SOMMARIO
Incipit d'autore 4 Ogni cosa è illuminata di Jonathan Safran Foer
Laboratorio di Narrazioni 2008 - Anno 8 n° 21 MUP Editore € 4,00
Racconto d'autore Incontro con la Liguria di Marco Grassano
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A quel tempo Testo di Giacomo Dazzi
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Antropologia Testo di Mattia Filippini
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Aragosta Testo di Pietro Iannibelli
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100 di questi giorni Testo di Roberto Stradiotti
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Complementarietà Testo di Alfredo Goffredi
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ORGANIZZAZIONE E COORDINAMENTO Mariella Toscani - Responsabile Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia
Hi, Virus Testo di Maria Claudia Bada
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REDAZIONE Silvia Bia, Enrico Cantino, Simona De Blasio, Carlotta Fiore, Roberta Gatti, Armando Minuz, Federica Sassi, Denis Zuliani
Il grigio ti sbatte Testo di Claudia Arisi
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RELAZIONI ESTERNE Andrea Rabaglia
'Mericani Testo di Adolfo Marciano
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Non faccio più la lista della spesa Testo di Pietro Iannibelli
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Sembra che dorma Testo di Tommaso Chimenti
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LALUNADITRAVERSO 2008 - Anno 8 - Numero 20 Monte Università Parma Editore - Vicolo al Leon d’Oro, 6 43100 Parma
L'ultimo gancio di Carnera Testo di Ivano Porpora
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INFORMAZIONI Per collaborare alla rivista scrivi all'indirizzo redazione@lalunaditraverso.it oppure telefona all’Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia (Via Repubblica, 29 - Palazzo Pigorini 43100 Parma, giovani@comune.parma.it tel. 0521/384469-70).
Foto di copertina Marco Fortunato
Chi Siamo DIRETTORE Massimo Carta VICE DIRETTORI Guido Conti, Federica Pasqualetti
IDEAZIONE GRAFICA Alessandro Berti REALIZZAZIONE Simone Pellicelli STAMPA La Stamperia - Parma
RUBRICHE
PROMOZIONE E DISTRIBUZIONE PDE - Promozione Distribuzione Editoriale
C'era una volta... Testo di Armando Minuz
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Farewell to you, my friend... Testo di Enrico Cantino
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Gli autori pubblicati riceveranno due copie in omaggio.
Biografie
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La Luna di Traverso è sostenuta dall'Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia e dall'Assessorato alle Politiche Culturali e alla Creatività Giovanile.
Il giudizio e il lavoro editoriale della redazione sono insindacabili e accettati implicitamente.
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ERRATA CORRIGE Anno 7 n°19 - 2007, pag. 3, 20, 36: l’autore del racconto “Il risveglio” si chiama Filippo Fabbricatore.
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Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia Assessorato alle Politiche Culturali e alla Creatività Giovanile Comune di Parma
La vita, amico, è l’arte dell’incontro. Tutto è racchiuso in un titolo, quello di un album pubblicato sul finire degli anni Sessanta, che documenta l’incontro tra figure di spicco del panorama artistico. Quello, straordinario, tra Sergio Endrigo, Vinicius de Moraes, Giuseppe Ungaretti, Toquinho e Sergio Bardotti, un eterogeneo manipolo di abili alchimisti, funamboli della parola, sapienti dispensatori di pathos e di ritmo. Incontrare significa imparare, crescere, confrontarsi, aprirsi al dialogo, osservare attivamente ciò che spesso non si conosce e, proprio per questo, si ritiene diverso. Un arricchimento, in ogni caso, poiché l’incontro con gli altri risulta illuminante anche per conoscere se stessi: nasce la consapevolezza del proprio essere; dei propri lati positivi, come di quelli negativi. L’incontro col Presente – il conoscere – è conoscersi: mettere in luce le proprie fragilità, le inquietudini, i moti dell’anima, le pulsioni, guadagnando a poco a poco il saper convivere con l’incertezza, determinata dai frenetici mutamenti e dalla precarietà, caratteristica stabile del nostro tempo. L’incontro col Passato, le radici, il porto da cui si salpa per approdare al domani, rappresenta un inestimabile patrimonio, del tutto necessario perché, per dirla con Gustav Meyrink, «Quando arriva la conoscenza, arriva anche la memoria.» Non potrebbe essere altrimenti: far tesoro degli errori passati per correggere sul nascere eventuali azioni future. Tuttavia, è l’incontro col Futuro che ci riserva sorprese sempre nuove e stimolanti. L’arte dell’incontro è la vita stessa, la quale ci spinge verso rotte appena abbozzate, per poi sorprenderci con un approdo del tutto inatteso. Approdo inteso come sosta, poiché un viaggio non consiste nel raggiungere una mèta, bensì nel suo mai semplice dipanarsi, fatto di distese sconfinate e dislivelli da colmare, ma soprattutto di incontri. Di ogni tipo: persone, visi, sorrisi, parole, storie, suoni, canzoni, emozioni, tramonti, albe, visioni, ma anche scontri, burrasche, batoste e perdite. Ognuno di essi ci permette di ridisegnare il mondo, osservarlo con occhio più maturo e attento; diverso, oppure, più semplicemente, con convinzioni sempre più forti. Un incontro di grande importanza è quello che vede “La Luna di Traverso” coinvolta nel progetto nazionale di scrittura Born to Write - Nati per Scrivere, inserito nel programma biennale ITALIA CREATIVA, a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le Politiche Giovanili e Attività Sportive, dell’ANCI – Associazione Nazionale Comuni Italiani – e del GAI – Associazione per il Circuito dei Giovani Artisti italiani, il cui bando verrà lanciato in autunno. Davvero un bell’incontro per chi, come “La Luna di Traverso”, si occupa di scrittura e, sicuramente, un’opportunità per chi si sente «nato per scrivere». Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia 2
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Scatto di Giuseppe Ammannato Per parlare di Rivoluzioni basta pensare ad uno sconvolgimento. E qual è l’ambiente ideale dove si trova più scompiglio se non l’animo umano? Con il tema Rivoluzioni noi de “La Luna di Traverso” abbiamo voluto innescare nello scrittore questa piccola bomba ad orologeria. Lo scrittore sente in continuazione la necessità di liberarsi da un grosso peso che nasce, lievita e cerca di uscire dalla propria testa e la scrittura è un modo per liberarsi dai disordini che si creano nella propria mente. Qual è il modo migliore per farli uscire se non sollecitarlo a creare dentro di sè una rivoluzione, una via d’uscita da sensazioni di disagio? Da un precedente senso di caos, di vuoto, di smarrimento, si cerca con il processo rivoluzionario di arrivare ad un punto o un bivio o semplicemente ad un allineamento con ciò che ci circonda. Abbiamo indotto lo scrittore a farsi delle domande ben precise e a darsi delle risposte, cercando con la scrittura di farlo liberare dai propri dubbi e di rivoluzionarlo. La risposta dello scrittore alla nostra proposta un po’ provocatoria è stata molto convincente. Predomina la voglia di ironizzare, di prendersi e prendere in giro, di beffare il lettore negli scritti di Goffredi, Saracca, Iannibelli e Vitali. Il comune senso di smarrimento e d’ansia percepito sotto diverse forme, invece, ce lo fanno leggere Marchetti, Filippini, Tinterri e Stradiotti. Le rivoluzioni sono anche quelle scaturite da una serie di problematiche lavorative e relazionali, che ci danno lo stimolo per cambiare, per vedere in modo diverso o semplicemente per andare avanti e ci vengono illustrate da Soprani, Robusti, Porpora e Sangiorgi. L’inconfondibile Presti ancora una volta ci porta in giro per i vicoli bui e i luoghi più enigmatici di una città che questa volta trova nel viso di Budapest una risposta ad una rivoluzione che nasce da dentro, nell’io profondo. La redazione ha scoperto di non aver cercato, né trovato, veri stili rivoluzionari nei nostri autori. Crediamo infatti che uno stile letterario che possa considerarsi rivoluzionario sia quello che induce chi legge ad una lettura profonda, attraverso cui entrare in conflitto o in relazione con ciò che viene proposto e narrato. Noi volevamo le idee. Ulteriore punto di forza di questo numero dedicato alle Rivoluzioni è il racconto d’autore Pecore in terra santa di Guia Risari, scrittrice e traduttrice che si occupa di letteratura dell’olocausto e della migrazione. Con la metafora delle pecore e della ricerca di un qualcosa che non è facilmente rintracciabile ad occhio nudo ma che va scoperto e scavato tra mille pietre uguali, ha voluto farci notare quanto le rivoluzioni possano nascere da un sentimento che ci viene indotto dall’esterno e non consapevolmente ricercato.
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Incipitd'autore Quando ci siamo trovati sono rimasto molto muto per l’apparenza sua. Questo qui è americano? Ho pensato. E anche: questo qui è ebreo? Lui era veramente basso. Portava gli occhiali e aveva dei capelli minimi che non erano scriminati da nessuna parte ma appoggiati in testa come uno Shapka. (Se fossi stato il Babbo, forse lo avrei chiamato Shapka). Non sembrava nemmeno come gli americani che io avevo veduto sui giornali con capelli gialli e muscoli o gli ebrei dei libri di storia senza capelli e con ossi sporgenti. Non portava né blue jeans né divisa. In verità, non sembrava proprio niente di speciale. A dire tanto, non faceva né caldo né freddo. Deve essersi accorto del cartello che tenevo perché mi ha dato un pugno sulle spalle e detto: «Alex?» Io ho detto di sì. «Sei il mio interprete, vero?» Io gli ho chiesto di andare lento perché non capivo. In verità stavo fabbricando tanta merda nelle mutande. Ho attentato di essere pacioso. «Prima lezione. Hello. Come ti senti oggi?» «Come?» «Seconda lezione: okay, non è il tempo tutto una meraviglia?» «Tu sei il mio interprete» ha ripetuto fabbricando gesti, «giusto?» «Esatto» ho detto io regalandogli la mano. «Io sono Alexander Perchov. Sono il tuo umile traduttore». Jonathan Safran Foer, Ogni cosa è illuminata, Guanda 2002, pp. 42-43. (trad. di Massimo Bocchiola)
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Scatto di Matteo Varsi
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Racconto d'Autore Testo di Marco Grassano Illustrazione di Giuseppe Ammannato
Alla memoria di Francesco Biamonti I fiumi sono strade che camminano. Blaise Pascal La Via Aurelia attraversa la Liguria come uno zigzagante schidione. Affrontarla può provocare inquietudine, incutere timore persino, per l’intensità del suo traffico, oppressivamente rumoroso di giorno e sciabolante di fari la notte. Era diverso, nell’infanzia, quando l’emozione della Riviera consisteva, per me, nell’odore della salsedine, in una fila di palme e in un inedito schieramento di negozi che esponevano canotti, remi, salvagente, pinne, sacchetti di conchiglie. Sulla spiaggia giacevano, leggermente obliqui, magnetici barconi neri listati di bianco. Meglio, ora, osservarla dal sicuro promontorio di un borgo trincerato, saldamente commesso, fitto di case a gomitolo, di vicoli pedonali un po’ tenebrosi, anche di giorno, ma comunque rassicuranti come una fortezza e soffittati, tra una cimasa e l’altra, da una scriminatura di cielo smaltato. Basta, poi, ascendere alla piazzetta superiore, o portarsi lungo i camminamenti più esterni, a ridosso del sassoso muro di cinta, per avere una luce intensa, radiosa, massiccia, come in un villaggio provenzale. Cervo potrebbe essere Ménerbes, Saint-Rémy, Les Baux, ma ha, in più, quest’arteria fragorosa, che gli lambisce lo zoccolo come fa la maretta con lo scoglio. Dalla specola del Castello si può vedere il riverbero rosso del sole calante spennellato sulla costa orientale, mentre, al largo, il mare si macula di aree vinose (osservato dalla scogliera, è ancora quello, schiumoso e bluastro, dell’Odissea). In autunno, possono apparire, all’improvviso, squarci affocati di cielo puro tra nubi incandescenti, lagune di luce sul foglio spiegazzato dei flutti, un chiarore vischioso sulle rocce. Al tramonto, la marina prende colori di acquerello: un blando turchino con un solco rossastro al centro, fino alla striscia violetta dello sfondo. In pieno giorno, il sole sull’acqua increspata è come un fuoco d’artificio continuo e abbagliante, che scoppietta visivamente − stereoscopico, simultaneo − nella propria scia, sempre più densa e accesa a mano a mano che lo sguardo la segue verso il largo. Vitree scintille bianche esplodono come istantanee Croci del Sud, accecanti (ma a volte paiono persino brunastre) sullo sfondo bluastro-grigiastro-verdastro-cupo della distesa liquida, marezzata di mobili gradazioni chiaroscure e di riflessi. Col nuvolo, il mare diventa un piombo fuso sciabordante. Poi, tra il plumbeo del mare e il grigio del cielo, in lontananza, una sottile riga di luce viene a inserirsi. Più al largo ancora, dilaga il sereno. Alla base della scogliera, sia verso il sole sia dall’altro lato, l’acqua si muove a trattini luminosi – un
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luccichio – sopra il fondale scuro e opaco. Le lineette specchianti delle onde in movimento danno l’impressione di scorrere le une in direzione opposta alle altre, come treni che si incrocino. È l’effetto di Claude Monet, ma animato. A fine primavera, il cielo ha il colore e la purezza dei fiori di rosmarino: al mattino, ovunque; poi, più che altro, verso Nord. Ma il mare è un flusso, un barbaglio, un’essenza: per questo è meglio frequentarlo quando c’è poca gente. Tutti i profumi, i colori, la luce delle alture che sovrastano l’Aurelia, le case in pietra dei borghi vecchi (che non a caso sorgono molto più su della spiaggia e della via, verso l’interno), con gli ulivi, la macchia mediterranea, gli sfumanti globuli gialli delle mimose, il chiarore, e l’equorea distesa in fondo, come in un dipinto impressionista… È proprio dalle terrazze di ulivi, con i muri a secco che ormai iniziano a franare, che si vede la marina di un meraviglioso verde argentato. Sì, è preferibile osservare le acque dall’alto (dalla mezza costa dei pendii pieni di ulivi, appunto, o dai villaggi arroccati), mentre si riducono a un triangolo di luce o di lacca azzurra, ritagliato dalle diagonali dei versanti e dalla incombente cupola celeste. Qualche volta, la massa d’acqua è senza colore, o meglio, acquisisce lo stesso colore leggero, evanescente, del cielo (un verdolino liquido sfatto nel bianco), e la nave che vi transita sembra sospesa sul vuoto, o nel nulla. Altre volte, l’orizzonte marino inizia a sciogliersi nell’aria, che lo assorbe lentamente. Meglio l’aridità densa, profumata e luminosa della macchia mediterranea che la più lussurreggiante vegetazione di qualsiasi favoloso tropico. Osservando gli ulivi, e pensando alle parole del biamontiano pittore Eugenio, avverto e capisco perché quel personaggio cercasse di riprodurre l’ombra delle loro foglie. La pittura e la storia dell’arte aiutano a percepire la realtà sotto profili più ricchi, e molteplici. L’Aurelia si discosta, come respinta, dalle Cinque Terre: la loro aspra inaccessibilità (superata agevolmente solo dalle lunghe gallerie ferroviarie, ove i treni comprimono l’aria in un curioso “effetto stantuffo”) la costringe a ripiegare all’interno, distante dai borghi affacciati – protesi, si potrebbe dire – sugli speroni di roccia. Corniglia, impregnata, nel ricordo, dagli odori della vinificazione, con graspi e vinacce spremute raccolti in cesti o altri contenitori; la sua via principale, via Fieschi, schiusa, alla fine, in un piccolo sagrato da cui si ammirano tramonti strepitosi, ricorda moltissimo l’Alfama di Lisbona. Vernazza, stretta tra l’acqua e il dirupo, con la chiesa in pietra grigia dai molteplici livelli e le bottegucce rannicchiate sotto i portici. Manarola, ritratta angosciosamente nei colori allucinati dei roghi che ossessionarono Renato Birolli. I sentieri, qui, sono di roccia a picco sul mare, aperti ai venti e all’onde come i cimiteri liguri di Cardarelli. Rasentano vigneti scoscesi o ulivi a volte antichi e contorti. Offrono al sole cespi di liquirizia selvatica, il cui odore, quasi stordente, ricorda quello del mallo della noce. Una casamatta della Seconda Guerra Mondiale, appena prima di Monterosso, pare, vista da quest’altezza, la testa di un cetaceo. Nel Ponente estremo, invece, l’arteria incontra il litorale e si fa opprimente di orribili palazzi da sviluppo insostenibile, intasata di veicoli e di insegne luminose. La sua pretesa mondanità vacanziera induce a deviare verso le piccole esistenze dell’interno, invita a scoprire il cielo, purpureo di tramonto, di Perinaldo, che si fa poi, calato il buio, probabilmente per effetto del vento che lo ha ripulito, di una trasparenza tale da evidenziare ogni singola stella in un pulviscolo sottile, minuzioso, punteggiato di astri più grandi e lucenti (ecco, forse, perché questa è terra di astronomi). Quassù, la memoria dei vicoli odora di olive frante e di fuochi di legna; vi si affacciano gatti diffidenti o eccessivamente suscettibili; il silenzio finisce per imporsi, e i passi risuonano isolati sui lastrici notturni: colpi secchi tra le anguste pareti. Verso Nord, si vede il lontano scheletro di luci di Bajardo; in basso a sinistra, la limpida, accogliente conca di Apricale, cui si accede per una carrozzabile esigua e malagevole che alterna, lungo i suoi meandri, luminose nuvole di ulivi a cupi castagneti. Il bar, affacciato a Sud, in direzione del mare e dell’Aurelia invisibile, ospita, a volte, personaggi semplici, mesti, quasi malinconici, nel loro contrasto con lo sfarzo sterile, spesso scioccamente e pomposamente ostentato, della costa. Ricordo, una sera, di avervi notato un uomo, di spalle, seduto a uno spoglio tavolino di legno sotto il televisore, che mangiava qualcosa, a capo chino. Aveva la giacca nera sporca di polvere: come una larga striscia, dalla scapola sinistra verso il collo. Cenava solitario, portandosi lentamente le posate alla bocca e masticando in silenzio, forse deluso dalle vicende del mondo, o magari semplicemente rassegnato alla vita. Mi sono sentito cogliere dalla tristezza e come da un senso di colpa per essere, in qualche modo, un turista privilegiato, mentre quel poveretto (chissà cosa faceva, e perché era lì…) consumava il suo desolante pasto. Ma, in quel momento, ho anche compreso il senso delle parole
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di Nico Orengo, quando ha sostenuto che il vero Biamonti era il campagnolo, coltissimo ma timido, che arrivava, come scusandosi, col basilico nella borsa, e non l’autore affermato, dalle tasche piene di ritagli con le recensioni dei propri libri. Qui a Perinaldo, in fondo alla valle fasciata di ulivi, si scorge il mare. La brezza mattutina ne fa una piatta duna venata di piccoli flutti, di minuscole ondulazioni perpendicolari alla costa. Poi, il sole raggiunge il vertice e colma il lontano spazio liquido di un bagliore intollerabile allo sguardo, come la visione di Dio nel paradiso dantesco. Con l’avanzare del pomeriggio, sull’acqua rasa dal vento sbocciano, qua e là, i fiori di spuma dei marosi. Lame d’ombra, proiettate dalle nuvolette, tagliano il cielo verso terra. A Rocchetta Nervina, invece, il mare non si vede, e l’Aurelia pare remota come un sogno. I colori, in questo primo tratto di Alpi Marittime, sono più monotoni che sull’Appennino, o sulle colline che, da esso, digradano verso la Pianura Padana. Prevale, su tutte le pendici attorno al paese, il grigio verdastro, o il verde grigiastro, degli ulivi, che vedono appiattito, dal compatto sole d’agosto, l’effetto di chiaroscuro da cui sono animati in altri momenti. Dall’altura su cui sorge il cimitero, si può scrutare un po’ tutt’attorno. Gli ulivi arrivano al filo dei crinali, e si stampano contro il cielo. Per sopravvivere, c’era bisogno di utilizzare tutto lo spazio disponibile, ma doveva essere improbo, anche con le fasce e i gradini, arrampicarsi fin lassù. I tetti non sono di coppi, ma di embrici, o tegole marsigliesi: penso per rimanere meglio ancorati quando tira il vento. Ed è col vento, ecco, che gli ulivi tornano a prendere vita e a variegarsi di ombre e di luci (a imbiancarsi, aveva scritto Pound insediato a Rapallo: and olive trees blown white in the wind). In borgate aeree come Grimaldi o Rollo, la marina sembra di poterla toccare: una tempera ancora umida, liscia, intensamente verdazzurra, un dilagare di zaffiro. Le case, incorniciate da rami d’ulivo, ricordano la Bordighera Vecchia di Monet. L’Aurelia si trova fuori visuale, stretta, schiacciata ai piedi della rupe. La si veda o meno, però, essa continua a esistere e a pulsare, consentendoci di raggiungere, senza troppa fatica, tutti gli angoli che ci rallegrano gli occhi. Allo stesso modo dei fiumi, trasporta, da un luogo all’altro, storie, vite, emozioni, speranze, immagini, lasciandone le tracce ovunque si trovino porte e finestre aperte per accoglierle. Perché quel che fa – quel che deve fare – una strada è, soprattutto, comunicare.
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A quel tempo Testo di Giacomo Dazzi Scatto di Marco Fortunato
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Tutto cominciò con quella volta. Erano giorni freddi, di limpide sere stellate, di cieli scuri e profondi. Era dopo mezzanotte e guidavo sulla via Emilia. La neve s’era ritirata in piccoli mucchi sporchi. La strada era pressoché deserta, ma nello specchietto retrovisore un paio di bianchi fari gemelli galleggiava in un buio ancora più lucido e profondo. La vedo all’improvviso in uno spiazzo sulla destra. Indossa stivali bianchi di vernice e tiene il pollice alzato per fare l’autostop. È una puttana. Ed è una negra. Accosto avanti trenta metri e aspetto che mi raggiunga. Corre. Quando sale sento il suo odore mischiato all’odore del freddo che si porta addosso. «Dove devi andare?», chiedo. Non faccio il furbo: credo davvero che le serva un passaggio. Negra com’è mi dà l’idea di soffrire il freddo più di un’altra. Penso all’Africa, al gran caldo che c’è là, le capanne, la polvere e i leoni che digeriscono all’ombra di un’acacia. «Allora?» Rimane sul vago, poi farfuglia che deve arrivare al distributore di benzina. Metto la prima e riparto. Mi dice che sono bello. Sto guidando. Mi posa una mano sulla gamba e dice che vuole fare l’amore. Le dico di no ma le garantisco il passaggio fino al distributore. Si apre la pelliccia e mi mostra il seno. «Magari un’altra volta», le dico. Ci pensa su un po’. Dice: «Facciamo l’amore poco poco.» Forse intende che risolveremmo tutto in breve tempo. Forse che mi fa pagare poco. Declino l’invito. Si mette zitta e si stringe nelle spalle. Forse la faccenda dell’autostop era solo una scusa. Le chiedo se devo riportarla indietro. «Alla benzina», mi dice. «Facciamo amore», aggiunge, «io brava a fare l’amore.» Non intendo affatto metterlo in dubbio: glielo spiego. Lei apre le gambe e la minigonna le sale fino alle mutande. Ha i capelli ramati, non è una bellezza ma si lascia guardare. «Molto freddo», dice. «Già.» Mi viene da sorriderle e lei torna all’attacco. Ma è l’ultimo tentativo poi si convince che è tempo perso, si scuote in un brivido e fa: «Brrr!» Alzo il riscaldamento. Lei mette le mani davanti alle bocchette. Continua a dire freddo. Io guido. Arriviamo al distributore. Nel piazzale c’è un bar che tiene aperto la notte. Voglio solo che ’sta negra scenda subito prima che qualcuno possa vedermi. Lei lo capisce. «Allora aspetta poco», dice, «tu bravo!» «Devo andare, mi spiace.» «Tu bravo, tu bello, allora aspetta poco.» Un uomo esce dal bar. M’abbasso d’istinto e cerco di nascondermi. Passa oltre. Di colpo la negra mi prende la mano e se la posa fra le cosce.
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«Freddo», dice. «Senti!» Sembra di toccare una braciola appena levata da una cella frigorifero. «Freddo?» «Molto freddo.» «Allora tu bravo, allora aspetta poco.» «Devo andare.» Tolgo la mano. Lei apre le gambe e comincia ad armeggiare sulla bocchetta del riscaldamento. Gliela punto in basso. Ora il caldo le soffia lì in mezzo. Si appoggia allo schienale e si rilassa. Mi accendo un sigaretta in attesa che la negra torni in temperatura. La notte è lucida, l’insegna del bar è blu in tubi al neon. La fisso e mi ci perdo. L’ultima lettera è una K. Finisco la sigaretta. La negra non la sento più. Le do una sbirciatina. Ha quest’aria placida e sembra godersela un mondo, col mio riscaldamento addosso. Ho fin paura che mi si addormenti sul sedile. La luce di un lampione le fa brillare la punta del naso. Sembra tutto calmo, le do ancora due minuti. Poi deve sentire o vedere qualche cosa perché si solleva di scatto, si sporge dal finestrino e caccia un urlo. È un richiamo. Da dietro le pompe lì davanti esce una seconda negra. È più magra di questa, ma indossa gli stessi stivali bianchi. Comincia a vociare e viene da questa parte attraversando il piazzale d’asfalto. Ho una gran paura che quelli nel bar possano sentire ed uscire di fuori. Trenta secondi dopo me la ritrovo in macchina. Seduta dietro. Non ci capisco un accidente. Guardo la mia negra. «Che cazzo stai facendo?» «Amica», dice. «Un corno!» Quella dietro si sporge in avanti e si affaccia tra i due sedili. Sento il suo muso freddo di fianco all’orecchio. «Non potete stare su questa macchina!» «Tu bello, tu bravo», dice la mia negra. L’altra dice pure lei che sono bello. «Merda!» «Amore?», dice la mia negra. «Adesso?» «Un corno! Scendete!» Come se nemmeno avessi parlato: le due ricominciano a raccontarsela. Non so che fare. Passano dieci secondi e una volante della polizia ci sfila e si ferma davanti ai gradini del bar. Le portiere si aprono in contemporanea, i due poliziotti scendono: i pantaloni infilati negli stivali di cuoio. Salgono le scale del bar fianco a fianco. Me la faccio sotto. Le negre nemmeno se ne accorgono, la mia si mette perfino ginocchioni sul sedile per essere di rimpetto all’altra. Mi sento circondato. Immagino già i titoli sulla Gazzetta: Preso con due prostitute di colore. Aspetto che i due poliziotti entrino nel bar poi afferro la mia negra per un braccio e la tiro giù: «Mettiti a sedere!» Si zittiscono. Lei mi guarda perplessa: «Amore?» «Zitte!» Inserisco la prima e vado ad accostarmi alle pompe. «Fuori!» «Oh no… Tu bravo. Riportare là, amore», dice la mia negra. Questa volta non ci sta provando. Mi sta chiamando amore come una puttana bianca mi chiamerebbe tesoro. Ormai le capisco. Le riporto sulla via Emilia e le mollo lì.
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A quel tempo non lo facevo ancora per mestiere: quelle erano la prime puttane che avessi mai scarrozzato ed era stato per puro caso. L’idea mi è venuta qualche giorno dopo, ripensandoci. Adesso ne ho nove. Facciamo cinquanta e cinquanta. Ho deciso di tenere solo negre perché anche se fanno un gran casino e non sono così belle, tirano meno a fregarti delle slave. Infatti non ho mai avuto bisogno di ricorrere alle maniere forti, tranne una volta.
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Testo di Mattia Filippini Scatto di Elisa Tomboletti È un periodo che le cose faccio fatica a dirle, a scriverle, son molto ermetico. Scrivo tre parole, mi sento stordito come uno cui hanno tolto del sangue, mi siedo sul letto ci butto sopra anche le gambe, come fossero dei ritagli inoperosi che non mi appartengono. Mi capita spesso, di sentirmi come gli scampoli nei cestoni, tengo i piedi in alto, faccio facce sofferenti. Deve essere una di quelle forme di autosuggestione dell’educazione familiare che spingono a imitare i parenti. La condizione del mal di testa, per esempio, è una condizione tipica della mia famiglia, che si verifica quando qualcuno si sdraia sul divano con i piedi in alto poggiati sul bracciolo e fa delle facce patite, come se stesse per perdere la vista. Oppure, io, tutte le cose che faccio, mangiare, scrivere, pulire, se mi fermo un attimo a riflettere, mi sembra che le faccio come le farebbe mia zia Adelia, cioè lamentandomi sempre. Mi sembra che questa forma di autosuggestione familiare mi porta a usare dei peggiorativi su tutto quanto: per esempio, libraccio, cazzaccio, pappagallaccio. In questo modo si esplica il mio pensiero pessimista. Poi mi telefona il mio amico Riccardo, mi dice: Stasera ti porto a una festa piena di figa. Va bene, gli rispondo io. Andiamo, gli dico. Dopo cena raggiungiamo in bicicletta la festa del quartiere San Vitale. All’ingresso ci vengono incontro i buttafuori con le braccia pelose incrociate sul petto, le magliette in microfibra torturate sulla pancia, con la loro mole occupano tutto l’ingresso. Impressionante, penso. I loro occhi minuscoli fanno capolino da sopra le lenti degli occhiali da sole anche se è sera. Mi controllano la borsa a tracolla per vedere se nascondo delle birre o forse delle armi di distruzione di massa. Che malfidenti, penso. Mi palpano con parsimonia le chiappe, cercano della droga. Cafoni, penso. Villani, penso. Passano all’altro lato, con oculatezza tastano con i polpastrelli la zona attorno al mio pacco. Guarda se si può, penso, questa perquisizione fascista. Poi non dico niente. È un periodo che faccio fatica a dir le cose, son ermetico. Con una spinta delle loro manone mi fanno entrare. Dentro, un dj dinoccolato parla al microfono nel suo linguaggio effettato e dice: Su, su, su le mani ragazzi. E tutti stan lì con le mani in alto a fare i burattini. Andiamo via, dico a Riccardo. Ma va, è pieno di figa, mi risponde lui. Faccio segno di resa con le mani, mi appoggio a una colonna e lo guardo da una prospettiva privilegiata lanciarsi in pista, a ridosso di una ragazzina con una capigliatura postmoderna, con una frangia di sbieco sulla faccia in un gioco di luci e di ombre, di pieni e di vuoti, soprattutto di vuoti. Riccardo la porta verso il bancone del bar le offre una costosissima birra, poi un dispendioso cocktail fluorescente, lei scola tutto facendo finta di ascoltare mentre lui la intorta con il suo linguaggio elusivo, le dice: Eh, i poeti maledetti. Lei butta giù tutto, fa un rutto e sparisce di nuovo in pista a polipare persone a caso.
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Mi torna in mente l’articolo del Venerdì di Repubblica che ho letto l’altro giorno nel quale si informa che c’è una malattia per cui non si riconoscono i volti delle persone. Le incontri, le studi, ma non riesci a capire le differenze fra l’una e l’altra. Il giornalista, astutissimo nel fiutare la notizia, riportava il caso di una donna che ad una festa aveva baciato un altro uomo credendo che fosse il suo ragazzo e invece no. Pensa un po’, ho pensato, adesso han dato il nome scientifico all’atteggiamento che dalle mie parti, ma anche in altri paesi, si chiama puttaneggiare. Dicono che c’è un’ignoranza tale in giro, che se prendi un po’ di persone e le metti tutte in un posto, dopo, se c’è bel tempo, tutta la loro ignoranza la puoi vedere dallo spazio. Riccardo rimane lì come un deficiente. Andiamo via?, mi fa. Vicino all’uscita incontriamo Marisa che sta entrando senza alcuna perquisizione, chissà perché. Sono appena tornata dagli Stati Uniti, ci racconta. Ma va? Sì, sì, ci dice, sono andata a farmi operare. Ah, dico io.
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No, no, mi dice lei, niente di grave, mi sono operata alle mani. Alle mani? Sì, sì, senti, mi dice, tocca, mi dice, che ne pensi? Boh, gli dico in tipico stile ermetico. No, no, mi dice lei, tocca, e si rivolge a Riccardo. Ci guardiamo allibiti. Sì, sì, mi sono fatta il botulino alle mani per non farle sudare. Che magari ho capito male per via della musica alta, la guardo per farmi rispiegare. Sì, sì, 900 euro per farmi delle iniezioni nelle mani perché mi sudavano troppo, quando incontravo qualcuno mi sentivo a disagio, a stringergli la mano, ora è tutta un’altra vita. Allora penso che fare l’antropologo, se hai pazienza, deve essere uno di quei mestieri che non annoiano mai, per via che gli spaccati di società che studi non smettono mai di dimostrare che ci son dei matti in giro che son talmente matti che sembran normali nelle loro abitudini. Se invece incontrare persone di questa levatura, che ti fan sentire in minoranza nei confronti del pensiero normale e sacrosanto, ti fa giungere presto alla conclusione automatica del ragionamento razionalista pessimista, ovvero che era meglio se stavi a casa a fare l’ermetico, a non incontrare proprio nessuno, ad apprezzare il valore della solitudine, l’autocompiacimento del lamentarsi, allora non sei tagliato per fare l’antropologo, è meglio aver studiato lettere, essere disoccupato in santa pace.
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Aragosta
Testo di Pietro Iannibelli Scatto di Cristina Mauri
Tu disinvoltamente siedi ai tavolini del Corso e nulla ti tocca, se non l’arioso venticello che sbuffa fra le case. Tu concordi con tutte le cose, eppure un’aragosta ha da tempo abbandonato il mare e cammina alla tua volta. Parli all’amica ed hai il viso adorno di allegria, lo sguardo ti brilla, il mondo ti arride: nei silenzi della conversazione annusi le viole poste sul tavolo in un bicchierino, sorridi, guardi lontano: il tuo avvenire è limpido e chiaro, scintilla, vi discerni persino le piume delle felicità venture. Senti che ti circonda un’armonia: quel che percepisci è un tuo prolungamento, quel che pensi partecipa dell’intorno e lo comprende, a un tuo segno lo stormo dei piccioni vola dal suolo ai cornicioni. Fra le mani hai forse uno scettro, come un leone, sulla testa hai forse una ghirlanda o una corona, e con questi determini a tuo senno il mondo che ti riguarda, forse tu comandi essendo. La realtà ti approva, ti accoglie, ti vuole, ma intanto l’aragosta si avvicina, cammina nella tua direzione. 12
Ora, a causa di un raggio di sole, rimetti il largo cappello di paglia: l’orlo si piega casualmente sugli occhi, la tesa s’inclina per caso sul naso, ostacolando lo sguardo. Ecco, quel che vedi è più vero: la tessitura giallina è il muro che ci mostra il futuro! Tu sei sola. Scruta, non esiste che una vaga trama e la parola che l’amica ti dice è una parola vana, lontana, che non arrivi a capire. Scruta, vedi come tutto sia nulla e pieno di vuoto. Tu sei sola e nelle mani non stringi neppure un filo di lana. Pensati adesso! Non ti immagini come un’ombra in una sera infinita priva di luna e priva di stelle dove senti i pensieri impotenti e il volto che hai un volto qualunque? Non ti immagini come un grappolo vizzo in un vigneto, d’inverno, pendulo e rigido, con gli acini simili a grani di pepe? Infine con le dita sollevi il lembo del cappello disceso. Quello è il mondo come riappare, guardalo: vi è luce, bellezza, colore, vi è la pienezza che conosci, e puoi dunque tornare a respirare. Come ti rassicura la gente confusa che ride e ti ammira contenta! Che dolce sollievo sono i vasi fioriti ai parapetti dei balconi o sui davanzali! La semplice insegna di una bottega ti riconduce ai sentimenti familiari che sai di poter governare, stai bene, riprendi le fila di questa giornata: sui tavoli circostanti tintinnano le tazzine, gorgogliano le limonate. Sei tornata regina, ma l’aragosta arriva. Tu parli all’amica, ti
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aggiusti la camicetta, riporti i capelli dietro le orecchie, muti postura, riassetti la gonna, odori ancora le viole portandoti al naso il bicchiere, guardi lontano. Il tuo avvenire non è bello com’era bello prima: vi danza la gioia, vi trema la grazia, in esso il mondo ti abbraccia, ma vi scorgi pure una macchia, un che di grigiolino, un punto inatteso di una tinta diversa dall’evidente e totale bianchezza. Da dove sono venute queste nuove paure? Perché di colpo la speranza s’incrina? Il tuo volto assume un’espressione oscura, la tua fronte una volta piana, si corruga. Togli il cappello di paglia: il velo di una nube sottile impedisce la sfera del sole, l’aria è nera, si adombra ciò che ti circonda. Tu sei cambiata, vicino alla bocca si vede una piega che non si vedeva, negli occhi un lume si è spento, un capello è divenuto canuto, la voce ha perduto fermezza, vacilla arrochita per un interno indebolimento. Cos’è questa cosa che priva di un nome stilla nel cuore? Cos’è questo gelo impensato che veste le case e la via, te stessa e ciò che non sei, di malinconia? Ecco, l’aragosta è giunta. Ora parli all’amica e temi: non puoi non pensare che i momenti a venire sono un immenso spazio vuoto e pietoso: come esistere in essi? A che scopo? Perché? Non sarebbe una sorte migliore svanire e lasciare al resto del mondo il tempo, domani, la volontà? Ora ti costa fatica e dolore percepire e sentire: un sibilo di serpi proviene da ogni direzione, un’arpia vola nel cielo insieme a uno squalo, una mosca ti sussurra estraneità, al lampione è legata una capra che bela. La stessa cara fisionomia dell’amica racchiude un che di ignoto che prima non ravvisavi neppure nei volti mai veduti. Gli sconosciuti, quando rivolgi loro un’occhiata, t’appaiono mostri camusi dalla lingua biforcuta. I quadri scozzesi della tovaglia sono le maglie della rete che t’imprigiona: sei una preda, nessuna cosa è buona, ma tutto si oppone alla tua persona e ti vuole male. Tu ti accasci sulla seggiola senza nessuna finzione, senti il corpo abbandonato al basso, al profondo, ti senti precipitare verso l’imo del mondo. Ma pure l’amica conversa ancora e ti pone una qualsiasi domanda: tu ridi, hai paura, ti confondi, sospiri, ti passi una mano fra i capelli. La silente aragosta percorre il tuo corpo e si ferma per sempre sulla tua spalla.
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Per sempre? Tu ricominci a conoscere il mondo da quell’imo, a pensare umanamente: vedi che hai una nuova compagna con le antenne, che ti parla dei fondali marini.
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Dopo la festa passeggiai da solo. I parenti mi avevano appena riempito di cento di questi giorni, ma non sapevo se volerne ancora. La mia esistenza era passata come acqua fra le dita e non ne conservavo nulla, come l’avessi prestata a sconosciuti. Davanti a casa avevo un campo che emanava odore di putrefazione. Nell’infanzia era stato il labirinto dei miei sogni, il terreno sul quale mi misuravo con gli altri e con me stesso e dove era giusto che la pelle soffrisse, segata dalle foglie ruvide, perché sentivo il sacrificio come il preludio a una vita migliore. Entrai quasi senza volerlo, riesumando il vecchio rito. Il cielo scomparve, fui solo nel silenzio della placenta vegetale, preso da un crampo debole al ventre. Calpestai le croste di terra riarsa, dalle fenditure così larghe che ci passava un dito. Il grano era diritto e diseguale, incurante della siccità. A certi fusti era abbarbicato un tumore. Il crepitio delle foglie mi sussurrava le stesse parole che sentivo da bambino. Ero tornato indietro, alle speranze e ai sogni impossibili che un tempo avevo creduto a portata di mano. Ogni passo verso il ventre del campo mutava la mia pelle, e la memoria delle cose più recenti faceva spazio a un’aria di libertà riconquistata. Mi sedetti e provai una curiosa sensazione al pensiero che il mondo non avrebbe saputo dove cercarmi. Naufrago, perduto, giunto dove il tempo mi aveva catapultato, guardavo le piante di mais con un misto di piacere e di inquietudine, di nuovo partecipe di un gioco proibito. Una mano mi toccò lieve la spalla. «Preso!» Era Emma, con le ginocchia sanguinanti e il sorriso che si può avere solo a otto anni. «Non sei più venuto a cercarmi», mi disse, con una punta di rimprovero nella voce. Da piccoli giocavamo a rimpiattino, ogni giorno lo stesso gioco per anni interi. Quando era andata ad abitare via pensavo che la storia non era finita, e che prima o poi sarebbe stata la mia donna. Non sapevo cosa volesse dire, ma volevo crescere e mi sembrava un buon inizio. Forse un giorno l’avrei rapita. «Dov’è Richi?» Emma portò le mani a imbuto intorno alla bocca: «Vieni, l’ho trovato!» Un frusciare di foglie e l’amico comparve. Non mi andava di giocare a rimpiattino tutto il tempo, ma lui con una torsione delle labbra soffiò sulla ciocca albina nel mezzo della frangia bionda e mi redarguì: «Ti ha preso. Questa è la regola.» Era un tipo esuberante: una volta, alla scuola elementare mi aveva riempito di botte per una curiosa storia di caramelle, e la preside ci aveva chiamati in direzione. A sedici anni, quando queste preoccupazioni non facevano più parte dei suoi pensieri, fu travolto da una macchina nella notte e morì quasi subito. Allora c’erano regole nuove che non aveva fatto in tempo a conoscere. Un vociare lontano di bambini portò Richi fuori dalla nostra vista. «Quest’autunno andrò ad abitare in città», disse Emma, «là non ho amici, non potrò giocare.»
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Testo di Roberto Stradiotti Scatto di Matteo Varsi
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«Li troverai», le dissi, «si lasciano i vecchi, ma se ne trovano di nuovi.» «Mi dicono tutti così. Mi dicono che in una città si conoscono tanti bambini.» «È la verità.» «E tu cosa ne sai?» Perché sono grande, avrei voluto dirle, ma era una bugia. Richi ricomparve scalpitando. «Il nemico ci insegue!». Presi per mano Emma e cominciai a correre nelle file di mais. Intorno echeggiavano le voci degli altri bambini e quando mi pareva di sentirle vicine cambiavo direzione. Lasciai la presa per proteggere gli occhi dalle foglie taglienti. Lei tornò a sedersi. «Sono stanca di correre. E poi sta cominciando a piovere». Tornai alla luce. Avevo mangiato polvere e insetti e la pelle bruciava. Rividi il cielo e le case in lontananza. Al limite del campo un irrigatore spandeva l’acqua sulla terra riarsa e le fenditure la ingoiavano. Camminai a ritroso, a passi lenti, fra le zolle sconnesse. Guadagnai la strada e mi arrestai davanti al cancello di casa. Non la sentivo mia, e sapevo che non ne avrei mai trovata una. Dentro c’era la famiglia. Erano nati intorno alla mia vita come funghi e ora erano parte di me. Non ci avevo pensato. Era successo e basta, come il seme di un frutto che cade. Forse era giusto così: ero un fusto di grano e le piante non pensano, ma lasciano cadere. Io avevo lasciato cadere tutte le cose che avevo fatto nella vita, con noncuranza, e molte si erano seccate per terra. Maturavano, cadevano ed era finita lì, e nel contempo tutto cominciava senza consapevolezza. Uscì mia figlia e mi rimproverò, perché ero sporco e bagnato e mi stavano cercando dappertutto. «Vieni che ti porto fuori», dissi vergognoso. La caricai sulla bicicletta. Lei non chiedeva altro dalla vita. Passammo davanti al campo di mais. Mi chiese cos’era. «Granoturco», risposi. «Serve per fare la farina gialla e i pop corn.» Era meravigliata e incredula. Mi indicò i ciuffi rossi in un punto dove il grano sembrava inabissarsi. «Sembra un mare scuro, si vedono anche le onde.» L’orizzonte di quel mare senza battigia era lontano e il vento lambiva la superficie con dolcezza. Mia figlia tacque e anche i miei pensieri se ne erano andati. Rimaneva il giorno. Un giorno come un altro. E rimaneva la vita, un fondo di bottiglia. Cento di questi giorni, ad avere il coraggio.
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Testo di Alfredo Goffredi Scatti di Roberta Abeni e Alessandra Bari Lui si svegliò quella mattina con la convinzione che sarebbe stata una gran bella giornata. Scostò le coperte con un ampio gesto della mano destra e scese dal letto, facendo bene attenzione a mettere giù prima il piede sinistro. Non era questione di “svegliarsi con il piede giusto o sbagliato”; era piuttosto la convinzione che quello fosse il piede con cui dovevano iniziare tutte le sue giornate. I vestiti erano riposti accuratamente sulla sedia; li prese uno per uno e iniziò a vestirsi, rigorosamente dall’alto verso il basso: maglia, felpa, mutande, pantaloni, calzini, scarpe. In pochi minuti era fuori di casa, intento a scendere le scale, un passo per ogni gradino, non più di tre per i pianerottoli che congiungevano le rampe. Poi veloce lungo il marciapiede, un passo sul cemento (il destro) e l’altro sulle piastrelle segnaletiche per non vedenti gialle, a sbalzo; ci vedeva benissimo, ma gli piaceva l’effetto che faceva camminarci sopra. Percorse quel nastro di cemento sporco per alcuni minuti, quindi attaccò le strisce pedonali; il piede era il destro, cosa possibile solo ed esclusivamente levandosi dal letto con il sinistro. In caso contrario… in effetti non era previsto né ammesso un caso contrario. Era così e basta. Calcando ogni passo sopra una delle strisce bianche appena riverniciate giunse dall’altra parte della strada, dove lo aspettava, come da piano urbanistico, un altro marciapiede. Lo percorse rigorosamente in bilico sul bordo fino al piccolo scivolo che portava in strada, percorse la galleria schivando a tutti costi i rombi rossi e, dopo una manciata di gradini, camminò attentamente sulle linee di giunzione delle grosse lastre di uno stradello, alla fine del quale lo attendeva un vasto porticato. Centosessantanove piastrelle bianche e nere si alternavano l’una all’altra, convergendo verso il centro. Percorrendo solo le piastrelle nere, con la navigata abilità conferita dall’abitudine, giunse al centro, dove uno e uno solo era il riquadro nero offertogli per proseguire. E allora… 16
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Lei si svegliò quella mattina con la convinzione che sarebbe stata una gran bella giornata. Scostò le
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coperte con un ampio gesto della mano sinistra e scese dal letto, facendo bene attenzione a mettere giù prima il piede destro. Non era questione di “svegliarsi con il piede giusto o sbagliato”; era piuttosto la convinzione che quello fosse il piede con cui dovevano iniziare tutte le sue giornate. I vestiti erano riposti accuratamente sul comodino; li prese uno per uno e iniziò a vestirsi, rigorosamente dal basso verso l’alto: calze, scarpe, slip, gonna, reggiseno, maglia. In pochi minuti era fuori di casa, intenta a salire le scale – abitava al piano sotterraneo – un gradino si e uno no. Poi veloce lungo il marciapiede, un passo sul cemento (il sinistro) e l’altro sulle piastrelle segnaletiche per non vedenti gialle, a sbalzo; ci vedeva benissimo, ma le piaceva l’effetto che faceva camminarci sopra. Percorse quel nastro di cemento sporco per alcuni minuti, quindi attaccò le strisce pedonali; il piede era il sinistro, cosa possibile solo ed esclusivamente levandosi dal letto con il destro. In caso contrario… in effetti non era previsto né ammesso un caso contrario. Era così e basta. Calcando ogni passo sopra una delle strisce color asfalto giunse dall’altra parte della strada, dove l’aspettava, come da piano urbanistico, un altro marciapiede. Lo percorse rigorosamente a ridosso del muro fino al piccolo scivolo che portava in strada, percorse la galleria schivando a tutti costi i rombi crema e, dopo una manciata di gradini, evitò attentamente le linee di giunzione delle grosse lastre di uno stradello, alla fine del quale l’attendeva un vasto porticato. Centosessantanove piastrelle bianche e nere si alternavano l’una all’altra, convergendo verso il centro. Percorrendo solo le piastrelle nere, con l’estrema concentrazione richiesta da una compulsione ancora giovane, giunse al centro, dove uno e uno solo era il riquadro nero offertole per proseguire. E allora… Si squadrarono attentamente. Lui aveva gli occhi sgranati; lei due fessure. Lei iniziò a tamburellare con la mano sinistra sulla gamba, nervosamente; lui agitava le dita della mano destra nell’aria, lungo il fianco, freneticamente, come se stesse battendo su una calcolatrice. Si scrutarono cercando di trovare una soluzione, pur sapendo che una soluzione non c’era. Non era possibile alcun tipo di compromesso, poiché doveva essere quella e soltanto quella, la loro prossima mossa. D’istinto scattarono avanti, nello stesso preciso istante. Lui avanzò con la gamba destra. Lei avanzò con la gamba sinistra. Si paralizzarono in aria e in un attimo si ricomposero. Lui iniziò a ridere nervosamente. Lei lo fissava; i suoi occhi si strinsero fino quasi a scomparire. Poi, d’un tratto, i suoi occhi ritornarono alla loro dimensione naturale, si sporse di poco in avanti e sorrise. Lui rimase stupito. Lei arretrò con il busto e, con un ampio movimento del braccio, gli fece cenno di passare. «Prego», sorrise. Lui, sempre più stupito, ricambiò il sorriso: «Grazie!», poi staccò la gamba destra e la portò in avanti, avanzò col torace e spostò il baricentro con un’eleganza quasi artistica. «È veramente una ragazza gentile», pensò, «ed è anche be...» Non riuscì nemmeno a terminare il pensiero. Con una spallata lei lo spinse di lato, proprio un istante prima che il suo piede toccasse terra; poi, con tre rapidi saltelli, passò oltre, senza voltarsi. Sarebbe stata una gran bella giornata. Lui, a terra, si ripeteva quanto era stato stupido. Guardandosi attorno, vedeva solo piastrelle bianche.
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Il grigio ti sbatte
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Testo di Claudia Arisi
Scatto diValentina Sulsenti
Che non era successo un bel niente di niente. Non ci voleva Amleto per capire che era quello, il problema. E proprio lo schizzava fuori dai gangheri. Zero, come i capelli che gli rimanevano in testa. Perfino quelli l’avevano piantato, come una rapa a settembre. Solo. Come un dente di leone che si fa strada nella strada esuberante di catrame, pietrisco e altre porcherie, e vorrebbe ruggire e non lo fa, perché poi, se appena appena qualcuno ti nota, arriva e ti strappa via come un’erba infestante e a quel punto poco importa se hai una bella corolla gialla o una chioma glabra post-atomica. Vuoto. Non più di chi vedeva vacillare attorno a sé ebbro di compiacimento, levando il calice dell’autoreferenzialità. Un brindisi, dunque, agli operosi associati del Circolo del Menga, che elargiscono buoni consigli basati sulla sacrosanta verità. Loro sì che la conoscono. Ciascuno la propria. «E bla bla bla», o, nella peggiore delle ipotesi, «E qua qua qua.» Starnazzano per l’aia, ma senza menarci il cane, perché loro, oltre che salutisti, culturisti e perbenisti (nonché talvolta artisti), sono anche animalisti. Guai a convincerli che la colomba coi canditi non è una grave mutazione genetica del panettone. E guai a dirgli che, sotto sotto, lo sai che la palestra la vedono solo perché ci abitano di fronte e che si sfondano di diete del minestrone e che in bagno anche loro si siedono ed aprono il giornale. Tutte fandonie, malelingue non degne di nota. Perché loro sì, sembrerà incredibile, ma loro sono autenticamente splendidi. Mentre pensava a tutto questo, perdeva sempre più le staffe, specialmente perché ancora non era successo nulla. Preso dallo sconforto, si incamminò verso la litoranea, che dalle traverse del centro storico si raggiungeva a piedi in sette minuti. Giusto il tempo di perdersi tra sé e sé, che per proprietà commutativa fa sempre e comunque uno. Solo. Piantato lì come una rapa a settembre, appunto. Per carità, piuttosto che incontrare altri “splendidi” dai sorrisini puntellati come i ponteggi del Duomo, preferiva starsene per i fatti suoi, che di fatto non aveva perché non aveva niente da fare, perché non era proprio successo un accidente, appunto. Certo, meglio soli che male accompagnati, perbacco. No no, meglio spendere il pomeriggio a giocare da solo a non-pesto-le-righe con le autobloccanti del lungomare. Dunque imboccò la passeggiata a ridosso degli stabilimenti balneari. Come da copione, il sentiero traboccava di salutisti, culturisti, perbenisti, etc., cui si aggiungevano le malefiche coppiette felici che si danno i bacini e scrivono sulle panchine io e te 3MSC, che a lui piaceva pensare volesse dire io e te 3 Mesi e Sei Cornuto, benché non fosse affatto convinto che si potesse generalizzare sui tre mesi. Mentre commentava l’ennesimo graffito fra sé e sé (che fa sempre uno), si accorse di non essere più solo. Per la verità era circondato da gente che lo fissava. Subito pensò alla cacca di un gabbiano. Un classico. Fece per pulirsi la maglietta celeste che non era più celeste, mannaggia alla lavatrice! Però non l’aveva lavata coi pantaloni neri, che pure ora erano grigi. Come la maglietta. E le scarpe e i calzini e la montatura degli occhiali e i bicipiti e i tricipiti e le mani e con tutta probabilità la faccia, i denti e il velopendulo... Adesso sì che qualcosa era successo. Circondato da “splendidi” col sorrisino puntellato, sperava che le autobloccanti gli si sbloccassero sotto i piedi e che la terra lo risucchiasse richiudendosi subito dopo. Sdrammatizzò: «Che c’è, il grigio mi sbatte?…» Se solo ci fosse stato uno qualsiasi, diverso da lui medesimo e dalla gente che lo circondava, facendolo sentire peggio di una rapa a settembre… se ci fosse stato qualcuno a poterlo soccorrere! Ma non ci fu. Così decise di scrollare le spalle e togliersi dagli sguardi indiscreti tutto impettito, facendo lo splendido benché del tutto scarico di colore. Un centinaio di metri più in là, un tizio tutto solo gli fece cenno di salire sulla sua barca. «Presto, che il grigio ti sbatte», gli disse il tizio, «non farti pregare: ti ho aspettato fino ad ora. È tardi!» Titubante e disperato, il nostro salì sulla bagnarola, e insieme presero il largo fino a che non rimasero circondati solo d’acqua. Il tramonto sopraggiunse puntuale. Colorato e splendido davvero, sovrastava i due spettatori lasciandoli a bocca aperta. Prima di essere inghiottito dal mare, il sole lasciò che gli ultimi raggi penetrassero nelle fibre scolorite del povero ingrigito, che lentamente riprese di tono. Fu allora che il tizio gli chiese: «Si può sapere perché quando ti ho invitato a salire sulla mia barca non volevi fidarti di me? Che c’è, hai paura di trovare un amico?» In quella, il nostro s’accorse di avere incontrato uno qualsiasi, diverso da lui medesimo e dalla gente che lo circondava facendolo sentire peggio di una rapa a settembre, qualcuno che non lo aveva piantato affatto. Di colpo, sentì come un formicolìo salirgli lungo le fossette del viso. La pelle, non più grigia, si raggrinzì, scoprendo una fila di denti bianchi schierati belli ritti in un sorriso. Inaspettatamente, il mondo gli sembrò meno incolore, ora che aveva il tizio della barca per amico. E col tempo i due diventarono inseparabili, come camicia e camicia. Perché va bene l’amicizia, ma nessuno voleva fare il culo.
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Era passata, l’onda della guerra. Sopra di noi, era passata, e ci aveva lasciati un poco più poveri e abbandonati di prima. Comunque, era passata. Al Nord ancora sparavano, mentre i tedeschi si ritiravano e gli Alleati li inseguivano per tutto lo Stivale quant’era lungo. Da noi la vita ricominciava, con le necessità di sempre. La prima era quella di mangiare. Chi stava in campagna se la cavava meglio. Lì, uova, latte e pane non mancavano. In città era più difficile. Alcuni s’ingegnavano: a piedi, in treno, con i carretti uscivano a rifornirsi di quello che serviva o di quello che trovavano. Gli altri aspettavano e speravano. A quell’epoca, io guidavo già un camion mio. Ero giovane: neanche vent’anni, avevo. Doveva essere la fine del ’44, o al massimo i primi mesi del ‘45. Dai paesi della valle d’Itria scendevo a Taranto a pieno carico e la sera tornavo indietro, vuoto. A metà strada tra Martina Franca e Taranto c’era il bosco dell’Orimini. C’è ancora, in effetti. Quella che è cambiata, è la strada. L’hanno rifatta completamente. Adesso passa ai margini del bosco, lo sfiora soltanto. Allora no: la strada saliva tortuosa tra gli alberi e toccava il suo punto più alto proprio in mezzo alla foresta. Da lì cominciava la discesa, su un versante e sull’altro. Proprio nel bosco dell’Orimini gli americani avevano montato un campo. Le tende erano circondate da filo spinato e sorvegliate da ronde armate. Per noi il campo era off-limits. Una volta, stavo tornando da Taranto verso Martina. Avevo fatto tardi in città e quando arrivai al bosco era notte fonda. Con me nella cabina c’era un ragazzo di quattordici o quindici anni che mi aiutava a caricare e scaricare. Il ragazzo dormiva sotto una coperta di lana, accucciato nello spazio dietro il posto di guida. Cominciai la salita. Procedevo lentamente, con le marce basse. I fari illuminavano un breve tratto di strada davanti alle ruote. Ai lati, nella notte senza luna, intravedevo soltanto le sagome degli alberi più vicini alla carreggiata. Mancavano poche decine di metri alla fine della salita quando, con la coda dell’occhio, vidi un’ombra che dal bordo della strada schizzava verso il camion. Un attimo dopo stava già sul predellino esterno, dalla mia parte. Era un militare in divisa. Un nero. Con lo spavento che mi presi, non so nemmeno io come riuscii a mantenere il controllo del mezzo. Nel buio vedevo scintillare gli occhi e i denti del soldato, bianchissimi, a pochi centimetri da me. Mise dentro la testa. Spiò nella cabina e poi mi disse, con un sorriso: «Segnorina. Tu dai me segnorina». Accennava col mento al ragazzo rannicchiato sotto la coperta, che non si era accorto di niente e continuava a dormire. Strizzò l’occhio e disse di nuovo: «Tu ferma e dai me segnorina». «Ma quale signorina. Qui non ci sta nessuna signorina. No signorina, hai capito?». Cercavo di convincerlo, e intanto guardavo un poco lui e un poco la strada. Quella maledetta salita sembrava che non finisse mai. Non potevo aumentare la velocità. Ero costretto a procedere a passo d’uomo, o quasi. L’americano cominciò ad allungare le mani sul volante. «Ferma! Tu ferma, adesso!». Oramai stava con tutto il busto dentro la cabina. Sentivo sulla faccia la puzza di liquore del suo fiato. «Niente signorina qua dentro». E intanto dovevo combattere per fargli mollare la presa sullo sterzo. «Sigarette. Io do te sigarette e cioccolata. Americane sigarette». Faceva il gesto di frugarsi nel taschino della camicia con una mano, mentre con l’altra si teneva aggrappato allo sportello. Io sudavo freddo. Quando Dio volle, arrivammo in cima. I fari illuminarono l’inizio della discesa: era il momento. Afferrai con la sinistra la maniglia interna della portiera, raccolsi le forze e, all’improvviso, diedi la spinta. Il nero barcollò, perse l’appiglio e cadde. Accelerai immediatamente. Il camion prese velocità. Nello specchietto retrovisore vedevo l’americano seduto a terra che scuoteva desolato il testone. Poi, ancora per un attimo, riuscii a distinguere i suoi occhi che scintillavano nel buio. Alla fine se lo inghiottì la notte da dove era spuntato. Respirai di sollievo, ma ci vollero un altro paio di chilometri prima che il battito del mio cuore ritornasse normale. Il ragazzo dietro di me continuava a dormire. Si svegliò soltanto quando parcheggiai il camion e spensi il motore, a Martina.
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Testo di Adolfo Marciano Scatto di Elisabetta Borda
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Non faccio più la lista della spesa Testo di Davide Nonino Scatto di Giuseppe Ammannato
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La sua faccia è stropicciata da una buona dose di tempo ed è quella di chi sorride per abitudine e fantasia. Ettore si mostra simpatico, dalla pelle scavata fino ai cappotti di lana che indossa con l’eleganza d’altri tempi. Quando fa il suo ingresso a metà mattino, alle luci dei neon del controsoffitto, scattano i saluti e gli ammiccamenti delle signore non solo di mezza età. Insomma, adesso capite perché non lo sopporto. Cos’avrà mai di speciale, questo vecchietto che zompetta con un bastone fra gli scaffali del supermercato? Proprio non capisco: anzi, mi arrabbio perché io, povero cassiere dai capelli ricci, mi ritrovo le facce scure di chi impugna lo scontrino con una smorfia. Non è certo colpa mia. Così come non può essere un delitto chiedere se volete una borsa biodegradabile oppure se avete la tessera per raccogliere i punti promozione. Nessuno, poi, considera che sono l’unico maschio a lavorare in un mondo rosa di ragazze e signore truccate e vestite in modo identico. Credetemi: è frustante vedere gli uomini arrampicati ad un carrello cambiare fila per cercare qualche approccio con le mie colleghe, mentre le donne si cacciano subito alla ricerca di compagne improvvisate per nuove chiacchiere. Quando il direttore mi ha trasferito alla cassa veloce “solo dieci pezzi”, ho capito di aver toccato il fondo della disperazione. Eppure ci devo fare l’abitudine: è il mio precario lavoro di turni e domeniche aperte. Non chiedetemi, però, di essere gentile e premuroso con quel divo metallizzato di Ettore. Conosco a memoria la presunta storia che racconta, giorno dopo giorno, tra il reparto macelleria e la corsia per le cose di casa: la moglie scappata con un altro qualche indefinito anno prima; il figlio all’estero che ritorna a mangiare una pasta solo la sera del suo compleanno; il cane adottato perché si fermava sempre a dormire sotto il terrazzo; gli anni del lavoro al vecchio negozio di scarpe che stava in piazza e che aveva dovuto chiudere all’apertura del sesto centro commerciale… infine, spunta fuori pure la sorella, tale Margherita, che non vedeva da cinquant’anni e stava in Sudamerica. Questo è solo un rapido riassunto di un signore, per gli altri adorabile, che io detesto e a cui consegno sempre il resto in spiccioli, come oggi. Non pensiate che io sia geloso del successo di pubblico di un giovane anziano che vorrei dipingere di nero. So di avere un fiuto particolare per chi la racconta. Sarò anche un precario incavolato e macinato da ingranaggi che non mi tengono in conto, ma oggi è il mio piccolo giorno e me lo tengo ben stretto. Mentre seguo Ettore, come al solito, con lo sguardo oltre le vetrine, lo vedo inciampare a terra e all’improvviso svuotarsi di zucchine, arance, un dentifricio e due pacchi di pasta. Sì, proprio così, dal suo cappotto è uscita una buona refurtiva fresca di supermercato! Felice e vendicativo chiudo la cassa, visto che, tanto per cambiare, non ho nessuno da servire e raggiungo il parcheggio. Ettore è chino a terra, intento a raccogliere la frutta rotolata lontano. «Vuole una mano?», gli chiedo con garbo. «Magari, guardi… con i miei acciacchi…», risponde lui, strofinandosi la schiena con la mano. «Dovrebbe ricordarsi il bastone, invece di lasciarlo alla cassa», e qui gioco la mia carta fortunata. Ettore si volta all’improvviso e mi fissa terrorizzato. «Guardi… non è come sembra…», biascica sistemandosi la chioma argentata. «Infatti: lei, oggi, ha comprato solo un pacchetto di stuzzicadenti e un detergente per il viso.» A quelle parole, Ettore prende una zucchina, la lancia dritta in mezzo alle mie gambe e prende a scappare. Per fortuna riesco a evitarla e in dieci passi sono su di lui. «Adesso, bello, vieni dentro con me!». Poche parole già sentite, ma che soddisfano.
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«La prego… non avevo scelta…» «Sì, perché adesso mi vuole anche spiegare…» Ettore si ferma e mi prende le mani. «Deve capire che è la quarta settimana… con la pensione si fa fatica… non succederà mai più.» «A me non frega un fico secco. Pensa che sia facile, per noi giovani, arrivare alla fine del mese?» «No, per carità…», risponde lui. «Appunto.» Cosa? Il vecchio è d’accordo con me o io sono d’accordo con lui o insomma una cosa del genere? Non ci posso credere. Allento la presa e fisso il suo sguardo attento. «Senti, ragazzo: ho una proposta da farti», dice Ettore, lasciandomi indirizzo di casa e orario. «Va bene», rispondo incuriosito. «Ma niente scherzi. Oggi, arance e zucchine restano qui.» «Certo: prendo solo il dentifricio. L’ho finito.»
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Come sia arrivato a casa di Ettore, non me lo so spiegare. Ho passato un pomeriggio tra la paura di trovare un maniaco, la soddisfazione di incastrarlo fotografando il malloppo di provviste che si tiene in casa e quel pizzico di sorpresa per la proposta che mi aspetta. La casa del vecchio non è bella, ma ordinata, con ogni quadro al suo posto e le mensole spolverate. Mi fa sedere al tavolo in cucina, offrendomi dell’acqua in una tazza di tè. Bevo un piccolo sorso di cortesia e ascolto Ettore che fa cenno di abbassare la voce. Ecco la sua storia: non quella inventata tra gli scaffali delle merendine e i frigoriferi dei surgelati, ma quella dove l’unica mezza verità è il cane randagio che vive sotto casa e che sta cercando di scacciare. Devo ammettere che nella vita è stato sfortunato. Ha perso la moglie per una rapina nella sua bottega di calzolaio e, non potendo più riaprire il negozio, ha passato gli anni a riparare tacchi di signora e ad incollare suole svolazzanti, fino a quando le mani e gli occhi malconci non lo hanno inchiodato suggerendogli di arrangiarsi. «Non posso pretendere che tu mi creda», dice Ettore aprendo le braccia. «Non potevi cercare un aiuto? Una comunità, un centro per anziani?» «Sì, c’ho provato. Ma quando stai nel mezzo e non sei messo né troppo bene né troppo male, nessuno ti considera.» «Già», annuisco pensando banalmente ai giorni di scuola. «E non hai nessuno che ti aiuti?» «Se intendi la famiglia e gli amici… quelli sono scappati», risponde Ettore, togliendo dal tavolo la tazza d’acqua per far posto a vecchi quaderni ed agende. «E questi cosa sono?», chiedo sfogliando una miriade di numeri e nomi scritti rigorosamente a mano. «Negozi, supermercati… orari e indirizzi. Ci organizzo le mie giornate.» «Incredibile… sei un professionista!» «In effetti, un ladro… ma professionista va bene», sorride Ettore, fra rughe scucite dal tempo. «E questi nomi di chi sono? I tuoi complici?» «Adesso non esageriamo… Insomma, non tengo un’organizzazione. Sono gli anziani del quartiere che non possono muoversi e ai quali consegno la spesa.» Scuoto testa e ricci per l’ingegno di quest’uomo che sta dando una mano a persone scomparse dalle code dei supermercati, che non vedo da quando ero un giovane cassiere ai primi scontrini. «E veniamo a te», dice Ettore prendendo un quaderno vuoto. «Volendo, potresti spifferare tutto… ma devo rischiare, perché da solo non riesco più e quel bastone mi servirà.» «“Quindi vuoi che ti dia una mano?» «Esatto.» «Perché proprio io?», chiedo diretto. «Per il modo in cui guardi le persone che stanno alle casse con carrelli che non potranno mai svuotare. Se solo dessero un poco a chi ne ha bisogno…» «Già…», balbetto, per quanto mi senta una pozzanghera per i miei pensieri superficiali. «A volte basta un pensiero.» Ecco perché non faccio più la lista della spesa. Aiuto Ettore e gli altri anziani del quartiere ad andare avanti con quello che si può. Come cassiere ho scoperto qualche trucco per farmi passare le cose in via di scadenza e gli avanzi di magazzino. Magari non è una cosa proprio corretta… ma sappiate che non mi annoio più aspettando le persone che non arrivano.
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Hi Virus! Testo di Maria Claudia Bada Scatto di Gabriele Di Stefano
Ed è solo un nuovo giorno che svanisce dentro campane di vetro Lea mandava i saluti ai cadaveri per telefono. Sceglieva un annuncio mortuario a caso, ne rintracciava il numero telefonico e chiedeva della moglie, o della sorella o della madre del deceduto. Non importava che fossero uomini o donne: finivano tutti immancabilmente per piangere, e lei con loro, senza ritegno, languiva di dolore. Il migliore amico, il quasi fratello, la sorella che non aveva mai avuto, la madre esemplare, il padre devoto. Il telefono le schiudeva sempre un mondo di nuove perdite da commiserare insieme ai sopravvissuti. Gli annunci funebri le davano una solida base su cui argomentare variazioni e improvvisazioni. Lea era una donna molto curiosa, tristemente intelligente; emanava un’energia fatta di tremori e sudore. Questo puoi toccarlo, questo no, oddio ti tagli, attenta, i retrovirali mi debilitano un sacco, fumo sempre, è meglio. Lentamente, la dipendenza rinchiusa in tutte le sue ferite stava suppurando. Chiedeva continuamente di essere cremata, come quel tale la cui vedova aveva consolato due giorni prima. Le vampate di fuoco distruggono prima i tessuti epiteliali, sfaldano la pelle in cenere, la carne esposta al fuoco cangiante imbruna, le ossa iniziano ad ossidarsi e sfrigolare… tutto finito, in un bagliore di gasolio. D’aspetto minuto, scura, naso camuso che intrecciava l’origine africana con quella semita, oramai non desiderava più la primavera, un martirio di pollini e infezioni che la trasformavano in una mongolfiera di carne piena di aghi e tubi intasati di pus. Le altre due stagioni morte le laceravano semplicemente i bronchi. E pensare che a suo padre piacevano tanto le stazioni nelle stagioni di mezzo, fine ottobre, i primi di aprile, quando ancora non si riusciva a calibrare il cappotto giusto, il cappello adatto, metto oppure tolgo la sciarpa? Lea si divertiva viaggiare con lui, arbitro del suo gusto come lei non riusciva mai a fare. Pensare oltre il solito pantalone, la solita felpa, il solito maglione, accessori in cui le sue forme si muovono senza affanni estetici, tra fazzoletti e spazzolini e optional dimenticati, ma senza phon non si può stare, ma io mi asciugavo all’aria tanto è ancora caldo, è ancora San Martino, è già caldo a marzo, è quasi primavera, stai tranquillo. Ricordarsi così, invece di alzare la cornetta da questo paese lontanissimo per avere notizie mediche dagli apprendisti stregoni che la circondavano, la linea così disturbata, come stai, stazionaria per fortuna, un po’ di depressione, non cambio pelle ancora. Solo l’estate sembrava dare sollievo alla sua natura contaminata. Aspettava, impaziente, la bella stagione in cui il tempo si posava armonico.
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Eccola, finalmente, una domenica di settembre, sole e aria tenue. La farfalla di legno pescata dall’immondizia volata in alto sullo stipite della porta in cucina, il rosso del foulard che copre i buchi della carta da muro che si attenua e si accende con il lento scorrere delle nuvole, settembre così caldo che declina il rimpianto nostalgico dell’estate verso l’autunno, un tremore di tardi ombrelloni pomeridiani smossi dal vento e dal rombo di un aereo troppo basso. Il treno a binario unico pendeva pericolosamente da un solo lato. Sembrava di poter toccare la gente che scorrazzava in costume ancora per un giorno, cicala per un giorno d’estate ancora e chissà domani se torneranno formiche stacanoviste, chissà. Eccola, finalmente, una domenica in spiaggia. Ronzava senza bassi la musica primi anni ‘80 nel jukebox dinosauro sopravvissuto nello stabilimento accanto ed era subito un’altra prima adolescenza che le si appiccicava addosso col sudore. Pizza, ghiacciolo e calcio balilla, come oggi, solo che costava in tutto 1.500 lire divertirsi nei suoi primi dodici anni estivi. Più la gomma. Non viveva un’estate così da tanto. Smesso da tanto. Oggi si era adagiata a gustare i ricordi, le fotografie, la sabbia, le melodie scioccamente romantiche, le riviste femminili modaiole. Oggi qui e non domani, armonica e luminosa; e il tempo, di posarsi e risparmiarla, non ci pensava nemmeno. Forse. Il controllore le apparve circonfuso di luce verdina, con una vocina così sottile che il rumore delle porte e lo stridore dei binari non riuscirono a coprirla. Treno strapieno, stavano tutti scendendo per l’ultimo ponte estivo. Lea e i fratelli si erano ritrovati pigiati nella calca del rientro. Destinazione: ospedale universitario. E così settembre era destinato a spegnersi in un’assenza di illusioni, un’assenza segnata dal tratto bianco delle piastrine che diminuisce, diminuisce a ridosso dell’estate morente, diminuisce in una fastidiosa insonnia piena di cifre, speculazioni mediche, letture forsennate e tormenti. Quello che immaginava non era solo il suo funerale, era uno scontro. Da una parte, la vita vera di quel paese lontanissimo che, pur avendola accolta a braccia aperte, reclamava dalle finestre dirimpetto pienezza di salami appesi, quarti di maiale impacchettati, capocollo che avrebbero allietato nipoti e figli e madri. Dall’altra, Lea subiva il dipanarsi della insensata casualità di essere vivi e di non vivere un corpo che pur rispondeva alle sue generalità. Un manipolo di soldatini della task force americana, possidenti piccoli piccoli di campi arati e bare premature, come allegri campeggiatori internazionali stavano montando una mitragliatrice vicino alle tende color sabbia. Distratto dal rumore degli scoppi catodici, il dottorino si ritrasse un attimo dal corpo boccheggiante della malata. A trent’anni lui era ancora adolescente. Sembrava una sirena patologicamente infantile, col suo nasino all’insù e i lineamenti delicati. Lea lo ignorava, sdraiata sul lettino, mentre due occhi febbrili le squadravano l’attaccatura dei seni, la linea dei fianchi, la voragine nelle cosce un tempo larga e festosa. La televisione illuminava a intermittenza il bianco della carne in movimento con scenari di guerra orientale. Si addormentò nel lettino d’ospedale, immaginando di slittare tra le ombre dinoccolate dei bambini in mezzo al bianco, appallottolare neve per colpire i manifesti listati di nero col suo nome, colpire proprio in mezzo alla croce, 100 punti, un pacchetto di sigarette in palio. «Tra mille affanni, io sono ancora qui, signorì. Sto bene, io sì sto bene, figlia mia, letti infestati di cimici e pulci, bastimenti di vomito e l’Australia, no, io no, ho molto peccato, ma oramai i desideri – si figuri, alla mia età, poi – scivolano, ho solo pochi anni da vivere malati di nervi, ma almeno in paese, ma vorrei vedere, a vivere qua, senza la famiglia, io sto bene, è la mia vita, mi riesci a capire?» Tra mille affanni, Lea era ancora lì ad ascoltare la vicina. Dentro un’esistenza ostile che lacerava il suo corpo, si vedeva ancora in partenza, in piedi sulle proprie gambe a chiudere una fase di lontananza, di ritiro, di osservazione appartata. La luce infetta che irradiava dal corridoio dell’ospedale segnava il confine della sua malattia. Già uscendo dall’inferriata dell’ospedale, le prendeva quel senso di sollievo che ti ubriaca quando lasci e vai. Tra mille affanni, in quella neve che sarebbe cresciuta nel freddo invernale, che sarebbe cresciuta e avrebbe mangiato il piccolo borgo che l’aspettava, dentro la neve che mangia e cresce, inarrestabile, lei sarebbe stata ancora lì. Intrappolata. Ostile. Viva.
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Testo di Tommaso Chimenti Scatto di Emanuela Ascari
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Era sull’altro marciapiede. Il naso inconfondibile. Come allora. La camminata un po’ gobba e goffa, quel ciuffo, ora sale e pepe, che gli calava sulla fronte. Come l’ultima volta che lo avevo visto. Con la mano aperta come un rastrello a raccogliere il fieno appena tagliato tra quei capelli setosi e grassi. Non unti ma leggermente bagnaticci. Era il suo gesto. C’è chi fuma, chi si gingilla i boccoli e ne fa ghirigori, chi tiene sempre le mani in tasca. Ecco, il Burchi si passava furioso le mani tra i capelli quasi a volergli dare un senso, una direzione, come a ricordare alla folta capigliatura, che gli stava su come un parrucchino appena appoggiato, che comandava ancora lui. Aveva due occhi minuscoli, a bocca stretta e sottile messa di traverso sotto quel naso che lui chiamava importante. E si sforzava di trovare paragoni illustri: Napoleone, Dante. A Luca non piaceva quella proboscide adunca. Niente di personale. La madre del Burchi aveva un nasino a patata che spariva su quella donnona che avrebbe tranquillamente potuto giocare centroboa e sgomitare con la cuffia nell’acqua fino al gozzo. Suo padre invece, operaio comunista, portava un francesismo all’insù che gli dava un tocco di aristocratico. In casa sua non c’erano foto che lo ritraevano da piccolo. Nel quartiere girava voce che fosse stato adottato. Quel naso era più di una confessione. Sembrava slavo, il Burchi. Aveva quei tratti duri e aspri, quel corpo dinoccolato e scuro, quegli occhi che chiedevano spiegazioni. Quelle due biglie color pece che ti mettevano con le spalle al muro. Spuntò dall’angolo che era avvolto da un forte odore di nicotina. Luca attraversò la strada. Respirò a labbra aperte cercando di far passare più fumo possibile in mezzo ai denti distanziati. Voleva assolutamente il fiato che era uscito dalla sua bocca. Dopotutto erano stati fratelli di sangue. Con lui aveva fumato a quindici anni la prima sigaretta nella pineta di Vada. Pacchetto morbido, Marlboro rossa. I grandi ne avevano diciassette ma sembravano giganti irraggiungibili, inavvicinabili. «Non saremmo mai come loro», si erano detti. L’ultima volta che si erano visti, Luca non sapeva che sarebbe stata l’ultima. Meglio così, si era detto più volte. Non c’era più niente che li legava, nessun cordone ombelicale. Erano cresciuti in direzioni opposte. Il Burchi era uno che ad ogni bivio prendeva una decisione netta. Non si faceva travolgere come Luca che aspettava il colpo di vento, la fortuna ad illuminargli la scelta. Luca ogni volta pensava di aver sbagliato, il Burchi trovava il lato positivo anche nell’errore. Anche in quell’ultimo incontro, in quello stanzone ruvido con le colonne grezze di cemento, le sedie spigolose appoggiate alle pareti come in un ballo scolastico. Molti piangevano gobbi con le mani sulla faccia. «C’è tanta gente, si vede che le volevano bene», Luca sentì alle sue spalle. Mancava solo il Sembra che dorma. Lui stava in piedi e accoglieva tutti con fare da cerimoniere. Con il naso a fare da spartiacque, a dividere la scena, a rompere quel flusso silenzioso e partecipe e colpevole, quella processione finta, quella carovana scura senza buone notizie da portare. A grandi falcate tagliò la sala illuminata da piccole vetrate colorate. La mano sinistra nervosa a rovistarsi tra i capelli, la destra protesa in avanti a cercare la stretta. Luca lo abbracciò e si accorse che era l’unico a piangere in quell’androne spoglio. Ogni pas-
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so delle scarpe laccate in cuoio rimbombava, rimbalzava sulle mura gelide. Il Burchi lo strinse forte, mentre Luca singhiozzando sentiva la cassa toracica che si gonfiava non riuscendo a riprendere aria, le costole costrette nella camicia che cercavano di liberarsi dalla morsa dell’apnea. Gli uscì un singulto secco, isterico, squillante. Troppo squillante per una camera ardente in una misericordia laica. Fu come una stecca all’opera, la nota stonata che tutti si aspettano per voltarsi e distogliere l’attenzione, anche solo per un attimo, da quel corpo disteso tra le grandi corolle di fiori bianchi. Anturium, gli disse sua madre sotto voce quasi confessandosi. Come se sapere il nome di quei fiori stupidi potesse cambiare il motivo per il quale erano tutti lì come soldatini allo sbando. Luca si vergognava delle sue lacrime anche perché in quella visione appannata sentiva di essere il solo amico fragile ad essersi abbandonato ad un pianto così materiale. Luca avrebbe voluto urlare che lui la conosceva quella donna distesa, che gli aveva fatto da mamma per tante estati, che con lei ci aveva parlato di ragazze e di tutte quelle cose che con i suoi genitori non aveva mai affrontato. Lo stava ad ascoltare la Rosanna. Gli sembrò superfluo fermarsi a salutarlo. Che l’ultima volta rimanesse l’ultima. Non si possono rincollare i cocci rotti. Chiedergli come stai, come va, il lavoro, la casa, dove abiti ora, salutami tuo padre, hai cambiato numero di telefono, uno di questi giorni ti chiamo e prendiamo un caffé, ti trovo bene, ti sei sposato, hai ancora il tuo inconfondibile ciuffo, ti vedo in forma, fai sport, usciamo una sera, una birra, ciao, a presto, fatti sentire, ora vado di fretta, mi raccomando, non ci perdiamo di vista, ma ti ricordi dell’origano di Vada. Con la spalla sinistra Luca stava sbertucciando l’intonaco di un negozio. Il Burchi si voltò nella sua direzione passandosi una mano tra i capelli come spaghetti scotti.
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Testo di Ivano Porpora
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Scatto di Cristina Mauri
Giravo il paese con la bici, seguito dai miei amici; i cani s’avventavano contro i cancelli latrando. La mia bicicletta. «An cadnas», un catenaccio, dicevano. Era una composta di pezzi d’altre, rubate e poi abbandonate, o di ferri che mio padre raccoglieva vicino ai bidoni dell’immondizia e portava in casa mentre eravamo raccolti attorno alla stufa. Io ero sulla sedia a tenere la mano di mio nonno mentre lui, già cieco, mi chiedeva com’era andata a scuola. Papà entrava con un filo di ferro corroso dalla ruggine, si scappellava e urlava sorridendo «A t’ù catà an ras!», Ti ho trovato un raggio. I miei amici avevano tutti soprannomi che sui manifesti funebri di oggi devono essere indicati in grassetto per evitare che uno legga e passi. I miei amici. Mi prendevano in giro per quell’ammasso di ferro, ma faticavano a tenermi il passo. «Aspetta!», mi urlavano, senza quelle bestemmie che sarebbero arrivate al compimento della maggiore età. Manipulen era rosso come un radicchio, e pestava sulle pedivelle facendo un rumore dell’ostia. Dietro a lui Urtiga teneva sulla canna Replica, che la bici non l’aveva; dietro ancora Al Fons che portava Giuppiter, suo fratello minore ma con una stazza da carrarmato. Mi fermavo, mi pulivo il moccio dal naso con la manica della maglia; ghignavo: «Dove andiamo, oggi?». Fu il punto di diramazione delle nostre storie, quella domanda. La ripetei per anni. E una volta decidevamo per una partita nel campo da calcio della Chiesa di San Martino, con Don Binda che ci urlava
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dalla sagrestia: «Andate a giocare all’Oratorio, che vi rammendate le coscienze». Un’altra volta andavamo direttamente all’oratorio, dove dietro il vetro del bagno dei maschi qualcuno aveva infilato un quaderno di disegni pornografici: gli occhi di Manipulen si facevano sgranati. A volte, come quel giorno, andavamo dal Carnera. Il Carnera era la statua di bronzo del pugile, rovesciata. L’aveva fatta installare in piazza il vicepodestà Franco Carlazzi, cugino dei Caruana, poco dopo l’incontro con Sharkey. La gente era accorsa in massa, il giorno dell’inaugurazione: applaudivano e urlavano «Evviva», mentre Carlàs teneva una sigaretta tra i denti e la prima del Corriere tra le mani, alzata come la coppa Rimet. Non era difficile, formare la calca in paese. Era uno di quei borghi che, come si dice, se metti un compasso nel centro della piazza e tiri un centinaio di metri di diametro hai la Chiesa, il sagrato, il tabacchino che vende anche le ciabatte, il panettiere, il barbiere e i primi campi. Fuori, magari, solo la casa della Martèla, una donna che nacque vecchia e curva e curva e vecchia morì e che segnava slogature, fuochi di Sant’Antonio e cose simili. Il giorno dell’inaugurazione c’era anche mio padre, e c’era mio nonno, e c’erano decine di padri e nonni. E gli stessi padri e nonni, coi bordi degli occhi rugosi e i sorrisi chiusi in solaio, erano là un giorno di maggio del ‘45, le mani sulle nostre spalle. I giri che dovevano essere fatti erano stati fatti, in paese, e molti badili, nati per alzare la terra, erano stati usati per schiacciarla. La gente che si aggirava in paese somigliava ai primi uccellini, scesi a raccogliere briciole dopo un temporale. Il Catif, che durante la guerra aveva taciuto in mezzo al letame, mormorò le sue prime parole proprio guardando la statua: «A col ag pensi mè». A quello penso io. Prese il Landini di famiglia e, di fronte alla folla silenziosa, incatenò il gigante Carnera, dalle braccia di marmo e dalla mascella per una volta di marmo anch’essa, e lo portò nel campo di ortiche, a ridosso della stalla abbandonata di Bitos. Sceso dal Landini, s’incamminò verso casa, uno sguardo mesto che gli avrebbe fatto da compagno di vita. Qualche giorno dopo arrivarono dalle colline due partigiani del pavese. Uno era smilzo, col cappello da spagnolo e una mitraglietta alla spalla; l’altro, probabilmente, le sue tre o quattro riprese col Carnera le avrebbe rette. Entrambi bevvero e festeggiarono, e zufolarono dietro alle ragazze, mentre sedevano ai tavoli all’aperto all’Osteria di Marion, fin quando fu fatto loro intendere senza fraintendimenti che non era cosa gradita. Per stemperare la tensione, il grande, che si chiamava Macchia, sentito del Carnera, disse: «Quello va giù». Tutti si guardarono in faccia. Per i busti del duce o di Balbo c’era stato poco da questionare: chi li aveva sul marmolino di casa li aveva fatti volare dalla finestra, o tuffati in Po, o nascosti per tempi migliori. Ma il Carnera era come l’icona di San Francesco nella chiesa del Castello: le grazie le avresti chieste a Dio, per carità, ma a lui, nel dubbio, una candela l’avresti accesa. Nessuno, comunque, ebbe il coraggio di contraddire un partigiano, e tanto meno quello, che aveva pugni come martelli da ferrovia e guance rubizze. Li portarono al campo. Rideva, quello piccolo, che si chiamava Tommy e camminava coi piedi aperti. Rise di più, quando il Macchia gli fece: «Ce le hai ancora, Tommy, le candeline, che oggi si fa un compleanno?». Estrasse una busta di canapa spessa da cui sbucarono fuori quattro candelotti. Il Macchia s’avvicinò al collega. Li vedemmo questionare sul come e sul quando. Poi si fecero dare delle funi, che in quei giorni in paese non mancavano, e legarono la dinamite al basamento. «Roba da deficient’», sentii alle mie spalle. Mi girai e vidi Al Negar, il Nero, che di nero aveva solo il soprannome. Mi mise una mano sulla testa, girandomela dopo avermi fatto cenno di tacere. Dei grandi avevo rispetto, ma il Negar era uno che il rispetto se lo era cucito addosso nel tempo. Così girai la testa, zitto. «Adesso, signori», disse il Tommy, sorridendo e mostrando così una granaglia di denti marci e di spazi vuoti, «il Carnera fa il suo ultimo incontro. Vi preghiamo di allontanarvi!» E si inchinò. La gente contò diversi passi indietro, sudando freddo come non c’era stato verso di abituarsi. I due tirarono un cavo, lo girarono su se stesso. E accesero. Attendemmo qualche secondo a occhi chiusi e orecchie tappate. Sentii dietro gli indici una deflagrazione che mi gelò la schiena. Poi, dopo qualche secondo, tirai fuori le dita dalle orecchie. E sentii le risa. Le risate dei grandi, compreso mio padre e mio nonno. Il polverone si era alzato coprendoci di polvere scura; oltre questa intravedemmo i due partigiani, lividi di rabbia, dare calci alla statua ribaltata a terra, dov’è ancora oggi. Cappottò e basta, facendo dare al gigante friulano l’ultimo gancio. Al terreno.
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C'era una volta.. un'aragosta Rubrica a cura di Armando Minuz Illustrazione di Laura Beranrdi
Rovesciai la barca della tua purezza, entrando furtivamente di notte nei tuoi sogni, entrando furtivamente di giorno nella tua realtà E. Clementi, L’ultimo dio
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C’era una volta in una caverna un uomo mezzo scimmia che disegnava scene di caccia, «tentativi di magia pratica», come scrisse una volta Tom Robbins. C’era una volta il rito iniziatico di certi indigeni oggi herzoghiani. C’era una volta il mito. C’erano una volta gli exempla medievali. C’era una volta la fiaba. C’era una volta il bildungsroman. C’era una volta, scriverà forse un giorno qualcuno, una società come la nostra. Una società composta, come credeva Foucault, da uomini che “sanno” di essere tali soltanto da una manciata di secoli. L’uomo come idea. L’uomo come concetto e non come verità. All’interno di questa idea, violentemente otto e novecentesca, si muove la letteratura di Pietro Iannibelli. Cavallino di razza che, di notte, sembra frequentare le oniriche lezioni di un Landolfi o di un Borges, e che forse passa i minuti della ricreazione mandando a memoria la letteratura, anzi le letterature, di secoli passati. Magari per questo, subito dopo aver letto questo suo ultimo racconto ho pensato che l’aragosta fosse la protagonista di un nuovo, inaudito bestiario neomedievale, una specie di bizzarra creatura emergente da chissà quali viscere (ultra)terrene per terrorizzare la bella razza umana. Ci ho messo del tempo per capire che, invece, l’aragosta appartiene a una sorta di panteon che questo giovanissimo scrittore sta piano piano edificando, racconto dopo racconto, utilizzando i solidi pilastri della sua disciplina da una parte e, dall’altra, quelli della sua agitata, pirotecnica, direi (provocatoriamente) psichedelica creatività. Come, appunto, potessero essere psichedelici, dunque modernissimi, i “vecchi” maestri Landolfi e Borges e Márquez… se non addirittura un Palazzeschi, un Morovich, uno Zavattini. Avieri lisergici ante litteram. Equilibristi, funamboli della visione. Ma veniamo finalmente al racconto, e a una giovane ragazza cui tutto nel mondo appare bello e buono. Una ragazza, dunque, che proprio per questo vive non la realtà ma una splendida illusione, dorata ma frivola e priva di profondità. Scrivevo poche righe fa di scene di caccia rupestri, di miti, di fiabe, di romanzi di formazione. Così L’aragosta è un racconto che esprime un luogo eterno della letteratura: l’infrangersi dell’innocente illusione contro i bastioni di una realtà – spesso percepita tutta d’un colpo e cruentamente – che può portare alla rovina o alla maturità. Tuttavia, com’è giusto che sia, la ragazza non può rendersi conto di questa imminente metamorfosi, essendo ancora senza esperienza di quel dolore, di quella paura (fiabesca ma insieme terribilmente concreta) che porta, se superata, appunto alla presa di consapevolezza, a un paradigma superiore, al migliorarsi, a una maturità che può coincidere con il diventare nobilmente “adulti”. La protagonista è poco più che una bambina, colei che un poco infantilmente “comanda essendo”, che non può percepire il profondo baratro al quale si sta avvicinando. Può, però, percepire il sentimento del diverso, che nell’essere umano è pressoché innato. Presagisce per questo l’arrivo dell’aragosta, simbolo di qualcosa che mette paura per la sua stranezza, o per la sua distanza dall’umano, ma anche di qualcosa che dietro le punte acuminate e la durezza del guscio nasconde qualcosa di tenero e buono e nutriente (senza contare che in psicologia sia il cibo sia il nutrimento rappresentano l’affettività). Alla fine l’aragosta, la minaccia soltanto intuita, si manifesta. Ed è qualcosa che con la sua diversità spaventa e toglie da un mondo familiare. Eppure, quando si capisce che questo nuovo ospite c’è e farà parte di noi per sempre, quando si accetta questa paura che si è troppo avvicinata a noi stessi, il guscio metaforicamente si schiude… ed ecco il regalo, la perla: la profondità degli abissi marini. E
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inabissarsi, con o senza la guida di un’aragosta o di un Virgilio o di un Tyler Durden (visto che il tema è quello dell’incontro) significa spesso interrogarsi, andare oltre la superficie e guardarsi dentro. E si potrebbe per questo, un po’ banalmente, ricordare il Porto sepolto ungarettiano, che è tutta una metafora dell’incombenza dell’artista e di questo suo inabissarsi per poi cedere alla gente “comune” il dono di una tale spaventosa, ma splendida, avventura. Io credo che l’aragosta sia una specie di divinità, o un angelo custode minore, di un panteon che non conosciamo perché l’ha inventato Iannibelli. Come certe divinità ctonie (non a caso: sotterranee, delle profondità) dell’antica Grecia, che furono insieme negative e positive, portatrici di maledizioni e benedizioni a seconda della situazione e della persona. Come certi “cattivi” delle fiabe che, spesso loro malgrado, recano involontarie benedizioni ai Pollicino, ai Cappuccetto Rosso, alle Biancaneve che popolano il “nostro” panteon, che non può che essere – vista la nostra cultura e la nostra società – disneyano, caricaturale, in technicolor, inconsapevolmente, violentemente archetipico e dunque ben grezzo. Iannibelli, nella sua umiltà di scrittore “emergente” ma con l’amore e la benevolenza dei grandi maestri e con un po’ della loro polvere di stelle negli occhi e fra le mani, si spinge un po’ più in là e inventa questo piccolo alieno quasi rambaldiano, questo monstrum (da monere: avvisare, ammonire) tutto aculei e punte che, una volta avvicinatosi al suo obiettivo, dischiuso metaforicamente il coriaceo guscio che mette strizza, elargisce un dono preziosissimo. La familiarità non con la superficialità dell’illusione, ma con la profondità che hanno gli abissi infiniti della realtà.
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Farewell to you, my friend… Rubrica a cura di Enrico Cantino Illustrazione di Alessio maggioni Sei la primavera che tornerà, nelle case Lulù, per le strade Lulù, sempre dove passi tu. Sei la felicità, l’avventura che va, e nessuno fermerà. Rocking Horse Galaxy solo Galaxy ti farà vedere l’universo Galaxy solo Galaxy sempre Galaxy come un sogno questo treno viaggerà e solo Galaxy sempre Galaxy nella notte vola e va Oliver Onions Sulla mia moto corro, presto, lo troverò quel maledetto. E con un colpo mio mortale vedrai gliela farò pagare Judo Boy
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Hanno un bel dire Arrivederci!, oppure A presto!. Magari in lontananza, le sagome incorniciate da uno di quei tramonti che stringono il cuore. Sanno perfettamente che non si rivedranno più. Le loro strade si sono incrociate, ma ora tornano a dividersi. Anche se con il destino non si può mai dire. È quello che succede a molti personaggi dei cartoni animati giapponesi. Qualcosa li costringe a mettersi in gioco. Devono cercare una persona (magari se stessi), o procurarsi un oggetto (magico, naturalmente). Non importa quali saranno gli ostacoli, né il prezzo da pagare. Sono disposti a tutto, pur di raggiungere il loro scopo. Perfino a sacrificare la propria vita. Il fallimento è ammesso. L’importante è che abbiano dato il massimo. La ricerca comporta l’idea del viaggio. Le cose e le persone non si trovano, se si sta fermi. D’altronde non ci sono più certezze. Meglio abbandonare tutto. La posta in gioco non è bassa. Al contrario. Viaggiare e incontrare gente. In ogni episodio, un nuovo posto. E un nuovo personaggio, che racconta la propria storia al protagonista. Poi toglie il disturbo. In via provvisoria o definitiva. Discreta oppure cruenta. Dipende. Dal sadismo degli sceneggiatori, immagino. Ogni incontro reca con sé una sfida. Che permette di conoscere se stessi. Di crescere. Come quando si legge un libro: ci si confronta con l’altro da sé, con una visione del mondo diversa dalla propria. Tre pellegrini. Il primo è una lei. Lulù, una ragazzina vestita come una caramella gigante. Con i capelli che ricordano molto da vicino i merletti della nonna, e rimangono sempre uguali, nonostante pioggia e vento. E l’assenza di un parrucchiere. Lulù, Canto di poesia e vento che scappa via, è una Prescelta. Una majokko. O maghetta, se preferite. L’accompagnano un cane e un gatto parlanti. La sua missione, le dicono, è ritrovare il leggendario (chissà per chi) “fiore dai sette colori”. Durante il viaggio, può contare su una spilla fatata. Le basta orientarla verso un qualsiasi fiore per trasformarsi in ciò che vuole: pilota, judoka, hostess… Fino alla sorpresa finale. Il magico fiore, se ne stava bello tranquillo nel giardino di casa sua, quasi a voler suggerire che certe volte non serve cercare lontano… Le motivazioni del secondo pellegrino sono ben diverse. Nel corso di un duello, un misterioso “uomo con un occhio solo” uccide il grande Kurenai, rinomato maestro di Judo. Il figlio Sanshiro vuole (comprensibilmente) vendetta. Salta in sella alla sua moto per trovare il guercio malefico. Anche lui ha due compagni di viaggio. Un orfanello e un buffo bassotto che indossa un berretto da ragazzino. Il nostro judoka incontra una ragazza in tutte le città che visita. Una gli muore addirittura fra le braccia. Ognuna di loro si trova nei guai. L’incontro diventa anche scontro. Prima di ogni combattimento, assistiamo alla rituale vestizione del protagonista, che non scende mai in campo senza indossare
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l’immancabile kimono rosso, che sembra renderlo invincibile, come se possedesse chissà quali magici poteri. Sarà perché lo ha confezionato la defunta madre… Qui la ricerca ha un esito diverso da quello che potremmo aspettarci. Uno dice: Sanshiro trova l’uomo con un occhio solo e lo fa fuori. Sbagliato. Non lo trova. Però continua a cercarlo con uno spirito nuovo: non intende più ucciderlo, ma misurarsi con lui in un duello leale. Veniamo al terzo pellegrino. Masai è un ragazzino bruttarello, rimasto orfano di fresco. Alcuni uomini meccanici – esseri umani che rinunciano al loro corpo per prendersene uno, appunto, meccanico – uccidono sua madre. Anche lui vuole vendicarsi. Decide quindi di raggiungere il pianeta Andromeda, dove potrà procurarsi un corpo meccanico. Per arrivare a destinazione, però, bisogna imbarcarsi sul Galaxy Express, i cui biglietti sono cari come il veleno e difficilissimi da ottenere. Gliene regala uno la misteriosa Maisha, una donna bionda, pallida e longilinea, che veste come una comparsa del Dottor Zivago e manovra una frusta con grande destrezza. I due si mettono in viaggio. Sono molti i pianeti toccati dal treno. E su ognuno di essi, Masai incontra uomini e donne dal passato tragico. Ci sono episodi a dir poco strazianti. Oltretutto, c’è dietro la fregatura. Maisha non è un essere umano, ma il clone della regina di Andromeda. Ha il compito di adescare dei “volontari” – chiaramente ignari di quel che li aspetta – il cui non invidiabile destino è diventare parte integrante del pianeta stesso per garantirne la sopravvivenza. La storia dei corpi meccanici, insomma, è un bufala, un pretesto. Masai, che si sente tradito, viene sbattuto in prigione. La ragazza si pente e lo aiuta a fuggire, riportandolo sulla Terra. Il protagonista capisce che un guscio meccanico non gli serve a nulla. Nell’ultimo episodio resta un Masai che vede da lontano Maisha partire su un treno con un altro ragazzo della sua età… Lulù l’angelo tra i fiori, Judo Boy e Galaxy Express 999. Tre serie appartenenti a tre differenti generi. Il sugo rimane sempre quello, anche se cucinato in maniera diversa. Conoscere l’altro significa conoscere a fondo se stessi. E poi, come sostiene Dave Lowry nel libro Lo spirito delle arti marziali, «lo scopo ultimo della Via [del Guerriero] è il “processo”. Significa fare una cosa non per il suo risultato, bensì impegnarsi perché compiere questo atto ci libera dalle costrizioni del nostro io limitato: il narcisismo, l’egocentrismo, la preoccupazione indotti dai timori, dai problemi e dai dubbi che rendono più misera la nostra vita quotidiana. La Via ci attira nel luogo in cui domina il nostro io potenziale: l’autorealizzazione, l’autocoltivazione e l’autoperfezione.» La Via è lì. C’è solo da percorrerla. Qualcuno lo si incontrerà…
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BIOGRAFIE PENNA Claudia Arisi è nata nel 1982 e si è laureata in scienze politiche nel 2006. Attualmente è borsista del programma di dottorato in Studi Europei che si svolge presso il Centro di Studi sull’Unione Europea di Salisburgo. Nel tempo libero scrive racconti per la necessità di dissacrare e di esorcizzare. Per non prendersi troppo sul serio, non come adesso che scrive di sé in terza persona. Se poi, leggendo quel che scrive, pensate di lei che sia un alieno, fate bene, perché non è detto che gli alieni siano tutti piccoli e verdi… Maria Claudia Bada è autrice di poesia, narrativa e saggistica, vincitrice nel 2003 dell’XI edizione della Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo e di vari concorsi nazionali di poesia. Ricercatrice in linguistica e filologia, specializzata sulle parlate alloglotte croate del Molise, la sua tesi di dottorato ha vinto il terzo premio della X edizione del Concorso Internazionale per gli Studi Scientifici sul Plurilinguismo, organizzato dall’Ufficio Bilinguismo e lingue straniere di Bolzano. Tra le sue pubblicazioni letterarie: Il sepolcro, Luisa Gasbarri Edizioni; Quattordici giorni a domani, Teramo, Demian Edizioni, 2006; Tracce vol. 72-73, Pescara, Tracce, 2006. Enrico Cantino è sulla soglia dei 43. È laureato in Materie Letterarie. Vive e lavora (part-time) a Parma. Stravede per i gatti, i cartoni animati e la letteratura. Scrive racconti dal 1984 (più o meno) e ogni tanto riesce pure a pubblicarne qualcuno. Nel 2006 alcuni suoi racconti sono stati pubblicati nell’antologia letteraria I Lunatici edita da MUP Editore. Tommaso Chimenti è cintura nera di parole sconnesse e guru shintoista delle virgole arcuate, imbratta fogli, ma non Riccardo, palleggia con le parentesi, fa capriole con le maiuscole. È nato nel 1973 perché i suoi erano appiedati per l’aumento del petrolio. Laureato in Scienze Politiche, giornalista e critico teatrale per “Il Corriere di Firenze”, giurato per il Premio Ubu. Adora il sole e la Nutella, i marciapiedi sconnessi, i bambini in bicicletta, le giornate ventose, il miagolio estenuante dei gatti in amore. Ha vinto i concorsi: Io alla Feltrinelli, Firenze 2005; Subway, Milano 2006; terzo al Fragori di solstizio, Castiglioncello 2006; terzo al Castelfiorentino 2006; segnalato al Premio Boccardi, Massa Marittima 2006; secondo a Lama e Trama, Pordenone 2006; primo al concorso di haiku La volpe e l’uva, Roma 2006; secondo al Centorighe, Firenze 2007; vincitore del Premio Confidenze, Milano 2007; secondo al Premio Poesia e Racconti, Pavia 2007; vincitore dell’Eppur si stampa, Firenze 2007; terzo al Maremma Mistery, Grosseto, 2007. Pubblicato in numerose antologie: L’Arno raccontato, Polistampa, Tutti esplosi, Giulio Perrone, Primo Amore, Mondadori, e varie riviste e quotidiani cartacei come “Cronaca Vera”, “Toilet”, “Fatece Largo”, “Beatiful Freaks”, “L’informazione”, e sul web come “Sagarana”, “Orient Express”, “Thriller Magazine”. Ma, alla fine, sono solo canzonette.
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Giacomo Dazzi è nato Parma nel 1971. Abita a Fontevivo da sempre e si è diplomato nel 1998 come perito informatico. Attualmente lavora come progettista software in un’azienda e gli piace scrivere storie (lo fa da una decina d’anni), guardare film (polizieschi e western), leggere (alla mattina prima di andare al lavoro e alla sera prima di dormire) e andare a correre. Suona la chitarra e canta in un gruppo che fa Rock’n’Roll. Mattia Filippini studia Lettere all’Università di Bologna. Per autodefinirsi, gli piace utilizzare una frase di Paolo Nori: «Io sono quello che non ce la faccio». È alle prese con la pubblicazione del suo primo romanzo, Fabemolle. Il più del tempo dorme. Ha già pubblicato alcuni racconti su “La Luna di Traverso” e su “Inchiostro”. Alfredo Goffredi è nato a Londra nel 1982. La respira per qualche mese e subito viene trapiantato a Piacenza, dove vive tuttora. A un passo dalla fine degli studi, scrive soprattutto per diletto. Ama i gatti e il tè, l’Irlanda e il Giappone, i film di Takeshi Kitano e un po’ di altre cose. Venera Neil Gaiman, Alan Moore e Grant Morrison, Jonathan Coe, Irvine Welsh e Douglas Coupland. Marco Grassano è nato ad Alessandria nel 1961 ed è coniugato con una figlia di 8 anni. Lavora come funzionario in Provincia occupandosi di Valutazione di Impatto Ambientale ed è stato Sindaco del suo
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Comune di origine, Alluvioni Cambiò (AL). Inoltre è anche scrittore, per passione. È specializzato in Lingua e Letteratura Spagnola ed è un profondo conoscitore della letteratura portoghese. Scrive libri di viaggio e trova nella natura e nel paesaggio il tema conduttore della sua creatività. Per Franco Muzzio Editore ha scritto Da Lisbona a Tago e tutto (1997) e Fin dove cresce l’ulivo (1999), con una prefazione di Francesco Biamonti. Pietro Iannibelli ha 31 anni e vive a Parma. Predilige Andrea De Carlo, Dan Brown e gli Harmony: la letteratura, quindi. Adolfo Marciano, è nato a Cava de’ Tirreni nel 1967. Si è laureato in Lettere moderne presso la Scuola Normale superiore di Pisa. Dal 1992 vive in Trentino, dove insegna materie letterarie in un liceo. A partire dal 2003 si è dedicato alla scrittura narrativa. Tra i riconoscimenti che gli sono stati attribuiti, ricordiamo almeno: il primo premio dell’edizione 2007 del concorso di letteratura per l’infanzia “Mario Tabarrini”, organizzato dal Comune di Castel Ritaldi (PG), per il racconto Il matrimonio di Celestino; il primo premio dell’edizione 2007 del concorso “Germano d’argento”, organizzato dall’APCAT di Trento, per il racconto Vite; il primo premio delle edizioni 2005 e 2007 del concorso “Il piacere di raccontare”, organizzato dal Comune di Lavis (TN), rispettivamente per i racconti Un ritorno e Binario morto; il secondo premio del concorso di letteratura per l’infanzia “La casa della fantasia”, edizione 2004, organizzato dalla fondazione Marazza di Borgomanero (NO), per il racconto La biblioteca fantastica. Armando Minuz è nato a Pieve di Cadore, in provincia di Belluno, il 26 gennaio 1975. Attualmente abita a Parma. È laureato in Letteratura Italiana, con una tesi sul comico e la retorica nelle opere di Luigi Malerba. Davide Nonino nasce a Udine nell’aprile del 1980. Inizia a scrivere a quindici anni. Tra l’autunno del 1999 e la primavera del 2000, frequenta un corso di lettura critica e scrittura creativa organizzato dal Circolo di Studi Artistici e Sociali Espressione Est di Udine. Nel 2000 viene realizzata l’antologia Trip, giovani scrittori scriventi nel Friuli (edizioni CSA Udine) che raccoglie gli scritti di alcuni partecipanti al corso di scrittura creativa, tra cui i suoi racconti Fiore d’Alice e Non lasciare che sia. Nel 2006 realizza, da scrittore nel cassetto, uno spazio web in cui condividere i propri scritti, scambiare idee, coinvolgere altri artisti e cercare soluzioni alternative. Nel 2007 si classifica secondo al concorso letterario nazionale “Scrivere i sapori” con il racconto Salame sono io, e viene selezionato tra i vincitori del Premio letterario nazionale Rotary Modena L.A. Muratori che vede pubblicare all’interno dell’antologia La gabbia e i suoi animali (Moby Dick Editore) il racconto eMMe EmmE. Inoltre il racconto Mister Eco viene pubblicato nel numero Trasformazioni della rivista letteraria “La luna di traverso”. L’antologia Lignano: ti racconto, edizione 2008 (La Nuova Base Editrice), ospita il suo racconto Cena di classe. Ivano Porpora è nato nel 1976 a Viadana, in provincia di Mantova. Ha cominciato a disegnare a sei anni, poi di nuovo a 15, e a scrivere a diciassette, senza interrompersi mai. Ha vissuto due alluvioni e diversi periodi di sole, un anno a Siena, quattro a Bologna, tanti nel mantovano. Roberto Stradiotti, laureato in filosofia, scrive dall’età di tredici anni per un bisogno insopprimibile di natura tuttora ignota. È impiegato presso una azienda cartotecnica di Cremona, per necessità più che per passione. CAMERA
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Roberta Abeni è nata nel 1981 nel bresciano. Dopo la laurea in Architettura al Politecnico di Milano da Ottobre 2006 a Giugno 2007 partecipa ad uno stage collaborando ai progetti DecentraCultura, Città di Città e alla mostra SlowInnovation, promossi dall’ICAlabS − Slow Innovation Strategy per l’Impresa, la Cultura, l’Arte nel Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano. Dall’Aprile 2008 è socio fondatore e membro del Consiglio Scientifico QBICA, collaborando nell’attività di progettazione di BBank − Brainstoming Bank, Banca del Tempo Culturale promosso dallo stesso ufficio dell’ICAlabS al Politecnico. Giuseppe Ammannato ha 26 anni. Appassionato di musica e cinema, sta scoprendo il mondo della fotografia, affascinato dagli scatti e dalla macrofotografia. Saccente e arrogante nell’animo, è convinto di avere la verità in tasca e fornisce pedanti ed inutili spiegazioni su qualsiasi cosa gli passi sotto il naso, cogliendo ogni occasione per sottolineare la sua innata superiorità in tutto, anche in ciò che non sa. Cosa che, per definizione, non esiste.
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Emanuela Ascari si laurea al Dams, Arti Visive, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Bologna, nel 2004, e successivamente frequenta il Master Paesaggi Straordinari. Paesaggio Arte Architettura, del Politecnico di Milano e l’Accademia di Belle Arti Santa Giulia di Brescia, durante il quale svolge uno stage presso Cittadellarte-Fondazione Pistoletto a Biella, elaborando un’indagine sul rapporto tra industria e paesaggio. Attualmente frequenta il corso di formazione avanzata Il mestiere delle arti, organizzato, fra gli altri, dal Comune di Ferrara. Collabora come fotografa al progetto Geo(foto)grafie. Pubblico Paesaggio, Festival di Architettura di Parma, Modena, Reggio Emilia, 2008 e con il Dipartimento di Arti Visive dell’Università di Bologna, per un saggio fotografico all’interno del volume Bologna centrale. Città e ferrovia tra metà Ottocento e oggi, a cura di Riccardo Dirindin e Elena Pirazzoli, di prossima pubblicazione (Clueb). Nel 2008 vince il terzo premio del concorso fotografico Tempo vuoto, progetto Hanging Around, esponendo alla Chiesa di San Paolo, Modena, mentre nel 2007 è selezionata da Claudio Abate come vincitrice del concorso fotografico Racconti d’arte, MART, Rovereto. Tra i suoi momenti espositivi più importanti: Private Flat #4, progetto di Meridiano 12.4.1 a cura di Alessio Bestini e Martino Marghieri, Firenze (2008), Botto & Bruno workshop, mostra, Officina Giovani – Cantieri Culturali Ex Macelli – Centro per L’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato (2007), Concorso BLUorG Under 30 (2007), Going Public ’06, direzione artistica di Claudia Zanfi, Formigine (2006), Sguardi su una grande opera. L’alta Velocità in cantiere in Emilia Romagna, a cura di Linea di Confine per la Fotografia Contemporanea e Relazioni Esterne TAV, Rocca Sanvitale, Fontanellato (PR), Architettura contemporanea in Emilia-Romagna (1945-2005), a cura di Piero Orlandi e Mario Lupano, GAM, Bologna, Premio DAMS, sezione Arte, a cura di Renato Barilli, Villa delle Rose, GAM, Bologna (2004). Alessandra Bari è nata nel 1982 a Verona. Dopo la laurea in Architettura al Politecnico di Milano da Ottobre 2006 a Giugno 2007 partecipa ad uno stage collaborando ai progetti DecentraCultura, Città di Città e alla mostra SlowInnovation, promossi dall’ICAlabS - Slow Innovation Strategy per l’Impresa, la Cultura, l’Arte nel Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano. Dall’Aprile 2008 è socio fondatore e membro del Consiglio Scientifico QBICA, collaborando nell’attività di progettazione di BBank - Brainstoming Bank, Banca del Tempo Culturale promosso dallo stesso ufficio dell’ICAlabS al Politecnico. Elisabetta Borda è nata a Pinerolo nel 1972, e si è laureata in materie letterarie a indirizzo artistico. Dal 2000 ha alternato l’insegnamento nelle scuole con brevi esperienze di volontariato in Kenya, Madagascar, Albania e Kosovo. Dal 2000 al 2003 è stata coordinatrice in Albania, a Gramsh, di un centro diurno per donne e minori in difficoltà per una ONG italiana. Successivamente, dal 2003 alla fine del 2005, ha lavorato a Tirana in un progetto volto alla formazione professionale di giovani albanesi, in qualità di insegnante di italiano e inglese. Ha scritto per la rivista albanese “Klan”. Attualmente alterna l’insegnamento della lingua inglese presso una scuola elementare della provincia di Torino con frequenti viaggi in Albania. Gabriele Di Stefano nasce nell’agosto del 1981 a Roma, dove tuttora vive. Dopo aver seguito un percorso universitario ad indirizzo scientifico agli inizi del 2004, Gabriele fa le sue prime esperienze artistiche nel campo della musica elettronica e della fotografia analogica; proprio quest’ultima diventa una vera passione. Inizialmente si concentra su scatti ottenuti con vecchie macchine giocattolo a medio formato e non, ricercando e creando volutamente, attraverso la scelta di pellicole e prodotti chimici di sviluppo, immagini fortemente contrastate. Negli ultimi anni questa ricerca sfocia nella sua esigenza personale di riuscire a fotografare la realtà intesa come quotidiano vivere, particolari di vita. Nel 2006 inizia a scattare con una Rolleiflex reflex analogica che accompagna ancora molti scatti della sua attuale produzione.
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Marco Fortunato è nato a Busto Arsizio nel 1975. Per lui viaggiare è un modo per imparare a vivere insieme agli altri. Viaggiatore incallito, prima per lavoro, poi per istinto, compra la sua prima Reflex a La Paz, Bolivia,nel 2004. È autodidatta, legge e scatta; frequenta un corso presso il Forma di Milano per imparare di più. Gli piace creare una relazione tra le sue foto e lo spettatore che si fa guidare al limite delle ovvietà riprese. Ama fotografare in bianco e nero; attualmente preferisce usare una Yashica a medio formato 6x6. Cristina Mauri è nata nel 1986 a Lecco e vive a Bellagio, in provincia di Como. Si è diplomata al liceo linguistico “G.Bertacchi” di Lecco. Attualmente frequenta il terzo anno accademico di Graphic Design all’ISGMD, Istituto Superiore Grafica Moda Design, di Lecco. Da circa un anno e mezzo si è avvicinata alla fotografia, materia che studia all’accademia, e ha iniziato a sviluppare con entusiasmo questa passione. Valentina Sulsenti è nata a Ragusa 32 anni fa. Laureata in Conservazione dei Beni Culturali, vive e sbarca il lunario a Parma dal 1993.
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Matteo Varsi nasce a Levanto, in Liguria, nel 1970. Fotografia e letteratura costituiscono la sinergia delle sue prime ricerche. Dal 1998 inizia a collaborare con “Boomerangmedia” e “Photonica”. Pubblica su “La luna di traverso” rivista letterario-fotografica ed è inserito nell’antologia I lunatici (MUP, 2006). Su richiesta di Franco Fontana, l’immagine Vertigo (tratta da Itinera) viene acquisita presso il Museo di Fotografia Contemporanea di Modena. Nel 2003 vince una borsa di studio per accedere all’ultimo anno dell’IIF (Istituto Italiano di Fotografia) a Milano dove si diploma l’anno successivo. Contemporaneamente approfondisce il suo interesse per la camera oscura e la stampa fine art presso il laboratorio CBS sempre a Milano. Predilige un approccio primitivo al mezzo fotografico, rifiutando manipolazioni di tipo digitale. Si avvale di strumenti molto rudimentali, quali il foro stenopeico, la camera box. Dal 2004 vive e lavora tra Milano e Levanto. MATITA Laura Bernardi è nata nel 1982 a Parma, dove vive e lavora. Nel 2005 si è diplomata in Illustrazione presso la Scuola del Fumetto di Milano. Ha partecipato a numerosi concorsi nazionali ed internazionali d’illustrazione per l’infanzia. È stata selezionata ai concorsi di Illustrissimi 2005 e Peer a colori 2006, in occasione dei quali le sue opere sono state esposte rispettivamente a Riccione e a Ischia. Nel 2006 le è stato attribuito un Award dall’Associazione Illustratori con relativa pubblicazione sul volume Illustratori Italiani Annual 2006. Nell’anno scolastico 2006/2007 ha tenuto un laboratorio di disegno presso una scuola elementare di Parma. Nel 2007 è stata selezionata al concorso indetto dall’Associazione Tapirulan di Piadena (CR) e una sua illustrazione è stata pubblicata sul Calendario Tapirulan 2008. Alcune delle sue immagini sono state pubblicate sul catalogo 2008 dell’Archivio Giovani Artisti di Parma. Serena Brandini è nata a Verona. È diplomata in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia e espone in mostre collettive e personali dal 1993. Tra i suoi momenti espositivi più importanti: Favole per Rodari a Omegna (2005); Natale in arsenale (2005); partecipazione al concorso Una stazione a fumetti a Pavia (2006); una menzione di merito al concorso nazionale Il viaggio a Cesena (Farnedi, 2007); il premio speciale della giuria Sulle ali delle farfalle e dei cigni, 5° Internationaler Kinder und Jugendbuchwettbewerb a Schwanenstadt in Austria (2007); una mostra personale intitolata Rosso personale a Le Coquetel a Milano (1997-1998) e Mostra personale al Cinema Ciak a Verona (2004). Alessio Maggioni nasce a Vittoria nel 1978. Vive da sempre nei pressi di Catania. Si laurea in Matematica, disciplina che insegna nelle Scuole Secondarie. Si avvicina al disegno grazie ad un’artista catanese, Loredana Catania, da cui impara le tecniche basilari. In un secondo tempo si appassiona al disegno a fumetti, di cui è un vorace lettore sin dall’infanzia, e si iscrive ai corsi patrocinati dalla Fondazione Marco Montalbano, che frequenta ormai da vari anni. La rivista “BOX” ha pubblicato una sua intervista arricchita da alcune foto dei suoi disegni. Ha realizzato una copertina per una pubblicazione della Villaggio Maori Edizioni e si è classificato nella mostra-concorso Segninquieti di Oderzo (Treviso). Ha esposto, inoltre, i suoi lavori nella mostra personale Bestiario presso la Galleria Progetti d’Art” a Catania e si è classificato per la mostra-concorso Arena del Fumetto a Bologna nel 2007. Luca Pedrelli in arte “Skawalker” è nato a Bologna il 25 novembre 1971. Diplomato all’Accademia di Belle Arti di Bologna (decorazione), ha partecipato a diverse mostre, sia collettive sia personali. Ha frequentato un corso di Fumetto presso i Giardini Margherita di Bologna nell’anno 1995-96 (con esposizione finale). Attualmente lavora come Dj in locali e clubs sparsi sulla penisola. Vive a Parma.
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Elisabetta Tomboletti è nata a Marino (Roma) nel 1983. Dopo aver ottenuto i diplomi da Tecnico della Grafica Pubblicitaria e Computer Grafica Statica, Animata e Tridimensionale si è iscritta all’Accademia di Belle Arti di Roma, corso di Pittura del professor G. Modica, conseguendo il diploma a pieni voti nel 2008. Vive e lavora a Marino e ha partecipato a varie esposizioni: Collettiva L’Abbazia di San Nilo con l’occhio dell’artista (Grottaferrata 2005); Ateliers Internazionale d’Arte Contemporanea Monteacuto della Alpi (Bologna 2005); Permanente al museo del Parco di Pianaccio (Bologna 2005); vincitrice del Workshop di perfezionamento di pittura diretto da Giovanni Meloni; Collettiva di Incisione dell’Accademia delle Belle Arti di Roma Nel segno dell’incisione (2006); II° posto al Premio Internazionale per l’incisione “Fabio Bretoni”. Recentemente è stata finalista al Premio Nazionale delle Arti a Catania 2008, Primaverile Romana 2008. Ha ottenuto l’inserimento nel V repertorio degli Incisori Italiani 2008.
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Comune di Parma Assessorato alle Politiche Culturali e alla Creatività Giovanile
La rivista letteraria «La Luna di Traverso», edita dalla Casa editrice Monte Università Parma, in collaborazione con l’Archivio Giovani Artisti, struttura dell’Assessorato alle Politiche Culturali e alla Creatività Giovanile -Comune di Parma, bandisce un NUOVO CONCORSO PER NARRATORI, FOTOGRAFI e ILLUSTRATORI, numero 1 del progetto di Narrativa e Poesia “BORN TO WRITE/ NATI PER SCRIVERE” inserito all’interno del programma Italia Creativa - Sostegno e promozione della giovane creatività italiana, proposto dall’associazione G.A.I. in collaborazione con il Ministero per le Politiche Giovanili e il Ministero per i Beni e le Attività Culturali. REGOLAMENTO Art. 1 - TEMA DEL CONCORSO Il nostro nuovo tema è un carattere tipografico: Times New Roman, font che comparve per la prima volta sul quotidiano britannico “The Times” il 3 ottobre 1932: un vero caposaldo della stampa. Concentratevi, dunque, su questo carattere e fate in modo che involontariamente vi faccia sprofondare tra le trame e gli intrecci più disparati della narrazione, fra storie incredibili e eventi reali: parole una sull’altra alla ricerca di una storia da narrare. Se siete nati per scrivere Times New Roman sarà il vostro strumento per acchiappare le parole e racchiuderle in un racconto che bruci le pagine su cui è scritto. Art. 2 - MODALITA’ DI PARTECIPAZIONE Opere narrative: si ammettono racconti originali ed inediti per una lunghezza massima di 5400 battute, spazi inclusi. Il materiale dovrà essere inviato via mail a giovani@comune.parma.it o per posta su floppy disk. Opere fotografiche: si accettano opere originali e non pubblicate. Ogni autore dovrà presentare 5 fotografie in formato 10x15 in bianco e nero facendole pervenire su file, su negativo o su supporto magnetico (floppy disk o cd rom). Illustrazioni: si ammettono da un minimo di 3 a un massimo di 5 tavole in bianco e nero del formato massimo di un foglio A4 (21x29.7 cm). È preferibile scansionare ed inviare il materiale via mail. (Chi volesse, può comunque inviarlo per posta tradizionale, facendolo pervenire al seguente indirizzo: Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia c/o Palazzo Pigorini, via Repubblica, 29 – 43100 Parma). Le opere di tutti i partecipanti dovranno essere accompagnate da una breve biografia dell’autore corredata dai dati personali (nome, cognome, indirizzo, recapiti telefonici, indirizzo e – mail). In relazione alla previsione che il materiale possa essere pubblicato, si richiede inoltre il consenso al trattamento dei dati personali ai sensi della legge 675/96 sulla privacy. Inoltre i candidati si faranno garanti dell’originalità dell’opera da loro presentata. Le decisioni della Commissione saranno inappellabili e il materiale non verrà restituito. Eventuali attestati di partecipazione al concorso saranno assegnati agli artisti che ne faranno richiesta solo qualora i loro lavori vengano selezionati. Art. 3 - CRITERI DI SELEZIONE Per la valutazione delle opere si terrà conto della qualità, dei percorsi di ricerca formale e dell’originalità dei testi e delle immagini. Il premio del concorso consiste nella pubblicazione dell’opera sulla rivista «La Luna di Traverso». Solo i vincitori saranno contattati dalla redazione. Non si accettano racconti che hanno partecipato a bandi precedenti. Art. 4 – SCADENZA Le opere devono essere consegnate entro e non oltre le ore 12.00 di venerdì 17 ottobre 2008. Art.5 – INFORMAZIONI Per ulteriori informazioni, rivolgersi ai seguenti numeri di telefono: 0521/384469, oppure agli indirizzi di posta elettronica: giovani@comune.parma.it.; redazione@lunaditraverso.it. Orari di ufficio Archivio Giovani Artisti: dal lunedì al venerdì, dalle ore 8.00 alle 13.00; lunedì e giovedì anche dalle ore 15.00 alle 17.00. Siti web: www.comune.parma.it/iniziativeculturali ; www.lalunaditraverso.it
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