NR.19 PAURA

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SOMMARIO Incipit d'autore Paura di Anton Čechov

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Racconto d'Autore Facciamola finita di Monique Pistolato

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Con la nebbia dissolto Testo di Ivano Porpora Il mutamento di proporzioni Testo di Mattia Filippini

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La madre di tutte le paure Testo di Federica Soprani

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Metropolitan Fairy Tale Testo di Carlotta Fiore

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17 ottobre 2007, mercoledì Testo di Cristina Spelta

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ORGANIZZAZIONE E COORDINAMENTO Mariella Toscani - Responsabile Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia

Il risveglio Testo di Fabrizio Fabbricatore

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REDAZIONE Silvia Bia, Enrico Cantino, Simona De Blasio, Roberta Gatti, Armando Minuz, Federica Sassi, Denis Zuliani

L'idolo Testo di Alfredo Goffredi

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RELAZIONI ESTERNE Roberta Gatti

Ridere in pubblico Testo di Andrea Tinterri

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Salto di categoria Testo di Walter Malenotti

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Sentinella sull'orto Testo di Raffaele Messinese

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LALUNADITRAVERSO 2007 - Anno 7 - Numero 19 Monte Università Parma Editore - Vicolo al Leon d’Oro, 6 43100 Parma

Autodromo Testo di Enrico Elvis Crotti

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Apocalisse Testo di Paolo Tanzi

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INFORMAZIONI Per collaborare alla rivista scrivi all'indirizzo redazione@lalunaditraverso.it oppure telefona all’Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia (Via Repubblica, 29 - Palazzo Pigorini 43100 Parma, giovani@comune.parma.it tel. 0521/384469-70).

Laboratorio di Narrazioni 2007 - Anno 7 n° 19 MUP Editore € 4,00

Illustrazione di copertina Laura Bernardi

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Chi Siamo DIRETTORE Massimo Carta VICE DIRETTORI Guido Conti, Federica Pasqualetti

IDEAZIONE GRAFICA Alessandro Berti REALIZZAZIONE Simone Pellicelli STAMPA La Stamperia - Parma PROMOZIONE E DISTRIBUZIONE PDE - Promozione Distribuzione Editoriale

RUBRICHE

Il giudizio e il lavoro editoriale della redazione sono insindacabili e accettati implicitamente.

«La sua bacchetta magica non sbaglia mai...» 34 Testo di Enrico Cantino

Gli autori pubblicati riceveranno due copie in omaggio.

Biografie

La Luna di Traverso è sostenuta dall'Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia e dall'Assessorato alle Politiche Culturali e alla Creatività Giovanile.

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ERRATA CORRIGE Anno 7 n°18 - 2007, pag. 3, 24, 34: l’autore del racconto “Reincosazione” si chiama Roberto Stradiotti.

www.lalunaditraverso.it

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Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia Assessorato alle Politiche Culturali e alla Creatività Giovanile Comune di Parma

La paura è la cosa di cui ho più paura. Michel Eyquem de Montaigne Il tema della paura ci rimanda in primo luogo a quel filone letterario che è il romanzo gotico, ovvero a fare i conti con tutto ciò che la mente umana percepisce come oscuro, irrazionale, estraneo e, per dirla con Freud, perturbante. La mente umana si trova a Scatto di Gianfranco De Simone percepire come fattore di disturbo tutto ciò che non conosce e che, esulando dalla realtà, porta inevitabilmente turbamento. Horace Walpole, considerato il capostipite del filone con il suo Castello di Otranto, ben seppe assecondare tale inclinazione, ponendo così le fondamenta per capolavori della letteratura generati dalle fervide fantasie di Ann Radcliffe, John William Polidori, Bram Stoker, Mary Shelley ed Edgar Allan Poe. Una delle figure letterarie per antonomasia legata alla paura è quella del Vampiro, immagine capace di incarnare molti dei nostri incubi: perdita di identità, dannazione eterna, ma anche – soprattutto – quel timore che da sempre accompagna ineluttabilmente l’uomo; quello della morte. Paura è anche ciò che si lega a Frankenstein, la figura creata da Mary Shelley, simbolo della bontà umana innata, il quale 4 viene ad essere corrotto dalla società in cui si trova a vivere, ma anche paura connaturata al senso di onnipotenza dell’uomo che mira a farsi simile a Dio, creando pericolosi mostri. Un famoso capriccio di Goya asserisce che «il sonno della ragione genera mostri»: di fatto, è proprio ciò che sfugge alla ragione a dare alla luce sogni dalle tinte fosche, andando ad alimentare le nostre paure. La paura di aver paura cui ci rimanda la citazione iniziale di Montaigne, ci scorta ad un altro tema topico della letteratura: l’inettitudine alla vita, la fuga dalla realtà, che si risolve nell’estetismo di metà Ottocento (dove l’Arte e il Sogno prevalgono sulla Vita e sulla Realtà), fino agli strascichi di autori del secolo successivo come Musil, Camus e Svevo. Paura di aver paura, paura di fare i conti con la realtà, paura di essere se stessi, paura della morte… Quali sono le nostre paure oggi? Questa è la tematica che La Luna di Traverso ha voluto proporre per la diciannovesima uscita: si è voluto rivolgere tale interrogativo, proponendo un contenuto volto ad indagare su come siano cambiate – ammesso che lo siano – le paure dopo l’ingresso nel Terzo Millennio. Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia


Scatto di Matteo Varsi In un periodo come quello che stiamo vivendo, in cui, da un lato, gli horror e i thriller diventano fenomeni di culto e, dall’altro, cresce il gusto per il crimine e il giallo, accompagnato alla curiosità mediatica per il sangue e per gli omicidi, scegliere il tema Paura per questo diciannovesimo numero della rivista avrebbe potuto sembrare una mossa banale e scontata. In realtà, la paura è una sensazione che accomuna tutto il genere umano: non esiste uomo o donna o bambino a questo mondo che non abbia mai tremato o pianto o urlato per scongiurare un pericolo o per timore di quel Qualcosa di terribile, con la Q maiuscola, che stava per accadere. La paura è, prima di tutto, un sentimento profondo, nascosto dentro noi stessi, che spesso cerchiamo di reprimere ma che, prima o poi, esce con tutta la sua forza, e ci rende vulnerabili. Quello che è emerso dai racconti dei lettori-scrittori della Luna di Traverso è proprio uno sguardo introspettivo sulla paura, che si manifesta in modi, tempi e per cause diverse, ma che in tutti i casi nasconde sempre un disagio interiore. Come l’ansia di essere grassi nel racconto semicomico di Mattia Filippini, che cela il timore più sincero di rimanere soli; lo stesso tormento espresso, con un linguaggio del tutto diverso, da Ivano Porpora. C’è il terrore di essere abbandonati da un proprio caro, descritto in un flusso di ricordi da Federica Soprani, e quello di Enrico Elvis Crotti che parla del timore reverenziale di un bambino verso un padre autoritario con cui non riesce a stabilire un legame d’affetto. Poi arrivano le ansie e le angosce quotidiane che si trasformano in incubi, come nel racconto d’autore di Monique Pistolato, o gli incubi inventati di sana pianta, come quello di Cristina Spelta. I protagonisti delle storie manifestano spesso paure ataviche, come quelle della fine del mondo nel racconto di Paolo Tanzi o di un’invasione da parte di esseri malvagi e sconosciuti in quella di Alfredo Goffredi, o ancora del classico “uomo nero” che sbuca dalle parole di Raffaele Messinese. Preoccupazioni infantili, mai sopite, che continuano ad affliggere anche il nostro io adulto, come nella visionaria fuga dalla realtà di Carlotta Fiore, o semplicemente l’espressione di una inquietudine verso l’ignoto e l’aldilà, come la paura descritta dalla penna di Fabrizio Fabbricatore. Walter Malenotti narra di un gesto rivoluzionario che sconfigge la possibilità di un odioso compromesso, mentre Andrea Tinterri, per vincere la paura, immagina, con maniacalità chirurgica e liberatoria, il momento in cui la paura sarà passata. Presentiamo, quindi, tante voci di autori, ognuno dei quali mette a nudo la propria debolezza più recondita, che però diventa anche quella di tutti gli uomini. E che è anche un po’ la nostra. Noi, che, come tutti, abbiamo sempre paura che le cose in cui crediamo e che amiamo, per cui lottiamo e viviamo, dalla letteratura alle persone più care, ci vengano portate via.

Editoriale

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Incipit d'autore

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«Ditemi, amico mio, come mai quando vogliamo raccontare qualcosa di terribile, misterioso e fantastico, non è dalla vita che attingiamo il materiale, ma immancabilmente dal mondo dei fantasmi e delle ombre dell’aldilà?» «Fa paura ciò che non si capisce.» «Perché, voi capite la vita? Non vorrete dirmi che comprendete la vita più di quanto non comprendiate il mondo soprannaturale?» Dmitrij Petrovič mi si fece così vicino che potevo sentire il suo fiato sulla guancia. Nell’oscurità della sera il suo volto pallido ed emaciato appariva ancora più bianco, e la barba scura più nera della fuliggine. I suoi occhi erano tristi, sinceri e lievemente impauriti, come se si apprestasse a rivelarmi qualcosa di terribile. Mi guardò negli occhi e continuò con la sua consueta voce supplichevole: «La nostra vita e il mondo dell’oltretomba sono ugualmente incomprensibili e spaventosi. Chi ha paura dei fantasmi deve aver paura anche di me, di quei fuochi, del cielo, perché a pensarci bene tutto ciò non è meno inconcepibile e fantastico delle creature dell’aldilà. Il principe Amleto non si risolveva a uccidersi perché temeva le visioni che, forse, avrebbero visitato il suo sonno mortale; quel suo famoso monologo mi piace, ma a esser sinceri non mi ha mai veramente commosso. Da amico vi confesso che a volte, in momenti di angoscia, mi sono immaginato la mia ultima ora, con la mia fantasia che produceva visioni nerissime a migliaia, e sono arrivato fino a provare uno stato di esaltazione penoso, un vero e proprio incubo ma, v’assicuro, non mi pareva più spaventoso della realtà. Che dire, i fantasmi fanno paura, ma anche la vita. Io, amico mio, non capisco la vita e la temo. Non so, forse sono un uomo malato, fuori di senno. Le persone normali e savie hanno la sensazione dì capire tutto ciò che vedono e sentono, io invece ho smarrito questa “sensazione” e giorno dopo giorno la paura mi sta avvelenando. C’è una malattia, la paura degli spazi aperti: ecco, io sono ammalato di paura della vita. Quando me ne sto sdraiato sull’erba mi fisso a guardare un insetto che è nato appena da un giorno e non capisce nulla, mi sembra che la sua vita non sia altro che terrore, e in lui vedo riflesso me stesso.» «Ma che cos’è esattamente che vi terrorizza?», gli chiesi. «Tutto. Per natura non sono una persona profonda, mi interesso poco di questioni come il mondo dell’aldilà o i destini del genere umano, e di rado tocco livelli metafisici. Mi fa paura soprattutto la routine, a cui nessuno di noi può sfuggire. Non sono capace di distinguere verità e menzogna nelle mie azioni, e questo mi angoscia: sono consapevole che le circostanze della vita e l’educazione ml hanno rinchiuso in un cerchio soffocante di bugie, che la mia intera esistenza altro non è che la costante preoccupazione di riuscire a ingannare me stesso e gli altri senza darlo a vedere, e mi atterrisce il pensiero che fino alla morte non riuscirò a liberarmi da questa menzogna. Oggi faccio una cosa e domani già non capisco più perché l’ho fatta. A Pietroburgo avevo trovato un impiego e ho avuto paura, sono venuto qui per occuparmi di agricoltura, e anche qui ho paura… Mi rendo conto che conosciamo poche cose e che per questo ogni giorno commettiamo errori, siamo ingiusti, calunniamo gli altri, tormentiamo la loro esistenza, sciupiamo tutte le nostre forze in sciocchezze assolutamente inutili che ci impediscono di vivere, e questo mi spaventa, perché non ne vedo la necessità. Io, amico mio, non capisco la gente e la temo. Ho paura quando guardo i contadini, non so per quali elevati scopi soffrano tanto e vivano come vivono. Se la vita è piacere, allora sono gente inutile, superflua; se lo scopo e il senso della vita è nel bisogno e nell’ignoranza più crassa e disperata, allora non comprendo a chi e a che cosa torni utile questo martirio. Non capisco niente e nessuno. Come ve lo spiegate un soggetto del genere?», mi disse Dmitrij Petrovič indicando Quaranta Martiri. «Pensateci un po’!» Anton Čechov, Paura, Roma, Stampa Alternativa, 1996, pp. 10-14


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Scatto di Alessandra Carloni


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Racconto d'Autore Testo di Monique Pistolato Scatto di Gianfranco De Simone

La notte non ci aveva dormito al pensiero. Si rimestava come se la testa fosse stata dentro un favo di api. L’appuntamento oramai era fissato. Ogni dieci minuti guardava la sveglia. Avrebbe voluto spostare le lancette e arrivare al dunque. Avrebbe voluto bloccarle per sempre. Così come un pesce nella rete, si dimenava con una tensione che pareva spaccargli il torace. Non poteva confidarsi. Un uomo della sua età non avrebbe avuto assoluzione. Si fece la barba di malavoglia. Il contatto con l’acqua di colonia sembrò rilassargli la faccia. Tracannò del collutorio e soffiando sulle mani accertò l’alito: la sensazione che da tempo non fosse più immacolato lo disturbava. Era un uomo gradevole, in fondo. I vestiti li aveva scelti con cura, controllando che fossero ben stirati e che l’intimo si presentasse lindo. Doveva essere pronto ad ogni evenienza, pensò toccandosi tra le gambe. Detestava le brutte figure. Gli amici del circolo avrebbero riso della situazione. La prima volta a trentatrè anni. Controllò per due volte il collo della camicia e mise la giacca spazzolando le spalle con attenzione. Fece il giro di tutte le stanze, quasi alla ricerca di un pretesto per restare. L’immobilità delle cose gli sembrò un ordine: vai! Così si precipitò fuori di casa. Una luce meringa lo avvolse. Si sentiva rallentato da un impasto di desiderio e dolore che come cemento parevano invadergli la testa. Con questo peso salì in macchina. Guidò nervoso, con gli occhi che giocavano a ping pong tra orologio e specchietto. Se la situazione non si fosse risolta, sarebbe marcita dentro: ne era certo. Arrivò all’indirizzo con un minuto d’anticipo. Le mani gli sudavano. Pregò di non incrociare chi l’aveva preceduto. Non voleva che qualcuno potesse leggergli l’imbarazzo negli occhi. Sull’ascensore che si chiudeva, deglutì anni di rinvii. La porta era socchiusa. Si introdusse impacciato. Una musica soft ondeggiava tra un aroma di cedro e un altro più acre. Studiò l’arredamento essenziale e di buon gusto, quando una ragazzina vestita di un celeste ortensia, da odalisca del nord, gli indicò la stanza. La valutò simultaneamente: non poteva essere lei. Si stese. Chiuse gli occhi. Il suo corpo lungo e massiccio era pronto; solo un piede sembrava seguire il ritmo del respiro in tumulto. Quando ne avvertì la presenza, tenne le palpebre cucite: desiderava solo intuirli, i gesti. Sentiva il profumo di lei penetrargli le narici, sovrastare ogni altro odore. Ora vicinissimo; ora sfumato, più lontano. Un piacere. Avrebbe voluto trattenersi su quell’essenza, magari parlarle. Ma la presenza di quel seno carnoso, quasi a ridosso della sua spalla, lo teneva inchiodato, rigido, in posizione supina, passiva. Cercava di sciogliere la parte bassa del corpo. Non riusciva ad abbandonarsi. Temeva che lei lo trovasse infantile… Così si concentrava sulla lezione numero uno di yoga in videocassetta: esercizi di respirazione per distendere i muscoli. Avrebbe voluto dare il meglio di se stesso. Essere lui sopra. Quando una mano delicata gli passò qualche cosa di metallico intorno al collo, fu scosso da un brivido. Quello era il segnale. L’elettricità scaturita dal contatto lo ibernò. Aprì la bocca. E quando sentì una cosa lunga introdursi, pensò all’oblio. Mentre la musica ripeteva sempre lo stesso ritornello, un pizzicotto gli contorse la mandibola. Spalancò gli occhi. Appena lei scostò la mano, interruppe quella strana atmosfera con voce implorante: «La prego, dottoressa: facciamola finita. Mi tolga questo dente, che non ne posso più!».

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Con la nebbia

dissolto

Testo di Ivano Porpora Scatto di Cristina Mauri

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«Nonu, cuntan n’atra.» «Va’ a let ades, cinen.» Non sapevo ancora parlare in italiano, nell’80, che già le prime parole le facevo volteggiare in un dialetto quasi perfetto. Mio nonno rideva, con una bocca che lasciava pause di mezz’ora tra un dente e l’altro e rughe simili a fulmini a partire dagli occhi giù in discesa verso le guance. Ogni tanto tossiva, ogni tanto si accendeva una sigaretta o un sigaro o la pipa girando la testa verso la spalla per non sbuffarmi in faccia; ogni tanto mi passava sulla testa quei suoi manoni enormi, contrappasso di un corpo piccolo e nervoso che a vederlo passare nei campi ti sembrava un acquerello di dubbio gusto. Gli chiedevo di raccontarmi delle storie. Era un formidabile narratore: ricordava, riportava, inventava sistematicamente, intrattenendo la mandria di parenti che la domenica, cascasse il mondo, si riuniva a casa della nonna a pranzo fino alle tre e mezza, e anche noi piccoli che, tra fratelli e cugini, saremo stati una dozzina. Mia nonna, gli occhiali cadenti sul naso, ci chiamava tutti a raccolta e diceva, accompagnandoci alla porta con le sue braccine tozze: «Dài, putei, che al nonu ades av cunta na storia.» E noi ci assiepavamo attorno alla poltrona, chi sedendosi a terra, chi arrampicandosi sullo schienale, chi, come me, mettendosi sotto il tavolo, la testa appoggiata alle mani, i gomiti a terra, la schiena mezza scoperta dalla partita a calcio lasciata a metà. Tossiva, si accendeva una pipa, la sigaretta o il sigaro, poi rideva e partiva da resoconti di una guerra che, avrei scoperto, non aveva mai combattuto, per toccare un amore che sì, effettivamente c’era stato, ed arrivare a quella volta che aveva incontrato Alcor di Goldrake e l’aveva steso con un montante. Mi piaceva sentirlo raccontare la sera, quando dormivo da lui. Gli chiedevo storie che mi togliessero di dosso la paura. Non avevo le paure tradizionali, allora: già prendevo le bisce con un bastone e le arrotolavo, e per quanto riguarda buio e altezze ero capace di andare nella cantina a prendergli il vino senza contare fino a dieci, come faceva mio fratello più grande, o di arrampicarmi sugli alberi a guardare se la macchina di mio padre, come aveva promesso mamma, sarebbe finalmente tornata. Avevo una paura strana ed inconfessata, però: che le persone d’improvviso diventassero diverse. Avevo paura di scoprire che mia madre non fosse tale, che mio nonno fingesse una parentela con me; che mia sorella mi odiasse, invece di volermi bene come diceva, e che papà fosse morto e non in viaggio da tempo. «Nonu, cuntan n’atra.» «Va’ a let ades, cinen.» Gli chiedevo di raccontarne ancora e ancora. La ruggine della sua voce sprizzava comunque scintille, bassa com’era; e più che l’insieme delle storie, mi piaceva quella s dialettale, le r che lo facevano tossire, le voci che faceva imitando altri. Ora di anni ne ho 31, compiuti il 12 marzo. Non ho paura di ragni, serpenti, altezze, buio. Mi terrorizza avere scoperto che mio padre era morto, e non partito, e ora come allora supporre che forse, se quella bugia mi hanno raccontato, forse me ne hanno raccontate delle altre. Ho pensato l’altro giorno, correndo, che vorrei girare con una maglietta che abbia su petto e dorso la scritta HO PAURA. Forse sarebbe meno rampante di quelle che parlano di birra o di bionde o guer-


rieri o gruppi rock; forse, ho pensato, sarebbe una maglia onesta. Quando Consuelo viene da me, mi si siede vicina, prima di infilarsi nel mio letto, sotto le lenzuola, addosso alla mia pelle. Le chiedo di parlare, allora. È stata la prima a capire che non volevo, mentre scivolava lenta, sentirmi dire parolacce o sensazioni; la prima a capire, Consuelo, che volevo storie. Ha alzato le braccia, i seni che scendevano come piccole pere, l’ombelico che le si confondeva nella distesa della pancia, e si è messa a raccontarmi storie che non parlavano di Alcor e Actarus ma di film che non aveva visto, libri che non aveva letto, campi che forse aveva coltivato, forse no. Mi ha detto che le sue paure sono diverse. Mi ha scritto, l’altra sera, in un biglietto che mi ha lasciato sulla macchina tra tergicristallo e vetro, che le sue paure non esistono: ne esiste solo una, grande e pulsante, una macchia nera che le respira dentro e che, teme, quando scomparirà la farà scomparire via. Mi ha scritto: È come se venisse la nebbia, e quando se ne va scoprissi che ha portato con sé parte del campanile, parte del condominio di fronte, parte dei suoni che c’erano prima. Stasera mi ha raccontato una storia, la mia ragazza. Mi fa paura dirlo e scriverlo, la mia ragazza. Quando si è sfilata da me, sul divano, coi piatti ancora nel lavello e una luce arancione accesa di sghimbescio, le ho chiesto: «Raccontamene un’altra, Consuelo.» «Andiamo a letto, adesso, nani.»

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Testo di Mattia Filippini Scatto di Alberto Magrin

Mi telefona la mia amica Marisa. Mi chiede se fumo. Così così, le rispondo. Perché?, le chiedo. Perché mi hanno consigliato un libro che, se tu lo leggi, dice delle cose apparentemente banali poi inconsciamente ti tocca alcuni tasti e smetti di fumare. Giuro, funziona: io ho smesso di fumare. Brava, le dico, adesso ingrassi. Sarai stronzo?, mi dice. E chi altro ha smesso oltre a te?, chiedo. Hanno smesso milioni di persone in tutto il mondo. Ho capito, le dico. Ho capito benissimo. Cosa? Niente, niente. È solo questione di tempo, rispondo. Allora ti saluto, ci vediamo, mi dice Marisa. Mangia poco, le dico. Vaffanculo Serafino, mi dice. Poi attacca. Mi telefona mio papà. Ha smesso di fumare pure lui. Trent’anni che fumava un pacchetto al giorno. Ha smesso leggendo un libro in una settimana. Mi dice: Prova, prova. Il tentatore. Col cazzo. Lo so io cosa c’è dietro. Poi ingrasso. Io c’ho la paura di ingrassare. Vivere con Barbara, all’inizio era bellissimo. Poi, così così. Mi diceva: Come sei bravo; che belle cose che scrivi; guzziamo? Voleva sempre guzzare, all’inizio. Sei proprio uno scrittore, mi diceva, che originale che sei; fiondiamo? Certo, le dicevo. Poi, all’improvviso, basta. Non voleva più fiondare. Una volta, sul divano, c’erano i presupposti per iniziare il complicato processo guzzatorio, invece Barbara era scattata come se fossi uno qualunque che la molestava in un vicolo buio. Com’è che scrivo?, le chiedevo. Cosa?, mi rispondeva. Lo scrivere, ripetevo. Mmm… Litigavamo ovunque: in bagno lavandoci i denti; sulle scale; a far la spesa. Avevamo litigato anche alla Festa dell’Unità.

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Adesso mi dice che sono immorale. Qualsiasi cosa faccio è immorale. Guardo la tv: è immorale. Mangio fuori dai pasti: è immorale. La mette giù dura solo perché fa la filosofa, poveretta. Allora facciamo delle litigate sulla moralità, che in realtà sono dei discorsi deliranti ma serissimi, fanno venire anche un po’ da ridere per quanto sono seri, questi discorsi. Per esempio, lei sostiene che Clint Eastwood è morale, moralissimo: ha fatto due film sulla guerra, ognuno dal punto di vista di schieramenti diversi! Bisogna assolutamente andarli a vedere. Allora, per fare il bastian contrario, le dico che, invece, secondo me, Clint Eastwood è immorale perché, prima di tutto, i giapponesi per natura sono immorali, guarda come si ammassano per esempio nei musei. E poi, considera un anziano che vuole fare un film indipendente e chiede le sovvenzioni: non gliele danno mica, servono le credenziali. Mentre invece Clint Eastwood, che è pur sempre un anziano e decide di fare non un film bensì due, e questo è già immorale, i soldi glieli danno sull’unghia, così, come se niente fosse; si parla di miliardi alla faccia delle pensioni basse, della disoccupazione, dell’ecosistema impazzito. E questa, cara mia, è l’immoralità. Dei discorsi così. Invece, poi, alla fine interessava anche a me andare al cinema.

Il mutamento di proporzioni


Secondo me questi litigi derivano dal fatto che io sto diventando grasso. Ingrasso a occhio nudo, strabordo dai pantaloni: dei lardelli che scappano fuori dalla diga della cintura. Ho notato che, mentre ingrassi, la gente ti sopporta sempre meno, è parca di tolleranza. Secondo me alle cose che fai tu non ci pensi, mi dice Barbara. Mi è chiaro che è entrata nella modalità Critica pesante. Ci son cose che secondo me tu non ci arrivi non ci pensi, dice lei. Non ci penso, dico aprendo il pancarrè in cucina. Perché sei ingenuo come un bambino che è rimasto anche un po’ indietro, continua lei. Va bene!, dico io, col pancarrè masticato in bocca. Non capisco, poi, perché devi essere così capzioso: le cose che dici, a volte mi vergogno, le cose che dici. Faccio vergognare i sordi le cose che dico, le dico. Così la paura atavica dell’ingrassare mi fa ingrassare. Mi toccherà comprare dei pantaloni ipercalibrati, non so neanche se qui a Bologna ci sono i negozi per i pesanti. Solo che, ho già visto, sugli autobus stanno mettendo dei sedili giganti. È cominciato il mutamento di proporzioni. Prima allargano i sedili, poi gli autobus, poi le strade, che qui fanno otto metri e le metteranno a dodici, poi le porte, le case, gli affitti. Ecco, pensavo, gli affitti, puttanassa. A esser grasso, pensavo, puoi fare il lottatore di Sumo. Solo che, ho visto al telegiornale, i lottatori di Sumo non vogliono più fare il Sumo perché implica una vita ritirata, un’esistenza di privazioni, mangiare sempre le stesse cose, non poter perdere un etto. Son controllati scrupolosamente: ci sono i medici del Sumo. I medici del Sumo sono fatti apposta per farti venire i complessi. Hai perso un etto, ti dicono. Mi sembri un po’ denutrito, ti dicono. Guarda lì che magrino, ti dicono. Allora ti prende la fame ansiosa e la nobile disciplina del Sumo è salva. Poi vado in bici. La bici, è risaputo, fa bene ai grassi. Vado su fino all’antenna della TV, salgo, tutto scomposto: una fatica, la salita. Almeno sono solo, non mi vede nessuno. E penso. Penso che la condizione che io sono solo è una condizione normale nella mia vita, anche adesso che c’è Barbara. Mangiare, mangio sempre solo. Scrivere, scrivo da solo. Al bagno poi, son da solo. Solo. Essere solo mi fa una paura… che esser soli è brutto a dieci anni come a sessanta. Peggio che esser grassi! Così mi riviene la voglia di tornare da Barbara, dirle che non importa se discutiamo sempre di tutto, anche delle unghie che lei lascia ovunque per casa. Allora giro la bici, pedalo duro in discesa coi freni tirati. Per far fatica. È meglio che la ciccia non si abitui bene, ad andare in discesa.

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La madre di tutte le paure Testo di Federica Soprani Scatto di Alessandra Carloni

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Siedo in questa stanza, e per la prima volta nella mia vita sento di non avere paura. È una sensazione strana: un senso di vuoto che mi pervade, la solitudine di chi ha perduto un compagno di viaggio abituale. E leggerezza, una leggerezza senza suono, senza odore, bianca come queste pareti illuminate dalla luce del mattino, che entra dalle finestre e sembra rivestire ogni cosa, annullare le forme, rendere incerti i contorni. Anch’io me ne sento parte, come se, perduta la paura, non fossi fatto che di luce e silenzio. Sono stato un bambino pieno di paure, ma nell’infanzia perfino la paura è pura, nobile, elevata al di sopra delle meschinità umane, tanto da acquistare un senso e una sacralità che trascendono il sentimento stesso. I timori infantili hanno in sé la gravità dell’assoluto, perché da bambini temiamo ciò che conosciamo, e quelle che conosciamo sono verità che, entrando nel mondo dei grandi, si perdono irrimediabilmente. Ricordo le lunghe notti a casa della nonna, nel letto duro e freddo, lenzuola così inamidate da impedire i movimenti. Restavo con gli occhi aperti a fissare il buio, ad ascoltarlo, e il buio aveva forma, aveva voce, e mi colmava di un terrore reverenziale, consapevole. Lo temevo con la devozione di un fedele, e temevo ciò che in esso si agitava: quelle presenze che misericordiosamente mi venivano celate, ma la cui esistenza non bastavano le parole dei miei genitori a negare. Così giacevo, e le sentivo avvicinarsi, e chiudevo gli occhi per non vedere, chiudevo le orecchie per non sentire e trattenevo il fiato, perché forse, se mi avessero creduto morto, mi avrebbero lasciato stare. Oppure parlavo, lasciando che il buio mi riempisse la bocca, e mi dichiaravo come loro: una creatura simile, un insospettabile germano, come tale da ignorare, o addirittura rispettare. Questo temevo, nella mia infanzia, e i luoghi tenebrosi, nei quali tuttavia non potevo fare a meno di avventurarmi, perché nei bambini la paura, il coraggio e l’incoscienza hanno spesso lo stesso colore, lo stesso sapore. Condividevo le mie paure con gli amici, e quello bastava a renderci tutti temerari, a spingerci in quella casa abbandonata dove si diceva piangesse un bambino, nella chiesetta sconsacrata oltre i campi di erba medica, dove ci avevano raccontato di lapidi divelte e scheletri che pendevano da bare marcescenti, o ancora nella palude, e nella Casa del Gatto, quella struttura di ferro, inghiottita dalla vegetazione, al di sotto della quale una porta sgangherata celava misteri inenarrabili. Sono cresciuto con le mie paure, anch’esse nutrite di pane e latte, rese più ricche e fantasiose dalle letture, dalla mia fervida immaginazione. Raccontavo ai bambini più piccoli le “storie di paura”, godendo nel vederli spaventati, e nel percepire ogni volta, in me, il medesimo spavento. Sono cresciuto, e le paure sono cresciute con me: si sono trasformate, come mi trasformavo io. Le ho cambiate come un rettile cambia la pelle, relegandole in un armadio dimenticato, come i vestiti che non andavano più. Crescere è crudele, e ci rende crudeli. Ma paure nuove erano già pronte per accompagnarmi nel mio ingresso nel mondo adulto, turbamenti profondi, angosce continue. Ancora una volta le mie notti erano insonni, sebbene i fantasmi che le popolavano non fossero più di quelli che si possono ingannare trattenendo il fiato. L’adolescenza è un tradimento perpetrato dalla vita contro l’individuo. Ogni certezza viene strappata, ogni regola cambiata, senza apparenti ragioni, e tutto il mondo, come lo conosciamo, cessa di esistere. Non esistono equilibri, non esistono mezze misure, e ogni mutamento ci investe con la violenza di uno stupro, di un’aggressione. Ho avuto paura dall’istante stesso in cui mi sono reso conto che stavo cambiando, e che gli altri se ne erano resi conto, ed ogni giorno che posso ricordare era


fatto di paura che si sommava alla paura, in una stratificazione che mi seppelliva, progressivamente. Paura di cambiare, paura di non riuscire a farlo, paura di non essere all’altezza, paura di creare false aspettative in chi credeva in me, paura di non piacere, di non essere accettato, di essere frainteso, ignorato, misconosciuto. Paura di morire, ma ancora di più paura di vivere, in quel mondo di cui non mi sentivo parte, incapace di ritornare nel giardino terribile della mia infanzia. Sono stato un esule così a lungo, da dubitare di aver mai trovato un approdo, perché le paure che ti accompagnano nell’adolescenza, a differenza di quelle infantili, spesso non ti abbandonano mai: diventano parte di te, come un modo di chinare la testa, di inarcare un sopracciglio, come un gesto usuale della mano. Il fatto che io sia sopravvissuto a quegli anni non significa che non ne porti i segni, e ogni giorno, nella mia vita da adulto, mi sono domandato: sarebbe stato tutto diverso se allora fossi riuscito ad affrontare le mie paure?… Non che ora abbia più importanza. Ma cosa ne ha? Perché in questo momento di luce, nulla di ciò che è stato sembra avere più potere su di me. Ogni cosa che ho temuto accadesse, o non accadesse, nella mia vita di uomo, ogni ansia e timore legati allo studio, poi al lavoro, agli affetti, all’amore, al denaro e a tutti quei fardelli con cui la grigia polvere dei giorni frena i nostri passi, mi appaiono ora per ciò che erano: inutili, sterili, inconcludenti paure. Ma se guardo davanti a me, alla tua forma immobile nel letto, il volto così bianco, contro il bianco del cuscino, così bianco nella luce dell’estate che penetra dai vetri, io sento che non potrò mai più avere paura. Perché in quelle notti di bambino c’era una sola, vera paura, capace di spazzare via tutte le altre, di far impallidire i fantasmi e le streghe, e perfino il buio, ed era quando tu mi prendevi a dormire con te, nel letto grande, e mi abbracciavi, tenendomi stretto, vicino, ed io restavo, immobile e silenzioso, con gli occhi aperti, ad ascoltare il tuo respiro, assordante nell’oscurità, poi via via più lento, mentre il sonno s’impossessava di te. Erano notti senza fine, passate a sentirti respirare, attento, timoroso di ogni variazione, ossessionato dalla paura che quel suono infinitamente confortante potesse cessare, svanire, da un momento all’altro. Lo stesso suono che ascolto ora, amplificato dalla maschera ad ossigeno, e tuttavia troppo debole, troppo lento, mamma, così sottile che il petto non ti si solleva quasi più. Per questo non posso più avere paura. Non potrò averne più, perché ho davanti a me la madre di tutte le paure, e ha il tuo volto sofferente, bellissimo in questa luce che sembra vibrare. Non potrò più aver paura, perché temere così a lungo questo istante non è servito a renderlo meno reale, ora che avviene, e temere la vita non ne rallenta il flusso, non ne muta le sorti. Così attendo, perché non posso che attendere, con gli occhi aperti nella luce, e ascolto il tuo respiro mentre ti addormenti.

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Metropolitan Fairy Tale Testo di Carlotta Fiore Illustrazione di Ilaria Arpa Mi sveglio nel cuore della notte. Questo non è strano. Succede sempre più spesso, da quando lui se n’è andato. Da quando persone con cuori integri hanno iniziato a prodigarsi per rimettere insieme i pezzi in cui si è frantumato il mio. Pensano di dovermi guarire da una ferita invisibile. La verità è che vorrebbero guardarla sanguinare in superficie per poterla disinfettare e nascondere. Per potersi sentire guaritori. Bastardi. Tutti.

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Mi sveglio in piena notte e ho di nuovo sette anni. Questo è strano. Ho le mani piccole e le unghie smangiucchiate da piccoli denti, nel gesto annoiato di una bambina distratta. Lo stesso gesto in cui improvvisati Freud cercano il riflesso preciso dei timori e delle ansie che mi accompagneranno sempre. Quello che non possono sapere è che si sbagliano, che non sarò mai forte quanto lo sono ora. Non avrò mai la stessa assoluta fiducia nei sogni e non crederò più così tanto nella favola che si racconta ai bambini, nell’… e-vissero-per-sempre-felici-e-contenti. Non sarò mai più sicura di così. Mai, tanto coraggiosa. Invento piccoli peccati per non sfigurare a colloquio con il prete, nel confessionale. Ignorando fino a che punto – domani – non sarà più necessario inventare. La nostra fantasia può diventare la più pericolosa delle armi: mi domando se non sia questa, la lezione da imparare prima di svegliarmi nelle mie lenzuola di seta azzurra. Dopotutto questo non può che essere un sogno. Un sogno, oppure un romanzo di Dickens. In entrambi i casi sento forte il desiderio di tornare a casa al più presto. C’è qualcosa di strano nella mia vecchia camera, qualcosa che mi accarezza i sottili capelli biondi, più pesante dell’aria, più leggero di un tocco. Le stelle disegnate sul soffitto sembrano vere e illuminate. Salgo con i piedi scalzi sulla coperta, per guardare da vicino, ma sono molto più piccola di quanto riuscissi a ricordare. Trascino la sedia dalla scrivania al materasso e mi arrampico cercando di mantenere l’equilibrio, ma la sedia è immobile, come se appoggiasse sul pavimento. Allungo entrambe le braccia, dimenticando la prudenza e assecondando la mia ritrovata curiosità bambina. Avrei giurato ci fosse un soffitto: è tutto quello che riesco a pensare, mentre le mie dita sfiorano l’aria fresca della notte e la sedia comincia ad oscillare, facendomi cadere a terra. Sento dolore in ogni angolo del corpo, il respiro si ferma da qualche parte tra la gola e lo stomaco. Non riesco a muovermi, non posso gridare. La porta si allontana così lentamente che guardandola potrebbe persino sembrare immobile, ma io so che se ne sta andando, come se ne stanno andando le pareti. Raccolgo la forza che posso e allungo un braccio, cercando di afferrare la coperta di Lady Oscar, ma anche lei ha deciso di seguire il corteo dei mobili diretto chissà dove. Il solo grido che riesco ad emettere somiglia ad un gemito sottile. Le piccole mani tremano, le lacrime bruciano negli occhi. Fa tutto troppo male perché possa essere un sogno. Sola, in una notte già vissuta, per la prima volta capisco che cosa significhi realmente temere il buio. Morag mi porge una mano. Non so perché, ma conosco il suo nome. «Ti stavo aspettando», dice. Il suono della sua voce fa sparire il dolore.


«Lo so, sono una fata.» «Io non ho detto nulla…» «Non c’è bisogno che tu dica nulla. Sono una fata», ripete, leggermente indispettita dalla mia scarsa capacità di comprensione. «Sai perché sono qui?» «Sì.» «E sai anche quando potrò tornare a casa?» «Tra poco, appena avrai capito.» «Appena avrò capito cosa?» Morag ride, la sua risata fa sparire la tristezza. «Sei sempre stata tanto impaziente», dice, con la voce di una vecchia amica. Con la voce di una sorella, poi aggiunge: «Andiamo?» Morag non vola, ma scivola su pattini a rotelle, raccogliendo tutto quello che trova. A volte sembra una bambola inglese; altre volte non è che luce, eppure è sempre uguale a se stessa. «Siamo arrivate» dice, nel bel mezzo del nulla, a un certo punto della notte. Lascia andare la gonna in cui ha custodito i tesori raccolti, che cadono come briciole sull’erba scura: tre piume di corvo, sei spine di rosa, un pugno da fata di calce sporca, il dito della mano di una statua di pietra. «A cosa ti serve, tutta questa roba?» chiedo. «Serve a te, per tornare a casa» risponde. Le tre piume di corvo si sollevano in aria e cominciano una vorticosa danza e, quando mi volto per chiedere a Morag cosa stia succedendo, lei è scomparsa. Tutto quello che con la sua presenza aveva dissolto, si insinua nuovamente in me, rapido si diffonde nel sangue. Le sei spine di rosa si conficcano nelle mie braccia, il vento soffia la calce negli occhi. Grido per il dolore, grido per lo spavento: sono di nuovo sola e non ho capito come tornare a casa. Il dito della mano della statua di pietra picchietta tre volte sulla mia spalla destra e mi fa cenno di seguirlo. Sarebbe di gran lunga più semplice se ai piedi avessi un paio di scarpette rosse, ma sono ancora scalza e ho ancora sette anni. Il dito mi guida dove non c’è nulla che si possa vedere, poi scompare. Rimango a strofinarmi gli occhi, sempre pronti al pianto, togliendo le spine dalle mie braccia. Temo che non possa finire e – di nuovo – sento dolore in ogni angolo del corpo, il respiro si ferma da qualche parte tra la gola e lo stomaco. Non riesco a muovermi, non posso gridare. Prego di perdere i sensi, di non dover sentire l’angoscia che sale dal ventre alla bocca, di non perdere il controllo. E poi, come ricordando una cosa dimenticata, improvvisamente, capisco. «Morag!» grido con tutta la voce che riesco a trovare, sollevandomi da terra sulle braccia. Vedo le mie mani, non sono più quelle di una bambina. La fata arriva scivolando sui pattini, come una cameriera degli anni Cinquanta, con un sorriso grande come la luna. «Ne ero sicura», dice, «ora puoi tornare a casa.» Morag disegna un cerchio nell’aria, spinge senza sforzo la piccola porzione di mondo ed apre il varco sul mio tempo. Intravedo le lenzuola azzurre, le pillole sul comodino. Quelle pillole che mi sembravano l’unica via d’uscita dalla solitudine della mia angoscia. L’ultimo pasto. Il peccato che, grazie alla mia fata, forse, riuscirò a non commettere. «Sono io che ti ho chiamato, vero? Ti ho invocato perché potessi salvarmi.» «Hai fatto molto di più: mi hai creata. Perché ti ricordassi com’eri, quando sapevi combattere ciò che più ti spaventa.» Mille anni fa. «Ora che hai capito, sai quanto fosse semplice: le tue paure ti accompagneranno sempre, ma se saprai ascoltarle come fossero soltanto consigli, niente più che piccoli suggerimenti, allora ci sarà speranza. Ci sarà un-altro-modo, ci sarà la forza per andare avanti.» Semplice. «Grazie, Morag», dico. «È stato divertente… E scusa per le spine» risponde la fata. «Scusa anche per questo!» aggiunge sorridendo, spingendomi con forza oltre l’oblò aperto nell’aria.

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17 ottobre 2007, mercoledì.

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Testo di Cristina Spelta Scatto di Flavia Tronti

Primo… secondo… terzo squillo. Fisso il telefono pensando rapidamente se è il caso o meno di rispondere. Quarto… quinto… sesto squillo. Stacco lentamente la mano dalla bocca e la porto alla cornetta mentre continuo a mordermi le labbra nel dubbio. Settimo… ottavo… nono squillo. Le dita leggere toccano titubanti l’apparecchio. Se non alzo il ricevitore, riattaccheranno. Decimo… «Pronto!» «Buona sera. Parlo con la signora S.?» «Sì, sono io». La mia voce è un sussurro. «Buona sera, signora: sono A. Lei conosce I., il gestore telefonico?» «Sì», esce dalla mia bocca come un sibilo. «Bene! Signora S., abbiamo da proporle un piano tariffario molto vantaggioso tutto incluso, se passa dal suo attuale gestore a I.» «Sì… mi aiuti», farfuglio nella cornetta. «Certo! Adesso le spiego come funziona…» «Sì, ma mi aiuti», continuo come stordita. «Non la sento tanto bene… Mi scusi, adesso l’aiuto a capire meglio quali sarebbero per lei i numerosi vantaggi dell’offerta del nostro gestore.» «Chiami la polizia». Alzo lievemente il tono della voce, cercando il coraggio necessario per pronunciare queste parole. «Signora… scusi, credo di non aver capito. Sta parlando con me… o con qualcuno che è in casa con lei?» «Sono sola. Mi ha chiusa in casa. Non posso uscire. Mi aiuti lei. La prego…» «Signora si sente bene?… Ecco, le stavo spiegando che per “tutto compreso” s’intendono telefonate urbane ed extraurbane e per i cellulari…» «Mi ascolti. Non posso chiamare nessuno da questo telefono. Solo rispondere. E mi ha ordinato di non rispondere…» «Certo, anche lo scatto alla risposta è un dato interessante, signora…» «Le sto chiedendo aiuto. Non posso chiamare da questo telefono. Lo faccia lei. Sono chiusa in questa casa da undici giorni… mi tiene chiusa in questa casa da undici giorni… ha capito?» Comincio a farmi assalire dal panico. «Mi aiuti, la prego!» «Signora… non so cosa fare… io sono solo una operatrice di telemarketing… non so che dire. È sicura di star bene? Mi dica quando la posso richiamare. Magari in un momento di calma…» «No! Non riattacchi, la prego… La prego!», supplico. «Non pianga signora… io non riattacco, ma lei non pianga…» «Chiami la polizia. Dica a qualcuno di venirmi a liberare…» «Signora, non credo di poterla aiutare…» «Perché no? La prego… Non riattacchi… non so quando qualcun altro chiamerà ancora e non posso restare chiusa qui dentro ancora un altro giorno… La supplico!». La mia voce comincia a rompersi di pianto contenuto. «Signora, mi dispiace… non posso aiutarla… io… devo finire il mio turno di telefonate… devo… riattaccare, adesso. Posso… solo provare a chiedere al mio responsabile del turno cosa possiamo fare in questi casi. Mi dispiace. Davvero…» «No!», urlo, «La prego!»


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Clic. Silenzio. Ha riagganciato. Torna il silenzio: totale, assoluto. Unico e solo. Come me. A volte mi faccio pena da sola. Cosa arrivo ad inventare, pur di non dar retta a questi venditori telefonici‌


Testo di Fabrizio Fabbricatore Illustrazione di Alessandro Rivaroli

Il risveglio

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Mentre percorro le memorie del risveglio, mi sovviene un’impressione d’infanzia, e insieme quel dubbio innocente che anni dopo avrei per mia sorte fugato. Da bambino mi sconvolgeva l’idea di un’apparizione divina; mi insidiava il pensiero che di fronte a essa, a differenza dei miei coetanei, avrei agito da vigliacco. Mi chiedevo se mi sarei tenuto sereno come la piccola Bernadette, davanti la dolcissima Madre, e se avrei trovato la forza d’animo di Marcellino, ai piedi del crocefisso che gli parlava. Non lo credevo. Sarei fuggito senza mai voltarmi, mi sarei nascosto dietro un masso discosto, avrei tenuto le mani congiunte in preghiera per arma: questo immaginavo. Perciò, ogni sera, osservavo per un istante il viso della madonnina che proteggeva le mie notti dal comodino. Lo scrutavo con timore. La scorsa primavera mi recai all’abbazia di S., sulla cima dell’omonima altura. In una cappella all’interno della basilica, i frati custodiscono il corpo di quel santo dormiente che i fedeli venerano da ben undici secoli. Raggiunsi l’abbazia nella tarda mattinata. Nella piccola abside il santo giaceva su un sobrio altare di marmo ed era protetto da un sarcofago di vetro. Il viso mi pareva di cera, pietrificato nell’espressione insofferente e irrequieta del sopore pomeridiano quale la leggenda vuole l’avesse addormentato. Il colore della pelle era pallido, davvero cinereo. Pregai per diversi minuti presso l’altare; in seguito mi spostai in fondo alla cappella a contemplare gli affreschi della volta, quasi tutti risalenti all’età rinascimentale. Quando fu l’ora del pranzo gli altri fedeli lasciarono la cappella. Io, invece, mi trattenni ancora un poco, assieme ad alcuni monaci, per amore di quel silenzio e del senso di sospensione che sogliono manifestarsi nelle chiese vuote. Controllai la bacheca che conteneva gli oggetti personali del santo: v’erano una scodella, un cucchiaio, un recipiente più grande (che stabilii essere un vaso da notte), un vangelo dal dorso sdrucito e le vesti di porpora, ricamate d’oro, con cui i fratelli avevano adornato il santo nei secoli passati, prima che gli fosse restituita la tunica di panno ruvido. Appena m’accorsi che pure i frati s’erano allontanati, mi inginocchiai in preghiera ai piedi dell’ara, per congedarmi. Mi turbava tale solitudine; mi inquietava, e nel contempo affascinava, l’idea che lo spirito del santo accentrasse la sua attenzione unicamente su di me, e intanto meditavo incerto se la sua anima aleggiasse effettivamente lì, dov’era il corpo, o al contrario dimorasse in un’altra dimensione, come accadeva agli spiriti dei morti. Mi avvinsi a tal punto in questo ragionamento da dimenticare di essere nel luogo che l’aveva originato.


Fu il suo risveglio a destarmi bruscamente. La bocca mi si contrasse con violenza, gli arti stessi si irrigidirono per uno spasmo incontrollato e fulmineo quando, improvvisamente, il santo si mosse. La sua gamba si scostò, un braccio si distese; spalancò gli occhi, volse lentamente il capo. Quel che provai fu la risposta al mio interrogativo d’infanzia. Mi colsero insieme terrore ed estasi, rassegnazione e voglia d’essere, urgenza di fuggire e nel contempo violenta attrazione. Per questo feci quel che feci: cristallizzai ogni centimetro della mia pelle, ogni palpito, ogni muscolo e capello, trattenni il fiato e mantenni lo sguardo fermo sull’altare: mi nascosi nella mia immobilità. Lui pure mi fissò, ma appena un istante; brontolando, tracciò sul volto una smorfia di delusione. Con la stessa indolenza, si fece per tre volte il segno della croce, si raschiò la bocca e versò la saliva grumosa sulla manica della tunica. Infine socchiuse gli occhi, tornando di pietra come l’avesse colpito, proprio in me, lo sguardo di Medusa. Pregai inebetito fino a pomeriggio inoltrato, quando i frati notarono che il corpo era stato mosso e accusandomi d’aver forzato il sarcofago per profanarlo mi costrinsero a lasciare la cappella con parole minacciose. Per ore restai abbagliato da quell’evento, senza riuscire a prenderne coscienza. Solo il giorno seguente considerai se rivelare il prodigio cui avevo assistito. In breve, tuttavia, preferii tenere solo per me la verità del risveglio, come un segreto esclusivo, un vincolo di grazia tra me e il santo. Ho trascorso serenamente le notti successive. La sera mi inorgoglivo della benedizione ricevuta e m’assopivo riscorrendo i momenti del risveglio. Le settimane seguenti cominciai a pensare ad altro: prima sporadicamente, poi più frequentemente, tornarono al sopravvento gli episodi e i propositi della vita di tutti i giorni. Due giorni fa ho sognato di dormire e di risvegliarmi – nel sonno, sempre nel sonno! – tra le mura della mia stanza. Lo sgomento mi scosse alla veglia. Non ho più dormito, né quella notte, né la successiva. Ieri pomeriggio mi sono arreso alla stanchezza e ancora ho sognato quest’incubo. La debolezza mi tormenta: ho paura di dormire, ma ne ho bisogno. Ho legato alle mie dita, ciascuno con tre nodi, cinque nastri colorati: tre bianchi alla mano destra, due rossi a quella sinistra. Se al risveglio non avrò con esattezza cinque nastri su altrettante dita, ciascuno attorcigliato con tre nodi, tre bianchi alla mano destra e due rossi a quella sinistra, allora capirò di sognare. Se avverrà diversamente, avrò riconosciuto il vero risveglio e scongiurato la mia santità.

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L'IDOLO 22

Testo di Alfredo Goffredi Scatto di Matteo Varsi

8 Settembre Mi chiamo Lucas Gregorowicz. Sono medico condotto. Quello che segue sarà un resoconto il più possibile dettagliato del mio stato di salute, alla luce di una prolungata quanto inspiegabile condizione di febbri e dolori, che riducono la mia mobilità quasi del cinquanta per cento. Ancora non ho capito quale possa essere la causa di questa strana malattia, simile nei sintomi a una di quelle influenze esotiche. Tutto ha avuto inizio la notte del 25 agosto: lo ricordo con esattezza, poiché si verificò uno strano avvenimento che ancora non so se considerare sogno o realtà. Ero a letto da poche decine di minuti, ancora tra sonno e veglia, quando le mie orecchie furono raggiunte da un suono che non sarei in grado di ricondurre a niente di conosciuto. Un lungo fischio, ma dalla tonalità grave, in risonanza con se stesso e ogni singolo oggetto nella stanza. Qualunque cosa fosse, non era umano, per fattura e provenienza; era un suono tanto antico e lontano quanto cupo e malvagio. Il terrore mi prese, mi paralizzò gli arti, mi impedì di aprire gli occhi. Cosa accadde in seguito non saprei dirlo, ricordo solo che al risveglio ero completamente esausto, nonostante mi fossi trattenuto a letto molto più del solito. Da allora è tutto un susseguirsi di stanchezza e dolori sempre più acuti. Allo stato attuale delle cose ho abbandonato il lavoro e mi sono dovuto trasferire al piano inferiore della mia abitazione, poiché una semplice rampa di scale riesce a causarmi lunghi minuti di affanno. 10 Settembre Questa notte ho dormito poco, tormentato da un incubo, quasi certamente causato dalla morfina che lenisce i miei dolori. Al risveglio non ne avevo alcuna memoria. Solo le lenzuola e gli indumenti inzuppati di sudore, la fronte ancora imperlata e un vago senso di ansia erano lì a testimoniare quello che avevo passato. La febbre è stabile, ma ancora alta. Sento la testa pesante, ho bisogno di riposo. 13 Settembre Anche questa notte non ho dormito che poche ore. Inizio ad avere terrore del sonno, poiché esso implica imprescindibilmente l’incubo. Il risveglio non è ormai che un semplice procrastinare l’orrore che mi si para davanti non appena chiudo gli occhi, quasi fosse marchiato a fuoco all’interno delle mie stesse palpebre.


15 Settembre Sono stanco, debole. Mi sto ammalando di un male sconosciuto e remoto. Il quotidiano locale descrive quattro casi di persone morte inspiegabilmente; i sintomi combaciano. La febbre sale. Talvolta sono scosso da brividi talmente violenti che fatico a reggermi in piedi. Fuggo il sonno per ore, ormai, prima di cadere tra le braccia degli incubi più strani e malvagi. Ricordo con spaventosa lucidità quello che mi ha seviziato questa notte. Stavo in piedi di fronte ad un monolito ciclopico raffigurante forse qualche divinità oscura. I suoi occhi, cerulei e fermi, mi fissavano fino a trapassarmi. Allora sentii di nuovo quello strano suono. Provai dolore e caddi al suolo privo di forze. Mi svegliai ancora una volta esausto e completamente madido di sudore. La mattina, al momento della toeletta, mi sono accorto di avere uno strano bozzo scuro sotto il gomito; si direbbe un ematoma. Subito ho creduto di aver sbattuto nel sonno, anche se in seguito ho razionalmente convenuto che non poteva essere quella la causa. Ore 16 e 15 minuti Il bozzo sul gomito si è fatto più gonfio e più nero. Lo sento pulsare. C’è qualcosa che si muove, lì sotto. Non intendo lasciargli fare quello che vuole. Mi appresto a procedere con una biopsia. Ore 18 e 3 minuti Come pensavo! Sono di fronte a qualcosa che va ben oltre incubi e malattie, e che pure li comprende entrambi. Qualcosa di malvagio ed estremamente potente. Ho proceduto con l’analisi dell’ematoma: un primo prelievo di tessuto non ha rivelato anomalie; tuttavia, una volta incisa la massa oscura ne è fuoriuscito un piccolo quantitativo di liquido violaceo. Inizialmente pensavo a sangue misto a pus; per un attimo ho voluto provare a convincermi che quell’ascesso fosse qualcosa di inspiegabilmente normale. Nuovamente le analisi mi hanno smentito. Escludo si tratti di sangue o di qualsiasi altro fluido conosciuto. A questo punto ho deciso di andare oltre e praticare un taglio più lungo e profondo. Non appena il bisturi è sprofondato nella massa ho sentito di nuovo quel suono; ho perso l’equilibrio, e poco è mancato che recidessi, cadendo, i vasi sanguigni. Il risultato di questa esplorazione è la prova che presto morirò. All’interno dell’oscura metastasi era allocata una piccola formazione ossea che, ripulita, mostra la forma di un manufatto antropomorfo, un idolo dalla fattura grezza. Il volto, dettagliato con cura, mi riportò subito alla mente il monolito del mio ultimo incubo: gli occhi cerulei, la bocca diritta, severa. Se solo potessi esaminare le altre vittime… I loro corpi porteranno questo segreto? Ormai è troppo tardi. Mentre scrivo, con il gomito che ancora gocciola liquido sui miei abiti, e il sole cala, sorge in me la consapevolezza che questa sarà la mia ultima notte. Spero che qualcuno, leggendo queste pagine, possa arrivare a capo di questo mistero orr...

Passi al piano superiore! Lenti, furtivi. Chiunque sia è qui per me. Proverò a resistere, ma sembrano tanti e io sono ormai troppo debole.

È la fine! Devo nascondere gli appunti!

L’idolo! L’idolo sulla scrivania! La sua bocca stravolta ride malvagia. Ha vinto.

Arrivano

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RIDERE IN PUBBLICO Testo e scatto di Andrea Tinterri

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Come se l’eccitazione fosse passata. L’adrenalina, dopo la corda spezzata per l’equilibrista; l’altezza a terra: un tempo dopo la paura. Accettarla per sperare di tirare le labbra in una ghignata e festeggiare un errore; un errore gigantesco, di quelli che si subiscono una volta nella vita, immaginati apposta per festeggiare al loro arrivo, alla loro paura sciocca, alle menti che ti aiutano ad avere paura per farti ridere. «Amerò il giorno 21, l’arrivo dell’attesa, amerò il giorno 21 con i risultati allegati, mi sveglierò il giorno 21 dimenticandomi dov’è la cintura perché il giorno 21 avrò paura. Amerò il giorno 21 perché sarò eccitato e vorrò ridere dopo, mi tratterrò dalle risa per fare il sostenuto, per ricordare a tutti che io lo sapevo che non era nulla; uno di quegli sbagli che si subiscono una volta nella vita per farsi una ghignata di quelle grosse. Amerò il 21 se sarà indulgente con me.» Come se nulla fosse nelle cose; la carne obesa, avara, oggetti anoressici che si cibano di polveri dietetiche. Un tempo dopo la paura schiacciato sotto grandine che spacca i bicchieri in vetro robusto, adatti per le granite condite di solo ghiaccio. Appiattito per il resto dei giorni, appoggiato alla ringhiera del salotto di casa mia. «Mi godrò il risultato ad altezze mai viste, né da alpinisti, né da aerei, né da nessun altro. Con le mie scarpe volanti, con le mie mani pennute; alle dieci del giorno 21 sarò altissimo; né astronauti, né chiromanti, nemmeno geni delle teorie perfette mi disturberanno. Nel mio carro di paura eccitata, nella continua lapidazione che dovrà smettere prima di vedermi morto: il 21 voglio ridere da farmi male, ma da solo e fare l’indifferente con quelli che conosco, ma gli offrirò la mia casa dopo cena. Voglio dirgli che io lo sapevo già che era uno sbaglio. Ma la lapidazione non gliela racconto.» La paura interessa quella fase in cui se ti andrà bene sarai più sorridente di prima, l’attesa mista, il lento taglio della gola, il calcolo statistico; quando sei arrogante e ti siedi e guardi le mille cose che hai da fare in un calendario, in una busta, scritte sul tavolo, ma basta solo un gesto col ginocchio sbagliato o con la spalla o con un polso che ti casca la faccia, il tuo giochetto diventa timido e sbatti contro qualunque cosa e non hai più nulla da fare, da scrivere: non hai più paura perché tutto si è normalizzato e hai gli esiti scritti su una carta. «Arrivò quando ero altissimo, il giorno ventuno alle dieci ero dove non potete nemmeno immaginare; non mi avreste visto mai: ho conosciuto il mio primo genitore, la mia prima donna e il mio primo uomo; lei feconda, coi seni abbondanti. Con le vene blu, mappe essenziali, ampie traiettorie e larghe carreggiate. Eleganti al giorno del primo matrimonio in mezzo alla piazza, svestiti e trasparenti. Terre cotte propiziatorie, gravide di fortuna. Grandinavano chicchi esagerati, acquistavano velocità nella caduta spezzandosi a terra lasciando un tappeto buono per le granite, ghiaccio alla menta, ghiaccio all’arancio, al limone, all’amarena; chicchi grandi come uova, senza peso per il corpo, indolore all’urto, senza far male: ghiaccio al gusto di stagione. «Mi bastò una carta, la fine della lapidazione. Mi abbassai, avevo dei seni asciutti di fronte, resi casti dall’età, ero stato altissimo il 21; mi abbassai per leggere o fare finta di stare dietro alla voce alta e competente davanti a me, ma di seni piccoli e scarni. Mi abbassai perché non potevo più avere paura. Riderò con le persone che conosco, riderò a gola aperta per consolarli, per dirgli che lo sapevo che non era un trucco, che era tutto vero; confermato. La paura interessa quella fase in cui non sai ancora perché dovrai aprire la bocca all’infinito e cercare l’acuto e ridere in apnea.»


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Testo di Walter Malenotti Scatto di Matteo Varsi Quella della leggerezza è una sensazione che mi pervade già da qualche giorno. Da quando ho preso la decisione, e da quando l’ho presa mi martella la mente una vecchia canzone, che mi sembra di non essere tanto normale. Esaurimento, ha detto il mio medico. Lo so, gli ho risposto io, è genetica, nella mia famiglia quasi tutti soffriamo da generazioni d’esaurimento. Ma guarda che strano, mi viene da pensare, proprio adesso che ho preso la decisione mi vengono a chiamare. La segretaria, dal telefono del reparto. È desiderato nell’ufficio del dottor Mengheli, mi ha detto. Mi viene da ridere. E rido, una risata nervosa che mi dà quasi i crampi alla pancia, rido al ritmo di una locomotiva lanciata a tutto vapore che si lascia indietro tutte le distanze. Passo davanti a un macchinario sormontato da due cilindri mastodontici che girano, mostruosi, l’uno sull’altro. Provo un brivido intenso, un misto d’angoscia e rabbia. Una rabbia antica. Appena ieri un giovane operaio ha subito un orrendo incidente proprio lavorando a quella macchina. Quei dannati cilindri si sono tirati dentro il braccio del ragazzo fino alla spalla. Ora, lo stesso macchinario continua a girare indisturbato, come prima, senza dispositivi di sicurezza, senza pietà. Anch’io sto dimenticando la mia pietà, sto scordando la mia bontà. La canzone nella mia testa picchia con sempre maggiore violenza, come una forza cieca. Esco dal capannone. Il piazzale divide i reparti dalla palazzina della direzione. Chissà perché, ma il fatto che mi abbiano fatto chiamare mi mette in agitazione. E dire che, in questo modo, mi facilitano solo le cose. Eppure loro, col fatto di mandarmi a chiamare, mi hanno fatto innervosire. È per questo, forse, che ho preso la decisione. Perché loro riescono sempre a metterti in agitazione e a farti innervosire. Loro. Adesso, però, non mi sento più tanto leggero. Ho le gambe pesantissime, di marmo, come le scale della palazzina che devo salire. Il mio zainetto è pesantissimo. Anche la mia coscienza. Ma la canzone è sempre lì nella mia testa, che pungola, che dà il ritmo. Allora tiro fuori di tasca il vecchio orologio con la catenella che era stato del mio bisnonno. Sbircio l’ora sul vetusto quadrante coi numeri romani. Lo ripongo in tasca e affronto le scale mordendo il marmo con muscoli d’acciaio. La canzone nella mia testa, intanto, si fa sempre più ossessiva e risveglia il mostro appisolato dentro di me, mandando via la paura prima che io riesca a pensare a ciò che succederà al di là della porta che ho di fronte. Busso. Avanti!, ringhia uno dall’altra parte. Entro e mi richiudo la porta alle spalle. Saluto in modo garbato: Buongiorno, gli dico, quando invece dovrei dirgli «Crepa, bastardo!». Buongiorno, replica lui, in tono vagamente minaccioso; poi, proseguendo, mi ordina: si segga!. Mi siedo, sistemando lo zainetto sotto la sedia. Lui mi fissa. Lei si è permesso di riferire al sindacato cose che non la riguardano, dice. Sì, rispondo io, è vero. Mi fa soggezione questo figlio di puttana, non lo posso nascondere, e se non fosse per la canzone che rimbalza dentro la mia testa al punto da sembrare cosa viva, mi sarei già prostrato ai suoi piedi a invocare pietà. Ma la canzone mi dice di non temere e di correre con lei incontro a quello che è il mio dovere. Lei può perdere il posto da un momento all’altro, mi dice, e il suo sindacato può anche andare a fare in culo! Sto zitto, non so cosa rispondere. Allora lui riprende la parola, sembra più suadente: Sa, Bresci, lei non mi piace per niente, però il suo lavoro lo sa fare bene, e se non fa la testa di cazzo e non si mette contro di noi, chissà non ci possa guadagnare qualcosa… Ho un’impennata d’orgoglio: Io voglio solo quello che mi spetta. Alzo la voce: Voi state andando contro la legge!, gli urlo in faccia. Tutti quegli incidenti… le macchine non hanno protezioni… ho detto tutto al sindacato, ora ve la vedrete con loro!, gli urlo sul muso. Lui si stravacca sullo schienale della poltrona emettendo un gemito compiaciuto simile al guaito di uno sciacallo. Apre un cassetto, estrae un foglio e comincia a leggere ad alta voce. Decanta i miei meriti, che mi sono distinto nella mia mansione, eccetera. Per questo, sono promosso a un livello di

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categoria superiore. Mi viene da vomitare, mentre mi porge il foglio in duplice copia e una stilografica. Ma prendo lo stesso la penna e autografo il documento. Allora il Dott. Mengheli ne stacca una copia e me la porge, come quando si fa un’elemosina controvoglia. Io prendo il foglio, lo piego con cura e lo ripongo nella tasca della camicia, mentre la canzone dentro alla mia cazzo di testa raggiunge l’intensità di una locomotiva in corsa lanciata a bomba contro non so cosa, o forse sì. L’ingiustizia. Allora posso andare?, gli domando. Certo!, grugnisce lui, e si ricordi bene quello che le ho detto, se non vuole saltare… Non ci penso nemmeno, rispondo io alzandomi. Grazie di tutto e… stia bene, gli dico, mentre mi volto e schizzo oltre la porta. Scendo le scale di marmo saltellando veloce. Senza il peso dello zainetto sono tornato leggero. La canzone si sprigiona finalmente dalla mia gola e cantando come un indemoniato tiro fuori il mio vecchio orologio con catenella. Ho più di tre minuti, prima che salti in aria la palazzina. Sollevo il coperchietto inferiore dell’orologio e il ritratto baffuto del bisnonno sembra farmi l’occhiolino.

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Testo di Raffaele Messinese Scatto di Cristina Mauri

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Nelle calme sere d’estate di molti anni fa, colonie di pipistrelli disegnavano sghembe ellissi a pochi metri dai fili della biancheria, come fossero stracci alla giostra del vento. Un palo elettrico, a pochi centimetri dal balcone di casa mia, intrecciava i suoi cavi a quelli della lampada stradale, sospesa sul lento passaggio di carri e biciclette, fino a portarli a un altro palo di legno a ridosso del lungo muretto dell’Orto. L’appezzamento di terreno che tutti nel quartiere chiamavano l’Orto, circondato da una barriera di vecchio tufo, era da quasi un secolo il feudo di tre sparute vecchiette, uniche inquiline della grande


casa padronale che si ergeva al centro di campi coltivati a verdura e ortaggi. A quanto si raccontava erano zitelle taciturne e abitudinarie, proprio come gli stormi di pipistrelli che albergavano sotto le grondaie della casa. Io le avevo sempre immaginate come streghe ingobbite e malvagie intente a scrutare le vite altrui dal filtro delle persiane arse dal sole. Così me le figuravo nel dormiveglia, mentre tiravo le coperte fin sotto il mento per sfuggire a qualsiasi alito freddo proveniente dalla soglia del balcone. Spesso, la sera, per scacciare i fantasmi di streghe e uomini neri, provavo più volte a concentrarmi sull’Ave Maria e sul Padre Nostro. Alla fine mi addormentavo. In una sera di fine ottobre niente riusciva a stornare la mente dallo strisciante senso di solitudine e paura che si frapponeva fra la veglia e il sonno, una sorta di impercettibile lampo tra le ciglia. Poi, d’improvviso, l’occhio si mosse per un impulso automatico e allora lo vidi… un calco di pece nella tenebra, un profilo mobile, tagliente… l’ombra di un incappucciato che si accucciava di scatto oltre la sponda del letto di fronte. «Mamma, mamma!», gridai spaventato, immobilizzato nel terrore. Dopo interminabili secondi, un livido triangolo di luce squarciò l’oscurità della mia stanza. «Che hai?», chiese mia madre. «Ho visto… un’ombra.» «Dove?», incalzò mia madre incredula. «Là… dietro il letto», balbettai, puntando con forza l’indice verso la parete opposta. «Un’ombra?», fece lei scettica. Accese la luce della stanza e si mise a frugare con cura sotto il letto. Niente. «Te lo sei sognato. Dormi tranquillo: qui non può entrare nessuno. E poi ci siamo noi. Buonanotte.» Perché mi lasciava sempre solo? Raggelai al freddo rivolo di una lacrima. Ripiombato nel buio assoluto, con sgomento pensai alla gola sguarnita, alla coperta ruvida e troppo corta. L’ombra mi avrebbe di sicuro attaccato lì e io, soffocando, sarei morto, senza scampo. Raggomitolato sotto le coperte, attesi l’alba e la prima luce. Pian piano, nella paralisi della paura, un’inquietante scoperta era emersa tra il brulicare dei pensieri. I miei occhi cercarono in fretta il codice di fori luminosi della serranda in direzione dell’Orto. Ora ne ero certo. Di lì era venuta l’ombra: dal paludoso buio dell’Orto, dove l’acuto stridere di civette scandiva le ore tenendo i sensi su una corda tesa. Mia madre vi aveva sempre letto presagi di morte… sì, c’era il mio nome, ora, sui manifesti listati a lutto: l’età prematura, il giorno del decesso… quale? Da qualunque angolo della bara mi sporgessi non riuscivo a leggerlo. Nell’Orto frusciavano stuoli di fantasmi. Non era solo vento. Creature notturne riunite in un macabro convegno. Per fortuna nonna Concetta aveva spuntato le corna e gli artigli a tutti i diavoli che portavo in corpo, gli stessi che mia madre diceva di aver rinvenuto in forma di vermi nelle mie feci. Mia nonna era brava a “togliere lo spavento” ai nipotini. Mentre pronunciava incomprensibili litanie e orazioni, tagliava l’aria con le forbici a pochi centimetri di distanza dal volto e dal petto, poi posava l’acre spicchio d’aglio sulla fronte, la gola, il petto, la pancia… Al mattino i miei occhi stanchi erano sudice lenti incollate ai vetri della finestra, dietro la quale, ben nascosto, restavo a osservare i vani gesti delle vecchie dentro i bozzoli di luce delle loro remote stanze. Spesso le imposte si spalancavano lentamente, in modo inatteso, come coperchi di sarcofagi, e un arto si protendeva brevemente nell’ombra indistinta del crepuscolo. Ogni giorno di più, sentivo di essere l’unico baluardo contro le oscure trame delle vecchie arpie. Sentivo che il nostro balcone era l’avamposto del mondo civile a pochi passi dalla tenuta del diavolo. Perché già un emissario delle zitelle diaboliche era arrivato, incappucciato, nella mia stanza per rapirmi o farmi schiavo dell’ombra… Solo una volta in tutti quegli anni mi parve di incrociare per strada lo sguardo di una delle megere. Mi parve mesto e greve, rivolto al selciato, come di chi abbia ormai il futuro alle spalle. Avevo undici anni. Erano già diversi mesi che la sentinella non piangeva più nel suo solitario avamposto sull’Orto. Qualche anno dopo, in una fredda mattina di ottobre, fui svegliato da un frastuono di massi e lamiere. Spiando dalle fessure della serranda, mi trovai a sgranare gli occhi incredulo, smarrito. Vidi l’Orto nudo, squassato, i bastioni di tufo ridotti a cumuli di detriti, il grembo nero della terra morso dalle ruspe, le ramose viscere rivoltate verso il cielo. Fu allora che la sentinella pianse, per l’ultima volta. Era fiera, adesso, ritta sull’avamposto del balcone. Alle sue spalle, la serranda alzata e la stanza inondata di nuova luce.

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Autodromo Testo di Enrico Elvis Crotti Illustrazione di Deco (Elisabetta Decontardi)

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Ogni volta che andavi in moto con lui, immaginavi di partire per un viaggio. Non importava dove, nella tua fantasia c’erano soltanto luoghi lontani. Sognavi da sempre di arrivare in Mesopotamia. Quel giorno, indossavi una maglia a maniche corte, non portavi il casco e c’era vento. Un vento umido e blando disturbato dal volo frenetico dei moscerini. Gli alberi, ai lati delle strade, sfilavano veloci, via dagli occhi. Le foglie odoravano ancora di linfa. Ti sorprendeva vederle, ormai ingiallite, staccarsi dai rami e cadere, trasportate dal vento. Alzando lo sguardo, potevi osservare il profilo degli alberi sparire dal cielo. Quell'azzurro offuscato ti ricordava i pomeriggi al mare, l’odore delle cabine, gli stecchi dei ghiaccioli sepolti nella sabbia. Una foglia ti sfiorò la testa. Se la maestra ti avesse chiesto il significato della parola «tempismo», le avresti raccontato di una foglia cadente e della vostra moto che sfrecciava nel bosco. Avresti cominciato proprio da quella foglia che, dopo averti sfiorato, sarebbe rotolata sul ciglio della strada, confondendosi con le altre. Che giorno era? Sabato, forse. Un sabato di fine Settembre. Del 1972. L’ultimo gran premio di Monza era stato vinto da Emerson Fittipaldi. Tuo padre decise di svoltare in un sentiero sterrato in direzione dell’autodromo. Guidava sicuro, sfiorando fusti di ortiche, il fango putrido delle pozzanghere; il manubrio della moto vibrava, le vene delle braccia gli solcavano la pelle. L’opaca luce del sole si stava spegnendo tra le ombre allungate degli alberi. Tronchi come sbarre, orizzontali, consecutivi. C’erano segni di fuochi spenti, pietre annerite, la terra impregnata di cenere, rami strappati dal legno vivo delle robinie, plastica per terra. Grosse corde erano annodate ai tronchi. Nessun luogo sembrava inviolato. La precisione ritmica e rumorosa del motore si esaurì nella polvere. La moto si fermò, senza motivo, in mezzo a una radura. Il motore sfiancato, il tubo di scappamento rovente. L’incanto luminoso e fioco che maculava la terra, penetrando le chiome dei platani, si confuse con le ombre. Nell’improvviso silenzio del bosco, potevi sentire il battito accelerato del tuo cuore, movimenti guardinghi di animali in fuga, la caduta delle foglie sulla terra. Dalle sagome delle tribune si scorgeva la pista, i pneumatici impilatati all’uscita della prima variante, i buchi scolpiti nei cartelloni pubblicitari. Gli squarci nella faesite scoprivano scheletri catramati di pece e filo spinato. La paura arrivò senza motivo. Casa vostra ti sembrava lontanissima. Cominciasti a correre in tondo, sfiorando tuo padre chino sulla moto. Rallentavi, quando ti mancava il fiato. Cercavi un rifugio per la notte. Pensavi a cosa avreste mangiato. Intorno c’erano orme di scarponi asciugate dal caldo, odore di animali in putrefazione, i frutti scuri del sambuco nella polvere. Le foglie cadevano come pioggia: fitte, volteggiando nell’aria. Spezzavano le tele di ragno. «Smettila di correre», ringhiò tuo padre. E tu. Ti fermasti col corpo fuori equilibrio. Sudato. Senza certezze. Lui aveva gli occhi pesti. Ti guardava duro. La paura aveva i contorni del bosco, la sagoma di tuo padre nella penombra, la sua voce temibile: rabbia trattenuta e bestemmie. Temevi punizioni divine. Una volta nell’aldilà non avrebbe avuto alcuna speranza. Niente paradiso, nessuna vita eterna. Per salvarlo intonasti una canzone imparata all’oratorio. Scacciavi la paura del buio, la sera che anticipava le tenebre. Invocasti Dio. Più di una canzone era una nenia dolorosa di parole dimenticate o mai imparate per bene. «Sta zitto, cazzo!», urlò ancora una volta.


Le sue mani minacciose promettevano percosse. Eri cresciuto temendolo. La sua violenza lievitava lentamente per poi esplodere improvvisa. Lo conoscevi bene. L’avevi visto arrabbiarsi con tua madre, spaccare coi piedi un modellino della Victory che ti stava costruendo da un anno. L’avevi visto fare a botte con un uomo, al bar. Chiuso, in guardia destra: le ginocchia piegate. Avevi visto come era ridotto il suo rivale dopo due pugni. Avevi sentito la moglie urlare, implorarlo di smettere, buttarsi nelle braccia di tuo padre, scivolare a terra: le calze rotte. Piangeva trattenendo il respiro. Tuo padre, la spinse via: voleva chiudere il conto. Chissà se durante la guerra aveva avuto il coraggio di uccidere... La moto era ancora ferma sul cavalletto. I tubi di scarico cromati deformavano il riflesso degli alberi. Il motore sferragliava per qualche secondo, poi lasciava spazio a brevi ticchettii asincroni. Lui non si arrendeva. Armeggiava con uno straccio. Ti scrutava: occhi scuri e liquidi, piccole vene intorno all’iride. Per terra, due mozziconi fumanti. «La candela», grugniva, «deve essere questa maledetta candela». Serrava i pugni, aspirava rabbioso l’ennesima sigaretta. Immaginavi il suo destino in una nuvola grigia che si dileguava, avvolgendogli la testa. La moto ripartì. «Avanti: monta, fifone», disse senza guardarti. Il tuo cuore smise di battere forte. Sapevi d’averlo deluso. Le sue braccia brillavano di sudore. Tu odoravi di legna bruciata, animali morti, la maglia macchiata di nero. Avevi le scarpe imbrattate di cenere, gli occhi lucidi. Tremavi ancora. L’autodromo era immerso nel buio. I confini del mondo ti apparivano sbiaditi e ostili. Stavate tornando a casa, ma la vergogna e la paura non scomparvero. Tuo padre aveva scelto di crescerti senza consolarti. Tu restavi aggrappato a lui, le braccia strette intorno ai suoi fianchi, la faccia contro la schiena, il cielo che oscurava. Piangevi come una ragazzina. Respiravi a scatti, allontanandoti dal suo corpo. Cercavi di reprimere i singhiozzi. Lui ti spiava dallo specchietto, guardava le lacrime scivolarti via dagli occhi, senza dirti una parola. Nessuna carezza, mai un abbraccio. Le sue mani rimasero salde sul manubrio per tutto il tragitto, fino a casa.

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APOCALISSE Testo di Paolo Tanzi Scatto di Marco Fortunato

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Potevano essere le cinque del pomeriggio di un qualunque giorno d’estate a Rimini. Gianni se ne stava sdraiato sul lettino ad ascoltare una cassetta di Bruce Springsteen quando, improvvisamente, si accorse che l’acqua del mare era arrivata fino alla prima fila degli ombrelloni. Si guardò intorno: i vicini continuavano impassibili a leggere il giornale, poco più in là i nipotini dei signori Brunelli litigavano come sempre per una biglia o per una paletta. Tutto tranquillo, il giorno d’estate girava pigro come una girandola senza vento, eppure… eppure qualcuno doveva per forza essersi accorto che l’acqua avanzava sempre di più verso il lungomare. No, nessuna reazione. Gianni guardò la madre con sconcerto, si alzò e le disse: «Secondo me è meglio andare». La madre, docile, obbedì ripiegando i teli da mare, prendendo la borsa da spiaggia e calzando gli zoccoli. Risalirono la spiaggia salutando i conoscenti come ogni giorno. Tutto normale. Quando furono di fronte al capanno del bagnino, Gianni si voltò d’istinto: l’acqua, in maniera pigra ma costante, era già arrivata all’ottava fila degli ombrelloni, ma nessuno sembrava preoccupato. Sentiva di dover fare qualcosa, ma aveva la netta sensazione che tutti gli avrebbero riso in faccia, lo avrebbero preso per i fondelli, come al solito, per la sua spiccata immaginazione o, peggio, gli avrebbero ricordato le troppe birre bevute la sera prima. Vide il suo amico Alberto, seduto al tavolino del bar, tutto intento a tacchinare una procace moracciona conosciuta qualche sera prima in discoteca. Si avvicinò. La moracciona lo considerò con sufficienza prima di concedergli uno strascicato ciao. Alberto, invece, lo guardò con l’occhio sorridentemente torvo del genere ma non hai altro da fare che venire qui a scassare il cazzo mentre sto tentando di convincere questa strafiga a smollarmela stasera? Gianni ignorò quello sguardo e gli disse: «Al, qui è meglio telare, sta per succedere qualcosa di brutto». Alberto lo guardò con il solito sorriso torvo. «Guarda che non scherzo», aggiunse Gianni, mentre la moracciona iniziava a dare segni di impazienza. Alberto si alzò, aggirò il tavolino, lo prese sotto braccio e lo condusse un paio di metri più lontano, poi gli disse in un orecchio: «Sai che cosa succederà, invece? Che stasera io mi porto questa in spiaggia e, se magari la smetti di rompermi il cazzo, questa c’ha anche un’amica e… be', ti farebbe così schifo farti una bella scopata pure tu?» Gianni scosse la testa, gli batté una mano sulla spalla e raggiunse la madre che lo stava aspettando di fianco alle docce. Salirono le scalette che portavano sul lungomare e di nuovo Gianni ebbe l’istinto di voltarsi indietro. Adesso la spiaggia non esisteva più: lettini, ombrelloni, walkman, giocatori di beachvolley, telefonini, bambini che costruivano castelli di sabbia, le quattro strafighe che prendevano il sole in topless a riva, i signori Brunelli con i loro nipotini, Alberto e la moracciona. Niente, non c’era più niente, solo l’acqua del mare che però iniziava a gonfiarsi e a produrre mostruosi gorghi neri. Gianni guardava incuriosito la scena dalla balaustra del lungomare. Si stupì per l’assenza totale di rumore: eppure lì c’erano migliaia di persone che stavano annegando, che stavano morendo… no, nessun grido, nessuna richiesta d’aiuto, nessun rumore, niente. Poi venne buio e Gianni ebbe paura. Allungò d’istinto una mano e trovò quella della madre. Lei lo guardò con gli stessi occhi amorevoli di quando era bambino e gli disse: «Adesso hai capito, vero?» Gianni la guardò e gli venne in mente solo una parola, l’unica che riuscì a lasciare le sue corde vocali: «L’Apocalisse». La madre annuì e, tenendolo per mano, lo rassicurò: «Ma noi ci salveremo». Attraversarono il lungomare e la scena cambiò. Adesso era panico allo stato puro con macchine che viaggiavano a tutta velocità, scooter con in sella anche cinque persone, gente che correva a piedi, gente che cadeva, gente calpestata dalla folla, bambini fermi in lacrime che cercavano la mamma. Gianni e la madre arrivarono in albergo, un signore alto, robusto, con i baffi sorrise loro e li fece entrare per primi. «Gentile, quel signore», commentò la madre, «ed è anche un bell’uomo. Devo averlo già visto da qualche parte». «Per forza», ribatté Gianni, «è tuo marito. È il mio papà!» «È il mio papà…» ripeté Gianni svegliandosi. Si ritrovò seduto sul letto con gli occhi sgranati. L’abatjour prontamente accesa gli rivelò gli occhi color carta da zucchero di Susanna, assonnati ma sempre bellissimi. «Si può sapere che cosa stavi sognando?», gli chiese lei in uno sbadiglio. Gianni la guardò, poi le disse con un sorriso da psicopatico: «L’Apocalisse». «Va mo lá, Apocalisse», commentò lei, voltandosi dall’altra parte «tutte le volte che esci col Bigio è la stessa storia. Spero che almeno la birra fosse buona». E spense l’abat-jour.

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«La sua bacchetta

magica

non sbaglia mai…»

Rubrica a cura di Enrico Cantino Scatto di Marina Rossi Questa sembrerebbe una favola; eppure è una storia. Carlo Collodi, I racconti delle fate Tutte le cose vere somigliano a favole, tanto più che al nostro tempo le favole fanno l’impossibile per somigliare alla verità. Honoré De Balzac, Il cugino Pons Di solito si associa il genere del meraviglioso a quello del racconto di fate. In realtà il racconto di fate non è che una delle varietà del meraviglioso e gli avvenimenti soprannaturali non vi destano alcuna sorpresa […]. Quel che distingue il racconto di fate è un certo modo di scrivere, non lo statuto del soprannaturale. Tzvetan Todorov, La letteratura fantastica

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1. Lui se n’è andato. Lei è rimasta e non l’ha presa benissimo. Ha il cuore a brandelli. Non cerca pietà, né soccorso. Per lo meno, non dagli ipocriti che sostengono di volerla aiutare: «Pensano di dovermi guarire da una ferita invisibile. La verità è che vorrebbero guardarla sanguinare in superficie per poterla disinfettare e nascondere. Per potersi sentire guaritori. Bastardi. Tutti.» L’istinto di autoconservazione ha spesso strani effetti collaterali. Lei regredisce. Ridiventa bambina («sono molto più piccola di quanto riuscissi a ricordare»). Riappaiono le vecchie paure: «Sola, in una notte già vissuta, per la prima volta capisco che cosa significhi realmente temere il buio.» C’è un legame tra abbandono e regressione? Forse sì. Forse no. È una di quelle domande che non servono. Però andava fatta. Per liquidarla. E impedire che foste voi a porla. La “bambina” ha paura. Ma lei stessa dichiara: «non sarò mai forte quanto lo sono ora. Non avrò mai la stessa assoluta fiducia nei sogni e non crederò più così tanto nella favola che si racconta ai bambini, nell’… e-vissero-per-sempre-felici-e-contenti. Non sarò mai più sicura di così. Mai, tanto coraggiosa.» Tornare indietro. Per capire e chiedere aiuto. Magari salvarsi. Se ancora non ha deciso di farla finita inghiottendo Dio solo sa cosa, di certo ha preso in seria considerazione l’eventualità. Ci sono delle «pillole sul comodino. Quelle pillole che mi sembravano l’unica via d’uscita dalla solitudine della mia angoscia. L’ultimo pasto. Il peccato che, grazie alla mia fata, forse, riuscirò a non commettere.» 2. Tale è «racconto», «storia». Non ci piove. Fairy offre due opzioni. Come sostantivo vuol dire «fata». Come aggettivo sta per: «delle fate»; oppure «leggiadro», «delicato».

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Io simpatizzo per la «fata», creatura magica, «essere favoloso della mitologia popolare che ha forma di donna e possiede poteri magici […]. In genere le f. sono pronte a intervenire nei casi umani in favore dei perseguitati o degli innocenti, riparano torti, vendicano offese […]». Parole banali, ma autorevoli. Potete fidarvi. La fonte è il Dizionario Enciclopedico Italiano della Treccani. Una garanzia. Come certe cose della tivù. Attenti, però. Questo non è un racconto delicato. Solo l’apparenza è leggiadra. Disperazione, crudeltà, angoscia: questo troviamo. Insaporite da un velo di sottile sarcasmo. La fata, comunque, c’è. Bizzarra. Fuori degli schemi. Cominciando dal nome: Morag. Ha un garbo tutto suo: «non vola, ma scivola su pattini a rotelle, raccogliendo tutto quello che trova. A volte sembra una bambola inglese; altre volte non è che luce, eppure è sempre uguale a se stessa.» La sua voce ha un potere terapeutico: «fa sparire il dolore». La «sua risata», invece, «fa sparire la tristezza.» Conosce la protagonista, e le parla con la confidenza che si riserva a «una vecchia amica», oppure a «una sorella.» È quello che dovrebbe essere una creatura magica. Una guida. Un punto di riferimento per chi non ne ha più. «“Sono io che ti ho chiamato, vero? Ti ho invocato perché potessi salvarmi.” “Hai fatto molto di più: mi hai creata. Perché ti ricordassi com’eri, quando sapevi combattere ciò che più ti spaventa”.» La rigenerazione è in atto. 3. L’aggettivo «strano» viene ripetuto tre volte, nei primi sei capoversi. Una parola eccedente, che suona insensata. Nel racconto fantastico (o meraviglioso) tutto è “strano”. Deve esserlo. Nessuno si stupisce che animali e oggetti parlino o facciano cose che in teoria – ma solo in teoria – non dovrebbero fare. La stranezza è un pilastro portante della favola. E lei non dovrebbe esserne consapevole. O no?… Il punto è che «la nostra fantasia può diventare la più pericolosa delle armi.» Mischia, abbina, accosta. Le scarpette rosse accanto a Lady Oscar, il Mago di Oz appresso alla rosa (fiore magico quant’altri mai), Dickens vicino alle piume di corvo, un pugno fatato presso un dito di pietra. È un carnevale. Una baraonda di suggestioni che si sovrappongono, tradizioni che s’incrociano. Numeri magici (il buon vecchio tre), spine, briciole. Il grembiule di Morag sembra davvero l’inquietante gonnellino di Eta Beta… Il sentiero è tracciato. E lei lo percorre: è «forte il desiderio di tornare a casa al più presto.» La lezione è stata appresa. La “bambina” ha raggiunto il satori. Può tornare a casa. Ora è Illuminata. In fondo era semplice: «le tue paure ti accompagneranno sempre, ma se saprai ascoltarle come fossero soltanto consigli, niente più che piccoli suggerimenti, allora ci sarà speranza. Ci sarà un-altro-modo, ci sarà la forza per andare avanti.» Le fate moderne masticano lo Zen. Chi l’avrebbe mai detto… A questo punto, le pillole non servono più. Magari non ci sono mai state. Alice precipita dall’oblò. Ma è tranquilla. Non si farà male. La strega è solo fantasia, con “Magolamagamagia”...

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BIOGRAFIE PENNA Enrico Cantino è arrivato ai 42. Ha laurea in Materie Letterarie. Vive e lavora (part-time) a Parma. Stravede per i gatti, i cartoni animati e la letteratura. Scrive racconti dal 1984 (più o meno) e ogni tanto riesce pure a pubblicarne qualcuno. Nel 2006 alcuni suoi racconti sono stati pubblicati nell’antologia letteraria I Lunatici edita da MUP Editore. Enrico Elvis Crotti è un informatico e vive a Subiate (MI). Da qualche anno ha scoperto che ci sono storie che meritano di essere raccontate, così ha cominciato a scrivere. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati in antologie quali Euforie, Onde lunghe e Lama e trama. Nel 2006 alcuni suoi racconti sono stati pubblicati nell’antologia letteraria I Lunatici edita da MUP Editore. Fabrizio Fabbricatore è nato il 10 agosto del 1985 a Nocera Inferiore, Salerno. Ha conseguito la maturità scientifica e attualmente studia Lettere e Filosofia all’Università Federico II di Napoli. Mattia Filippini studia Lettere all’università di Bologna. Per autodefinirsi, gli piace utilizzare una frase di Paolo Nori: «Io sono quello che non ce la faccio». È alle prese con la pubblicazione del suo primo romanzo Fabemolle. Il più del tempo dorme. Ha già pubblicato alcuni racconti sulla “Luna di Traverso” e su “Inchiostro”. Carlotta Fiore ha 24 anni. Vive a Parma e sogna, non troppo in segreto, di scrivere racconti e recitare. Ha fatto parte di varie compagnie teatrali mettendo in scena spettacoli nei teatri di Parma, Reggio, Milano e Pavia. Coltiva un pezzetto d’America sul balcone del suo appartamento. Alfredo Goffredi nasce nel 1982 a Londra, la respira per qualche mese e subito viene trapiantato a Piacenza, dove vive tuttora. A un passo dalla fine degli studi, scrive soprattutto per diletto. Ama i gatti e il tè, l’Irlanda e il Giappone, i film di Takeshi Kitano e un po’ di altre cose. Venera Neil Gaiman, Alan Moore e Grant Morrison, Jonathan Coe, Irvine Welsh e Douglas Coupland. Contrariamente a quanto si possa pensare, non ha mai letto Edgar Allan Poe. Walter Malenotti è nato nel 1966, nel mese di giugno, come Mike Tyson. Però è molto meno aggressivo. Non è un letterato: lavora in fabbrica, e ha cominciato a scrivere da pochi anni. Proprio all’inizio, nel 2001, ha avuto la soddisfazione di vincere un concorso indetto dal sito www.bol. com (La staffetta degli scrittori), scrivendo la parte finale di un racconto a più mani con Javier Marìas, Niccolò Ammaniti e Marco Sommariva. È presente con racconti su diverse antologie e ogni tanto pubblica qualche storia sulla rivista letteraria milanese "PaginaUno". Raffaele Messinese è nato il 28 ottobre 1960 a Barletta. Laureato in Lingue, ha avuto esperienze di animazione culturale tra il 1980 e il 1984. Attualmente è docente di lingua inglese presso un ITIS di Catania. Ama le fiabe, la fantascienza, la grafica e le nuove tecnologie. È stato finalista in vari concorsi di poesia e nel 1994 ha pubblicato il libro di poesia Oltre le mani (Cultura Duemila Editrice, Ragusa). Nel 1995 ha ricevuto una menzione d’onore al Premio di Poesia Città di Ceprano per una silloge di poesie inedite. Nel 1997 ha ottenuto il 2° Premio per opere edite al Premio “Chiesetta del Monasterolo”, Brembio. Nel 2000 ha vinto il concorso letterario “Raccontami una fiaba” indetto da C.G.D. “G. Rodari”, Romano Canavese, consistente nella pubblicazione della fiaba Aristea e il giardino del drago. Ha pubblicato diversi racconti sulla rivista “Punto di Vista” e varie poesie sulla rivista “Poeti e Poesia”. Monique Pistolato è nata in un cantiere alla periferia di Parigi tra francesi, italiani, spagnoli, greci e turchi ma le lingue per lei restano un mistero. L’unica che pratica con destrezza è il veneziano, parlata degli affetti. Su una Simca pastello ha affrontato diversi traslochi ascoltando le storie che gli raccontava suo padre: Nino e Ghita, Pierin Pierone e le esperienze di un ragazzino emigrato uscito dalla guerra… Nella pagella di quinta elementare, che allarmò i suoi genitori, viene marchiata con un giudizio premonitore: «la bambina nei temi in classe esprime un eccesso di fantasia». Avrebbe potuto essere una ragazza delle banlieues, o un’incantatrice di monelli adolescenti, invece quell’eccesso – nel tempo – ha trovato una forma: il racconto. Per lei ogni storia inizia da un incontro. Così dal 1997, passando tra premi, riviste e antologie, ha inanellato tre raccolte. BUM BUM (Edizioni La meridiana 2004); Un’altra stanza in laguna (Ibis, 2005); Un tempo necessario (Edizioni La meridiana, 2007). Nel 2006 alcuni suoi racconti sono stati pubblicati nell’antologia letteraria I Lunatici edita da MUP Editore. Ivano Porpora è nato il 12 marzo del 1976 a Viadana, in provincia di Mantova. Ha cominciato a disegnare a 6 anni, poi di nuovo a 15, e a scrivere a 17, senza interrompersi mai. Ha vissuto due alluvioni e diversi periodi di Sole, un anno a Siena, quattro a Bologna, tanti nel mantovano.

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Federica Soprani è nata nel 1973 a Parma e ha scoperto fin da bambina che scrivere le era necessario quanto respirare. Necessità che non sempre riesce a coniugare col suo lavoro presso uno studio grafico e con la gestione dei due cani e altrettanti gatti con cui convive pacificamente. Si è laureata in lettere con una tesi dal titolo La figura del Vampiro nel teatro tra ‘800 e ‘900. Amante del teatro e del gioco di ruolo che vive come legittimazioni della propria schizofrenia, ha pubblicato racconti e articoli su riviste e su web, e cerca da anni di scrivere un romanzo che abbia un inizio e una fine. Il suo sito web è www.lavilladicauchemar.it Cristina Spelta è nata il 26 agosto 1968 a Piacenza dove risiede. Lavora come impiegata e da diversi anni si occupa di attività teatrali per adulti e bambini organizzando corsi e laboratori. Le capita di scrivere racconti e partecipare a concorsi letterari. Paolo Tanzi è nato a Parma nel 1970. Ama i romanzi noir, la buona cucina e il buon vino. Nel 2006 ha pubblicato il suo primo romanzo Soledombra (Ed. Allori). Il suo motto è «non fare oggi quello che puoi fare domani». Nel 2006 alcuni suoi racconti sono stati pubblicati nell’antologia letteraria I Lunatici edita da MUP Editore. PENNA & CAMERA Andrea Tinterri è nato nel 1985 a Parma. Attualmente vive a Bianconese, piccolo paese della provincia, e frequenta il secondo anno di Lettere Moderne all’Università di Parma. Ha pubblicato un racconto sulla rivista letteraria "La Luna di Traverso" e ha collaborato al mensile Parma Quartieri. È interessato al mondo dell’arte, spesso cerca una produzione visiva, trovando nella pagina un’immagine da decifrare. CAMERA Alessandra Carloni è nata nel 1984 a Roma. È iscritta all’Accademia Di Belle Arti di Roma, sezione decorazioni. Ha partecipato a numerose mostre: Collettiva Il linguaggio della decorazione (2006), I linguaggi della decorazione personale presso il Bastione di Sant’Anna a Moldolfo (2006 PU), Visibile e Invisibile collettiva a San Benedetto Po (2006 MN), Linoelumgrafie collettiva di incisioni a Formello (2006 RM). Inoltre ha partecipato


a svariati concorsi: Premio delle Arti per il progetto “Obelisco di Axum” (2005), Camera Picta – Dipingere il Cielo (2006), selezione di fotografie per la rivista “La Luna di Traverso” (2007) e il concorso Cartoline d’Italia (2007, Torre Canadese). Gianfranco De Simone vive a Vallo Scalo (SA). Attualmente sta effettuando col mezzo fotografico una ricerca “astratta pura”, ossia senza l’ausilio di tecniche digitali. L’autore sta adottando tecniche creative facendo utilizzo di materiali di uso comune (carta, plastica, nastro adesivo) e materiali di scarto da “scartocciamento” di confezioni. Questi oggetti, usati e gestiti con luci appropriate, donano un risultato estetico di particolare effetto. Marco Fortunato è nato a Busto Arsizio nel 1975. Per lui viaggiare è un modo per imparare a vivere insieme agli altri. Viaggiatore incallito, prima per lavoro, poi per istinto, compra la sua prima Reflex a La Paz, Bolivia nel 2004. È autodidatta, legge e scatta; frequenta un corso presso il Forma di Milano per imparare di più. Gli piace creare una relazione tra le sue foto e lo spettatore che si fa guidare al limite delle ovvietà riprese. Ama fotografare in bianco e nero; attualmente preferisce usare una Yashica a medio formato. Alberto Magrin è nato nel 1970 a Rapallo. Ha ricevuto il premio Libertas per l’arte visiva e la letteratura dall’ Onorevole Ferri, Membro del Parlamento Europeo presso l’ Accademia Italiana “Gli Etruschi” e ha collaborato a Torino alla creazione dell’ Associazione Scientifica Gustavo Adolfo Rol. Partecipa alla fondazione dell’Associazione Culturale d’Arte Digitale “Onda”. Gli viene conferito nel 2007 il Premio Internazionale di Letteratura e Poesia “Nuove Lettere” dall’Istituto Italiano di Cultura di Napoli. Le sue opere sono attualmente presenti nelle collezioni permanenti più importanti al mondo: The British Museum London, Museo Nacional del Prado Madrid, RijKsmuseum Amsterdam, Carnegie Museum of Art Pittsburgh, Stiftung Museum Kunst Palast Dusseldorf, Staatliche Kunstsammlungen Dresden, Musèe des Beaux Arts de Lyon, Galleria Civica di Arte Contemporanea Trento, The State Hermitage Museum St.Petersburg, etc. Vive e lavora tra Rapallo, Godiasco e S.Maria Coghinas. Cristina Mauri è nata nel 1986 a Lecco e vive a Bellagio, in provincia di Como. Si è diplomata al liceo linguistico”G.Bertacchi” di Lecco e attualmente frequenta il terzo anno accademico di Graphic Design all’ISGMD, Istituto Superiore Grafica Moda Design, di Lecco. Da circa un anno e mezzo si è avvicinata alla fotografia, materia che studia all’accademia, e ha iniziato a sviluppare con entusiasmo questa passione che l’ha portata a partecipare a diversi concorsi. Marina Rossi è nata nel 1969 a Parma. Ha conseguito la maturità d’Arte Applicata presso l’Istituto d’Arte Toschi di Parma, nella sezione di Arti Grafiche. Si è laureata in Lettere con indirizzo Storico Artistico discutendo una tesi in Storia del Cinema sul costumista Gino Sensani. Ha lavorato come grafico e attualmente è dipendente della Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Parma e Piacenza. Flavia Tronti è iscritta alla facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Roma 3. Ha partecipato a numerosi concorsi e mostre. Nel 1997 ha partecipato alla mostra Enzimi promossa dal comune di Roma, nel 1998 ha partecipato al Premio Fidia Individuale nell'ambito delle celebrazioni per i 50 anni della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, nel 2000 ha partecipato al progetto Continuità della forma, promosso dal Liceo Artistico di Roma e dalla Galleria Borghese. Nel 2007 ha partecipato alla personale Mondo Giovane a Civita Castellana, e al concorso fotografico Lo sguardo sulla città: Roma dal 1870 a oggi, indetto dal Croma in collaborazione con l'Ufficio Studenti dell'Università degli Studi di Roma 3. A Marzo 2007 ha partecipato al concorso Angoli nella Memoria, indetto dalla rivista "Firenze Informa" e nel Giugno 2007 alla mostra collettiva Altri Sguardi a Civita Castellana. Matteo Varsi nasce nel 1970 a Levanto. Si laurea in Lingue e Letterature Straniere Moderne presso l’Università di Genova. Parallelamente sviluppa la sua passione per la fotografia come forma artistica. Collabora con banche immagine come Photonica e BoomerangMedia. Espone per la prima volta a Levanto, poi a Milano nel 2001 all’interno della kermesse “La Biblioteca in giardino”. Sempre nel 2001 propone la personale “Itinera” a Villa Litta (Affori). L’anno successivo, nell’ambito del concorso “Fotoesordio”, gli viene allestita la personale dedicata ai cinque sensi presso lo spazio Contemporaneo-Temporaneo alla stazione di Roma Termini. Nel 2003 seguono altri allestimenti di “Itinera” prima a Madrid poi a Barcellona in occasione dell’evento “Artexpò”. Lo stesso anno gli viene allestita una personale all’interno del Festival Off (“Foto e Photo”) a Cesano Maderno. Sempre nel 2003 vince la borsa di studio per accedere all’ultimo anno dell’ IIF (Istituto Italiano di Fotografia) a Milano, dove si diploma nel 2004. Nell’ultimo anno ha partecipato al Festival Internazionale di Fotografia a Roma. Ha ottenuto il secondo premio al concorso internazionale di “Arti Visive” ad Albissola Marina e ha partecipato all’asta fotografica “Scatti per bene” presso Sotheby’s a Milano. Una sua fotografia appare nell’antologia I Lunatici (MUP editore 2006) MATITA Ilaria Arpa nasce nel lontano e nevoso Febbraio del 1973. Dimostra fin da piccolissima una spiccata indole artistica e i genitori, per evitare di farle imbrattare i muri di casa, svaligiano cartolerie e negozi di belle arti per rifornirla di album e blocchi da disegno (si calcola che un quarto delle foreste svedesi siano state abbattute per far fronte alle esigenze della piccola artista). La strage silenziosa di carta, penne, inchiostri, pastelli e pennini da disegno continua alle superiori dove frequenta con successo l’Istituto d’Arte cittadino. Alla fine del regolare corso di studio, non sazia e non doma, si iscrive al corso di Conservazione dei Beni culturali, riuscendo a terminare anche questa immane missione dopo un numero ragionevole di anni (molti dei quali trascorsi lavorando come grafica pubblicitaria). Artista per vocazione come ama definirsi, scrittrice discontinua, grafica da studio, casalinga (spesso) disperata, ha intrapreso da poco oltre alle via tradizionale della pittura, quella della creazione digitale. Laura Bernardi è nata nel 1982 a Parma, dove vive e lavora. Nel 2005 si è diplomata in Illustrazione presso la Scuola del Fumetto di Milano. Ha partecipato a numerosi concorsi nazionali ed internazionali d’illustrazione per l’infanzia. È stata selezionata ai concorsi di Illustrissimi 2005 e Peer a colori 2006, in occasione dei quali le sue opere sono state esposte rispettivamente a Riccione e a Ischia. Nel 2006 le è stato attribuito un Award dall’Associazione Illustratori con relativa pubblicazione sul volume Illustratori Italiani Annual 2006. Nell’anno scolastico 2006/2007 ha tenuto un laboratorio di disegno presso una scuola elementare di Parma e nel 2007 è stata selezionata al concorso indetto dall’Associazione Tapirulan di Piadena (CR) e una sua illustrazione è stata pubblicata sul Calendario Tapirulan 2008. Alcune sue immagini sono state pubblicate sul catalogo 2008 dell’Archivio Giovani Artisti di Parma. Elisabetta Decontardi (in arte DECO) è nata a Voghera il 1 ottobre 1973. Illustratrice e cartoonist, si fa notare nel mondo fumettistico già dal 2001, con la comic strip "Inkspinster", edita settimanalmente sul sito www.inkspinster.com. Nel 2003 ha pubblicato la sua prima raccolta intitolata Inkspinster per la Lilliput Editrice. Ha ottenuto diversi premi e riconoscimenti a diversi concorsi e manifestazioni di satira, fumetto e illustrazione. Come fumettista, collabora con siti web, quotidiani e riviste e, ancora, con case editrici e agenzie pubblicitarie. L'illustrazione pubblicata in questo numero è stata realizzata per il racconto Lo Sbranagomiti di Carlo Mantovani. Alessandro Rivaroli è oggi studente di Lettere moderne con indirizzo filologico-letterario all’Alma Mater Studiorum di Bologna e revisionatore delle proprie composizioni. Nel 2004 la sua poesia Dove le cicale cantano, dalla silloge Il Nodo, la Spada, al concorso letterario Raffaele Burchi della Biblioteca di Tromello. Il Nodo, la Spada, in seguito al riconoscimento conseguito al concorso “Una poesia per la vita”, viene pubblicato da parte delle Edizioni Universum. Alessandro scrive, disegna, compone continuamente.

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Comune di Parma Assessorato alle Politiche Culturali e alla Creatività Giovanile

La rivista letteraria «LaLunaDiTraverso», edita dalla Casa editrice Monte Università Parma, in collaborazione con l’Archivio Giovani Artisti del Comune di Parma e con l’Assessorato Assessorato alle Politiche Culturali e alla Creatività Giovanile del Comune di Parma, bandisce un NUOVO CONCORSO PER NARRATORI, FOTOGRAFI e ILLUSTRATORI REGOLAMENTO Art. 1 - TEMA DEL CONCORSO Il prossimo tema della rivista sarà Rivoluzioni. Rivoluzioni nel senso più ampio del termine, positivo o negativo. Non solo, dunque, radicale stravolgimento dell’ordine costituito, in senso politico, sociale, economico e scientifico. Ma anche profondo cambiamento, nel bene o nel male, che interviene nell’esistenza dell’individuo, con il turbamento e la confusione che ne derivano. Art. 2 - MODALITA’ DI PARTECIPAZIONE Opere narrative: si ammettono racconti originali ed inediti per una lunghezza massima di 5400 battute, spazi inclusi. Il materiale dovrà essere inviato via mail a giovani@comune.parma.it o per posta su floppy disk. Opere fotografiche: si accettano opere originali e non pubblicate. Ogni autore dovrà presentare 5 fotografie in formato 10x15 in bianco e nero facendole pervenire su negativo o su supporto magnetico (floppy disk o cd rom). Illustrazioni: si ammettono da un minimo di 3 a un massimo di 5 tavole in bianco e nero del formato massimo di un foglio A4 (21x29.7 cm). Il materiale inviato per posta dovrà pervenire al seguente indirizzo: Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia c/o Palazzo Pigorini, via Repubblica, 29 – 43100 Parma. Le opere di tutti i partecipanti dovranno essere accompagnate da una breve biografia dell’autore corredata dai dati personali (nome, cognome, indirizzo, recapiti telefonici, indirizzo e – mail). In relazione alla previsione che il materiale possa essere pubblicato, si richiede inoltre il consenso al trattamento dei dati personali ai sensi della legge 675/96 sulla privacy. Inoltre i candidati si faranno garanti dell’originalità dell’opera da loro presentata. Le decisioni della Commissione saranno inappellabili e il materiale non verrà restituito. Eventuali attestati di partecipazione al concorso saranno assegnati agli artisti che ne faranno richiesta solo qualora i loro lavori vengano selezionati. Art. 3 - CRITERI DI SELEZIONE Per la valutazione delle opere si terrà conto della qualità, dei percorsi di ricerca formale e dell’originalità dei testi e delle immagini. Il premio del concorso consiste nella pubblicazione dell’opera sulla rivista “LaLunaDiTraverso”. Solo i vincitori saranno contattati dalla redazione. Non si accettano racconti che hanno partecipato a bandi precedenti. Art. 4 – SCADENZA Le opere devono essere consegnate entro e non oltre le ore 12.00 di venerdì 14 marzo 2008. Art.5 – INFORMAZIONI Per ulteriori informazioni, rivolgersi ai seguenti numeri di telefono: 0521/384469, oppure agli indirizzi di posta elettronica: giovani@comune.parma.it.; redazione@lunaditraverso.it. Orari di ufficio Archivio Giovani Artisti: dal lunedì al venerdì, dalle ore 8.00 alle 13.00; lunedì e giovedì anche dalle ore 15.00 alle 17.00.




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