suo, non aveva opposto resistenza e lentamente si era piegata a questa sua decisione. Irriverenti clochard, elegantissimi e composti nella loro trascuratezza, accennavano danze e balletti sui selciati delle piazze baciati da quel curioso sole d’ottobre; giovani madri portavano ancora a passeggio i bambini, sottratti per quell’ultimo giorno di primavera tardiva alle costose cure delle badanti. Ragazzi ancora in pantaloncini corti fendevano a passi frettolosi le arcate dei portici cittadini, come se avessero sempre qualcosa da fare, un qualche impegno che li aspettasse in un luogo che non poteva essere compreso. A Marisa veniva spesso la tentazione di mettersi all’inseguimento di uno di quei giovani, per vedere dove l’avrebbero condotta. Era curiosa di sapere tutto: con chi si sarebbero incontrati, dove, e i motivi − se mai ci fossero stati − della perenne fretta che li animava tutti, in quel periodo così strano dell’anno solare. Marisa, tuttavia, lo sapeva, le gambe non le avrebbero retto. La sua andatura calma e morigerata di sessantenne non avrebbe potuto neanche competere con quei soggetti così ricolmi di spinta vitale, e la sosta per i rifornimenti non era prevista… avrebbe dovuto tirare dritto fino alla fine. Ma con quel caldo anomalo, chi glielo faceva fare? 26

Diede un’occhiata all’orologio da polso, un modello poco diffuso, lasciatole dal suo patrigno oramai defunto e che lei si ostinava a portare, nonostante tutti le continuassero a dire che era inadatto per una donna della sua età, perché troppo mascolino. Le tre e mezza. Tra mezz’ora era fissato il suo appuntamento giornaliero, la partita a carte con la signora Adele e gli altri membri del circolo ricreativo. Che strano uso della parola ricreazione! Marisa era sempre più conscia che, più del divertimento, implicasse lo sparlare e il berciare su tutto e tutti, compresi i presenti. Di cosa si sarebbe discusso oggi, tra una mano di ramino e una acqua tonica con limone, ma senza ghiaccio? «La gamba di Fausto continua a dargli problemi… dicono che dovrà amputarla! E tu, Marisa, ancora con quell’orologio?» Sì, l’orologio era l’argomento fisso. Perché non se ne fosse ancora liberata, quanto poco poteva valere quel modello e simili, avanti così, con la cattiveria discreta ma feroce e piena di invidia che solo gli anziani sapevano mostrare. Marisa provò un fitta di disagio al pensiero di dovere affrontare di nuovo quella trafila di commenti stantii e improduttivi, il cui solo scopo era ricercare un fondamento per qualcosa che non ne aveva bisogno. Costruivano castelli sul nulla e pretendevano di ammirarli, con finta e rapita meraviglia. Invece quei giovani, sempre di corsa verso destinazioni


ignote, ignote al mondo e forse persino a loro stessi… loro forse sarebbero arrivati da qualche parte, prima o poi. Si alzò dal tavolino del bar, lasciò qualche soldo al cameriere per la sua orzata fresca e si rimise in marcia sotto i lunghi portici. Fu solo dopo un po’ che si accorse che erano ormai le quattro e mezza, e aveva intrapreso la direzione opposta rispetto a quella del circolo ricreativo. Sorrise tra sé, al pensiero di come avrebbero fatto senza di lei, laggiù. Ce l’avrebbero fatta benissimo. Continuò a procedere lungo la sua direzione e sostò solo davanti alla vetrina di un orologiaio. Un’idea istantanea le balenò nel cervello, entrò e mostrò al gestore il suo orologio, chiedendo una valutazione. La cifra che il venditore suggerì la sorprese, e la signora dovette affrettarsi a negare la sua volontà di venderlo. L’orologiaio, dopo averle dato il consiglio confidenziale di non separarsi mai da quell’oggetto, dato il valore, si stupì nel vedere quella fragile vecchina, vestita di tenui colori pastello iniziare a sorridere e a giocherellare con l’orologio, apparentemente ignara di ogni altra cosa. Gli occhi erano colmi di una luce sfavillante mentre il sorriso disegnava tracce visibili sul suo volto: l’infittirsi delle rughe sotto gli occhi e lo stendersi della pelle sulle gote chiare. L’ultimo palpito di quella calda, sfrontata estate che non voleva finire le solcava il volto insieme al sorriso, in quel piccolo paradiso privato di soddisfazione che aveva rinvenuto per caso, tra le pieghe dell’esistenza quotidiana. Quel palpito rimodellava il viso di Marisa a sua immagine e somiglianza: profondo e silente, come tutti i misteri.

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L’attimo fuggente Testo di Raul Faraoni Illustrazione di Giovanni Curi, Raggiungere il Game Over. “The Cyborg Chronicles”, ecoline nero acquerellato e tempera bianca

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Troglone, con l’abito verde, vide i fanali del treno in lontananza. Passando urtò le due spie nascoste da una colonna. Sotto la pensilina stava passeggiando Cosimo Lenone insieme a Cimicione La Pregna. I capelli e i baffi erano troppo segnatamente impomatati per far da cornice ai loro volti sguaiati. Nello scompartimento di prima classe Maria Giovanna Scirè, detta Acquafinta, teneva saldamente in mano una pompa da bicicletta. Guardò nervosamente l’orologio. Le zero e quarantacinque. «La do a chi voglio, la do», disse a bassa voce. Dietro la colonna le facce impersonali delle due spie facevano capolino quasi invisibilmente. Maria Giovanna Scirè scese dal predellino con movimenti nervosi e fu subito tra le braccia di Troglone. Cosimo Lenone e Cimicione La Pregna osservarono la scena per un attimo, con fare sprezzante e minaccioso. Troglone prese sottobraccio Maria Giovanna e si avviarono verso l’uscita. Le due spie, nel frattempo e sottovoce, cantavano Maria Giuana l’era sl’uss. L’addetto della ferrovia fermò di corsa Troglone e Maria Giovanna e disse: «Mi spiace per il leggero ritardo dovuto allo spostamento dell’orario.» E consegnò un fotoromanzo a Troglone. «Maledizione!», esclamò Acquafinta stringendo la pompa da bicicletta. «Non vi ho domandato niente», rispose il ferroviere. «Il mio compito l’ho già eseguito.» Troglone prese a leggere la rivista appena ricevuta. «Non è il momento», disse Acquafinta. «Sì che lo è», rispose Troglone, «è la cosa più importante.» Si misero a leggere il fumetto. Il fotoromanzo iniziava con Troglone con l’abito rosso che vide i fanali del treno in lontananza. Un addetto della ferrovia raccolse alcuni biglietti ferroviari usati in mezzo a bucce di patata e gusci d’uovo. Le due spie stavano abbarbicate sulla pensilina. Più avanti Cosimo Lenone mostrava un rigonfiamento sotto l’ascella sinistra; accanto a lui c’era l’ancor più detestabile Cimicione La Pregna. Due poliziotti ferroviari gli si avvicinarono e chiesero loro i documenti. Lenone mise la mano sotto l’ascella, estrasse la pistola e li uccise entrambi. Cimicione La Pregna scivolò su di una buccia di banana. Troglone, nel frattempo, si diresse verso un binario morto. Le due spie si piazzarono ai lati di un vagone merci in posizione simmetrica. Troglone appoggiò la testa su di una rotaia. Si avvicinò il controllore con la perforatrice in mano.


«Per le sue qualità intrinseche un binario morto non è adatto a suicidi», disse il controllore. «Non era un tentativo di suicidio», rispose Troglone, «ma una semplice mossa sviante.» «Molto bene, ora mi faccia vedere il biglietto.» «Non mi pare logico!» «D’accordo: per questa volta le farò solo un buco nella cinghia dei pantaloni.» Cimicione La Pregna si alzò infuriato. Si diresse con una corsa goffa a passettini verso Troglone urlando in modo quasi incomprensibile: «Ti ammazzo!» Poi cominciò a sparare a vanvera finché, roteando la pistola qua e là, si sparò in testa. Il controllore tolse la cinghia a Troglone, la forò dopo l’ultimo buco, mise la data e segnò l’ora: le zero e quarantacinque. Troglone partì di corsa verso i fanali del treno in lontananza. Il controllore gli urlò dietro. «La vostra cinghia. Anche con un buco in più è sempre la vostra cinghia!» Dal treno scese Maria Giovanna Scirè, detta Acquafinta, con un’aragosta in mano. Troglone fu subito fra le sue braccia. «La do a chi voglio, la do», disse Acquafinta. «L’aragosta devi consegnarla a Tragallà», disse Troglone, valutando il peso del crostaceo. Improvvisamente davanti a loro si parò Cosimo Lenone con la pistola puntata. «Dammi il malloppo», disse l’energumeno con voce sgraziata. Arrivò di corsa il controllore che gli strappò l’arma dalle mani e la forò subito con la pinzatrice rendendola inutilizzabile. Poi gliela restituì dicendo: «Non è valida per il viaggio di ritorno.» I due poliziotti uccisi si rialzarono e andarono ad arrestare Cosimo Lenone. Il più anziano dei due, un graduato, disse: «Un finto suicidio equipara bene due falsi uccisi.» «Perché mi arrestate?», urlò Lenone. «Falsificazione di biglietto ferroviario e detenzione di arma a salve scaduta.» Lenone si divincolò e fuggì verso le rotaie. Le due spie si confusero fra la gente e si fermarono davanti a uno schermo che trasmetteva audiovisivi. L’immagine mostrava Troglone con l’abito blu che vide i fanali del treno in lontananza mentre un inserviente della ferrovia stava scopando via i grossi mucchi d’immondizia. Un tecnico, in preda all’agitazione urlava: «Resettate tutto!» Sulla sinistra, luminosa intermittente e di colore verde, apparve la scritta Game Over. Nell’attico più in alto, dal palazzo di fronte alla Ferrovia, il regista e il produttore, contemplavano la scena complimentandosi per il successo. Quest’ultimo chiese: «Quel magnaccia da strapazzo, quel Cimicione era lui o il suo ologramma?» «Non si preoccupi, era il vero Cimicione, ma abbiamo già provveduto a far sparire il corpo…» «No! Accidenti!», urlò il produttore, «bisogna farlo sapere a tutti e simulare una disgrazia. Questa si che è pubblicità!» Sopra la sua scrivania un manifesto pubblicizzava a caratteri cubitali: Videogames Interattivi, partecipazione dal vivo – Volete diventare spie e killer per un giorno? Venite a giocare a Troglone’s Game. Fuori si vedeva la coda di gente che cercava di entrare.

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Game Over

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Testo di Michele Spagnolo Illustrazione di Ettore Tomas, Senza titolo, disegno con elaborazione digitale, 2010

Consigli per sferrare un buon pugno: 1. stringere forte le dita, lasciando il pollice fuori dalla stretta per evitare di lesionarselo con l’impatto; 2. ruotare spalle e busto all’indietro e insieme ruotare anche braccio e avambraccio leggermente piegati; 3. caricare il peso del corpo e delle spalle in modo da imprimere maggior forza possibile al colpo; 4. sferrare il pugno tenendo inizialmente il braccio rilassato e le nocche rivolte leggermente nella direzione opposta a quella del colpo; se si vuole colpire dal basso verso l’alto tenere la mano rivolta verso il basso e viceversa; 5. poco prima dell’impatto tendere i muscoli del corpo e ruotare le nocche nella direzione del colpo; 6. per un buon risultato si consiglia di colpire l’avversario in parti vitali: occhio, zigomo, mento, stomaco, reni. Michele, ventuno anni di tatuaggi e capelli lunghi, era un ragazzo dalla bestemmia facile. Alle 4:25 del pomeriggio ne aveva già snocciolate diverse, alcune delle quali − particolarmente elaborate − coinvolgevano addirittura santi minori, che difficilmente trovavano spazio nelle preghiere dei fedeli più devoti. Alle 4:30 in punto, mentre Michele bestemmiava davanti ai videogiochi, Teresina, la barista dell’oratorio San Barnaba, stava sfornando la sedicesima pizzetta bruciacchiata, alla ricerca del nuovo record di bruciacchiamento pizzette. Alle 4:32, proprio mentre Don Marco si apprestava a concludere a rete con il suo attaccante centrale, schiantando con un preciso colpo di taglio le ultime resistenze della squadra blu, Michele, quello dei tatuaggi e delle bestemmie lasciò partire un preciso e direi perfetto pugno, dritto allo stomaco di un altro Michele. Io. Avevo dieci anni, conoscevo di vista Michele e ammetto che un po’ lo ammiravo, così spavaldo e scurrile com’era, coi suoi capelli lunghi e l’aria da bullo di periferia. Lo ammiravo e ne avevo anche un po’ paura e quindi normalmente giravo al largo da lui e dai suoi amici. Il fatto è che esattamente alle 4:30 il mio caro amichetto Davide mi aveva colpito con un potente e umiliante “coppino”. Consigli per un perfetto coppino: 1. avvicinarsi di soppiatto alle spalle dell’avversario che, ignaro, procede a collo scoperto; 2. ruotare il busto e il braccio; 3. colpire con forza e a mano aperta e semi-rilassata il collo dell’avversario giusto tra l’attaccatura dei capelli e il colletto della camicia. Così, furibondo, mi ero messo a inseguirlo in quel giovedì pomeriggio di un giugno già caldo e umidiccio nel lungo corridoio dell’oratorio San Barnaba. E correndo correndo, mi ero ritrovato a inseguire Davide proprio intorno ai grossi mobili dei videogiochi, che formavano una lunga fila luminosa e starnazzante nel corridoio. Il 9 giugno 1991 − lo ricordo perché era il quarantacinquesimo compleanno di mio padre − il Don Marco di cui sopra, campionissimo di calcetto o calcio balilla che dir si voglia, aveva installato un nuovo videogioco, chiamato Bomber-man, in cui un buffo omino deforme doveva massacrare mostriciattoli odiosi a suon di bombe di vario genere. Non voglio dilungarmi sull’argomento: dirò solo che il videogioco contava una cosa come duecento livelli; che Michele, il tatuato, era un campionissimo a quel videogioco e che quel pomeriggio di giugno era impegnato nel difficilissimo centoquindicesimo livello che si fa fatica anche a dirlo figurarsi a superarlo. Michele, dunque, lasciò partire il pugno alle 4:32 in punto, seguendo alla perfezione le sei regole per un pugno perfetto che, sommate alle tre regole del coppino perfetto, correttamente rispettate


dal mio amico Davide, facevano nove regole di colpi perfetti che si abbattevano su di me nel giro di pochi minuti. Se a queste sommiamo le sedici pizzette bruciate dalla barista Teresina, i quarantacinque anni di mio padre, i nove gol che Don Marco aveva già segnato quel pomeriggio a calcetto, i 114 livelli già superati da Michele-tatuato a Bomber-man, raggiungiamo circa il numero di stelle scoppiettanti che invasero il mio orizzonte mentre cadevo svenuto sul pavimento polveroso. Ricordo che, accasciandomi drammaticamente al suolo, sentivo una musica diabolica e ossessiva nelle orecchie e mi chiedevo se stessi morendo e mi veniva un po’ da piangere e un po’ da fare la pipì pensando a tutto quello che aspettavo e che mi sarei perso durante quella decima estate della mia vita. Le vacanze al mare e le partite di pallone sul cortile d’asfalto rovente su cui s’attaccavano le suole delle scarpe e i gelati la sera in qualche paese in campagna e i grilli la notte e le lucciole nel giardino dietro a casa mia. Ricordo anche che pensavo a tutte le cicche che avevo incollato sotto il tavolo da ping-pong dell’oratorio e a quella volta che avevo falsificato la firma di mia mamma per coprire l’unica nota sul diario che avessi mai preso e a come tremassi mentre la maestra controllava il diario e al sollievo che provai quando m’accorsi che non aveva capito che la firma era falsa. Appena prima di toccare il suolo ricordo anche che vidi lampeggiare rosse e gialle due parole sullo schermo del videogioco, due parole che andavano ingigantendosi e suonavano così minacciose in quel preciso momento in cui pensavo che la mia giovane vita stesse finendo. Game Over.

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Formule magiche misteriose e segrete Testo di Giuseppe De Francisco, dedicato a Rossella Ciùs Messina Illustrazione di Giovanni Curi, Cosa accadrebbe dopo... “Game Over?”, china

… e, alla fine, i due vissero felici e contenti. Ma per quanto tempo? Sembra che dipenda dalla lingua della fiaba – anche se non in tutte le lingue si danno indicazioni in merito: dal francese, per esempio, si sa che ebbero molti figli (ils se marièrent et eurent beaucoup d’enfants), mentre una formula spagnola lascia invece trapelare non più di un accenno al vitto definitivo (y fueron felices....y comieron perdices). Per il resto, in generale, le indicazioni su quanto tempo vissero felici e contenti sono estremamente discordanti. Nella formula di chiusura inglese and they all lived happily ever after è molto chiaro che, non solo i due sposini, ma anche tutti gli altri meritarono la felicità e l’immortalità. Ben diversamente, nel tedesco und wenn sie nicht gestorben sind, dann leben sie noch heute, si allude alla morte di quelli che non sono arrivati vivi alla fine della fiaba, e viene ammesso implicitamente che il tempo della vita degli eroi superstiti potrebbe essere finito già domani. La formula svedese och de levde lyckliga i alla sina dagar, non solo dichiara che gli stessi eroi siano mortali, ma lascia pensare che, con ogni probabilità, questi siano addirittura morti. La morte degli eroi viene annunciata da una formula del finale francese et ils vécurent heureux jusqu’à leur mort, e dal danese og de levede lykkeligt sammen til deres død. Comunque, ci sono altre formule finali, molto carine, che a loro volta non dicono nulla su quanto tempo vissero felici e contenti la principessa ed il suo principe azzurro, ma vi si trova l’annuncio della fine del racconto, come in quella spagnola colorín colorado, este cuento se ha acabado, e quella araba ‫ةتودحلا تصلخ ةتوت ةتوت‬. Si tratta di un annuncio che, per quanto giocoso, ha qualcosa in comune con la parola italiana “fine”, oppure the end, in inglese, che si legge alla fine di alcuni film (non di Fellini, per esempio, che non la metteva apposta), sia con la formula game over dei videogiochi: è un modo per sbattere in faccia agli spettatori la loro vera natura di pubblico, e non di protagonisti fantastici. È un momento carico di mistero, e di tristezza: evidentemente, il bambino non dorme ancora. L’annuncio della fine del racconto c’è anche nel finale russo вот и сказке конец, а кто слушал – молодец – anche se qui, per addolcire la pillola, spunta un complimento al bambino che ascolta. È molto simpatico il fatto che il bambino, ricevendo il complimento, faccia capolino nel racconto. Anche nel finale persiano, in farsi, c’è la dichiarazione della fine del racconto, che viene però messa in contrapposizione al volo del corvo che non ha ancora trovato il suo nido: 32

La formula persiana crea un tempo magico in cui la fiaba insieme si racconta e si svolge. Per quanto il paese delle fiabe possa essere lontano dal bambino che ascolta la fiaba, o che la conosce al cinema o in televisione, il tempo della storia e quello della fine del racconto devono essere contemporanei al volo del corvo. Per capire questo fatto ho avuto bisogno delle lezioni di Jos Decorte alla Katholieke Universiteit di Lovanio. Decorte parlava di logica relazionale e ontologia della relazione per spiegare il pensiero di Enrico di Gand. Morì andando in bicicletta, investito da una macchina, pochi anni dopo che ebbe fatto le due o tre lezioni alle quali assistetti. Se non ho frainteso, Decorte diceva che, nonostante A sia diverso da B, e B sia diverso da C, è possibile che A, B e C possano essere tutti uguali ad X. Il Padre è diverso dal Figlio e dallo Spirito Santo, ma il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono ugualmente Dio. Qualcosa del genere capita quando il tempo in cui si svolge la fiaba è diverso da

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quello in cui vive il bambino che la ascolta, ma tutti e due questi tempi volano insieme al corvo (che non ha ancora trovato il suo nido!). Un simile ponte di viburno tra la storia ed il racconto viene fuori dalle formule siciliane del finale delle fiabe raccolte da Calvino, anche se qui questo ponte ha una forma completamente diversa. Esso consiste nel paragone tra quelli, gli eroi della fiaba, che finirono felici e contenti, e noi, che siamo qua a rosicarci li denti. Per questo ponte passano non soltanto gli abitanti del paese delle fiabe ed il bambino che ascolta, ma anche “noi” che, per qualche motivo, al momento, non ci troviamo nel paese delle fiabe. Un’altra formula interessante è quella che mi ha recitato Giorgio Costanzo in italiano l’estate scorsa alla Scalinata Alessi: «se vissero bene morirono bene». Giorgio mi ha detto di avere una vaga memoria di aver visto e sentito Orson Welles sostenere in televisione di notte, forse su Rai Tre, che questa sarebbe la formula del finale delle fiabe in basco. Per questo ho scritto un’e-mail a Patricia, un’amica spagnola cresciuta a Bilbao, che però non parla euskera. Le ho chiesto se conosceva questa formula. Dopo un po’ di tempo, Patricia mi ha raccontato di aver chiesto ad una sua amica che parla euskera, la quale conosceva soltanto la formula eta ala bazan sar dadila kalaban che la stessa Patricia mi ha tradotto in spagnolo così: y si fue así que se meta en la calabaza. Ma fu davvero così? Vissero felici e contenti? Mi torna in mente quel tipo che dice «non ha nulla da scrivere a casa, per cui non c’è nulla da scrivere a casa.» Per fare luce su questo punto oscuro, sono partito per il paese delle fiabe, e comu finisci, si cunta.

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Antonella Cilento - Scrittrice Siamo in un periodo storico difficile, dove la cultura deve lottare per emergere e rimanere in piedi, coerente e combattiva, di fronte alle difficoltà che l’ignoranza e l’individualismo le costruiscono intorno. In questo Game Over intellettuale, noi de “La Luna di Traverso”, non ci perdiamo d’animo e vogliamo continuare a parlare di libri, letture, editoria. Per comprendere meglio i meccanismi di questo affascinante mondo di creatività e per non smettere di credere nell’importanza della conoscenza. Game Over ci sembrava il numero più adatto per proporvi l’intervista ad Antonella Cilento, scrittrice e insegnante di scrittura creativa, ma anche grande lettrice che lotta, giorno per giorno, per la diffusione di una letteratura consapevole e per insegnare a scrivere e a leggere. Diciotto anni fa Antonella Cilento fondò una scuola di scrittura, Lalineascritta (www.lalineascritta.it), che ancora oggi conduce e porta, nei suoi viaggi, su e giù per l’Italia, passando per scuole pubbliche e laboratori privati come esperto esterno di scrittura creativa. Qualche mese fa è uscita con il suo ultimo libro, Asino chi legge (Guanda), in cui racconta la sua esperienza d’impegno civile e ideologico di vita dedicata ai libri e alla narrativa, nel portare la passione per la letteratura anche laddove non c’è mai stata. Questa intervista, dunque, non solo vuole farvi conoscere un’importante scrittrice ma anche, con il suo esempio, invitarvi a combattere per riconquistare, con le vostre forze, la cultura che ci vogliono togliere. Antonella Cilento è tante cose: scrittrice, insegnante, viaggia per divulgare in tutta Italia la scrittura creativa e l’importanza della lettura, nelle scuole ma non solo. Come sei arrivata a fare tutte queste cose? Chi è l’Antonella Cilento Scrittrice e l’Antonella Cilento Insegnante? Cosa significa per te insegnare scrittura creativa e cosa ti ha dato, e ti dà ancora, questa esperienza? Sono la stessa persona, naturalmente, benché un po’ ubiqua fra scrivania, treno, scuole pubbliche e laboratori privati… Ho iniziato a scrivere molto presto e altrettanto presto mi sono formata alla gestione di gruppi e laboratori: insomma, è stato un percorso naturale, scrivere e insegnare a scrivere. Le due cose vanno di pari passo: in fondo, è un po’ come se scrivessi sempre. E spesso, durante i laboratori, quando le persone sono intente a eseguire l’esercizio, scrivo anch’io. L’insegnamento della narrazione restituisce a chi scrive riflessione sul suo strumento artistico: ho dovuto costruire in me la conoscenza di alcune tecniche, ho dovuto imparare ad aggirare gli ostacoli che mi ponevo da sola e così ho acquisito strumenti per poter far scrivere anche gli altri. E, viceversa, quando i partecipanti a un corso, giovani e meno giovani, affrontano un problema, mi restituiscono nuovi insegnamenti stimolandomi ad aiutarli. È un’osmosi. 34

Secondo una diffusa “leggenda metropolitana” qualcuno ritiene che i corsi di scrittura creativa abbiano capacità taumaturgiche, nel senso che, frequentandoli, chiunque può imparare a scrivere, mentre invece dovrebbero servire a fornire utili indicazioni a chi già possiede un minimo di capacità. Altri, invece, ritengono che sia un modo per liberarsi dai miti, tipicamente occidentali, della cosiddetta “ispirazione” e del “genio”, concetti fin troppo elitari, riconsegnando, in questo modo, una posizione importante alla figura del “maestro”, inteso come guida attraverso un percorso ad ostacoli come è, d’altronde, la scrittura. Che ne pensi? Ispirazione e genio sono trappole per non affrontare il necessario apprendistato che si attraversa in ogni arte: nessuno si sogna di dire a un musicista che non deve studiare per comporre o suonare, o a un pittore di non andare all’Accademia, a un ballerino di non frequentare corsi… Invece con la scrittura si assiste a questo delirio di onnipotenza per cui sai scrivere o non sai scrivere, quasi per miracolo. Non è così: scrivere è una fatica anche fisica enorme. Andare a bottega da chi ha più esperienza è una cosa normalissima: lo facevano gli antichi (in fondo insegniamo ancora le regole di Cicerone e Aristotele, quindi niente di più occidentale) e gli scrittori dell’Ottocento (Maupassant andava a lezione da Flau-

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bert). È chiaro che in una palestra molti migliorano la forma fisica e solo uno o due vanno a fare le gare: così è anche nei laboratori di scrittura, se non vendono fumo. La maggioranza dei partecipanti diventerà un lettore più forte (e già questo mi sembra fondamentale) e avrà strumenti per scrivere meglio per il suo piacere o per il suo lavoro (gli insegnanti che vengono a formarsi da me hanno questo scopo e replicano in classe le modalità del laboratorio con grande successo), mentre solo una piccola minoranza inizia il difficile percorso della scrittura professionale. Qualcuno scrive in tv, qualcuno per la radio, qualcuno, i più pazzi ma anche i più determinati, scrivono romanzi per grandi editori… La scrittura creativa arriva da lontano: Nabokov, Stevenson… fino ad arrivare ai veri e propri corsi di scrittura creativa americani, riconosciuti e tenuti dalle Università, con Carver, Gardner, Barth e tantissimi altri. Com’è la situazione italiana in questo ambito e storicamente da dove la si può far partire? Come mai, secondo te, questo tipo di insegnamento non si è ancora inserito in maniera strutturale nelle nostre università ma esiste, a parte qualche raro caso, unicamente solo in strutture private? In Italia vige il pregiudizio crociano dell’ispirazione, del genio e del talento e nelle università governano i professori: negli Stati Uniti è naturale che i corsi di scrittura siano affidati a scrittori con doti didattiche. Non si può insegnare qualcosa che non si pratica conoscendone solo vaghe impostazioni teoriche. Nessuno si sogna di far insegnare composizione in Conservatorio a un critico musicale… L’università italiana è molto indietro su questo piano e ne vengono fuori, come dalla scuola, generazioni di studenti che non sanno né leggere né scrivere. I professori se ne lamentano, ma la questione non viene affrontata e si attribuiscono sempre le colpe ad altri. Piccoli spiragli esistono, certo: rari master, qualche breve corso, qualche lezione sporadica che sta capitando anche a me. Ma per adesso, dato l’immobilismo universitario e del Paese tutto, purtroppo chi vuole una formazione sulla scrittura deve ancora pagare strutture private. Come si fa, dunque, a insegnare scrittura creativa? Quali sono gli obiettivi che ti poni: insegnare una metodologia di scrittura o di atteggiamento alla scrittura, un metodo di ricerca delle storie, evidenziare uno stile? Che metodo, preferibilmente, sei solita utilizzare? Cerco di far emergere in ognuno la sua personale voce di narratore: non è semplice riassumere in poche righe un metodo che si è sviluppato in diciotto anni di attività, ma certo posso dire che il mio è un sistema maieutico. In una prima fase lavoro sul far riattivare l’invenzione e la capacità fantastica, sul risvegliare emozioni e memorie, sulla capacità di produrre immagini e individuare narrazioni nell’esperienza di ogni partecipante. Senza questa attitudine allo sguardo interno ed esterno si fa poco. Solo dopo iniziano le tecniche vere e proprie, l’uso del punto di vista, la struttura della storia, l’articolazione della pagina, l’editing. È un sistema graduale che funziona molto bene e impiega due anni a dare le basi, ma molte persone seguono i corsi da sette, otto anni… E dopo la fine di un corso di scrittura creativa, il “futuro” scrittore cosa fa? O cosa dovrebbe fare? Esistono punti di contatto e collaborazione tra il reale mondo dell’Editoria con la E maiuscola e le scuole di scrittura? In tutti questi anni ho segnalato alla mia agente solo cinque o sei persone che hanno poi avviato un vero rapporto con grandi editori: sono molto selettiva su questo piano. Non tutti quelli che hanno un talento hanno poi disciplina e quando anche si ha disciplina non è detto si riesca a raggiungere dei risultati. Di solito ai più capaci dico di partecipare al Premio Calvino, che resta ancora l’unico serio viatico in Italia verso l’editoria maggiore per gli esordienti, e poi segnalo in agenzia i loro romanzi. C’è chi è uscito dai miei laboratori per Einaudi, per Rizzoli, per Alet. Attendo fortuna, adesso, per Eduardo Savarese, finalista segnalato al Calvino lo scorso anno con un romanzo poderoso, che non si è stancato di riscrivere anche dopo il premio. Per chi scrive davvero, e non a fini commerciali, la strada è tutta e sempre in salita. La scrittura creativa e il mondo del web: cosa pensi di questo rapporto, ormai in evoluzione velocissima? Fa bene o fa male alla “narrativa” in generale? Cosa pensi dei corsi di scrittura on line? Tengo corsi di scrittura on line da diversi anni. Ovviamente l’impatto di apprendimento è molto più basso rispetto a un corso dal vivo. Consiglio sempre di venire a far parte di un gruppo: l’effetto dell’insegnamento si moltiplica esponenzialmente. Molti che mi hanno seguito on line poi sono venuti a seguire i corsi dal vivo per completare la formazione. Considero il web solo uno strumento,

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uno fra tanti. Quel che danneggia l’idea di scrittura è l’effetto blog: molti vengono da me dicendomi «scrivo su un blog», come fosse già una laurea alla narrativa. Però, di fronte alla costruzione del racconto e del romanzo, scoprono che si tratta di ben altra cosa… Evoluzione e/o involuzione della scrittura: in tutti questi anni di esperienza diretta, cosa ne pensi? La scrittura esordiente è in evoluzione o in involuzione? I motivi? Non credo ci siano trasformazioni in questo senso: a scrivere veramente bene sono sempre stati e sono pochissimi. Chi ha una vera vocazione, chi si sottopone a tutte le torture dell’apprendimento, chi si autodisciplina e lavora davvero su di sé è un numero ridotto fra gli esordienti. Il resto fa volume commerciale e di questo hanno, come sempre, colpa gli editori che invogliano scritture di superficie, cercano di imporre mode. Poi c’è il problema di un’Italia che legge poco e male e qui la trasformazione è forse più visibile. Molti brutti manoscritti, che un tempo il lettore medio italiano si sarebbe vergognato di spedire a un Italo Calvino o a una Natalia Ginzburg, finiscono sui banchi dei librai… Nel piccolo della nostra esperienza di rivista-laboratorio letteraria riscontriamo, con sempre maggiore frequenza, che molti giovani aspiranti scrittori inciampano in errori grossolani, non solo a livello concettuale e di punteggiatura (oramai quasi del tutto estinta, a dire il vero), ma anche e soprattutto in errori elementari, a volte eclatanti. Un tempo, infatti, era la scuola che si adoperava in tale senso: oggi, invece, secondo te è una battaglia persa definitivamente e compito esclusivo di correttori di bozze ed editor? Che ruolo ha, o dovrebbe avere, la scuola (dalle elementari all’università) per i ragazzi e futuri scrittori di domani? Sì, la grammatica e il senso dell’uso della lingua stanno evaporando. È un grande rischio, non solo per la letteratura: una nazione che non sa ben scrivere e leggere è preda di arroganti e delinquenti, come si può ben vedere in questi giorni e da vent’anni in Italia. La scuola deve riassumere un ruolo di spinta sulla scrittura e anche le famiglie, prima della scuola. Navigo fra ragazzi che scrivono tutto per abbreviazione T9 anche nei racconti o nei compiti ufficiali. Gli errori di grammatica alle superiori sono impressionanti. Ma, a loro giustificazione, devo dire che nei racconti degli adulti non ce ne sono di meno… Dunque è indispensabile rialfabetizzare un intero paese: ogni tanto, durante una lezione, dico una parola che a me sembra normale (che so, “desueto”) e tutti, inclusi trentenni e quarantenni, mi guardano come se parlassi arabo. Un paese senza lingua è un paese di schiavi.

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Da poco è uscito il tuo ultimo libro, Asino chi legge (Guanda), in cui racconti la tua personale “sfida” nel portare la passione della letteratura scritta e letta in luoghi disparati, viaggiando un po’ per tutta Italia. Cogliamo l’occasione per farti una domanda scaturita da una nostra riflessione: tanti scrivono, anche se spesso hanno poco da dire, mentre pochissimi leggono. Da parte tua che cosa ti sentiresti di dire? Che bisogna leggere di più e leggere meglio. Che ci si accontenta di un libro l’anno quando per chi ama la lettura il minimo è tre a settimana. Che i libri parlano di noi, di chi siamo, di come affrontiamo la vita, di cosa facciamo per migliorarla o peggiorarla. Che la rete più grande e più importante al mondo non è la pur utile rete virtuale, ma quella virtuosa fatta di romanzi, poesie, saggi, quadri, statue e musica, una rete di riflessione, filosofia, arte che ci produce in quanto specie pensante. Non si può essere mai soli se si posseggono dei libri. E se non si è molto, molto, molto letto non si potrà mai scrivere nulla che valga la pena di essere letto. Sempre in merito alla precedente domanda, che libri suggeriresti a dei giovani autori? (Sia da un punto di vista strettamente tecnico, diciamo, sia da una prospettiva di lettore-scrittore). Quali sono stati i tuoi libri-guida nel tuo percorso di scrittrice e insegnante ma anche nel tuo percorso di grande lettrice? I libri guida sono tantissimi, troppi: come escluderne uno? Per me: Bulgakov, Maupassant, Stevenson, Hoffmann, Flaubert, Kafka, ‘O Connor, oggi Alice Munro, e poi naturalmente Cechov, Gogol, Tolstoj, ma anche Mishima, Kawabata, Morante, Ortese e si dovrebbe rileggere e bene tutto Pontiggia (che è anche stato il primissimo in Italia a tenere i benedetti corsi di scrittura creativa), ma poi anche Arpino, D’Arzo, Tondelli, Bianciotti, Quignard, Cervantes (ah, le Novelle esemplari!)… Si potrebbe continuare all’infinito: a chi inizia a leggere dico sempre di farsi contagiare. La malattia è dietro l’angolo, l’epidemia può sempre scoppiare: datele la possibilità. Ci sarà sempre un libro che, come diceva Kafka, diventerà l’ascia che taglia il ghiaccio della vostra vita.


BIOGRAFIE

SCRITTORI Giorgia Bandini è nata a Parma il 26 Novembre 1985 e vive tra la Liguria e l’Emilia. Da qualche mese, da quando si è laureata in Lettere Classiche, di giorno sogna di lavorare in una casa editrice e di notte di scrivere racconti. Enrico Cantino ha raggiunto da poco la boa dei 45 (anni, s’intende). Ha scritto un saggio sulle tecniche dei cartoni animati giapponesi, che sta cercando di pubblicare. Magari ci riesce anche. Ha in piedi alcune collaborazioni sparse qua e là. E un blog che prima o poi spera di riparare. Per il resto, fa anche lui quel che può… Antonella Cilento (1970) scrive e insegna scrittura creativa. Ha pubblicato Il cielo capovolto (Avagliano, 2000), Una lunga notte (Guanda, 2002; Premio Fiesole 2002, Premio Viadana, finalista Premio Vigevano, Premio Greppi, selezionato al “Festival du Premier Roman” di Chambéry), Non è il Paradiso (Sironi, 2003), Neronapoletano (Guanda, 2004), L’amore, quello vero (Guanda, 2005), Napoli sul mare luccica (Laterza, 2006), Nessun sogno finisce (Giannino Stoppani, 2007), Isole senza mare (Guanda, 2009), Asino chi legge (Guanda, 2010). Il suo ultimo libro, Asino chi legge (Guanda, 2010), è un reportage narrativo nelle scuole italiane in cui da diciotto anni insegna scrittura creativa. È tradotta in Germania da Bertelsmann e alcuni suoi racconti sono tradotti in francese in Journal intime et politique, Italia (HB Editions, France), in After the War, a cura di Martha King (Italica Press - USA) e in Giro d’Italia, Hedendaagse italiaanse schrijvers over hun land (Libreria Bonardi - Olanda). Collabora con “Il Mattino”, “L’Indice dei libri del mese”, “Il Corriere della Sera”. Ha collaborato, fra gli altri, anche con “Grazia”, “TTL”, “Il Sole24Ore”. Ha fondato nel 1993 a Napoli il Laboratorio di Scrittura Creativa Lalineascritta (www.lalineascritta.it) e tiene corsi di scrittura presso associazioni, librerie, scuole di ogni ordine e grado in tutt’Italia. Attualmente suoi corsi sono attivi anche a Bari e Benevento. Ha realizzato per RAI RadioTre i racconti radiofonici Voci dal silenzio, è stata segnalata dal Premio Calvino 1997, ha vinto il Premio Tondelli con la sua tesi di laurea. Ha scritto numerosi testi per il teatro e alcuni cortometraggi per Mario Martone e Sandro Dionisio. Giuseppe De Francisco è nato a Palermo il 6 luglio 1977. Ha vissuto a Catania fino ai diciotto anni. Negli anni del liceo ha scritto per due dei tre giornalini studenteschi, ne ha fondato uno lui stesso, e un suo racconto è stato scelto per l’annuario della scuola. Ha studiato le vette sublimi del pensiero occidentale nelle Università di Pisa, Lovanio, in cui ha collaborato con il giornale “The Voice”. A Parigi ha conosciuto Maria ed ora hanno una figlia stupenda. Tornato in Sicilia per qualificarsi come insegnante, ha fondato un’associazione culturale con suo fratello e due cari amici. Si occupavano di cultura popolare e organizzavano progetti per le scuole, corsi di danza, musica e concerti di folk e jazz. Nello stesso periodo suonava con un gruppo sperimentale ed ha pubblicato un articolo sulla rivista “Iride”. È ripartito dalla Sicilia per vivere con Maria, che è svedese, e si è trasferito prima a Ulricehamn, poi ad Amman, in Giordania, ed ora a Lidingö. Ha studiato svedese a Borås e Stoccolma. Attualmente lavora con i bambini autistici in una scuola della municipalità di Stoccolma. Ha ancora la residenza a Catania. Evelyn De Simone è nata a Lecce il 16 Marzo del 1987, dove tuttora risiede e studia Psicologia. Le sue attività di tipo letterario non si sono mai estese ad ambiti più ampi del suo hard disk o di piccoli concorsi universitari, per predisposizione caratteriale alla riservatezza e all’inconcludenza. Ora che il suo hard disk è deceduto e che la sua capacità di finire qualcosa è nettamente migliorata, è arrivato il momento di mettere un argine alla riservatezza. Raul Faraoni è nato a Pinerolo e ha avuto nella sua vita alcune passioni che col passar del tempo ha tralasciato per seguirne altre. Tre anni di geologia mai finita. Amore per la montagna, che frequenta ancora con passione. Buon giocatore di scacchi, attività che ha abbandonato completamente. Interesse per la musica, autori preferiti: Bach, Rossini, Glass. Passione per la pittura, accompagnata da buona conoscenza della sua storia; sia italiana sia francese sia fiamminga, con interessi per la pittura inglese. Pittori preferiti: Bruegel, Rembrandt, Velazquez, Piero della Francesca. Buon interesse per la letteratura. Autori preferiti: Kafka, Calvino, i russi e i francesi in genere. Di lavoro fa il cuoco, attività che ha svolto in ristorante e in rifugio alpino. L’interesse per la scrittura cominciò solamente quando un paio di riviste locali gli chiesero se avesse degli scritti pubblicabili. Da quel momento, ogni tanto fa uscire racconti brevi. Ritiene che un’opera d’arte, per essere giudicata tale, debba suscitare un’emozione che fuoriesca dal petto, anche se di breve durata. Paolo Fortunato è nato a Roma, si è laureato in Economia Aziendale, per poi scoprirsi “tardi” comunicativo e creativo. Infatti inizia a scrivere, durante il viaggio dopo la laurea, su un piccolo diario di bordo condiviso da tutti i compagni. Dopo un’esperienza come responsabile commerciale di Taxi Channel, canale satellitare, è assistente autore e organizzatore della serata televisiva di gala, Primo Premio Nazionale “MontesilvanoCinema” 2006. Con lo stesso gruppo, lavora anche per l’evento Anffas “La libertà di…” (2007). Nello stesso anno è relatore al IV Convegno Annuale Società Italiana di Marketing con la presentazione del paper “Marketing e design. Il design italiano come fattore competitivo: il caso Covo”. Nel Gennaio 2008, inizia un percorso personale e di comunicazione, frequentando il laboratorio-corso di formazione, La Persona e la Comunicazione, organizzato da Italia Solidale Onlus, un corso che ha ripetuto anche nel 2009. Sempre con Italia Solidale Onlus, sta frequentando la Scuola di Promotori di Sviluppo di Vita e Missione. Alfredo Goffredi è nato a Londra il 3 Marzo del 1982, cresciuto a Piacenza, vive a Parma e un giorno invecchierà da qualche parte e morirà, come tutti – non c’è da stupirsene. Il resto sono dettagli. Alessandro Milani è nato a Verbania nel 1981. Da dieci anni vive a Milano e lavora nell’ufficio marketing di un’azienda di informatica.

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Giorgio Pirazzini ha 32 anni ed è nato il 28 ottobre 1977, incrociando le dita, alla stessa ora in cui a Londra usciva Never Mind the Bollocks. Laureato in Scienze della Comunicazione a Bologna, ha conseguito un master all’University of Arts di Londra. Ha quasi sempre lavorato all’estero, dapprima a Lisbona come giornalista, dal 2004 al 2007 a Londra (includendo l’Università) in un’agenzia di pubblicità inglese, Key20 Media. È stato responsabile della comunicazione dell’evento organizzato annualmente, “The European Business Awards”. Nel 2007 si è trasferito a Parigi all’interno della stessa agenzia, dove è rimasto fino alla fine del 2008, anno in cui è ritornato in Italia per fondare un’etichetta di vini con un’immagine tagliente e accattivante: www.madeinmilanwine.com Attualmente è tornato a Parigi e lavora per un’agenzia di pubblicità. Fabio Pirola è nato a Rimini nel 1988, risiede a Cesenatico (FC) e studia Giurisprudenza presso l’Università di Bologna. Ama praticare sport, atletica, nuoto e, soprattutto, lo sci. Appassionato di musica, nel tempo libero porta avanti la sua passione per la chitarra elettrica. Ha collaborato alla realizzazione di alcuni cortometraggi amatoriali. Michele Spagnolo ha sviluppato fin dagli anni dell’adolescenza la passione per la scrittura e per la fotografia. Dopo essersi laureato nel 2007, parte per un lungo viaggio in Sudamerica, zaino in spalla, fino alle estreme regioni della Patagonia e della Tierra del Fuego. In questi luoghi ha trascorso “solo” alcuni mesi della sua vita, che tuttavia hanno lasciato un’impronta indelebile nel suo animo e nel suo modo d’essere. Nel 2008/2009 ha seguito con buoni risultati il corso di scrittura creativa dell’edizione LeConte, vincendo anche alcuni piccoli concorsi interni. Sempre nel 2009 il suo racconto di viaggio Merluzzo a colazione è stato selezionato tra i 10 racconti finalisti del concorso “Storie Vagabonde” promosso dal sito www.vagabondo.it. Adora viaggiare e leggere, ed è costantemente depresso perché non riesce a fare queste cose quanto vorrebbe. Gli piace scrivere ma non lo fa quasi mai. Da anni sta seguendo un progetto letterario sul grande Nord, che spera un giorno possa sfociare in un libro. Roberto Stradiotti ha scordato il passato e per quello che lo riguarda potrebbe anche averne venti, di anni. Non ha debiti e non ha intenzione di farne, anche perché versa alla consorte il suo stipendio da impiegato e tira avanti con le paghette. Scrive perché poi prende sonno meglio. Sarebbe grato a chi gli gira 1 euro per il caffè. FOTOGRAFI Ugo Baldassarre vive a Parma dal 1997, dove ormai lavora stabilmente sviluppando parallelamente la propria passione per la fotografia, nata di recente, qualche anno fa, quasi per caso. Autodidatta completo, fortemente attratto dalle persone, spazia dalla ritrattistica classica a servizi moda, coltivando parallelamente una forte passione per la fotografia classica in bianco e nero di matrice analogica. Ha esposto in diversi locali e preso parte ad alcuni eventi e ha già all’attivo alcune pubblicazioni su riviste cartacee e online. Per ulteriori informazioni sui suoi lavori: http://ugofoto.blogspot.com Maura Ghiselli è nata a Genova, dove vive e lavora. Compie i suoi studi universitari tra l’Italia (frequentando l’Accademia Linguistica di Belle Arti di Genova) e la Spagna (frequentando la facoltà di Bellas Artes presso l’Università Miguel Hernandez di Altea). Nell’Ottobre 2006 consegue la laurea in Arti Visive e Discipline dello Spettacolo (specializzazione in Pittura) presso l’Accademia di Genova con una votazione di 110 su 110 con Lode. Da circa tre anni collabora con la galleria d’arte moderna Satura (Genova), per la quale cura come critico d’arte eventi culturali ed esposizioni. A questa attività affianca lo studio e la pratica delle tecniche della fotografia, partecipando a numerose esposizioni ed iniziative sul territorio nazionale, come Student Performing Festival a Torino, MarteLive a Roma, Food and the City a Firenze e Illegal Art a Genova. Imma Grimaldi ha 26 anni e vive in provincia di Parma. Da qui osserva il corso degli eventi con bisturi e occhio da entomologo e ogni tanto prende nota. Sara Guarracino ha compiuto studi artistici e umanistici… vabbè, diciamola tutta: a quattordici anni voleva fare la pittrice all’Istituto d’Arte, ma poi ha cambiato idea e ha deciso che l’Accademia non faceva per lei. Così si è iscritta a Lettere all’Università per impegolarsi in una tesi pseudofilosofica sulla percezione sensoriale nell’Arte. E una volta finita, neanche quella vita faceva per lei. Nel 2003 ha fatto una mostra con l’Archivio Giovani Artisti di Parma all’Informagiovani dal titolo Le cose cambiano. Infatti cambiano: si è anche sposata. Dopo anni di ricerca per trovare il lavoro che fa per lei è ancora lì a cercarlo, passando dal ruolo ufficiale di insegnante di italiano a laboratori artistici, corsi di pittura e mercatini in cui propone i suoi Animalescamente: animaletti che hanno un occhio grande e uno piccolo, un’espressione stupita verso tutto ciò che li circonda, un po’ come quella che ha lei nel guardare ciò che ha attorno. Per ora, tutto sommato, la vita così com’è le piace: oggi fotografa, domani illustra una favola, dopodomani chi lo sa…

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Marco Losito nasce il 23 Gennaio di un anno imprecisato degli Ottanta. Come fotografo invece, rinasce circa 12 anni dopo, iniziando ad utilizzare la reflex meccanica del padre. Solo recentemente però, lavorando, può permettersi un corredo fotografico suo ed iniziare quindi ad affrontare la Fotografia con la dovuta serietà. Cristina Mauri è nata nel 1986 a Lecco e vive a Bellagio, in provincia di Como. Si è diplomata al Liceo Linguistico “G. Bertacchi” di Lecco e ha conseguito la laurea breve all’ISGMD, Istituto Superiore Grafica Moda Design di Lecco. Continua a coltivare la passione per la fotografia, portando con sé l’amata macchina fotografica in ogni luogo e occasione. Francesca Parenti Brambilla è nata nel 1982 a Parma, città dove si laurea in Scienze della Comunicazione nel 2005. Nel 2009 consegue la laurea specialistica in Giornalismo e Cultura Editoriale con una tesi in fotogiornalismo dedicata all’opera del reporter di Magnum Photos, Alex Majoli. Segue il corso di Storia della Fotografia presso l’Università di Parma tenuto dal fotografo Giovanni Chiaramonte e, nel frattempo, frequenta a Milano l’Istituto Italiano di Fotografia, presso cui si diploma nel 2006. In quello stesso anno partecipa all’esposizione fotografica collettiva “Vigevanessitudini”, presso l’Unione del Commercio di Milano. L’anno successivo realizza un vasto progetto fotografico dedicato alla rappresentazione teatrale, seguendo la Compagnia del Teatro di Gualtieri durante la preparazione di uno spettacolo. Tra il 2009 e il 2010 si dedica ad un reportage presso il Centro Cure Palliative di Fidenza (PR), che darà vita al libro fotografico Stanze di Luce, edito da Mattioli e ad un’esposizione fotografica in diversi comuni della provincia. Attualmente vive a Parigi per un periodo di stage presso la prestigiosa agenzia di fotoreporter Magnum Photos. Continua a scrivere e a scattare per diverse testate e prosegue l’inesausto percorso di approfondimento progettuale e personale sulla fotografia. Predilige, e senza dubbio continuerà a farlo, tutto ciò che le permette di trovare “un momento di condivisione autentica” con i luoghi e le persone.


ILLUSTRATORI Stefano Artibani è nato a Roma nel 1983. Fin da piccolo s’interessa al mondo dei fumetti leggendo tonnellate di volumi. Ha frequentato l’Istituto di Grafica Pubblicitaria “F. Cesi” e il Liceo Artistico “M. Mafai”, dove si è diplomato con ottimi voti. Parallelamente ha seguito i corsi della Scuola Internazionale di Fumetti. Attualmente collabora con varie testate indipendenti, legate anche all’ambito musicale, grazie al gruppo in cui suona la batteria. Giovanni Curi vive a Pescara. Si è diplomato presso l’Accademia di Belle Arti (Corso di Pittura) dell’Aquila con una tesi dal titolo “Il Fumetto come mezzo di espressione dalle origini alla Pop Art”. Subito dopo il diploma, ha frequentato un Corso di Grafica Pubblicitaria presso l’Università Europea del Design di Pescara, città in cui ha frequentato anche un Corso triennale presso la Scuola del Fumetto. Ha partecipato, ottenendo buoni riscontri, a numerosi concorsi, quali per esempio: “Omaggio a Tex”, Oscar Comix, 2003, Chieti; “Una fiaba per crescere”, 2003, Associazione CaraSan, Sesto Calende (VA) (primo classificato); “La bicicletta d’oro”, 2007, a cura del Centro Antartide (l’opera è stata selezionata per la mostra); “Il soffio divino negli animali”, 2007, Arca 2000 Onlus; “Il mio mare”, 2007, IV Edizione, Casa Editrice Mandragora e Associazione Cultura e Risorse Onlus; “Il viaggio”, 2007, Edizioni Farnedi (menzione di merito); “Marco Pantani”, 2008, Edizioni Farnedi (secondo classificato); “Il fuoco”, 2009, Proloco Gallarate (VA). Erjon Nazeraj nasce a Fier, Albania, nel 1982. Nel 2001 si diploma in scultura al Liceo Artistico “Jakov Xhoxha” di Fier. Nel 2007 si diploma in scultura all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Nel 2002 partecipa alla collettiva di scultura “Arte e Armonia” presso il Conservatorio di Bologna. Dal 2004 collabora con la Galleria d’Arte Babele di Firenze. Nel 2006 partecipa ad un’esposizione di terrecotte nel parco di Villa Malenchini, a Carignano (PR), all’Arte Fiera di Reggio Emilia. Nel 2007 partecipa all’evento culturale “Arte e Portici”, a Bologna, alla collettiva di fotografia, scultura, grafica, pittura con l’associazione culturale Veda-Visioni a Medesano (PR), alla terza edizione della collettiva di scultura “Terrecotte del Po” a Mezzano Inferiore (PR), al “Festival della Creatività” presso la Fortezza Da Basso a Firenze. Nel 2008 interviene con l’installazione “Upstream” sulla facciata di un palazzo di Bologna e partecipa alla quarta edizione della collettiva di scultura “Terrecotte del Po” a Mezzano Inferiore (PR). Nel 2010 partecipa in luglio alla collettiva all’interno dello Squinterno Festival (Berceto, Parma) e in ottobre alla collettiva “The green party from Ecology to Economy” presso lo Studio Fiscalis Commercialisti Associati a Parma. Valentina Scaletti è nata nel 1983 a Parma, dove vive e lavora. Nel 2008 si diploma in scultura (110/110) all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Durante gli anni trascorsi all’Accademia, oltre che alla modellazione della creta, si è avvicinata alla fotografia e alla tecniche di incisione e fonderia, ottenendo ottimi risultati. Nel 2001 partecipa alla collettiva di scultura, grafica e pittura “Omaggio a Marzaroli Scultore” presso le Serre Comunali di Salsomaggiore Terme (PR). Nel 2001 e 2002 espone a due edizioni della Mostra Nazionale di Ceramica presso il centro Allende dell’Associazione Culturale Dante Alighieri (La Spezia). Dal 2004 collabora con la Galleria d’Arte Babele di Firenze. Sempre nel 2004 partecipa alla collettiva di scultura Visioni Plastiche al Castello di Felino (PR). Nel 2006 partecipa ad un’esposizione di terrecotte e ceramiche nel parco di Villa Malenchini, a Carignano (PR) e nel 2007 all’evento culturale Arte e Portici a Bologna e alla collettiva di fotografia, scultura, grafica, pittura con l’Associazione Culturale Veda-Visioni a Medesano (PR). Sempre nello stesso anno partecipa anche alla collettiva di scultura e fotografia presso il convento dei Cappuccini di Fontevivo (PR), alla terza edizione della collettiva di scultura Terrecotte del Po a Mezzano Inferiore (PR) e alla collettiva di scultura e pittura presso la Scuola di Arti e Mestieri F. Bertazzoni di Suzzara (MN). Nel 2008 partecipa alla collettiva di scultura Eventi scultorei cinque, presso le sale del Comune di Crespellano (BO), e alla quarta edizione della collettiva di scultura Terrecotte del Po a Mezzano Inferiore (PR). Nel 2009 partecipa alla collettiva di scultura, fotografia e pittura “Alla ricerca del filo bianco” presso Palazzo Giordani a Parma, espone una personale – “Alice e My secret garden” − al Ground’s Art Gallery dell’Associazione Culturale 360° (PR) e presenta con Vetrina Flash, a cura dell’Archivio Giovani Artisti di Parma, l’esposizione “Alice” presso la Vetrina d’Arte di piazzale Cesare Battisti. Nel 2010 partecipa in luglio alla collettiva all’interno dello Squinterno Festival (Berceto, Parma) e in ottobre alla collettiva “The green party from Ecology to Economy” presso lo Studio Fiscalis Commercialisti Associati a Parma. Ettore Tomas è nato in provincia di Napoli nel 1979 e vive a Sasso Marconi (BO). Dopo una maturità scientifica e una laurea presso l’Accademia di Belle Arti in Decorazione, si è specializzato in Grafica presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Dal 2003 partecipa a mostre, concorsi, progetti, Mail Art: mostra “Indicativo Presente” a cura dell’Associazione Artincanti, presso Palazzo Albertini a Forlì (2007); mostra personale presso l’ex Convento di San Francesco a Bagnacavallo (2007); partecipazione alla mostra “Libri Mai Visti”, organizzata dalla Biblioteca comunale di Sasso Marconi (2007); partecipazione alla mostra “La Collana bianca si colora” in collaborazione con l’agenzia Einaudi di Forlì, presso la Biblioteca Giovanna Righini Ricci a Conselice (2007); selezionato e pubblicato nel catalogo al III “Concorso Internazionale Ex Libris Biblioteca di Bodio Lomnago, Opera e Melodramma” (2007); partecipazione e pubblicazione nel libro-catalogo, al progetto “The Screamer Company” (2007, Austin, Texas); partecipazione alla manifestazione “Abstracta”, presso Filmstudio 80 Roma (2007); selezionato al concorso internazionale “ex libris Tauragei 500”, presso Tauragé. (2007, Lituania); partecipazione al progetto “ART=START+” a cura di Ko De Jonge (2007, Middelburg, Olanda). Nell’ambito dei progetti Mail Art, nel 2008 ha partecipato a: “The mailartists’ horse” a cura del Dott. Lutz Wohlrab (Berlino); “Mailartissimo” a cura di Karin Weber (Dresda); “Energy for you and me” a cura di Ebedhard Janke (Edizionui Janus Mail Art Catalogue 4); “Mail Sound Art Project, 1 minute Auto Hipnosis” a cura di Pedro Bericate (Mute Sound); “Mailartissimo 2007”, comprensivo di catalogo, a cura di Svetlana Serebryakova presso The A.S. Popov Central Museum of Communications, Saint-Petersburg, “I Bienal Internacional del pequino formato”, comprensiva di catalogo (Venezuela). Nel 2008 ha partecipato al concorso internazionale “Exlibris Exibition, 50 years of Siuliai University Humanities Faculty”, Siauliu, Lituania e al relativo catalogo e all’intervento murale a Creativa 2008, a cura di Franco Piri Focardi; partecipazione alla mostra “Art books”, presso la biblioteca di Conselice (RA); partecipazione a “Libri d’artista in galleria”, a cura di Lamberto Caravita presso Galleria Magma, Bologna (11-18 Giugno). Nel 2009 viene selezionato per la manifestazione Quotidiana09 a Padova; partecipa anche alla mostra “Art books”, presso la biblioteca di Conselice (RA); partecipa a “Libri d’artista in galleria”, presso Galleria Magma, Bologna; partecipa a “STUPOR MUNDI Metamorfosi di un libro”, presso Palazzo Grassi, Aredo (LE) e al Castello angioino di Mola di Bari; partecipa a “Lavori in corso d’opera” con un intervento pittorico a centro giovani JYL, a cura di Lamberto Caravita. Partecipazione a “Fabbricanti di libri” edizione internazionale 2009, presso Palazzo Grassi, Aredo (LE); partecipazione a “After Berlin 89-09, 20 anni dalla caduta del muro”, presso Pescherie della Rocca, Lugo (RA); partecipazione a “Segni oltre il confine (20 anni dalla caduta del Muro)”, a cura di Lamberto Caravita, presso la Rocca Sforzesca Bagnara di Romagna (RA); presentazione del corto Micro il circo, con il patrocinio dell’Emilia Romagna Regione Animata Projects Award, all’interno del Futur Film Festival, Palazzo Re Enzo, Bologna (28 gennaio).

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ITALIA CREATIVA

realizzato da

La rivista letteraria “La Luna di Traverso”, edita dalla Casa editrice Monte Università Parma e dall’Associazione Culturale “Lunatici”, condivisa e supportata dall’Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia, struttura dell’Assessorato al Benessere e alla Creatività Giovanile del Comune di Parma, bandisce un NUOVO CONCORSO PER NARRATORI, FOTOGRAFI e ILLUSTRATORI. REGOLAMENTO Art. 1 - TEMA DEL CONCORSO Il nuovo tema dell’edizione n°29 de “La Luna di Traverso” è ORIGINI: Origini come principi di appartenenza da cui deriva qualcosa, punto d’inizio per situazioni e persone. L’incipit di ogni cosa, i primi istanti di qualsiasi evoluzione: della vita, della storia, del pensiero, dell’universo. E ancora: cause, ma anche luoghi di nascita, siano essi intesi in senso temporale, geografico, sociale o nazionale. Commistione e integrazione: vale a dire, nascita di qualcosa di nuovo e... “originale”. Un richiamo, un riconoscimento, un ritorno. “A un così semplice inizio, innumerevoli forme, bellissime e meravigliose, si sono evolute e continuano a evolversi…” (C. Darwin) Art. 2 – REQUISITI PER LA PARTECIPAZIONE Il bando è rivolto a giovani autori operanti nei settori della Narrativa, della Fotografia e dell’Illustrazione residenti, domiciliati, studenti o lavoratori nel territorio nazionale. Si richiede materiale inedito in lingua italiana, che non sia stato premiato in altri concorsi o già pubblicato, anche parzialmente, oppure presente in Internet. La partecipazione al bando è totalmente gratuita. Art. 3 – MODALITÀ DI PARTECIPAZIONE e INVIO DEI MATERIALI Opere narrative: si ammettono racconti originali ed inediti per una lunghezza massima di 5400 battute, spazi inclusi. Fotografie: si accettano opere originali e non pubblicate. Ogni autore dovrà presentare 5 fotografie in formato 10x15 in bianco e nero facendole pervenire via mail su file con risoluzione minima 300 dpi, oppure tramite posta su negativo o su supporto magnetico (cd rom). Illustrazioni: si ammettono da un minimo di 3 a un massimo di 5 tavole in bianco e nero del formato massimo di un foglio A4 (21x29.7 cm). È preferibile scansionare ed inviare il materiale via mail o tramite posta su cd rom, con risoluzione minima 300 dpi. Per una maggiore valorizzazione, fruizione e aderenza agli intenti artistici e comunicativi di ogni fotografo o illustratore si richiede, ove lo stesso autore lo ritenga utile e necessario, di indicare il titolo della propria opera, le dimensioni e la tecnica utilizzata. Questi dati verranno indicati come didascalia di accompagnamento alle fotografie o illustrazioni che verranno scelte per la pubblicazione. Le opere di tutti i partecipanti (Narrativa, Fotografia, Illustrazione) dovranno essere obbligatoriamente accompagnate da: una breve biografia dell’autore corredata dai dati personali (nome, cognome, indirizzo, recapiti telefonici, indirizzo e-mail). Farà fede il timbro postale. Eventuali attestati di partecipazione al concorso saranno assegnati agli artisti che ne faranno richiesta solo qualora i loro lavori vengano selezionati. I materiali dovranno essere inviati via mail a: lalunaditraverso@gmail.com Chi volesse, può comunque inviare le proprie opere per posta tradizionale, facendole pervenire al seguente indirizzo: MUP Editore, Vicolo al Leon d’Oro, 6 43121 Parma. Art. 4 – TRATTAMENTO DEI DATI PERSONALI e RESPONSABILITÀ In relazione alla previsione che il materiale possa essere pubblicato e utilizzato dalla redazione per letture e reading, in esecuzione del Decreto Legislativo n. 196 del 30 giugno 2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali), il partecipante fornisce il proprio consenso al trattamento dei propri dati personali. Ogni autore partecipante sarà responsabile per i contenuti della propria opera. Inoltre i candidati si faranno garanti che l’opera presentata è originale, che non è mai stata premiata né presentata in altri concorsi, né mai pubblicata, nemmeno parzialmente, né immessa nella rete Internet. Art. 5 - CRITERI DI SELEZIONE e PREMIO Per la valutazione delle opere si terrà conto della qualità, dei percorsi di ricerca formale e dell’originalità dei testi e delle immagini. Il premio del concorso consiste nella pubblicazione dell’opera sulla rivista “La Luna di Traverso”. Solo i vincitori saranno contattati dalla redazione e riceveranno al proprio domicilio due copie omaggio. Non si accettano racconti già editi o che hanno partecipato a bandi precedenti. Le decisioni della Commissione saranno inappellabili e il materiale non verrà restituito. Partecipando all’eventuale selezione, si concede il diritto, a titolo gratuito, di prima edizione delle opere inviate senza avere nulla a pretendere come Diritto d’Autore. Art. 6 – SCADENZA Le opere devono essere consegnate entro e non oltre le ore 12.00 del 28 marzo 2011 INFORMAZIONI Per ulteriori informazioni, rivolgersi ai seguenti indirizzi di posta elettronica: lalunaditraverso@gmail.com - info@lunatici.net - redazione@lunaditraverso.it

www.lalunaditraverso.it

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