2011 - Anno 11 n° 29 - MUP Editore - € 5,00
Laboratorio di Narrazioni
Seed, collage e china su cartone ruvido, 21x21 cm
Lorenzo Casali nasce in una mattina del 23 Ottobre, a Cremona, nel 1992. Trasferitosi da qualche anno in un paese della provincia frequenta (tuttora) il Liceo Artistico Bruno Munari (CR). Si interessa di illustrazione, uncinetto, tatuaggi, cucina vegetariana e pastelli a cera.
DIRETTORE Massimo Carta Laboratorio di Narrazioni
LA LUNA DI TRAVERSO Origini
VICEDIRETTORE Federica Pasqualetti ORGANIZZAZIONE E COORDINAMENTO Associazione Culturale “Lunatici”
RELAZIONI ESTERNE Andrea Rabaglia REALIZZAZIONE GRAFICA Simone Pellicelli STAMPA La Stamperia - Parma PROMOZIONE E DISTRIBUZIONE PDE - Promozione Distribuzione Editoriale INFORMAZIONI Per collaborare alla rivista scrivi a: redazione@lalunaditraverso.it lalunaditraverso@gmail.com info@lunatici.net Il giudizio e il lavoro editoriale della redazione sono insindacabili e accettati implicitamente. Gli autori pubblicati riceveranno due copie in omaggio. La Luna di Traverso è sostenuta dall’Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia dell’Assessorato al Benessere e alla Creatività Giovanile.
www.lalunaditraverso.com www.lunatici.net www.mupeditore.it
ISBN 978-88-7847-378-2 ISSN 1826-5367-11029
Incipit d’autore Il signore delle mosche | di William Golding
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RACCONTO D’AUTORE Cip il cane dal cuore di fragola | di Teresa Giulietti
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Racconti Carbonifero | di Michele Spagnolo Chi ama brucia | di Mirella Derossi Corsia 3 | di Roberto Stradiotti Lo Sciamano | di Silvia Mazzucco Maschile singolare | di Jennifer Ravellini Non pensare ai fuochi | di Sara Vannelli Mio padre | di Giorgia Bandini Origini | di Francesco Pischedda Procreare mortales | di Giuseppe De Francisco Revival | di Fabio Emidi Scatole | di Francesco Caronna Spore | di Giovanni Locatelli
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rubrica: letteratura «Fatta l’Italia bisogna fare gli Italiani!» ancora una volta: 150 anni di libri in 150 battute
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IN COPERTINA (TITOLO?) Marco Zanta (Fotografia d’autore) è nato il 1° settembre 1962. Fotografo, vive e lavora a Treviso. Ha iniziato ad occuparsi di fotografia dalla metà degli anni ’80. Ha lavorato in Europa, Stati Uniti, Giappone, Nord Africa. Ha pubblicato diversi volumi tra i quali: Rumore Rosso, 2000 (“Miglior libro fotografico italiano”, 2001); The Space Between, 2001; EuropaEuropa, 2004; Sulle Apparenze, 2005; Quarantanovegradi, 2006; UrbanEurope, 2008. Nel 2003 è stato il vincitore del Programme Mosaique, Centre National de l’Audiovisuel (CNA), Luxembourg. Ha esposto alla Maison Europeenne de la Photographie, Parigi, allo Spazio Forma di Milano e al MoCA di Shanghai. Il suo lavoro più recente sarà presentato alla prossima 54^ Biennale di Venezia alle Corderie dell’Arsenale – Padiglione Italiano. È docente di Fotografia al claDIS, IUAV, Facoltà di Design e Arti. I progetti di Marco Zanta insistono sulla ricerca del frammento, quindi sulla stessa intrinseca capacità di scelta dell’apparecchio ottico. Interno o esterno, poiché questa porzione ristretta d’oggetto o di luogo prende forma sia in spazi chiusi, come può essere quello di una fabbrica o come in uno dei suoi ultimi lavori, nell’illusoria ampiezza d’una città. La formazione d’una composizione attenta in cui il colore descrive strutture portanti, che possano definire caratteristiche intime, quasi segrete, rifuggendo una banale poetica del quotidiano per costruire un’ideale architettura civile.
Sommario
REDAZIONE Silvia Bia, Enrico Cantino, Simona De Blasio, Carlotta Fiore, Roberta Gatti, Armando Minuz, Silvia Pelizzari, Andrea Rabaglia, Federica Sassi, Andrea Tinterri, Denis Zuliani
Laboratorio di Narrazioni 2011 - Anno 11 n° 29 © 2011 MUP Editore
Molto rumore per nulla, matita su carta colorata con tecniche digitali, 7,75x26,4 cm
Origini 2 La Luna di Traverso
COMUNE di PARMA
Assessorato al Benessere e alla Creatività Giovanile
“L
a Luna di Traverso”, ancora una volta, coglie nel segno e propone un tema di grande attualità. La questione delle origini è, infatti, ineludibile per ognuno di noi. Le origini ci dicono non soltanto da dove veniamo, ma anche chi siamo, quale sarà il nostro futuro. Ci costringono, insomma, ad affrontare un percorso a ritroso, spesso non avaro di sorprese e non privo di utilità. Del resto, come rilevano sociologi autorevoli, abbiamo oggi la tentazione di vivere appiattiti in un eterno presente, che non conosce memoria e ignora, di conseguenza, che cosa significhi la sfida di un progetto. Ancora una volta, dunque, il cantiere delle idee, la piazza virtuale proposti da “La Luna di Traverso” sapranno stimolarci e - ne siamo certi - ci arricchiranno, mentre percorreremo i mille imprevedibili sentieri della creatività. Lorenzo Lasagna Assessore al Benessere e alla Creatività Giovanile
Giacomo Agnetti (1978, Italia), ha studiato presso la Scuola di Cinema Televisione e Nuovi Media di Milano come montatore cinematografico. Dopo essersi innamorato dell’animazione in stop-motion ha fondato la Magicmindcorporation, una piccola casa di produzione specializzata in animazioni e documentari. Le sue opere hanno ricevuto numerosi premi in diversi festival. Il suo primo cortometraggio Tramondo (2008), è stato nominato in cinquina al David di Donatello dalla prestigiosa Accademia del Cinema Italiano. Il suo interesse principale è divertirsi e mettere insieme persone per lanciarsi in imprese a volte improbabili, più spesso impossibili. Attualmente vive e lavora a Berceto, un microscopico paese sull’Appennino Tosco-Emiliano, assembla storie.
La Luna di Traverso
Origini 4
Brodo primordiale, collage su carta, 21x21 cm
Jacopo Ghisoni è nato a Cremona il 16 dicembre 1992, frequenta l’ultimo anno del liceo artistico “Munari” e si è da poco avvicinato al campo dell’illustrazione. Disegnatore, incisore e writer. Ha partecipato ad alcuni concorsi come: Tapirulan, Bakelite, il Cavedio e Steal the road. Ispirato da G. Toccafondo, Shaun Tan ed Ericailcane.
La Luna di Traverso
Editoriale Origini
U
Origini 5
n parto? Direi di no. Innanzitutto, dipende da chi nasce. Poi da quale vita avrà. L’origine di una cosa bella (asciugando l’aggettivo dalla banalità delle circostanze banali) sta nella possibilità; nell’origine di una possibilità. L’origine contiene in sé l’idea di maturazione naturale, di gestazione, l’idea di qualcosa all’interno di un processo non casuale, un progetto organizzato. La possibilità, invece, è la predisposizione a costituire un artificio all’interno di tale generoso sbaglio di Natura, un dono inutile se non utilizzato e prima ancora capito. E quindi la possibilità non è semplice scelta, ma piuttosto un’apertura allargata in cui potersi esercitare, all’interno della quale creare qualcosa. E non cadiamo in facili errori: l’origine d’una possibilità non deve essere senza regole (le regole si dovrebbero decidere insieme), i limiti entro cui esercitarsi sono necessari per non scadere nella sterilità più gretta. E Quindi? Quindi un’Unità che possa non essere solo politica, ma possibile, quindi una costituzione rispettata (altrimenti è troppo facile giocare), quindi un’apertura allargata per proteggerci da vecchi nazionalismi. Un’Unità consistente, con i suoi tempi di metamorfosi, senza un fine precostituito, senza l’idea di un finalismo quasi apocalittico di liberazione da tutti i mali: le ideologie sono finite e le giornate tornano ad essere di ventiquattro ore; è più difficile, questo è vero, ma l’importante è essere fedelmente incoscienti. Facile obiezione: cos’hanno in comune una nazione e una rivista letteraria come la nostra? Una rivista che, dopo dieci anni, si mostrerà su pagine cambiate, con un abito diverso per farsi guardare, con un linguaggio visivo sempre più contemporaneo, con il colore che finalmente diventerà un codice espressivo da utilizzare. Che rapporto c’è tra tutto quello appena detto e la nostra rivista di giovani esordienti? Appunto l’origine di una possibilità e una carta su cui stanno scritti i modi di partecipazione, un esercizio necessario, quindi l’origine di qualcosa. Possibilmente qualcosa di bello.
La Luna di Traverso
Incipit d’autore Il signore delle mosche di William Golding
I
illustrazione di Giovanni Curi
Origini 6
l ragazzo dai capelli biondi si calò giù per l’ultimo tratto di roccia e cominciò a farsi strada verso la laguna. Benché si fosse tolto la maglia della scuola, che ora gli penzolava da una mano, la camicia grigia gli stava appiccicata addosso, e i capelli gli erano come incollati sulla fronte.Tutt’intorno a lui il lungo solco scavato nella giungla era un bagno a vapore. Procedeva a fatica tra le piante rampicanti e i tronchi spezzati, quando un uccello, una visione di rosso e di giallo, gli saettò davanti con un grido da strega; e un altro grido gli fece eco: «Ohè! Aspetta un po’!» Qualcosa scuoteva il sottobosco da una parte del solco, e cadde crepitando una pioggia di gocce. «Aspetta un po’», diceva una voce, «mi sono impigliato.» Il ragazzo biondo si fermò e si tirò su le calze con un gesto meccanico: per un momento la giungla prese un’aria di provincia inglese. La voce parlò di nuovo: «Non posso quasi muovermi, con tutti questi rampicanti.» Chi parlava uscì dal sottobosco camminando all’indietro tra i rametti che gli graffiavano la giacca a vento sporca di grasso. Aveva le ginocchia nude grassocce, graffiate dalle spine. Si chinò, tolse le spine con cura e si voltò. Era più piccolo del ragazzo biondo, e molto grasso. Venne avanti, studiando attentamente dove mettere i piedi, e guardò in su. Aveva dei grossi occhiali. «Dov’è l’uomo col megafono?» Il ragazzo biondo scosse la testa. «Questa è un’isola. Almeno, credo che sia un’isola. Quella là nel mare è una scogliera. Forse di grandi non ce n’è in nessun posto.» Il ragazzo grasso sembrò scosso. «C’era quel pilota. Ma non era coi passeggeri, era su nella cabina davanti.» Il biondo guardava la scogliera strizzando gli occhi. «Tutti quegli altri bambini», continuò il grasso, «qualcuno dev’essere venuto fuori. Qualcuno sì, non è vero?» Il biondo si diresse verso l’acqua con l’aria più indifferente che poteva. Cercava di tenere le distanze, ma senza mostrarsi del tutto privo d’interesse. Il grasso si affrettò a tenergli dietro. «Di grandi non ce n’è neanche uno?» «Credo di no.» Il biondo disse queste parole con solennità, ma poi fu sopraffatto dalla gioia di un’ambizione realizzata. Fece una capriola in mezzo al solco, e una smorfia al ragazzo grasso. «Neanche un grande!»
La Luna di Traverso
Origini 7
L’impero sotterraneo, ecoline Giovanni Curi vive a Pescara. Si è diplomato presso l’Accademia di Belle Arti (Corso di Pittura) dell’Aquila con una tesi dal titolo Il Fumetto come mezzo di espressione dalle origini alla Pop Art. Subito dopo il diploma, ha frequentato un Corso di Grafica Pubblicitaria presso l’Università Europea del Design di Pescara, città in cui ha frequentato anche un Corso triennale presso la Scuola del Fumetto. Ha partecipato, ottenendo buoni riscontri, a numerosi concorsi, quali per esempio: Omaggio a Tex, Oscar Comix, 2003, Chieti; Una fiaba per crescere, 2003, Associazione CaraSan, Sesto Calende (VA) (primo classificato); La bicicletta d’oro, 2007, a cura del Centro Antartide (l’opera è stata selezionata per la mostra); Il soffio divino negli animali, 2007, Arca 2000 Onlus; Il mio mare, 2007, IV Edizione, Casa Editrice Mandragora e Associazione Cultura e Risorse Onlus; Il viaggio, 2007, Edizioni Farnedi (menzione di merito); Marco Pantani, 2008, Edizioni Farnedi (secondo classificato); Il fuoco, 2009, Proloco Gallarate (VA).
La Luna di Traverso
Racconto d’autore Cip il cane dal cuore di fragola racconto di Teresa Giulietti
Origini 8
I
illustrazione di Ettore Tomas
o sono Cip, come lo scoiattolo della favola. Sono nato in fretta e furia, non so dove né quando. A ripensarci, non credo fosse stato previsto per me più di un minuto per venire al mondo, dimenarmi, guaire ed essere allattato. È notte fonda e fa un freddo che mi fa tremare sotto il bianco-nero del mio pelo meticcio. Nel barattolo di lamiera che quelli chiamano «La tua ciotola» l’acqua si è ghiacciata al punto che quando intingo la lingua ci sento i chiodi dentro.Anche oggi si sono scordati di darci da mangiare, dicono che dovremo portare pazienza ancora per un paio di giorni ma questa volta non so se crederci, come ho smesso di credere ai gatti che volano. Viola, la volontaria che è riuscita ad entrare, di nascosto, l’altra notte ci ha detto sottovoce: «Prometto che vi porterò via tutti da questo posto!» Sì, ma dove? In fondo qui non si sta poi così male. Adesso siamo nella stagione del ghiaccio e del diavolo in carrozza ma quando arriva la primavera che profuma di buono, allora Tigre smette di lamentarsi per via dei reumatismi alla zampa e io e mio fratello Ciop alziamo il muso al cielo per guardare le stelle che ci guardano. Ogni stella ha un nome bellissimo, nomi come Sirio, Vega, Alcor e Mizar. La volontaria Viola dice che noi le siamo davvero delle stelle. «Le sue stelle»: dice così, talmente sottovoce che quasi fatichiamo a sentirla, così inizia ad elencare: Antares, Procione, Alcor, Mizar e Vega. C’era una meticcia carina fino all’altro giorno, lei una stella la era per davvero, dal primo pelo del muso fin sotto alle zampe, e infatti si chiamava Sirio, non è un caso se è volata in cielo! Nessuno di noi sa come sia avvenuto ma Tony che sa sempre tutto di tutti ci ha parlato di una stanza piccola e molto calda dove se ci vai dentro voli subito in cielo e non torni più indietro. Anche se deve fare un bel caldino lì dentro, io non ci voglio entrare. Mi sono fatto le unghie per più di un’ora contro il cemento grinzoso, è divertente il rumore che fa. Quando ce le facciamo insieme io e mio fratello sembra che balliamo il tip-tap, i nostri amici dalle gabbie vicine abbaiano e poi ci imitano e fanno gli scemi così il rumore aumenta ed è uno spasso fintanto che… non arriva lui, Il Brigante e grida: «Zitti, brutti bastardi o vi arrostisco tutti!» Una cosa io la so e cioè che il Brigante non è mica cattivo come sembra, lo chiamano così in paese per via di quella «faccenda sulle sovvenzioni regionali», ne hanno parlato una volta i volontari, quando sono venuti a controllare «la nostra situazione.» Erano lì, tutti e quattro in silenzio, per capire in che modo ci avrebbero potuti “salvare” senza farsi scoprire da lui. Quando il Brigante si avvicina alla mia gabbia, mi viene da farmi su come un vermetto, ha sempre un cappellaccio sporco in testa e un mozzicone di sigaretta tra le labbra che poi getta dentro ad una delle nostre gabbie ringhiando: «andatevene tutti all’inferno, brutti bastardi!» Bastardi, ci chiama così. Ho cercato di farlo capire a mio fratello Ciop che non è mica una brutta parola. Credo che sia un nome come tanti: c’è chi si chiama Tony e chi Viola, chi si chiama D’Artagnan o Remì, chi Cip, Ciop, e chi Sirio. E c’è anche chi si chiama Bastardi, come tutti noi che abitiamo in questo posticino umido dentro le nostre gabbie che hanno il fango sotto le zampe e le stelle sopra le orecchie. Questo posto che con buona probabilità si chiama Bastardopoli e noi siamo i suoi abitanti, tutto qui. Fatto sta che quando lui arriva, mio fratello si nasconde dentro alla nostra casetta e smette di respirare. Beh, in verità non è tutta nostra, la dividiamo con Storpio e con Tigre che ha il pelo maculato e i baffi più lunghi di un gatto. Anche con Senza Pelo, a dirla tutta, da quando Viola l’ha portato in braccio avvolto in una copertina dicendoci: «Mi raccomando, ve lo affido», come se fosse un bebè da crescere e accudire.
Vestigia, disegno ed elaborazione digitale, 2011
La Luna di Traverso
Origini 10
Lui, per esempio, si chiama così perché una volta il Brigante lo voleva spaventare, tanto per divertirsi un po’, così gli ha gettato addosso del liquido puzzolente e lui da quel momento è rimasto senza più nemmeno un pelo. Non ricordo perché sono qui. Io e mio fratello una mamma ce l’abbiamo, mica è possibile che uno venga al mondo senza una mamma. Il fatto è che non ricordo più il suo nome, forse si chiamava Stella, o Vento, oppure Oceano. Credo che lei viva a bordo di una nuvola dove tutto è bianco-morbido e non esistono il fango, i reumatismi e la malinconia. «La malinconia», mi ha detto una volta Tony, «è come un gatto randagio che se fai entrare una sola volta in casa poi non se ne andrà più via.» Ho fatto finta di niente, più per mio fratello che non per me, so cosa Tony volesse dire. «Un bravo medico si prenderà cura del tuo occhio», ho detto a Ciop che continuava a ripensare al gatto randagio, «come hanno fatto con la zampa di Storpio.» Il dottore dal camice verde mentre medicava Ciop aveva detto una cosa come: «Povero cucciolo, l’hanno combinata veramente grossa, quelli.» Quelli, sono dei signori che una volta, prima che ci portassero a Bastardopoli, ci hanno fatto correre veloci come le lepri perché avevano in mano dei rami, solo che il cuore di mio fratello a un certo punto gli è salito fino in gola e si è dovuto fermare, anche se io gli dicevo di pensare alle farfalle, alle api e alle stelle che poi, una volta al sicuro, avremmo avuto tutto il tempo per respirare. Ma lui, si è bloccato e un uomo l’ha colpito dritto in un occhio che da quel momento è diventato prima rosso, poi blu e infine bianco. Per questo Tigre e Tony lo chiamano Occhio di neve. Mi sento sollevare come se volassi. Forse sto sognando o forse stanotte mentre dormivo mi hanno portato in quella stanza piccola e molto calda dove i cani si trasformano in stelle. Allora, diventerò anch’io una stella, come Sirio? Vega? Antares? «Ora, t’imbrigliamo ma tu stai tranquillo, non ti devi agitare.» Io non mi agito. Cerco di fare la mummia mentre mi fanno passare sotto la pancia una corda e poi tirano su. Sto volaaando per davvero! E, caspita… anche mio fratello Ciop sta volando e pure Tony. E Tigre. Senza Pelo. E Storpio! Riconosco la voce di Viola che… allora, non si è dimenticata di noi? C’è un altro signore insieme a lei che parla sottovoce e gesticola come se volesse cacciare via il freddo o le moschemangia-cacche. Dall’alto vedo le nostre gabbie aperte, le ciotole ghiacciate, tutte le mie cacche dure come sassi che una volta ho tentato pure di mangiare. Dopo il volo nella notte, ci appoggiano a terra, ci slegano, ci fanno bere dell’ acqua fresca, poi ci fanno entrare dentro un camioncino bianco che prende il volo senza chiederci la destinazione. Solo per un attimo mi viene da ripensare alla stanza calda delle stelle ma poi… Viola mi sorride ed io salgo contento. Dentro c’è un bel caldino, dei materassi morbidi su cui ci accovacciamo, anche dei dolcetti a forma di osso che sono sicuro di non avere mai mangiato. Sembra l’elica di un elicottero, la coda mio fratello. Senza Pelo, invece, resta immobile tra le braccia di una signora che ha la voce calda come le coperte che Viola ci ha portato la notte di Natale. Adesso mi è venuta un’idea e cioè che l’acqua puzzolente che gli hanno tirato addosso non era solo uno scherzo perché sennò la signora-voce-di-coperta non gli starebbe dicendo: «Povero tesoro mio, guarda cosa ti hanno combinato quei bastardi…» Bastardi? Allora, aveva ragione mio fratello: non è il nome di una stella. Sono in una nuova casa che si chiama box. Il nostro capo non ha il cappello sporco ma un camicie verde con le tasche e si chiama Dottor Bocchi. Viola e la Signora-voce-di-coperta vengono a farci visita ogni giorno e ci portano cibo e acqua fresca. Ogni tanto portano con loro qualche sconosciuto che si avvicina al nostro box e fa un sacco di domande, del tipo: «Ma che razza è? Vaccinato? Docile? Aggressivo? Castrato?» Quando gli occhi dello sconosciuto mi piacciono scodinzolo forte poi mi metto seduto e sparo in fuori la lingua. Ma quando i suoi occhi mi ricordano quelli del Brigante o dei signori-coi-rami, allora fuggo nella casetta di legno e chi s’è visto s’è visto! Davanti al nostro box un cartello scritto a grandi caratteri avvisa Adozione urgente. Non so bene cosa voglia dire quella parola ma quando Viola si avvicina con un nuovo sconosciuto e lui chiede informazioni lei attacca sempre con la solita tiritera: «Sono due cuccioli mansueti ma traumatizzati dall’esperienza del canile lager». Poi aggiunge: «Uno di loro è cieco in un occhio, ha urgente bisogno di cure.» A questo punto Ciop − che si fa ogni giorno più scaltro − si avvicina alla rete ed alza il muso perché veda bene la neve che gli è caduta dentro all’occhio. Oggi sono venuti un uomo e una donna dai capelli color del grano. Hanno camminato per un po’ lungo il
corridoio su cui si affacciano i nostri box. Lei, la donna-capelli-di-grano avrebbe voluto portarci via tutti ma l’uomo tenendole la mano le diceva che non sarebbe stato possibile e che avrebbe dovuto scegliere soltanto un cane, uno fra noi. Hanno tutti cominciato ad abbaiare, quegli scemi, a rotolarsi nel fango come gatte in calore. Poi, la donna-capelli-di-grano ha indicato me-proprio-me, si è avvicinata saltellando, ha aperto il cancelletto e si è infilata dentro al nostro box. «Da oggi io sarò la vostra mamma. Forza, andiamo a casa.» Ho sentito una cosa strana dentro agli occhi come se volessero uscirmi dal muso, ma poi ho capito che si trattava di una lacrima. Mentre la mamma si siede sulla panchina a leggere le poesie di Hermann Hesse, io mi accuccio ai suoi piedi e la guardo serio e penso che vorrei averle scritte io quelle cose, per lei.
Teresa Giulietti nasce a Parma nel 1972 sotto il segno del cancro. Scrive racconti di asini e formiche dall’età di 5 anni grazie alla nonna maestra che la instrada da subito alla parola scritta. Dopo la maturità artistica presso l’Istituto d’Arte “Toschi”, si laurea in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Parma con una tesi sul costume di corte. A 27 anni pubblica il suo primo romanzo, Le due età, per la collana Farfalle dell’editore Marsilio. Successivamente pubblica La mercenaria dei sogni, con cui vince il premio nazionale di letteratura erotica La Dolcetta d’oro. Nel frattempo, scrive racconti e romanzi su commissione: La Signorina Write le permette di mettersi alla prova con vite e storie che non le appartengono fino in fondo ma nelle quali vive per un po’ senza risparmiarsi. Diplomata all’Istituto Riza di medicina psicosomatica, porta avanti la sua attività di naturopata psicosomatica tenendo corsi di formazione in giro per l’Italia. L’ultimo dei suoi romanzi pubblicati, Pura Vida, è ambientato in Costa Rica. Ettore Tomas è nato in provincia di Napoli nel 1979 e vive a Sasso Marconi (BO). Dopo una maturità scientifica e una laurea presso l’Accademia di Belle Arti in Decorazione, si è specializzato in Grafica. Dal 2003 partecipa a mostre, concorsi, progetti, Mail Art in Italia e all’estero. Tra le più recenti: nel 2010 presentazione del corto Micro il circo, Future Film Festival (Palazzo Re Enzo, Bologna) con il quale ha partecipato al Lucas Film Festival di Francoforte; partecipazione al progetto e al catalogo 4OUR, The Screamer Company (Austin, Texas); 3° Classificato a Fabbricanti di libri, (Lecce). Nel 2011: mostra personale Disegni (e non solo) a cura di Lamberto Caravita (Galleria Arteincontro, Conselice - RA); partecipazione alla manifestazione e catalogo Use a book - IV Festival del libro d’artista e delle piccole edizioni, a cura di Elisa Pellacani (Barcellona). Attualmente è impiegato come insegnante di arte e immagine presso una scuola media statale.
La Luna di Traverso
Carbonifero racconto di Michele Spagnolo
Origini 12
I
illustrazione di Giovanni Curi
l silenzio e la consistenza quasi liquida dell’aria preannunciavano una notte torrida. Un enorme sole rosso stava morendo nel tardo crepuscolo di giugno quando K. uscì dal bar. Si sentiva piacevolmente sciolto e rilassato nonostante la dura giornata d’ufficio: le tre birre medie appena bevute avevano sortito l’effetto sperato. Sul viale poche macchine si muovevano lente all’ombra dei grandi equiseti. Era quasi ora di cena e il termometro appeso fuori dal bar segnava 40,5 gradi Celsius. K. si accese una sigaretta. Il fumo, reso ancor più denso dal calore dell’aria stagnante, gli riempì la gola. La sua grossa faccia, resa paonazza dall’effetto combinato delle birre e dell’afa, si stava rilassando, assumendo un’espressione molliccia, quando un sibilo forte e crescente, come quello prodotto dalle pale di un elicottero, riempì l’aria. Era un rumore sgradevole che la sua mente stentò qualche istante a identificare. Poi i suoi lineamenti si contrassero in una smorfia di puro terrore, soffocando le fessure degli occhi tra le rughe, fino a renderli quasi invisibili. Istintivamente si mosse, riparandosi dietro il largo tronco di un albero. Da quel rifugio vide per un attimo due grandi occhi prismatici, enormi tenaglie frontali e ali cangianti, talmente rapide da risultare invisibili, che sfrecciavano nell’aria a pochi centimetri da lui. Era l’enorme corpo affusolato, lungo quasi un metro, di un grande esemplare di Meganeura; lo aveva sfiorato nel suo folle volo serale alla ricerca di prede. Grandi rivoli di sudore gli solcavano il viso mentre cercava di rallentare il battito impazzito del suo cuore. Il fumo della sigaretta, che gli era caduta di bocca, saliva lento, ad ampi cerchi nell’aria immobile. Ritornò al bar, guardandosi nervosamente attorno: la strada era tornata deserta. All’interno il condizionatore pompava furiosamente aria a 20 gradi. Un altro sibilo lo fece trasalire. Si sedette al bancone e ordinò un’altra birra. Il giovane barista lo guardò per alcuni istanti, incuriosito probabilmente da quei torrenti di sudore che gli invadevano la faccia, dall’ampia stempiatura fin sugli occhi arrossati e sulla barba incolta. K. evitò quello sguardo cercando, senza molto successo, di nascondere la paura che aveva in corpo. La televisione a led fluorescenti era sintonizzata sul notiziario della sera. Le solite guerre in angoli remoti del mondo, i soliti omicidi in città, i soliti scandali politici: mazzette, sesso, droga. K. inghiottiva la birra più che berla, fissando indifferente la tv e cercando di scacciare il ricordo di quell’orrendo ronzio che ancora gli riempiva le orecchie. Il barista osservava con espressione di disapprovazione lo schermo, scuotendo a volte il capo o sorridendo con sarcasmo. «Il Governo ha annunciato, attraverso un comunicato stampa del Consiglio dei Ministri, che dopo il grande successo e gli ottimi risultati fin qui raggiunti, l’operazione Ritorno alle Origini, lanciata in contemporanea dai governi dei dieci paesi più sviluppati del mondo, verrà ulteriormente sostenuta e sviluppata. In particolare è stato previsto l’impianto di circa 20.000.000 di ettari di foresta mista, Lepidodendri e Felci arboree, nella regione un tempo chiamata Sicilia, oggi completamente deserta. Questo, insieme agli sforzi coordinati dei partner mondiali e dell’Italia, consentirà un ulteriore passo avanti verso l’obiettivo fissato nell’ultima conferenza mondiale su ambiente ed energie. Si presume che entro cinque anni verrà raggiunta e superata la quota record di ossigeno nell’aria: 31,5 %, una percentuale persino superiore a quella del periodo Carbonifero.» K. mise sul bancone i soldi e si alzò per andarsene. Il barista prese i soldi e la sua giovane faccia si aprì in un sorriso saccente. «Finalmente una buona notizia, vero? È una fortuna che il nostro governo si stia finalmente impegnando per l’ambiente. L’ossigeno nell’aria è una cosa F-A-N-T-A-S-T-I-C-A!» Disse, calcando le lettere ad una ad una. K. lo guardò. Le sue narici si dilatarono e il volto assunse un colorito violaceo. Stava per dire qualcosa, poi si trattenne. Farfugliò un: «Certo, certo…» ed uscì. Fuori era ormai buio ma l’aria era ancora umi-
Michele Spagnolo ha sviluppato fin dagli anni dell’adolescenza la passione per la scrittura e oggi può affermare che vorrebbe aver scritto di più. Nel 2007 è partito per un lungo viaggio in Sud America, zaino in spalla, fino alle estreme regioni della Patagonia e della Terra del Fuoco. In questi luoghi ha trascorso “solo” alcuni mesi della sua vita, tuttavia parrebbe non esserne più tornato. Adora la fotografia ma non “vede” abbastanza; la sua stanza è piena di libri che vorrebbe aver già letto almeno due volte. Con la fatica che accompagna ogni sua attività, ha iniziato a scrivere un libro, ben sapendo che non riuscirà a finirlo. Giovanni Curi vive a Pescara. Si è diplomato presso l’Accademia di Belle Arti (Corso di Pittura) dell’Aquila con una tesi dal titolo Il Fumetto come mezzo di espressione dalle origini alla Pop Art. //continua a pag. 7
La Luna di Traverso
Origini 13
Genesi Aliena, china su carta
da e l’atmosfera afosa. Casa sua distava meno di quattrocento metri, giusto il tempo di una sigaretta. Pensieri orribili gli affollavano la mente. Ragni giganteschi, cavallette carnivore e poi… come si chiamava quel millepiedi gigante, lungo quasi due metri: Arthropleura ecco! Però gli scienziati dicevano fosse erbivoro e innocuo... e poi a queste latitudini non ne avevano ancora segnalati... Aspirò profondamente cercando di calmarsi ma la sua mente sconvolta elaborò l’immagine di quell’enorme corpo molliccio e disarticolato strisciante nel buio. Gettò la sigaretta e iniziò a correre.
La Luna di Traverso
Chiamabrucia racconto di Mirella Derossi
illustrazione di Ettore Tomas
L
a signora Ada Maria Sigismondi in Colombo alzò gli occhi presbiti dalle carte del solitario e, dopo aver messo a fuoco, li posò, sorridendo, sulla bocca semiaperta del Commendator Gianeusebio Colombo che, immerso nel solito torpore postprandiale davanti al caminetto, teneva in mano un bicchiere di whisky torbato fatto arrivare direttamente dalla regione di Isley in Scozia. Decise che era giunto il momento di realizzare un desiderio che, ne era certa, il marito accarezzava da molti anni: ricostruire il suo albero genealogico. Fin da bambino, infatti, egli aveva guardato con un misto di curiosità e orgoglio lo stemma araldico appeso nel salone dell’antica villa di famiglia e si era sempre chiesto di quale nobile filato fosse intessuta la storia dei suoi avi, senza peraltro prendere mai l’iniziativa di approfondirne l’origine. Conosceva poco del passato dei Colombo. Il padre, Giuseppe, un uomo appena claudicante, cupo e riservato, era morto quando lui, unico figlio, aveva solo diciannove anni e si era trovato a dover prendere le redini della conceria familiare. La madre era perennemente depressa, naufraga in un mondo tutto suo fatto di preghiere e deliri. Del suo passato gli aveva raccontato soltanto di aver giocato e corso a lungo, da piccola, attraverso le ampie stanze della magione nascosta fra i boschi sulla collina. Il giorno dopo, la signora Ada Maria Sigismondi in Colombo, in congruo anticipo sulla data del compleanno del marito, dava incarico al figlio dell’amica Titti, neolaureato in storia medievale in attesa di degna occupazione, di effettuare le ricerche anagrafiche, storiche e archivistiche necessarie per realizzare l’albero genealogico. Dalle risultanze avrebbe poi commissionato al pittore “à la page” Giorgio Virani un dipinto da esporre accanto allo stemma, a cui fece peraltro una fotografia che consegnò al ragazzo perché ne interpretasse la simbologia. Due mesi dopo riceveva la seguente relazione, per la quale non le fu richiesto alcun compenso, poiché, come osservò la Titti con un guizzo ilare nello sguardo, il giovane l’aveva considerato un utile e divertente esercizio di apprendistato:
Origini 14
GIANEUSEBIO COLOMBO, nato a Tortino il 15/05/1945, figlio di: GIUSEPPE COLOMBO, nato a Carcagnola il 28/09/1912, e di ROSA RIZZI, nata a Tortino il 12/08/1924. Giuseppe Colombo, compiuti gli studi elementari, venne mandato a fare il garzone presso il macellaio del paese, dopodiché cambiò molti mestieri (si ha notizia di alcuni: apprendista maniscalco, aiuto stagnino, commerciante di scarpe). Venne arrestato la prima volta nel 1932 per un tentativo di furto in un’abitazione durante il quale si procurò una brutta frattura alla gamba sinistra che lo lasciò zoppo evitandogli il servizio militare durante la Seconda Guerra Mondiale. Trascorse in carcere periodi alterni fino al 1943, anno in cui iniziò ad arricchirsi rapidamente, appropriandosi, pare, delle derrate alimentari paracadutate dagli alleati sulle colline circostanti Tortino e rivendendole al mercato nero. All’inizio del 1944 entrò in possesso (non si sa con quali mezzi) della villa e dell’avviata conceria prima confiscate dal regime fascista alla famiglia ebrea Allievi interamente sterminata nei campi di concentramento tedeschi. Sposò il 24 novembre del 1944 Rosa Rizzi, figlia del custode e di una delle cameriere di casa Allievi.
Eusebio Colombo, di professione pecoraio, partì per l’America poco dopo la nascita del figlio Giuseppe. Dai registri degli immigrati risulta sbarcato a Ellis Island nel 1914 ma da lì in poi se ne perdono le tracce. La moglie tornò con il figlio presso la famiglia d’origine e continuò a fare la contadina fino alla morte avvenuta nel 1938.
La Luna di Traverso
Era figlio di: EUSEBIO COLOMBO, nato a Lombrisco il 18/07/1887, e di MARILENA STRENO, nata a Carcagnola il 4/01/1892
Era figlio di: N.N. e di MARIA COLOMBO, nata a Chievi il 29 giugno 1860. Maria Colombo, di professione sarta, era conosciuta in paese come “Maria la salopa”*, morì di tifo nel 1902. Era figlia di: GIUSEPPE COLOMBO e di ANTONIA DONETTI, nata a Chievi il 12/10/1842 Giuseppe Colombo, capostipite della famiglia, era un trovatello. Venne rinvenuto sul sagrato della Chiesa di San Filippo in Chievi e battezzato nello stesso giorno, il 15 marzo del 1836, come risulta dai registri parrocchiali. Il nome gli venne attribuito dal parroco, Don Giovanni Serchi, in onore dello scopritore delle Americhe. Allevato presso la canonica, si guadagnò presto il soprannome di “Ciapagàt” per la sua abilità nel cacciare gatti selvatici che venivano poi cucinati dalla Perpetua. Personaggio noto nel paese per il buffo aneddoto che lo vedeva paradossale “Colombo cacciatore di gatti”, rimase per tutta la vita a servizio della parrocchia. Quella nella foto risulta essere una dozzinale riproduzione dello stemma della famiglia Arcangeli di Firenze. La signora Ada Maria Sigismondi in Colombo, impallidita durante la lettura della relazione, rimase per un attimo a fissare la fiamma del camino ancora accesa in quel freddo esordio di aprile. Appallottolò il foglio e lo gettò nel fuoco. Fece scivolare lo sguardo sullo stemma appeso al muro, prese il soprabito e si recò dall’antiquario di fiducia, dove acquistò, per il compleanno del marito, un antico e prezioso orologio da tasca.
Mirella Derossi esemplare femmina o femmina esemplare di essere umano. Deambula da 42 anni in provincia di Torino. Qualifiche (in ordine di apparizione dallle ore 7): zombie; madre; moglie; impiegata; donna delle pulizie; cuoca; operatrice volontaria della onlus “Cazzeggio su internet”; lettrice; bella addormentata. Dopo un brillante esordio professionale giornalistico, ha intrapreso la carriera di impiegata contabile nella pubblica amministrazione: comunque sempre meglio che lavorare. Sposatasi, e divenuta madre di due scarraf splendide figlie, ha convogliato la sua vocazione letteraria nella stesura di memorabili liste della spesa. Da alcuni anni sperpera tempo ed energia creativa nel mondo del web. Intrattiene da due anni, sotto le mentite spoglie di “esperiMente”, un gruppo di sfaccendati con un blog “espe dixit”. Nel 2010 ha vinto il premio letterario 40^ parallelo – In bocca al lupo con il racconto Bisogni infranti. Ettore Tomas è nato in provincia di Napoli nel 1979 e vive a Sasso Marconi (BO). //continua a pag. 9
Origini 15
Ecco l’origine (0; 0),
disegno ed elaboraz
ione digitale, 2011
*in piemontese: sporcacciona.
La Luna di Traverso
3
Corsia racconto di Roberto Stradiotti
Origini 16
F
fotografia di Francesca Parenti Brambilla
abio si tuffò nella corsia 3, dentro l’utero di sua madre, e la percorse a bracciate vigorose, come uno spermatozoo adulto. Fra gli umori clorati che lambivano il corpo, cosa sua e non sua, le bolle rilasciate dai polmoni parlavano di suoni ancestrali sopra l’intreccio di mattonelle azzurre. Il corpo. Quasi si era dimenticato di averne uno, chiuso tutti i giorni dentro un ufficio buio, privo di finestre, esposto a ovest. Fabio guardava sulle croste del muro e ci leggeva soli mobili che avanzavano oltre la parete, declinavano nei cieli uterini, tornavano uova insieme agli altri pianeti. «Questa schiena reclama nuoto. Tu sei capace di nuotare?», gli aveva chiesto il suo medico, battendogli una mano fra le scapole. «Nuotavo da piccolo.» «E poi?» E poi basta, stupido medico. Il nuoto gli faceva paura come una domanda troppo ben riposta: era la morte mobile e anaerobica dei mari planetari dentro il mare della vita. Piatto, limpido, uguale a se stesso nei giorni e nelle notti di ogni respiro. Un respiro, un giorno. Un respiro, una notte. L’aria urtava i denti e il palato e si insediava negli alveoli. Una bracciata, l’altra lesta a rincorrere la prima. Il fiato usciva morto e inutile e pieno dei pensieri di quel corpo estraneo nell’utero materno Origini nella corsia 3. Madre, che hai fatto? Madre, perché mi hai fatto? Le madri erano dee senza un perché. Mettevano al mondo i morti viventi, ne cannibalizzavano i ricordi, li abbandonavano nelle piazze e negli uffici senza finestre. «Fai un po’ di piscina, un paio di volte alla settimana», gli aveva detto lo stupido medico carezzandogli la spina dorsale. Fabio cercò di non pensare ai mari assassini: solo al suo mare, respiro di luce respiro d’ombra. La corsia densa come cemento fresco si seccava accogliendo le impronte dei suoi pensieri: ecco, le leggeva sul fondo, ventidue come gli anni, impronte di orso nel guado di un ruscello. Fabio sorrise suo malgrado e un sorso d’acqua gli mozzò il respiro e per un attimo i mari assassini lo avvolsero e presero il sopravvento, la corsia diventò un molle antro privo di luce e di risoluzione. Eppure il ragazzo era riuscito da subito a imbrigliare le sue paure, aveva comperato la cuffia e gli occhialini e si era lanciato deciso. «Questi hanno il nasello regolabile, li metta così… no, l’elastico più in alto, sopra la nuca, altrimenti l’acqua rischia di entrare… venga qui, faccia vedere», gli aveva detto la commessa. Glieli aveva sfilati, regolati e rimessi, facendogli piegare il capo come un atleta medagliato sul podio. La piscina evocava tutto meno che acqua. Era un liquido amniotico dove il corpo a bracciate possenti cavalcava il tempo al ritmo dei respiri. Luci, ombre. Era una serie parallela di spine dorsali galleggianti e colorate − carezzate da stupidi medici − che accompagnavano la sua, carica di organi e di muscoli
La Luna di Traverso
temporanei, ormai pesante sotto il peso del tempo trascorso dalla prima immersione e del moto di conquista e ripiegamento sulle orme ormai disseccate dell’orso. Fabio ne aveva le movenze e la corporatura, la faccia mite, la rabbia pronta. In debito d’ossigeno ingoiava acqua e aria e spiava l’assistente bagnino che si grattava un’ascella. Quella domenica, il giorno più tranquillo per un nuotatore, Fabio era lì solo per sua madre, per averla intorno, con le acque e le ossa e il suo tempo che si allargava in brevi onde inghiottite dalle griglie dei bordi. «Non andare, oggi», l’aveva ammonito il padre ed era rimasto con sua moglie, nel posto più asciutto del mondo, silenzioso come una piscina festiva. Devo perché sono un orso, devo perché la schiena, perché lo stupido dottore, devo per lei, perché mia madre ora è la piscina e io le corro dentro come se non fossi più nato. Emerse dalla vasca, sedette sul bordo e si guardò intorno. Un nuotatore in corsia 1, uno in corsia 6. Alle cinque si chiude. Chiudere mia madre, chiuderla qui dentro fino a domani, lasciarla sola sotto il sole cadente di primavera che attraversa la vetrata gigantesca fino a tornare uovo, sotto terra. Negli spogliatoi i soli rumori erano una goccia nel lavandino e il bisbiglio dello sciacquone rotto. Fabio entrò rabbrividendo nella doccia e chiuse gli occhi. L’acqua calda gli disse che era solo e vivo ed era di nuovo nel mondo senza finestre. Lo specchio gli rimandò le grosse zampe e le fauci gialle e il pene intirizzito e inutile. Si odiò un’altra volta, cinse la vita con l’asciugamano e lasciò correre sui capelli il getto d’aria calda, le braccia stese lungo i fianchi, fino a sentire le orecchie incandescenti. Giunsero voci di bambini, là fuori, che stavano pattinando sulla pista, e insieme lo squillo del cellulare. Il suono era una campana dai rintocchi lenti e cadenzati e quando Fabio rispose seguì un silenzio sospeso del mondo, poi un respiro d’ombra. «Vieni subito, se ne sta andando.» Il ragazzo guardò il telefonino come se fosse un oggetto sconosciuto. «Tra dieci minuti si chiude», disse una voce. Era il vecchio segretario, che gli faceva segno con la mano, avanzando a passi sbilenchi. L’asciugamano cadde sul pavimento bagnato. «Ehi», disse il segretario, «non ha visto l’avviso? Vietato girare nudi per gli spogliatoi. Vietato! Ehi, lei, mi ha sentito? Dico a lei, sa? Cosa le prende, è sordo?»
Francesca Parenti Brambilla è nata nel 1982 a Parma, città dove si laurea in Scienze della Comunicazione nel 2005. Nel 2009 consegue la laurea specialistica in Giornalismo e Cultura Editoriale con una tesi in fotogiornalismo dedicata all’opera del reporter di Magnum Photos, Alex Majoli. Segue il corso di Storia della Fotografia presso l’Università di Parma tenuto dal fotografo Giovanni Chiaramonte e, nel frattempo, frequenta a Milano l’Istituto Italiano di Fotografia, presso cui si diploma nel 2006. In quello stesso anno partecipa all’esposizione fotografica collettiva Vigevanessitudini, presso l’Unione del Commercio di Milano. L’anno successivo realizza un vasto progetto fotografico dedicato alla rappresentazione teatrale, seguendo la Compagnia del Teatro di Gualtieri durante la preparazione di uno spettacolo. Tra il 2009 e il 2010 si dedica ad un reportage presso il Centro Cure Palliative di Fidenza (PR), che darà vita al libro fotografico Stanze di Luce, edito da Mattioli, e a un’esposizione fotografica in diversi comuni della provincia. Attualmente vive a Parigi per un periodo di stage presso la prestigiosa agenzia di fotoreporter Magnum Photos. Continua a scrivere e a scattare per diverse testate e prosegue l’inesausto percorso di approfondimento progettuale e personale sulla fotografia. Predilige, e senza dubbio continuerà a farlo, tutto ciò che le permette di trovare “un momento di condivisione autentica” con i luoghi e le persone.
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Roberto Stradiotti ha scordato il passato e per quello che lo riguarda potrebbe anche averne venti, di anni. Non ha debiti e non ha intenzione di farne, anche perché versa alla consorte il suo stipendio da impiegato e tira avanti con le paghette. Scrive perché poi prende sonno meglio. Sarebbe grato a chi gli gira 1 euro per il caffè.
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Lo Sciamano racconto di Silvia Mazzucco
E
illustrazione di Luca Galvani Prima perse la vista. «È buio, accendi la luce», e la luce era accesa. Poi morì.
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ra il mio primo funerale. Anni che non tornavo al paese. Tutti erano già in piazza. Gente che ti ha visto bambino e ti guarda dal basso verso l’alto, sapendo qualcosa di te, come annuendo. Avevo voglia di fumare e restai in un angolo di sole. La funzione stava iniziando. Fuori il cielo era un manto indefinito, tra luce e ombra, come vapore sull’acciaio di una pentola. Dentro, una foschia oscura. A turno ci avvicinammo alla bara, in fila, lo sguardo fisso a terra. Le mattonelle in cotto grezzo formavano una linea spezzata, a dente di lupo. Un tempo giocavo sulle fantasie dei pavimenti, saltando, incrociandovi le gambe. Ora i miei passi tirarono dritto verso la bara. Aveva il volto grave, le mani sui fianchi coperte dalle maniche troppo lunghe della giacca. Capelli e barba, come laniccio. Contai le rughe sul suo collo. Mi ricordò il dipinto di un vecchio ebreo: il naso negli anni si era fatto spazio e nel volto un’espressione sveglia e impertinente si allargava, come un riso di follia. Adesso sembrava un contadino con un mestolo in mano e gengive senza denti. Tante piccole macchie sulla pelle. Avana, beige, corteccia: un ceppo di pioppo. Sempre lo avevo immaginato immerso in un mondo in bianco e nero, ma ora i suoi anni migliori lo tingevano di un certo giallore. Il suo corpo aveva assorbito il tempo come il fumo di una sigaretta. Ricordai al tatto le sue braccia, tanto molli da sembrare bollite, come pelle di gallina, come se, messo a bagnomaria, negli anni si fosse ammorbidito. Il riflesso rosso del feretro gli donava un’aria surreale. Se si svegliasse proprio adesso?.Il suo sorriso andava assomigliando a un ghigno beffardo, latente. Esiliato da questo paese e da questo monte, come un pazzo vagabondo in cerca di un nuovo ostello. A volte avevo pensato che il nonno cercasse tra i discendenti qualcuno degno di portare il nome della famiglia. Probabilmente con il tempo questo proposito era venuto meno, insieme all’udito, alla stabilità delle gambe, alla vista. Oppure, semplicemente, non ero stato il prescelto e, si sa, gli esclusi non ricevono neanche una lettera di ringraziamento. Dopotutto era anche colpa mia. Mi accorsi che di me non aveva mai saputo niente. Avevo idee piuttosto confuse sulla sua vita. I racconti durante il pranzo della domenica erano l’unico mio appiglio. Eppure già sembravano rimaneggiati. Come se non potesse raccontare che storie inventate, come se stesse leggendo la biografia di un qualche suo coetaneo. In biblioteca ne aveva a decine. Una matassa di storie, come quelle sulla mia famiglia. Aprendo vecchi cassetti, mi trovavo tra le mani foto in seppia, senza idea di chi ritraessero.Volti austeri di un pallore mortale, bambini asessuati, maschi e femmine con calzoni sopra il ginocchio. Chi era emigrato in America, chi in Australia. Di loro non rimaneva che una cartolina che arrivava, se arrivava, a Natale. Radio Londra, le bombe, il malocchio, il trenino in latta e l’indiano di plastica che mio padre aveva seppellito nella mota del giardino: tutto, prima poi, diventava leggenda. Inverosimile e nella distanza assurdo. Mito. Perché sul passato, sempre, si mente. Mi allontanai dalla pieve e lungo lo sterrato andai verso il cimitero. Mi fermai a guardare il groviglio di corridoi e lapidi, pareti e parenti stipati gli uni sugli altri come pile di cassette. Le scale in mattone ricordavano le rampe del mio vecchio liceo, ma qui gli alunni erano del ‘10, del ‘20.Vagai come un turista, cercan-
La Luna di Traverso
do le tombe di famiglia. Le trovai sulla parete di fondo. Mia nonna e suo fratello riposavano tra crisantemi, margherite e garofani. Sulla sinistra la foto di una matrona dalle spalle larghe e dal petto prosperoso. I capelli raccolti in una crocchia, più neri del vestito. La bisnonna sembrava zittire. Per anni, durante il fascismo, era stata maestra in paese. La vedevo con una bella canna nodosa tra le mani. Restai a fissare le lettere incise sopra le lapidi. Il numero 505 stava lì, davanti a me. Nella cornice una fronte ampia, baffi austeri, capelli scuri, tesi verso la nuca. Doveva essere il bisnonno, eroe di guerra, di un qualche deserto lontano di cui non ricordavo il nome. Abissinia? Libia? Sicuramente aveva passato più tempo in nave come addetto alle telecomunicazioni che a combattere; poco importava. Aveva un nome inadatto, d’altri tempi, che mi aveva sempre fatto ridere, come la parola merda. Era figlio di contadini, laggiù, verso Benevento. Neanche dalla foto mi guardava negli occhi. Le sue pupille puntavano leggermente verso l’alto, verso una nuvola sfilacciata. Bartolo. Uno con un nome così non poteva aver ammazzato. Nell’aria una lieve umidità e l’impressione che sarebbe piovuto. Sopra ogni cosa, l’intero cimitero taceva. Girai una sigaretta guardando le foto, desiderando che potessero parlarmi. Il vento soffiava lieve e cauto. Tornato in piazza, mi sedetti su una ringhiera, i capelli disordinati sulla fronte. La superficie era rugginosa e la vernice si staccava a scaglie. Tutta la piana si perdeva in una nuvola sfocata. Trittico dell’origine paradossale - Fenice (la resurrezione), acrilico, china, Perso sull’orizzonte, ricordai le parole di uno penna a sfera, pastello ad olio e cenere su carta, 21x29,7 cm degli ultimi sciamani sami: «Uomo è colui che risale al nome dei propri padri sino a tre generazioni addietro.» L’odore del tabacco mi avvolse come una ragnatela.
Luca Galvani è nato a Torino il 30 novembre del 1985. Nel 2004 si è diplomato all’Istituzione Classica ed Artistica (con indirizzo grafico) di Aosta. Nel 2010 si laurea con il massimo dei voti in Arti Visive (pittura, grafica, scultura, decorazione e fotografia) presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Contemporaneamente, ha frequentato per sei anni il corso di fumetto ed illustrazione delle sorelle Katja ed Erica Centomo e, per un anno, il corso di Digital Animation della Scuola di Cinema Televisione e NuoviMedia delle Scuole Civiche di Milano. Abile disegnatore a mano libera e con diverse tecniche, è appassionato di arte e di cinema. A livello amatoriale: attore teatrale e televisivo. A livello professionale: pittore e fumettista. Ha vinto il Premio SEA nella rassegna Fumetti di frontiera di La Salle (AO) nel 2002. Nel 2004 ha illustrato la raccolta di favole di Tersilla Gatto Chanu Il cappello del generale e altre storie. Terzo classificato al concorso internazionale Lanciano nel fumetto nel 2007. Quinto classificato al concorso internazionale di fumetto Noir in Comics, Aosta 2008. Nello stesso anno ha illustrato il racconto breve Agata di Grazia Verasani per la manifestazione Diritti senza Rovesci indetta dall’INAIL e dall’associazione “Solal”. Ha vinto il concorso fotografico Viaggio in Yemen indetto dall’Ordine degli Architetti nel 2009. Ha esposto quattro opere nella mostra Rassegna sulle Accademie alla galleria Spazio Fisico di Modena nel 2009. Viene selezionato tra gli illustratori segnalati al concorso internazionale Tapirulan 2011 nel 2010. Espone così un’opera nella mostra Siesta a Santa Maria della Pietà a Cremona nel 2010.
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Niccolò Mazzucco è nato a Firenze nel 1984. Laureato in Archeologia presso l’Università degli Studi di Firenze, sta svolgendo un dottorando presso l’Università Autonoma di Barcellona. Collabora attivamente con piattaforme web, periodici, riviste di storia e attualità.
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singolare racconto di Jennifer Ravellini
illustrazione di Salvatore Monteleone “Uraken”
L
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Origino, digital graphic, 21x30 cm
e scatole hanno occhi e non coperchi. Mi fissano aperte e austere in attesa di collocazione. Il servizio di zia Evelina aspetta di sentire le mie mani nodose, ma che se ne fa un uomo di un servizio da tè a fiori bluastri? Da dove nasce il mio odio per tutto quello che non sia un buon bicchiere di nebbiolo? Forse dalle merende imposte quando avresti solo voglia di fare un fischio al compagno di banco e andare a pesca di gamberi. O dalle lacrime della prima donna della tua vita che scivolano lente nella tazza mentre non trovi il coraggio di dirle che non l’ami più. Perché, diciamocelo chiaro, il tè è roba da donne o da compassati signori di mezza età tutti loden verde e tabacco da pipa. Ma io non ho un loden verde e ho smesso di fumare per non sentire il fiato spezzato nelle partitelle coi colleghi. I libri mi squadrano dalle geometrie cartacee di una catasta impilata. Leggevo di continuo: prima di dormire, nei viaggi in treno verso la Facoltà, al riparo dall’afa sotto l’ombrellone, aspettando Chiara dopo la lezione di nuoto del mercoledì. P come Palazzeschi, Pirandello, Pasolini e Paasilinna chiamati per cognome e ordinati per altezza come nelle ore di ginnastica delle medie. Si dice che la lettura nasca dalla curiosità, dall’evasione, dalla propensione alle altezze o ai viaggi. No, niente di tanto nobile per me. Le parole scritte custodiscono la timidezza e coccolano alibi perfetti per evitare i dialoghi. Non mi ricordo le storie. Forse solo la sfortuna di non essermi imbattuto in quelle sentenze che cambiano la vita o semplicemente suggeriscono una svolta. Non so mettere in fila due frasi di circostanza, né suggerire educatamente un congiuntivo esortativo. Impartisco ordini, costruisco decaloghi, impongo commiati improvvisi. Le scarpe straripano dal borsone grigio stravaccato sotto la panca. La capra non canta, l’invidia degli amici crepa: le bicolori firmate da misentovuotoemicostruiscoilpersonaggio, le sneakers da pomeriggio al parco perché non ti si perdona il disinteresse per la vita all’aria aperta, i mocassini d’ordinanza e il sandalo di chi se lo può permettere. Ma non scherziamo, aborro le dita esibite, tutti quegli alluci all’insù che scavalcano sfrontati le strisce pedonali. Mai visto mio padre senza calzini. Barattoli, fondine e padelle. I manici svettano dalla cassetta come simboli fallici di cene
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a lume di candela. Perché un uomo ai fornelli deve sempre e solo spadellare? Imprimere quel colpo al polso che ti renda risoluto e creativo. Io però non so regolare l’olio, brucio ogni sauté di verdura, affumico filetti e strapazzo frittate. Mi viene solo il bollito che sa tanto di pranzi in famiglia, litigi inevitabili e promesse disattese e rinfacciate con puntuale ostinazione. «Passami la salsina verde che tuo padre non alza la testa dal piatto e s’ingozza come non avesse mai mangiato prima!» Una collezione di fotografie. Ma da dove nasce la mania di fotografare tutto e tutti in qualsiasi situazione? Proprio come mio zio. Si chiamerà passione di famiglia. Scatti rubati, sguardi vitrei appoggiati a panorami stanchi di essere immortalati da intere generazioni. Stati di grazia improvvisi sparpagliati tra pose annoiate: i continui cambiamenti di Chiara, le perturbazioni umorali di Rosa, le risate asimmetriche di nonna Ida. Nessuna foto mia. Un vezzo d’artista mescolato all’abilità nel togliersi d’impaccio. Tutte immagini senza cornice. Quanto pesa ‘sta scatola! Ho la schiena rotta. Mi riscrivo in palestra, anzi cambio palestra così non corro il rischio di incrociare il culo tondo di Gilda. Un bacio di dama, altro che il budino dondolante di mia moglie. Moglie? Ormai non più. Da dove siamo partiti per arrivare a questo punto? Forse bastava fermarsi un attimo prima di quel sì che sembrava fissato senza che nemmeno lo pronunciassi. Eppure Claudio aveva ben chiaro l’epilogo ancora prima dello svolgimento. Se mio padre non ha mai portato la fede una ragione ci sarà pur stata. Io invece non ho ancora raggranellato il coraggio di toglierla. È risalita dal basso e si è incollata alla mano senza trovare la forza di raggiungere gli organi interni. Una fede fasulla, posticcia come i baffi bianchi della recita di Natale. I travestimenti, il gioco di ruoli, la doppia personalità affiorata senza che un’unica prendesse corpo. Sarebbe bastata l’audacia di andare fino in fondo, di ricercare l’autenticità, di semplificare, sottrarre anziché aggiungere. Allo svuotamento delle scatole, la catasta si sfalda in uno squallido disordine da bambino viziato. Troppi regali di compleanno. Che parta proprio da lì l’origine della peggior specie? Macché, al massimo termina lì il viaggio a ritroso di una delle tante specie possibili, la mia. E non esiste origine che non possa essere contraddetta, ribaltata in un ordine sovvertito di rapporti causa-effetto. Via le tazzine, le padelle, i sandali e… i libri… sì anche quelli! Non un semplice trasferimento, un vero e proprio trasloco dell’anima. Al diavolo le spremute, le abat-jour, le telefonate concitate, la sedia a dondolo e le maglie di lana. Vecchio ciarpame da Signorina Felicita. Nessun riciclo. La cassetta degli attrezzi non ha nulla da riparare. Origo originis della terza non odora di ginnasio, ma profuma del caffè del mattino. E io ho sempre odiato il tè.
Salvatore Montoleone, in arte URAKEN, è nato a Castelvetrano (TP) ma vive a Milano. Diplomato in Comunicazioni multimediali alla scuola superiore sperimentale Albe Steiner di Milano, specializzatosi in Arti grafiche, un passato da web designer e al DAMS di Bologna, considera le “comunicazioni multimediali” la sua «sfera attitudinale di sopravvivenza», insieme alle arti marziali, come il Karate Shotokan (Uraken è il gesto del «pugno rovesciato»), la musica e i viaggi: in Francia è ospite di Sophie Crumb, figlia del fumettista underground Robert Crumb. Mediante la modellazione solida 3d, costruisce – in principio – elementi essenziali; similmente agisce, per le immagini bidimensionali, con quelli di vettorializzazione; mediante il fotoritocco, ne uniforma colore, luci ed ombre. “Artista novus” per Alessandro Riva, attento alle sperimentazioni nel campo della calcografia, ritenuto post-futurista e sciamano, è firmatario di un personale Manifesto dell’arte digitale, che riassume nel motto magrittiano This is not a reproduction of a work of art, this is Operation art. This is the Digital Manifesto dell’Arte. In bilico tra filosofia e grafica, accompagna le sue creazioni con scritti autobiografici, citazioni, pensieri, auto-analisi e inedite composizioni di musica elettronica.
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Jennifer Ravellini è nata a Piacenza il 12 settembre 1974. Ha un Diploma linguistico e una laurea in Lettere Moderne, ottenuta presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Barista e giardiniera, vive a Travo, in Val Trebbia, con un compagno, una figlia adolescente, due cani e due gatti. Scrive da sempre senza aver mai trovato l’occasione (o il coraggio) di pubblicare alcunché.
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Non pensare aifuochi racconto di Sara Vannelli
E
rano in bagno quando li sentii ridere. Ridevano come matti, a squarciagola, lui e lei. Lui rideva a scoppio, HAHA, faceva; mentre lei rideva più a cantilena, ha-ha-ha-ha, faceva. Sembrava proprio che se la stessero spassando. Ma nessuno di noi era riuscito a capire di cosa diavolo stessero parlando. Erano chiusi in bagno da più di un’ora. Lui era ubriaco fradicio, pesto. Prima di chiudersi in bagno l’avevo visto rotolare sull’erba, davanti casa, sotto la pioggia. Era talmente sbronzo che soltanto l’acqua e quel freddo gelido avrebbero potuto svegliarlo un po’. Tirarlo su, insomma. Ma non vomitò. Gridava e basta. «Aiuto», aveva detto. L’aveva detto diverse volte prima di andare in bagno. Non sembrava terrorizzato però, o stare male; sembrava solo abbattuto. Nei suoi pensieri concentrici che erano prima saliti e poi caduti man mano che si era rotolato nell’erba, sembrava infinitamente perso. Io pensai che si sarebbe beccato una polmonite cronica il giorno dopo, una di quelle per cui avremmo passato almeno i successivi tre o quattro giorni a medicarlo, preparare brodini caldi, rimboccargli le coperte e tutte quelle cose là. Invece il giorno dopo era arzillo come un bimbo. A colazione si fece persino un panino col prosciutto.
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Ma quella notte, tra una risata e l’altra, Franco piangeva eccome. Diceva cose tipo: «Ma hai capito perché?» Oppure: «Dobbiamo volerci tutti bene!» Diceva. Una volta gli è pure uscito «Oh, io sò Pasquino, m’hanno fatto una statua a Roma e posso parlà quanto voglio!» E di tanto in tanto chiudeva e riapriva gli occhi e ci fissava tutti, diventando serio. Eravamo in sei o sette intorno alla tavola. Quel rum gli aveva dato proprio alla testa. Credo fosse stato un rum scadente, un certo James Cook comprato al discount di Fossato di Vico, un minuscolo paese vicino Perugia. Credo
fotografia di Matilde Montanari fosse stato uno rum davvero terribile considerate soprattutto le sue condizioni; ma evidentemente a lui era piaciuto parecchio. Sessantacinque anni, Franco. Era chiuso in bagno con la moglie e rideva come un pazzo. Quell’evento a dir la verità ci aveva sconvolto un po’ tutti, anche se alcuni continuavano a dire (chi lo conosceva meglio) che gran parte di quella sbornia fosse tutta una farsa. «Dai che è un attore nato… Franco! Sì, un po’ lo fa pure apposta», dicevano, «dai che sta bene!» Enzo suonava De Andrè sfogliando gli spartiti, Luca rullava sigarette una dopo l’altra, Alessio insegnava a Pietro a suonare il basso, Eleonora canticchiava De Andrè, Sonia tagliava a pezzi piccolissimi il torrone bianco, Nadia sfogliava un libro di canzoni femministe anni ‘70, Simone (dato che il James Cook era finito e che le parole crociate non le voleva fare nessuno) beveva grappa. «Mah! secondo me invece è ubriaco di brutto!» Avevo detto io. Me li sono immaginati tutti e due. Lui seduto sul bidet con un asciugamano giallo in testa. Lei sulla vasca, seduta sull’angolo, ancora con il grembiule, gli teneva le mani bagnate. Un po’ tremanti. E ridevano. Mandando i capelli dietro la testa (lei), sbottonandosi la camicia (lui). E la luce fredda del neon. Non avevo mai visto due sessantenni chiusi nel cesso post ubriacatura la notte di Capodanno. Finire e iniziare l’anno nello stesso modo, nello stesso posto, con la stessa persona, dirsi qualcosa, anche ti amo. Tra un rutto e l’altro, certo. Ivana prima di entrare in bagno gli aveva preparato un caffè. Era il terzo o il quarto che faceva ma i primi lui li aveva gettati nel lavandino. Ora sperava in quello.
«Non so se lo berrà», mi aveva detto lei, ma glielo portò lo stesso. Ridevano. Senza caffè, col caffè. Con gli ospiti in casa. Col camino acceso. La pioggia che cadeva a morire, si sfasciava sulla terra mentre i cani abbaiavano di fronte la porta a vetri ogni volta che qualcuno passava con la macchina sulla strada. Chi è che guida la notte di Capodanno? Dove se ne va la gente? Che fa? Poi a un certo punto smisero di ridere e ognuno di noi si fermò per qualche secondo. Ci fermammo quasi contemporaneamente come se qualcuno ci avesse staccato dalla corrente. Pensammo che lui se ne stesse per tornare in sala allora cominciammo a sparecchiare la tavola velo-
La Luna di Traverso
cemente e aprimmo le finestre per cambiare l’aria. Entrò un freddo bestia. Formammo una specie di squadra e portammo via tutto. Ognuno di noi portò via piatti, posate, bicchieri sporchi, bottiglie vuote, portacenere traboccanti. Ogni volta che qualcuno di noi portava qualcosa in cucina faceva un commento su quanto avesse bevuto Franco o su quanto ci avesse messo poco a bere tutta quella roba, ma nessuno si domandava il perché. Sparecchiammo tutto. La tavola ora era vuota. Poi d’improvviso si sentì un botto. Veniva da fuori. Ce ne fu un altro e poi ancora un altro e poi altri tutti insieme. Erano cominciati i fuochi. Ne vennero su a decine. Da tutti i paesini lì attorno. Potevi vederli tutti. La gente sparava, lanciava cose, bruciava il cielo. «Franco vieni a vedere i fuochi!» Dissi io, urlando. «Dai Franco vieni!» «Sono bellissimi», dissi. Era arrivata la mezzanotte. Franco non venne. Poi pensai che anch’io avrei voluto essere ubriaca. Averti tra le mani. Non capire niente. E ridere, ridere, ridere, ridere. Dirti anch’io, ti amo. Bere quel caffè. Guardarti negli occhi. Buon Anno, amore mio. E non pensare ai fuochi. Non pensarci più. Tirare la catena. Uscire.
Matilde Montanari (fotografia d’autore): «il mondo non esiste finché non si impara a sognare, finché non si lasciano scorrere i colori insieme alla creatività e alla memoria.» Scorrendo il suo portfolio, si entra in atmosfere create, ricercate; vere e proprie messe in scena fra sogno e realtà. Montanari crea una non-dimensione, uno spazio senza tempo, sospeso fra il magico e la favola. Performance d’artista, recitate da una donna. Il lavoro di Matilde Montanari, artista di origine bolognese e newyorkese di acquisizione, si concentra sull’esplorazione della memoria come l’intima relazione fra l’ambiente e gli accadimenti privati, cosi come il profondo legame che crea il disagio dovuto a relazioni umane sempre più complesse e potenzialmente pericolose. Lavora per magazines e brand internazionali (JWT, Random House, Penguin Publisher, Elle, New York Magazine, AARP the Magazine, Marie Claire, Real Simple, Cosmopolitan, Swan Film Industry, Lavazza) e cura la direzione creativa di progetti pubblicitari e fashion in Europa e in America. Le sue immagini sono state esposte e collezionate in diversi Paesi.
Origini 23
Sara Vannelli è nata a Roma nel 1979 e si è diplomata presso l´Istituto di Cinematografia e Televisione “Roberto Rossellini”. La sua predisposizione alla scrittura risale all´infanzia e la sua formazione letteraria si perfeziona con corsi e seminari di scrittura creativa presso la Scuola Omero e la Casa delle Letterature. Nel 2002 la sceneggiatura Die Winterreise vince il concorso Scriviromagiovane, segue la realizzazione del cortometraggio Cosa avete da guardare? Dal 2006 si dedica alla scrittura di monologhi e nello stesso anno cura la stesura degli spettacoli teatrali Africa Nero o Safari e Tana Libera… tutti!, andati in scena a cura del collettivo Kipiunehapiunemetta. Nel 2008, nella rassegna romana “Teatro di Paglia” viene realizzato lo spettacolo Uscite d’emergenza, tratto da suoi monologhi, portato in scena al Teatro della Visitazione (2009), con la regia di Felice Panico. Nel 2008 pubblica un racconto nell´antologia Scrivimi di questo tempo, Edilet e nel 2009 la sua prima raccolta di racconti Guarda che me ne vado, Leconte, con una prefazione di Lidia Ravera. Nel 2008 e 2009 realizza due documentari sul volontariato internazionale: storie di volontari in Africa (Slammers) e di stranieri in Italia (Inside Faces).
La Luna di Traverso
Mio padre racconto di Giorgia Bandini
fotografia di Maria Chiara Delfini
M
a una delle gambe del tavolo è troppo corta. Un pezzo di cartone ripiegato su se stesso la pareggia. Infilato sotto il legno elimina la pendenza. Mia madre ripulisce il piano con uno straccio che odora di menta. Una scarpa sotto il tavolo, il caffè sopra, una bottiglia d’acqua e due bicchieri. Realtà. Due occhiaia profonde e grandi come una scodella di latte. Mario si alza dal letto. Mario entra in cucina. Mario si siede (e urta il tavolo). Il batticuore dell’acqua. Il loro tavolo non è così stabile. «Come faccio a guidare se mi tieni la mano? Non posso fare tutto in una volta. Decidi quel che vuoi, almeno. Devo guidare o farti le coccole?». Mia madre a queste parole si arrabbia. «Puoi esaudire un mio desiderio?»,dice lei. «Certo», risponde lui. «Spiegami come volano gli aerei.» «Metti la mano fuori dal finestrino… Ecco così: vedi che il tuo braccio si alza? È la pressione. La pressione sotto le ali dell’aereo è maggiore di quella sopra…» L’asfalto cenere trema dolce inquieto.Volano veloci...
Origini 24
Buio crudo. Entra nella camera in silenzio. Attorcigliato e stanco il respiro di Mario si allunga lentamente nel sonno. Lo può vedere: un respiro caldo e afoso. Anche le pecore contate si sono addormentate, altre brucano sul soffitto le stelle. E lei con il naso sotto le coperte inventa per loro un’altra favola. «Da quanto tempo vivi con Mario?», le chiede dal soffitto una pecora. «Sette anni e sei mesi», ripete fra sé e sé. «Un’età scomoda», aggiunge la pecora «Ora se mi avessi chiesto un consiglio ti avrei detto: fermati a sette anni. Ma ora è troppo tardi…» Viaggiava spesso fino ad arrivare da Luca. Era di un paese vicino e il treno non esauriva la sua pazienza con la stucchevole monotonia dei paesaggi e dei cieli. Si vedevano da mesi.Aveva trovato in lui un istante tanto sincero quanto nessuno al mondo. Con lui volavano gli aerei. Ma forse una di quelle sere Mario se ne accorse. Si accorse che mia madre parlava con le pecore. Si mosse nel letto. Aprì gli occhi nell’ombra. Dapprima, quantunque gli sembrasse strano, pensò (credo) fossero i primi barlumi del giorno. Possibile? Accese la luce. Mia madre ne restò sbalordita. Grandi, placidi, come in un fresco oceano di silenzio, le stavano in faccia gli occhi di Mario. Sì, lei sapeva come fossero belli. Ora, ora soltanto, così sbucati di notte, dal ventre del loro letto, li scopriva. Sollevò un poco le braccia e aprì le mani nere in quella chiarità d’azzurro. E pianse, senza volerlo, dal conforto, dalla grande dolcezza che sentiva nell’averli scoperti lì, ignari degli anni, del tavolo traballante, del soffitto e delle pecore stanche, ignari di lei. Forse così nacqui io o forse no.
Giorgia Bandini è nata a Parma nel 1985. Cresciuta tra l’Emilia e la Liguria, è ora capitata in quel di Urbino per un Dottorato di Ricerca in Latino. Si diverte a trasformare in racconto altri racconti, fatti e persone realmente esistenti. Maria Chiara Delfini, diploma di maestro d’arte (P. Toschi – Parma), laureata in Psicologia del Lavoro a Bologna. Legata alla fotografia, analogica e digitale, dal 2005, ha partecipato a diversi workshop condotti da Gianni Berengo Gardin, Anna Fabroni, Cristina Nuñez; Gianluca Colla e tanti altri sulla Street Photography e sull’autoritratto, in collaborazione con le associazioni Piccolo Formato e Spazio Labo’ di Bologna. È socia dell’associazione Tapirulan. Iscritta all’Archivio Giovani Artisti di Parma. Appassionata di arti visive da sempre.
Tradizioni
La Luna di Traverso
Origini racconto di Federico Pischedda
1
fotografia di Maria Chiara Delfini
«S
hardana* deriva dal fenicio. Erano i popoli del mare. Dall’Egitto arrivarono fino qua. O viceversa», disse il Professore. Lo chiamavano così. Non era professore e non aveva nemmeno la patente. Frequentava la biblioteca e beveva vino spunto. Si aggiustò il polsino destro della camicia, si scolò due dita del bicchiere. «Interessante», dissi. Ma non per questo si era guadagnato altro vino. Dentro il bar le casse rumoreggiavano 100 watt di musica elettronica. La gente parlava lo stesso, non sembrava turbata. Io non ci capivo molto. Il trucco era acconsentire, fingersi attenti e accompagnare la conversazione con un vocabolario di circostanza che esprimesse sorpresa. Il mio aggettivo preferito era: interessante. Erano le otto di sera. E questa era la giusta dose di intrattenimento sociale di un paese medio, mediamente disprezzato dai suoi abitanti.
2 Non trovando altri aerei decenti, ero arrivato in paese lunedì. Avevo il tempo per visitare parenti, persone con cui condividevo la residenza e, dopo il primo atto dell’incontro, declinare frasi all’imperfetto. Si trattava di capire chi avrebbe fatto la prima mossa. Niente conflitti, troppa formalità, e il giorno dopo un altro giro. Con il matrimonio, domenica, avrei chiuso la settimana in bellezza. I soliti rimpianti prima di partire, e non tornare più per altri cinquemila anni.
3 «Ciao, come stai?», disse cinguettante. Ero obbligato. E quando uno è obbligato ad andare o, peggio ancora, si obbliga, non viene fuori niente di buono. Ma forse uno si deve obbligare ad andare, per andarci, perché se no, non ci andrebbe nessuno a trovare gli amici di infanzia. «Ti trovo benissimo!», risposi. «Cosa fai, adesso?», disse posando la tazzina di caffè. Ecco: la domanda che racchiudeva il senso unico della visita. E questa, in genere, si fa con qualcosa di caldo nello stomaco. «Sto a Bruxelles. Mi occupo…» «Lavori per l’Unione europea?» «No, no», risposi, «lavoro per un’associazione in campo medico». Per fortuna sapeva che ero laureato in lettere, se no avrebbe venduto al mercato della chiacchiera che ero primario. «Mio marito è contro l’Unione europea», disse. Lui, il marito, entrava e usciva dal salotto, senza pace. «Devo andare in palestra», diceva, ma rimaneva. Gli urlò la mia vita: occupazione e domicilio. Lui uscì e mi disse che era contro l’Unione europea. Rimase immobile, fissandomi. Come se potessi aiutarlo. «Mi occupo di giornalismo medico», dissi «Ah», fece lei, guardando il marito. «Interessante.»
Origini 26
4 Mi avevano chiamato a casa. «Il Comitato Folk organizza quest’anno la prima sagra della cipolla, antica tradizione dimenticata. L’invito è aperto a tutti i concittadini. In tale evento verrà distribuito il libro Le origini del nostro paese». Camminavo sulla via principale. Per quella occasione avrei dovuto rinnovare il mio vocabolario. Non era più molto utile l’aggettivo “interessante”. Io, là, non volevo fingere.Volevo smascherarli, volevo dirgli che era una truffa per attirare turisti che avevano sbagliato strada o che comunque, se il pranzo non fosse
5 La porta si aprì. Mi salutò. Era l’unico pastore che conoscevo che avesse la mia età. Però faceva palestra.
La Luna di Traverso
stato tanto pesante, non sarebbero passati di là, volevo dirgli. Non era un paese, era un digestivo. Entrai in un bar. Uomini anziani mi guardavano, sprofondati su sedie di plastica arancioni. Silenzio. Al bancone una signora, i capelli in tinta con quelli dei clienti. Volevo dirgli che per tenere su una comunità non bastavano quattro sacchi di cipolle.
Per tenersi in forma, diceva. Oramai le vacche le mungeva l’elettronica. Era con un altro tipo. «Vi conoscete?» Dissi di no. «Abita vicino a casa tua.» La condizione di chi torna dopo tanto tempo nel posto in cui è nato è quella di un’anima condannata a vagare nell’indefinito. Di dov’è nato, non conosce praticamente più niente, dimentica i nomi delle persone, le strade. Registra i cambiamenti di un luogo che oramai non gli appartiene più. Nel posto in cui è domiciliato è, nel migliore dei casi, accettato. Escluso dal suo tessuto sociale, vive in un anonimato condiviso. In più, non ha aneddoti sul luogo in cui abita. Solo informazioni turistiche. «Cosa stai bevendo?», disse. Da queste parti, offrire da bere a una persona, non è un fatto di cortesia. Non solo. Offrire da bere è un principio di territorialità. Sei mio ospite. Rispetta le mie leggi. Ti controllo. Dopo, una gentilezza. «Quello che prendete voi», risposi. Non mi chiese cosa facevo. Mi chiese cosa ci facevo qua. «Hai sentito chi si sposa?», dissi. Annuì. «Qua la gente dice che si sposa una zingara. Dicono che infetteranno il paese.» Ci affossammo anche noi sulle sedie arancioni, zavorrati di birra come se dovessimo partire in guerra. La vecchia al bancone bisbigliò: «Saluta.» Guardai l’orologio. Addio comitato di liberazione dalla cipolla. Mi sfiorò la guancia, mi voltai di scatto. E tu chi sei? Un nanerottolo che aveva l’aria di essere un bambino e mi aveva appena baciato! A me! E chi lo conosceva? Lo diede anche al mio amico pastore, e, ad uno ad uno, ad ogni avventore ed uscì. Diedi un’occhiata alla vecchia. Per lei era tutto normale. Presi il mio bicchiere come se potesse attenuare il mio imbarazzo. Allora dissi: «E tu cosa pensi del matrimonio?». Strinse le spalle e ordinò altro da bere. «Lo sai da cosa deriva la parola Shardana?» * Shardana: per alcuni erano popoli provenienti dall’attuale Sardegna
Federico Pischedda è nato a Ghilarza (OR) il 10 luglio 1983. Ha studiato al Dams di Bologna. Maria Chiara Delfini, diploma di maestro d’arte (P. Toschi – Parma), laureata in Psicologia del Lavoro a Bologna. Legata alla fotografia, analogica e digitale, dal 2005, ha partecipato a diversi workshop condotti da Gianni Berengo Gardin... //continua a pag. 25
Origini 27
Anima
La Luna di Traverso
Procreare mortales racconto di Giuseppe De Francisco
fotografia di Marco Losito
Origini 28
P
oco prima che arrivasse l’inverno, il lavoro mi portava in cima alla collina, nel bosco, dove c’erano tanti alberi divelti dal suolo, appoggiati al terreno per tutto il senso della lunghezza. Ne avevo già visti di simili in Sörmland. Le radici strappandosi dalla terra avevano lasciato voragini che in autunno si erano poi riempite d’acqua. L’acqua d’inverno era congelata, le voragini si erano ricoperte di neve, ed erano scomparse. Gli alberi divelti stavano con gli altri, intrecciati in un gioco di ortogonali macabre e imprecise. Tra gli alberi, in certi punti, si vedeva l’Åsunden. Si diceva che sul ghiaccio di questo lago una cannonata dell’esercito danese capitanato da Otto Krumpen avesse ferito alle gambe Sten Sture il Giovane, e ucciso immediatamente il suo cavallo – una scultura all’ingresso della città, di cui si vendevano delle riproduzioni in legno colorato come souvenir, rappresentava il cavaliere a cavallo, e forse anche il buco aperto dalla cannonata. Non riuscivo a non pensare che i due eserciti avessero dovuto aspettare l’inverno per prendersi a cannonate sul lago: ammazzarsi nel bosco doveva essere troppo complicato. Certe mattine il sole attraLife circles
Giuseppe de Francisco è nato a Palermo il 6 luglio 1977. Ha vissuto a Catania fino a diciotto anni. Negli anni del liceo ha scritto per due dei tre giornalini studenteschi, ne ha fondato uno lui stesso, e un suo racconto è stato scelto per l’annuario della scuola. Ha studiato le vette sublimi del pensiero occidentale nelle Università di Pisa, Lovanio, in cui ha collaborato con il giornale “The Voice”. A Parigi ha conosciuto Maria ed ora hanno una figlia stupenda. Tornato in Sicilia per qualificarsi come insegnante, ha fondato un’associazione culturale con suo fratello e due cari amici. Si occupavano di cultura popolare e organizzavano progetti per le scuole, corsi di danza, musica e concerti di folk e jazz. Nello stesso periodo suonava con un gruppo sperimentale ed ha pubblicato un articolo sulla rivista “Iride”. È ripartito dalla Sicilia per vivere con Maria, che è svedese, e si è trasferito prima a Ulricehamn, poi ad Amman, in Giordania, ed ora a Lidingö. Ha studiato svedese a Borås e Stoccolma. Attualmente lavora con i bambini autistici in una scuola della municipalità di Stoccolma. Ha ancora la residenza a Catania. Marco Losito nasce il 23 Gennaio di un anno imprecisato degli anni ‘80. Come fotografo, invece, rinasce circa 12 anni dopo, iniziando ad utilizzare la reflex meccanica del padre. Solo recentemente però, lavorando, può permettersi un corredo fotografico suo e iniziare quindi ad affrontare la Fotografia con la dovuta serietà.
La Luna di Traverso
Origini 29
versava le nuvole per segnare il lago con una linea sottile, ovale, che si spostava e si allargava in una trasposizione di cielo per lago solo. Le colline dall’altra parte separavano il cielo dal lago. Da quella distanza il cielo e il lago parevano un’unica cosa. Le nuvole riaffioravano nell’azzurro da sotto le colline. Le casette lontane tra gli alberi fitti spuntavano con prepotenza dalle linee morbide e selvatiche degli abeti e dei pini. L’Åsunden ghiacciò in una notte ventosa. Le increspature del lago congelato al vento si conservarono per tutto l’inverno sotto la neve. Piccole gelide onde, dossi, derive di perfezione. La luce del sole si rifletteva sulla neve anche dal basso, da sotto le colline: gli alberi si facevano ombra da sopra e da sotto. Una sera – era buio: era ormai notte – andavo tra i canali gelati, e anche la luce dei lampioni si moltiplicava sul ghiaccio. Il lago era diventato un’immensa piazza senza pali della luce, senza panchine, cestini per l’immondizia, camminamenti, vialetti, né piste ciclabili, né case, né alberi. Le luci del centro illuminavano una nuvola di vapore bassissima tutta sopra la superficie del lago. La nebbia avvolgeva i contorni frondosi e spettrali del ghiaccio, nessuno passava più a ricalcare e confondere le piccole impronte dei caprioli e delle lepri. Una luce grigia e azzurra filtrava attraverso la nebbia. E io avanzavo senza ombra, nell’indifeso silenzio che mi faceva paura. Una domenica, uscimmo a fare una passeggiata mano nella mano sulla neve. Eravamo in uno spicchio di Febbraio in cui, verso le sette di sera, la neve dell’Åsunden diventava blu. Ricalcavamo i passi che avevano compresso e indurito la neve, e ci riparavamo dalla neve che cadeva ormai solo dai rami. Il cielo era terso e c’era il Sole. Il parco era recintato da uno steccato tipico, protetto da sovvenzioni europee. Ci piaceva, c’era una bella vista sull’Åsunden, ed era circondato da case, appartamenti in alto e villette da tutte le parti, che nel primo pomeriggio di una domenica di Febbraio come quella, piena di luce e invitante perciò a godersela, si sarebbero dette disabitate da centinaia di anni. Attraversando quel posto avevo la sensazione di sporcarlo. Ci venne in mente la storia dell’orso che l’estate precedente aveva sbranato una puledra nei dintorni di Ulricehamn. Prima di tornare al nostro lägenhet, passammo dal supermercato, che stava in riva al lago. C’erano in vendita anche delle videocassette sulla caccia al cinghiale, forse anche su come il demonio si pianga addosso, prima della sconfitta finale, masturbandosi. Rientrammo che era ancora presto. Quella sera dovevo scegliere tra un futuro assicurato a Catania e una vita spericolata ad Ulricehamn. Con la maniglia dello sportello del frigorifero aperto in mano le chiesi, e poi le gridai, se volesse un panino. Mi venne l’idea di imparare a fare il tè. Avanti, procreare mortales, praedestinatus a Christo ad educandos ei spiritali doctrina filios caelesti in vita perennes.Avanti: era stata una domenica di Febbraio, a passeggio mano nella mano, inguantati e incappottati sulla neve, per vedere le case, e non ci eravamo fermati a squadrare solo quelle in vendita, ma anche per farci un’idea di dove traslocare, quando, e per quanto tempo. Per farci un’idea, per cambiarla, per fare una passeggiata in mezzo alla neve. Un gruppo di case a un piano ci era anche piaciuto, per i colori e la proporzione dei giardini, piccoli, dai quali si aveva accesso alla casa e al posto macchina. Erano tutte attaccate, ci sembrava che avessero qualcosa di inglese. Alla fine dell’inverno il ghiaccio si spaccò. Il lago, visto dal balcone, sembrava uno specchio di cielo in frantumi. I frammenti sparirono in silenzio, in fretta, in un paio di giorni di sole.
La Luna di Traverso
1
Rev val racconto di Fabio Emidi
illustrazioni di Salvatore Monteleone “Uraken”
Origini 30
Origine, digital graphic, 21x30
I
n primis l’immagine delle due bobine in rotazione antioraria. Il nastro, va detto, strappato in più punti e riattaccato da Soon con sottili strisce di adesivo, un lavoro di fino, l’unico di cui Soon è capace, spesso incapace, fatto che non garantisce nulla. Il sopraggiungere di nuove rotture? Lo strapparsi di vecchie giunzioni? E il nastro liberato aggrovigliarsi sulla puleggia, fatto a pezzi? Possibile, possibile. Consapevole di questo e del resto, vista anche la consunzione, Soon si prepara al peggio, se ancora è possibile immaginarsi un peggio. Eccolo dunque seduto davanti al muro, il famoso muro con l’intonaco a calce viva, la sola cosa viva nel mortorio generale, la fronte rugosa affidata all’incavo della mano in attesa del miracolo. Eccolo allora rivolgere lo sguardo prima a oriente poi a occidente, infine posarsi sull’apparecchiatura, le bobine, una piena una vuota. Andiamo. Parete intonacata a calce viva ora rivela meglio nella luce a filo la superficie scabrosa. Rischio di abrasione. Forza. La prima immagine a prendere forma è quella di Soon sotto il riflettore. Gli occhi si stringono per impedire alla luce di accecare. Luce ora in eccesso. Consapevole Soon che come l’assenza totale anche l’eccesso di luce impedisce di vedere, si aggrappa allo strumento che potrebbe dirsi una chitarra. Questo non risparmia alle nocche della mano di diventare bianche e alla pelle di raggrinzire. Le dita provano a muoversi, dico provano come per dire che non ci riescono. Provano a premere sulle corde tese e in effetti ci riescono ma a prezzo di tante piccole scarnificazioni. Dapprima dolorose, poi la pelle si necrotizza, si forma il callo, finalmente più nessuna sensibilità. Quello che succede ora è un dipanarsi come di filo azzurrino contro il cielo cenere. Stop. Riavvolgere. Di nuovo. Sulla destra apparizione imprecisa che necessita approfondimento. I capelli si mostrano crespi con chiazze vuote qua e là come se strappati senza il minimo controllo, senza neanche il minimo senso per la forma. Il cuoio capelluto che si intravede sotto è bianco con esfoliazioni laminari di dimensione variabile. Ancora più sotto a tratti visibile l’osso piatto irregolare dell’occipitale e il bordo frastagliato della sutura cranica. Anch’esso a scaglie comincia a venir via per i troppi lavaggi o per i troppi grattacapi. Arriverà, come no se arriverà, il giorno in cui consumato tutto, consumati i capelli, il cuoio capelluto, la scatola cranica, non le resterà altro che un cervello, un enorme cervello molle.Tornando al profilo ecco rivelarsi un naso sproporzionato e un po’ di pappagorgia, cose che non giovano all’immagine femminile che viene a comporsi. A rendere il naso peggiore di quello che è si evidenzia un grosso neo marrone con tanto di peluria. Scorrimento veloce in avanti per carità. Il neo essiccato ora si stacca e cade nel lavandino. La donna infila subito indice e medio dentro il tubo nel disperato tentativo di recuperarlo, non si sa perché poi ci tiene tanto, a quel suo neo peloso come al piccolo cazzo di lui, lasciamo perdere, per quanto stretto è il tubo indice e medio ancora c’entrano, sebbene debba sfilarsi la fede, cosa che fa ogni volta con maggiore difficoltà, sarà il dito che si ingrossa o la fede che si stringe, e poi si mette come a sfregare su e giù, su è giù, curiosa la famigliarità del gesto. Nessun miglioramento. L’immagine si conclude con una scala discendente a intervalli di terze minori suonata con moderazione. I capelli rimasti attaccati per miracolo si drizzano all’unisono. Intermezzo. Ora viene il meglio. Come immaginari relitti si diffondono a raggiera le dita della mano destra di Soon in stato di quiete. Ripresa. Spinta verso la risacca l’immagine di una minuscola canoa che rotea su sé stessa beccheggiando. Seguita per non dire cancellata dall’immagine dello strumento che impugna.Apparentemente una chitarra con la cassa armonica di metallo. Più resistente ai colpi e più risonante. I capotasti assottigliati dalle ripetute pressioni. Affiora solo a questo punto l’immagine del vecchio sulla sdraio. Vecchio adesso in stato di consumata contemplazione. Si muove sempre più lento l’occhio incavato. Inciampa. Nel seguirlo
Fabio Emidi si è laureato in Lettere con una tesi su Malattie e malati nella Letteratura Italiana Contemporanea. Vive e risiede a Roma. Salvatore Montoleone, in arte URAKEN, è nato a Castelvetrano (TP) ma vive a Milano. Diplomato in Comunicazioni multimediali alla scuola superiore sperimentale Albe Steiner di Milano, specializzatosi in Arti grafiche... //continua a pag. 21
La Luna di Traverso
Origini 31
Soon zoppica per finta storcendo il viso e cercando di capire cosa si prova, poi riprende il passo dell’abituato a camminare in discesa. Nell’orto sul quale è collocato il vecchio le zolle rivoltate al cielo rivelano vermi dimezzati. Ai lati dell’occhio di Soon. L’orto delimitato da quattro canne piantate nel terreno ai quattro vertici e un filo teso contro l’azzurrino. Tutto immaginario. Cielo serale adesso con sfumature viola all’occhio ansioso di Soon. Sopra il vecchio il melo. Odore di frutti in decomposizione. Il telo della sdraio si gonfia appena sotto il peso del vecchio sempre più irrilevante. Il flacone di soluzione fisiologica che ondeggia da uno dei rami più bassi. Il tramonto si svolge come se fosse suo. Segnali di disturbo e quindi interruzione improvvisa. Tutto aggrovigliato intorno alla puleggia e tranciato in più punti. Soon scosta la fronte dall’incavo della mano per poggiarla contro il muro. Niente? Non proprio niente. Inattesa la quiete dell’ora notturna adesso si diffonde da oriente a occidente, visibile dalle aperture laterali. Dissolvenza su questa immagine e poi di nuovo.
racconto di Francesco Caronna
fotografia di Valentina Scaletti
I
La casa era rimasta a lei, nonostante “il migliore”. Quando aveva chiesto al fratello se per caso conoscesse un buon divorzista, si era immediatamente sentito rispondere un nome e un cognome che non aveva mai sentito. «E chi sarebbe questo?» «Il migliore, fratellino. Il migliore.» Il risultato ce l’aveva sotto gli occhi. L’estratto conto della banca per terra, con l’esorbitante cifra della parcella nella colonna delle uscite, e una casa completamente vuota. C’erano soltanto alcuni grossi scatoloni di cartone, quasi tutti ancora sigillati con il nastro adesivo. Non ci aveva messo nemmeno un tavolino. Non ci aveva ancora mangiato, né un pranzo né una cena; in frigorifero un paio di bottiglie d’acqua e una confezione da 24 di lattine di birra che occupava tutto lo scomparto centrale. Non c’era ancora entrato nessuno, nonostante fosse dentro ormai da più di un mese. Il fratello neanche a pensarci, si sarebbe preoccupato. Alessandra nemmeno. Finirci a letto era l’ultima cosa di cui aveva voglia. Stava ancora cercando di capire di cosa avesse voglia. Steso su una brandina pieghevole che gli faceva da letto, una lattina di birra accanto e sei scatoloni di cartone ancora da aprire, ci pensava spesso, prima di addormentarsi. «Di niente», si diceva. «Non ho più bisogno di niente.»
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Con Alessandra si era ridotto tutto a qualche telefonata e una pausa pranzo. «Soltanto non capisco. Proprio adesso che possiamo vederci senza…» e aveva allungato appena l’ultima lettera, interrompendo la frase. Non c’era bisogno di elencare le bugie a quella che era ormai l’ex-moglie, gli “ora non è il momento adatto” per farle capire quando non poteva parlare, le rinunce a cinema, ristoranti e via di seguito. «Dico solo che per un po’ è meglio lasciar perdere…», rispose lui, versando in maniera uniforme l’olio sull’insalata mista che aveva ordinato nel bar del centro che accettava i loro buoni pasto. «In che senso lasciar perdere?» «Non vederci per un po’… non so… un po’», aveva provato a spiegarsi. «Io non ti capisco.Al telefono rispondi una volta sì e cinque no, non mi hai detto dove sei andato ad abitare, non mi dici come stai e si vede che non stai bene. Se secondo te non c’è niente da spiegare, allora…» Lui si era lasciato scappare un filo di fiato dalla bocca. «Poi quando ci vediamo non dici tre parole di fila e sbuffi!», proseguì lei, alzando appena la voce. «Vorrei solo capire che cos’hai». Si sedette meglio sulla sedia e si allungò a prendergli la mano. «Ho che non sono dell’umore giusto per vedere le persone e…» «Io non sono le persone», gli fece notare lei, tirandosi indietro. «Per favore.» «Per favore cosa?» Lui non disse cosa. Una sera trovò un foglietto giallo incollato sulla maniglia. C’era scritto soltanto di suonare alla porta di fronte alla sua, e la firma: “i vicini”. Era una tradizione, gli spiegò una donna sulla cinquantina, in tuta, passandogli un piccolo vaso con due rami lunghi e arcuati su cui erano già fioriti grandi petali di un colore tra il bianco e il rosa. «Sa, io lavoro in un vivaio e così, quando arriva uno nuovo, per conoscersi… ci sembra una cosa carina.
Origini (installazione)
La Luna di Traverso
Scatole
La Luna di Traverso
E poi una pianta ravviva sempre l’ambiente. Ho pensato a un’orchidea. Facile da curare, resistente.» «Io non sono molto…». «Oh, ma non ci vuole nulla. Un mezzo bicchiere d’acqua la settimana e tanta luce, ma non diretta. E poi guardi com’è carina. In ogni casa deve esserci qualcosa di bello. Ha ancora un po’ di posto su un tavolino o una mensola?» «Sì, direi di sì.» Aprì la porta di casa senza accendere la luce e fece due passi soltanto. Guardò prima la pianta, quei grossi petali sembravano farfalle posate sui rami, poi la stanza, gli scatoloni sparsi, uno in un angolo, un altro in mezzo alla stanza, un terzo ribaltato accanto alla finestra. C’era un grande silenzio in quello spazio vuoto. Bisognava fare qualcosa, era inevitabile. Farla a pezzi, ecco quale fu il primo pensiero: bisognava farla a pezzi, con un coltello, una forbice, con le mani; pestarla, quella pianta, accartocciarla e lasciarla marcire in quell’immenso vuoto per terra, perché lasciarla lì come se niente fosse era impossibile, bisognava distruggerla come tutto il resto, oppure accettare quella bellezza minuscola e improvvisa. Bisognava decidere, e andava fatto in quel momento. Spostò con un piede uno scatolone, spingendolo contro il muro opposto a quello dove stava la finestra. Fece lo stesso con un altro, fino a far diventare quelle due scatole di cartone qualcosa di diverso da due semplici scatole di cartone, qualcosa come un’idea di mobile, qualcosa sopra cui mettere il piccolo vaso con l’orchidea che ancora teneva in mano. Andò nell’altra stanza, si tolse i vestiti. Fece per spegnere il telefono ma poi gli venne in mente di telefonare al fratello. «Certo che ti accompagno a prendere dei mobili. Che cosa ti serve?» «Cosa mi serve?», disse lui guardandosi intorno. «Tutto.» «Ma cos’hai?» «No, niente.Va tutto bene, solo che stasera sono un po’…» «No, intendevo in casa.» «Ah, cos’ho? Ho un frigorifero e… una pianta.» «Una pianta?» «Un’orchidea… Così mi hanno detto. Io non me ne intendo.» «Non è molto.» «No, non è molto.» Dalla strada filtrava, attraverso la finestra, la luce gialla di un lampione che illuminava appena la stanza e i petali della pianta. La guardò un attimo. È vero, non era molto. Ma, in fondo, per ricominciare poteva andar bene.
Valentina Scaletti è nata nel 1983 a Parma. Nel 2008 si diploma in scultura all’Accademia di BelleArti, Bologna. Durante gli anni all’Accademia, oltre che alla modellazione della creta, si è avvicinata alla fotografia, alle tecniche di incisione e fonderia. Espone in mostre e collettive dal 2001, fra gli eventi più recenti: nel 2009 collettiva di scultura, fotografia e pittura Alla ricerca del filo bianco, Palazzo Giordani (Parma); personale – Alice e My secret garden − al Ground’s Art Gallery (Parma) e, con Vetrina Flash, a cura dell’Archivio Giovani Artisti di Parma, l’esposizione Alice, Vetrina d’Arte (Parma). Nel 2010: collettiva all’interno dello Squinterno Festival (Berceto, Parma) e collettiva The green party from Ecology to Economy presso lo Studio Fiscalis Commercialisti Associati (Parma).
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Francesco Caronna ha 26 anni e una doppia laurea in Lettere. Da qualche tempo sta provando a scrivere in prosa: racconti, un’idea di romanzo. Sta provando a scrivere anche per il teatro. A settembre è stato uno degli otto vincitori del concorso Blusubianco, organizzato da Müller e Scuola Holden dove ha anche partecipato al Perfect Day, una giornata di incontri e lezioni con otto scrittori italiani.
La Luna di Traverso
racconto di Giovanni Locatelli
fotografia di Alessia Mascellani
Origini 34
Origine “Omaggio a Lampedusa”
L
a bella Lai aveva cucinato tutto il giorno, facendosi aiutare dalle amiche a tirare la pasta, e dalle vicine di casa a cuocere le torte. Quella sera erano presenti davvero tutti alla cena, tutti i superstiti: il vecchissimo fratello prete, le figlie con i nuovi mariti, i figli con le vecchie mogli, gli svariati nipoti di cui confondeva spesso gli strani nomi, scambiandoli fra loro. La bella Lai (portava ancora il soprannome da ragazza) aveva ampiamente superato i settant’anni e, nonostante i lutti e le sofferenze, li indossava con discreta leggerezza, così come vestiva sempre quegli stessi abiti acquistati in un passato ormai remoto. Sembrava non volersene liberare. Aveva invece dovuto staccarsi spesso dai suoi affetti… Come i semi volanti del tarassaco, come le spore gialle delle conifere, pronti a diffondersi nell’aria al primo soffio di vento: così la bella Lai, aveva fatto esplodere la sua discendenza tutt’attorno, in luoghi che potevano essere aridi o fertili, accoglienti o ostili, ignara su dove potessero meglio attecchire i suoi figli e i suoi nipoti. Ciascuno con una sua storia, nessuno uguale all’altro: tutti avevano piccole “mutazioni” che potevano renderli più o meno adatti al territorio, resistenti alle malattie, più o meno veloci nella corsa, forti nella lotta, abili nel corteggiamento. Qualcuno era rimasto in paese, qualcuno se n’era andato e non era più tornato, qualcuno aveva fatto svariati tentativi da una parte o dall’altra, senza arrivare mai a una decisione definitiva. Primo, diciottenne nel Sessantotto, era partito per il mondo senza più fare ritorno. Dopo alcuni anni aveva cominciato a rispedire a casa i propri figli illegittimi, non tutti insieme ma uno dopo l’altro, a distanza di tempo, con regolarità, come cartoline ricordo dei luoghi esotici visitati. Qualcuno, persino, arrivava da solo: conosceva l’italiano e portava notizie del padre, ne raccontava la vita selvaggia. Rimaneva dalla nonna qualche mese e per tutto il tempo era l’attrazione della famiglia, poi di solito arrivava una madre a riprenderselo. Tranne l’ultimo, un neonato dai tratti vagamente malesi arrivato in maniera misteriosa, abbandonato di fronte alla porta, come se nessuno l’avesse portato fin lì. Fu adottato dalla sorella minore di Primo, Olga, nonostante avesse già due figli, Yoko e Pablo, avuti da due padri diversi. Olga, donna volubile e capricciosa, era la più difficile tra le figlie della bella Lai, quella con la vita più burrascosa. Era però capace di gesti di grande generosità senza una minima esitazione, all’occorrenza. Non si ebbero più notizie di Primo, non arrivarono altri piccoli messaggeri e nessuno ebbe mai il coraggio di interpretare il perché le trasmissioni si fossero interrotte. Nemi, la figlia saggia della bella Lai, quella timida e un po’ apprensiva, non sarebbe mai riuscita a fare delle scelte simili. Nemi era l’unica che aveva completato gli studi; poi si era trovata un fidanzato, si era sposata ed aveva fatto due figli, tutto secondo gli schemi, in ordine e a modo. Nemi era però quella che dieci anni prima aveva scoperto che suo marito stava facendo soldi in maniera illegale e l’aveva denunciato alla polizia. Tutti le avevano detto che era matta, che metteva in crisi una famiglia per così poco e lei, in lacrime, aveva rivelato che Walter la picchiava e che era violento quando era ubriaco. «Non hai avuto il coraggio di denunciarlo per le violenze e ti precipiti in commissariato per una frode fiscale?» «C’è che ho vergogna di ciò che riguarda il mio corpo. Qualsiasi altra cosa poteva andare bene… La frode per cui è stato condannato Walter, in realtà… sono stata io a commetterla. Lui lo sapeva bene, è chiaro che sentiva il bisogno di espiare.» Fatto sta che i due si rimisero insieme dopo l’uscita dal carcere di Walter. Fu il cancro a portarselo via definitivamente, qualche anno dopo. William, il loro secondogenito, soffrì molto della cosa; Magda, la prima figlia, molto meno.
Giovanni Locatelli dopo la laurea in ingegneria e uno stage negli Stati Uniti all’Ohio State University, ha lavorato in un’azienda di impianti caseari e poi in Volkswagen Group Italia, prima come spin doctor e poi come responsabile allestimenti per i veicoli commerciali, ruolo che ricopre tuttora. Ha pubblicato numerosi racconti (editi da Keltia Editrice, 2004; Tapirulan, 2007 e 2010; Arpanet, 2007 e 2008) e ha partecipato alla sceneggiatura degli spettacoli: MicroOnde, Giugno 2006 a cura di A. Castello, P. Atzori ed I. Sciavolino; Invita per Gemine Muse, concorso nazionale, Maggio 2007; *: note – danza voce video – per la rassegna Il Grande Fiume a cura di Luigi Ronda; Il mendicante di tempo – monologo per voce e batteria – festival dei Buskers, Cremona, Giugno 2008; Arrestami prima che io firmi ancora – cortometraggio per la regia di Francesca Reboani, presentato al 13° Festival Internazionale del Cortometraggio di Siena, Novembre 2008. Ha inoltre suonato con i The Globe fino allo scioglimento della band. Alessia Mascellani è nata e tuttora vive a Bologna, dove si è laureata in Filosofia Estetica e dove è nata la sua passione per la fotografia. L’acquisto della sua prima reflex non risale però a molti anni fa, così come è recente il suo approccio didattico alla fotografia – preceduto, e seguito, da molta autodidattica, e da tanto amore per lo studio della disciplina.
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Origini 35
La sera della cena, la stessa in cui Nemi annunciò finalmente di essere incinta, Cosimo, il suo nuovo compagno, fu presentato alla famiglia. Subito dopo essersi seduto, Cosimo se ne uscì con una battuta. «Siete così in tanti che dovreste dotarvi di un distintivo. Qualcosa che vi permetta di riconoscervi anche senza esservi mai visti… per evitare il pericolo di incesto!» Era calato il silenzio. Don Peppino si era fatto scuro in volto, cosa che succedeva raramente. La bella Lai, come al solito, si era espressa ad alta voce. «Gli ultimi che hanno messo in pratica questa bella idea, sono gli stessi che hanno deportato lo zio Leone. Spero che lei condivida solo il senso dell’umorismo con quei criminali…» Il nuovo arrivato, Cosimo, chiese immediatamente scusa, non era al corrente della cosa e non si sarebbe mai permesso. William, il suo figliastro, sempre più disperato e brufoloso, pensò che poteva per l’occasione ripartire con qualcuno dei cugini arrivati da lontano, l’indomani mattina. Chi non fu mai in grado di arrivare a quella cena fu, invece, Pablo, il secondo figlio di Olga e cugino di William, esattamente come non riuscì a portare a termine i suoi studi. Seguendo le indicazioni della madre, infatti, si perdette. Suo padre Havier, catalano di Barcellona, ben consapevole di quanto fossero sovversivi i consigli, mai ne diede uno in vita sua. Era il secondo compagno di Olga e la “traghettò” fisicamente dal suo primo amore, Takeshi, studente giapponese e liutaio, al terzo,Yuri, scappato dalla Jugoslavia un minuto prima che scoppiasse la guerra nei Balcani. Havier era timoniere della nave che raccolse i profughi alla deriva su di un gommone in mezzo al mare. Era un sognatore pavido bello come il sole che restò al suo posto, immobile, quando Olga fu fatta sbarcare nel porto di Split, perché evidentemente incinta, assieme a Yuri ed a tutti i suoi compagni, perché evidentemente slavi. Lei, cuoca sulla stessa nave di Havier, era riuscita a mantenere in segreto la gravidanza fino a quel momento – erano vietati i rapporti fisici e sentimentali fra i membri dell’equipaggio – poi però la pancia si era fatta evidente e la punizione era arrivata: sola, in un paese alla vigilia della guerra, fece ritorno in Italia usando la pancia come lasciapassare, accompagnata da Yuri come se fosse il padre. A casa c’era anche Yoko, la sua prima figlia accudita dalla bella Lai, ad aspettarla e presto sarebbe arrivato anche il figlio malese di Primo, da adottare. Tutti riuniti attorno allo stesso tavolo, quella sera.
La Luna di Traverso
Rubrica Letteratura di Federica Pasqualetti, Enrico Cantino, Armando Minuz
Rubrica - Letteratura 36
T
fotografia di Marco Zanta
ranquilli, non è un post politico. E I Promessi Sposi di Alessandro Manneanche patriottico. Però è vero: il zoni perché vorrei per una volta leggerlo senza titolo è tratto da una frase di Mas- commenti a fondo pagina. Perché è una nemesi. simo D’Azeglio, ripetuta in diverse Perché non è una nemesi. Perché se voglio scriveforme e momenti. re un romanzo devo imparare E quindi, è ovvio: parliamo di «Fatta l’Italia bisogna a scriverlo. Perché è lungo? Si, Unità d’Italia; come centocinfare gli Italiani!» … e allora? I Pilastri della terra di quant’anni fa. Un Ottocento Ken Follett è più di 1000 paancora una volta: frenetico e turbolento: guergine, praticamente il doppio… 150 anni di libri in ra napoleonica, antichi regimi, con questo non voglio fare paMoti carbonari, Congressi di ragoni, ma forse si fanno da sé. 150 battute. Vienna, restaurazione, guerre, Perché Calvino diceva che è «il scontri, mille garibaldini e quant’altro. Ma anche: romanzo dei rapporti di forza»: realtà, contrasto, borghesia, aristocrazia, capitalismo e rivoluzioni. azione. E se non vi piace, allora legMa noi su queste pagine ci occupiamo di lettera- getevi l’Adelchi: siccome è tura, di narrativa e di libri ed è qui che vogliamo una tragedia, avrà sicuraarrivare. A parlare di “quel” Risorgimento, quello mente più appeal. delle idee e della mente. Un Ottocento, il nostro, fatto di intellettuali lontani dai regimi che si Il Fermo e Lucia di rivolgevano alla nazione nascente per orientare Alessandro Mane stimolare la nascita di una coscienza cultura- zoni perché è stato le; un Ottocento che ha visto lo sviluppo del- pubblicato postumo. la stampa, dell’editoria come strumento attivo Perché a scuola nemnella crescita culturale dell’epoca; un Ottocento meno si sognano di dove circolavano riviste letterarie, almanacchi, fartelo leggere. Perché manifesti; un Ottocento che ha partorito il Ro- rappresenta le segrete manticismo e il romanzo (storico, sentimentale, radici oscure della noautobiografico che sia), il Veri- stra narrativa. E persmo, la Scapigliatura. Un Ot- ché di un grande bisotocento su cui non si scherza: gnerebbe conoscere nasce l’Italia, certo, ma con essa anche esordi e aborti. inizia a prendere corpo e forma anche la “Letteratura Italiana”. Una cultura: persone L’anno 3000: soche scrivono, persone che leggono, persone che gno di Paolo capiscono. Eccoci al dunque: lanciamo proprio Mantegazza peradesso, nell’anno dell’anniversario della nascita di ché mi sa che l’abun pensiero comune, un nostro personale consi- biamo letto in pochi glio. 10+1 libri che secondo noi non possono sta- ed è un vero peccato. re al di fuori della letteratura “che va di moda”. Perché il simpatico 10+1 libri che non vanno relegati solamente ai Mantegazza era tipo banchi di scuola. 10+1 libri che nel bene o nel in gamba: un vero male hanno fatto storia. “astruso” dalle mil-
Lo Zibaldone di Pensieri di Giacomo Leopardi perché è il primo vero blog dell’Ottocento! Voce del cuore e dell’anima che ci riporta la poesia come poesia: «una tempesta, un impeto, un quasi gorgogliamento di passioni». Perché è un “moderno” e non un depresso. Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo perché si svolge in prima persona. Perché è una proiezione sto-
La Luna di Traverso
rica più che un romanzo storico. Perché è un romanzo di formazione con un eroe pieno di problemi che cerca di farsi una identità, un pensiero, a volte anche nell’imprevedibilità del caso. Perché, per questo, mi ricorda che anche oggi è difficile capire come va il mondo. Perché è antimanzoniano. Fosca di Iginio Ugo Tarchetti perché è inquietante e terribilmente attraente. Perché la protagonista è una bruttissima e malatissima donna “ma” particolarmente intelligente. Una vampira dell’anima dalla quale non si può stare lontani. Perché si concentra su due fuochi: amore e morte. Perché c’è questa frase: «Scrivere per noi, per rileggere, per ricordare in segreto, per piangere in segreto. Ecco perché scrivo (...) Io scrivo ora per me medesimo.» I Malavoglia di Giovanni Verga perché è l’opera più fraintesa di tutta la nostra letteratura, scritta dall’autore più inclassificabile e sfuggente di tutta la nostra storia, il cantore degli irrimediabilmente sconfitti senza possibilità di rivalsa, manco fosse un noir americano ante litteram. Attraverso questo romanzo la “provvidenza” ottocentesco-manzoniana cola a picco, e il suo relitto entra a pieno titolo, come una nave fantasma, nel porto del Novecento letterario. Vi fu chi, magari attraverso un’antologia, lo definì “verista”, chi addirittura decadente e chi, forse più intelligentemente, ne ha capito tutta la complessità e ha rinunciato a classificarlo. Da (ri)leggere anche le novelle, stupende. Malombra di Antonio Fogazzaro perché non è Piccolo mondo antico. Perché Fogazzaro, a differenza di quello che può sembrare, non è un decadente. Perché è un grande scrittore di romanzi in grado di scandagliare, con sintassi e stile, il linguaggio di un mondo antico che lascia il passo a quello nuovo. Perché Malombra è un romanzo oscuro, suggestivo dove il protagonista, scrittore semi-fallito, si perde nell’attrazione del mistero, dello spiritismo, della seduzione. Potremmo definirlo: emo-tivo, ombroso, inetto, aristocratico… ammalato di quella malattia, di quel mal d’aspirazione che invaderà, come le folle tanto odiate, il futuro Novecento. Perché Malombra è la contraddizione: nessun equilibrio, nessuna risoluzione, nessuna maturazione. La realtà non si incastra in un ordine letterario. Mai.
Rubrica - Letteratura 37
le sfaccettature. Antropologo, divulgatore evoluzionista, giornalista, reporter, scienziato, libertino: grande uomo d’affari dalla facile comparsa, tra l’etichetta sull’acqua minerale e un foglietto di propaganda igienista. Perché si è immaginato di farsi un bel viaggio nell’anno 3000 con una macchina del tempo a vapore per vedere come poteva essere il futuro. E forse ci ha azzeccato. Perché è un raro esempio di scrittore che sapeva utilizzare tutti i suoi mezzi, modificarsi e modificare il suo stile in un modo talmente naturale da apparire irreale. Perché ad un certo punto i protagonisti del libro «lasciarono Roma, capitale degli Stati Uniti d’Europa, montando nel più grande dei loro acrotachi, quello destinato ai lunghi viaggi. È una navicella mossa dall’elettricità. Due comode poltrone stanno nel mezzo e con uno scattar di molla si convertono in comodissimi letti. Davanti ad esse una bussola, un tavolino e un quadrante colle tre parole: moto, calore, luce.» Perché questa si che è fantascienza. E pure ecologica.
La Luna di Traverso
Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo perché è il libro di una sconfitta. Non tanto del protagonista quanto di un genere letterario che in Italia risulterà sempre perdente e minore (e dire che ne avremmo tanto bisogno). Infatti, oltre alla parte dedicata all’amore per Teresa, Foscolo innesta nel libro la tematica politica e civile, quasi mai imbracciata negli anni a venire dagli scrittori italiani del Novecento e oltre. Perché Foscolo è il re delle illusioni. Il poeta di ogni dove. E il romanzo è dentro la sua vita. Il Piacere di D’Annunzio perché solo lui poteva costruire un intero romanzo su una cosa del tutto banale: un tizio che mentre fa l’amore con la sua donna pronuncia il nome di un’altra. Perché dimostra che le grandi tragedie nascono dalle piccole cose.
Rubrica - Letteratura 38
Profili di donne di Luigi Capuana perché non lo conosce nessuno. Perché costituisce l’esordio narrativo di colui che viene considerato l’iniziatore del Verismo italiano. Perché si legge che va via tutto d’un fiato. Esattamente come i suoi rac-
conti per bambini: C’era una volta…Fiabe. Verista si, ma soprattutto grande osservatore della realtà, psicologicamente attento e puntualmente critico, al punto tale da poterla… fantasticare. E ora tocca a voi. La nostra domanda, infine, è: e oggi che la cultura e la narrativa sono martoriate dalla politica, da sterili “botta&risposta” di tutte le fazioni che impestano i nostri pensieri, quali sono i libri, gli scrittori, che resteranno oltre al tempo odierno? Quali i libri e gli scrittori italiani che lasceranno impronte nella letteratura, aldilà del mercato, della classifica, dei best-seller? Lo chiediamo a voi! Mandateci fino alla fine dell’anno commenti sul web, mail, social-network: una piccola recensione con al massimo 150 parole di un libro italiano pescato all’interno degli ultimi 150 anni di storia letteraria del nostro paese, che vi sembra impossibile da dimenticare, che resterà nella storia e avrà aggiunto qualcosa alla nostra Narrativa. Poi li pubblichiamo. E vediamo cosa succede… 1libro150anni150battute@lunatici.net
Marco Zanta (Fotografia d’autore) è nato il 1° settembre 1962. Fotografo, vive e lavora a Treviso. Ha iniziato ad occuparsi di fotografia dalla metà degli anni ’80. //continua a pag. 1 (sommario)
Origine, Padova 1998
Origini 40 La Luna di Traverso
Origine
Massimo Volpe, nato a Parma il 13 novembre 1976, grafico da sempre, fotografo da mai, ama la luna in ogni sua forma. Soffre di una forma di licantropia latente mai manifestata, per questo non conosce gli effetti veri e propri della trasformazione. Incorreggibile sognatore cerca l’armonia in ogni cosa e qualche volta inciampa in scatti di buona fattura. Come Geppetto lavora il legno e costruisce illusioni materiche senza alcun senso e di conseguenza nessun risultato.
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9 771826 536004
Registro Tribunale di Parma n째14 del 5/9/2005 - Finito di stampare nel mese di maggio 2011 presso La Stamperia (Parma).
9 788878 473782