SOMMARIO
Incipit d'autore 4 Porci con le ali di Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera Racconto d'autore Pecore in terra santa di Guia Risari
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Nothing man Testo di Alessandro Saracca
8 Illustrazione di copertina Emiliano Billai
Budapest Testo di Pietro Presti
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Giacomo Testo di Alfredo Goffredi
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Ho amato ogni sasso tirato Testo di Ivano Porpora
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VICE DIRETTORI Guido Conti, Federica Pasqualetti
L’inizio Testo di Mario Robusti
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ORGANIZZAZIONE E COORDINAMENTO Mariella Toscani - Responsabile Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia
La guerra dei mancini Testo di Ilaria Vitali
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La rivoluzione di ottobre Testo di Federica Soprani
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Lo sputo Testo di Marina Sangiorgi
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Chi Siamo DIRETTORE Massimo Carta
REDAZIONE Silvia Bia, Enrico Cantino, Simona De Blasio, Carlotta Fiore, Roberta Gatti, Armando Minuz, Federica Sassi, Denis Zuliani RELAZIONI ESTERNE Andrea Rabaglia
Osservazioni sul movimento dei lombrichi 26 Testo di Pietro Iannibelli Pasto Testo di Andrea Tinterri
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Sotto l’ultima insegna Testo di Adriano Marchetti
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Termodinamica Testo di Mattia Filippini
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Tiaccapi Testo di Roberto Stradiotti
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RUBRICHE Arriva Lancillotto, succede un Quarantotto... 36 Testo di Enrico Cantino Biografie
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IDEAZIONE GRAFICA Alessandro Berti REALIZZAZIONE Simone Pellicelli STAMPA La Stamperia - Parma PROMOZIONE E DISTRIBUZIONE PDE - Promozione Distribuzione Editoriale LALUNADITRAVERSO 2008 - Anno 8 - Numero 20 Monte Università Parma Editore - Vicolo al Leon d’Oro, 6 43100 Parma INFORMAZIONI Per collaborare alla rivista scrivi all'indirizzo redazione@lalunaditraverso.it oppure telefona all’Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia (Via Repubblica, 29 - Palazzo Pigorini 43100 Parma, giovani@comune.parma.it tel. 0521/384469-70). Il giudizio e il lavoro editoriale della redazione sono insindacabili e accettati implicitamente.
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Gli autori pubblicati riceveranno due copie in omaggio. La Luna di Traverso è sostenuta dall'Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia e dall'Assessorato alle Politiche Culturali e alla Creatività Giovanile. ERRATA CORRIGE Anno 7 n°19 - 2007, pag. 3, 20, 36: l’autore del racconto “Il risveglio” si chiama Filippo Fabbricatore.
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Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia Assessorato alle Politiche Culturali e alla Creatività Giovanile Comune di Parma
Nei tuoi occhi c’è una luce / che riscalda la mia mente / con il suono delle dita / si combatte una battaglia / che ci porta sulle strade / della gente che sa amare / che ci porta sulle strade / della gente che sa amare. Gioia e Rivoluzione, AREA
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Parlare di «rivoluzioni» schiude inevitabilmente un immaginario fatto di tinte al contempo fosche e sfavillanti – incendiarie –, cariche di forza, laddove la rottura di un modello precedente altro non è che il sorgere di uno nuovo. Forza distruttrice, dunque, ma anche e soprattutto innovatrice. Proprio per questo si è scelto di aprire, in antitesi, citando il testo di una canzone di oltre trent’anni fa – nel pieno degli Anni di Piombo –, in cui le «battaglie», i «mitra» e gli «spari» evocati sono, apparentemente, innocue esplosioni musicali. La storia del mondo è fatta anche di violenze e rivoluzioni. Basterebbe citare la Rivoluzione Francese, per comprendere la rilevanza di simili eventi, pur non dimenticando come tali rivoluzioni investano anche i campi più disparati; rivoluzioni politiche e sociali, certo, ma anche religiose, geografiche, scientifiche, industriali, artistiche, culturali, telematiche. La Terra stessa compie una rivoluzione: la rivelazione del moto che la Terra attua ruotando intorno al sole, giunge a scardinare completamente – non senza ferire – la visione dell’Universo e, di conseguenza, anche il modo in cui l’uomo si trova a rapportarsi con il proprio passato. Il crollo di convinzioni ormai ben consolidate si pone dunque come scontro, ma anche come preziose fondamenta, per avviare un processo di pensiero che coinvolge astronomia, filosofia e teologia. Rivoluzioni importantissime intervengono senza sosta all’interno del mondo artistico e culturale, forzando e sovvertendo regole accademiche, proiettandosi oltre il passato, spingendosi verso territori non esplorati in precedenza. Nel mondo della scrittura, poi, a cinque secoli dall’invenzione della stampa a caratteri mobili di Gutenberg, si è imposta una novità rivoluzionaria: il Web. La Rete non solo permette di mettere in comunicazione persone lontane nello spazio, ma consente anche di dare immediata visibilità alla propria voglia di scrivere e di farsi leggere, in modo del tutto libero e gratuito: una possibilità certamente rivoluzionaria! Ciò comporta vantaggi indiscutibili, come la possibilità di far circolare liberamente la propria voce, mentre d’altro canto implica una scrittura spesso più frenetica, meno attenta, cui corrisponde una lettura altrettanto rapida. In tale contesto, tuttavia, “La Luna di Traverso” prosegue tenacemente nel suo cammino di rivista-laboratorio ancora fatta di carta e d’inchiostro. Spesso veniamo investiti da avvenimenti o esperienze che ci toccano profondamente: vere e proprie rivoluzioni personali, capaci di spingerci oltre le nostre Colonne d’Ercole, spronandoci, mettendoci in contatto con lati inediti di noi stessi, generando paure, abbattendo realtà consolidate per crearne nuove, in un inarrestabile cammino verso la propria conoscenza. Proprio oggi, in un’epoca assopita, omologata e omologante, conoscere – ed essere – se stessi fino in fondo rappresenta quanto di più rivoluzionario si possa concepire. Interrogare, esaminare, scandagliare ed esplorare incessantemente la propria individualità, per conoscersi in modo sempre maggiore, per rivendicare e affermare la propria unicità, perché, come asseriva lo scrittore e aforista polacco Stanislaw Jerzy Lec: «Per essere se stessi bisogna essere qualcuno.» Rivoluzioni, dunque, in senso lato: questa è la tematica che “La Luna di Traverso” vuole proporre per la ventesima pubblicazione.
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Scatto di Antonio Bovio
Per parlare di Rivoluzioni basta pensare ad uno sconvolgimento. E qual è l’ambiente ideale dove si trova più scompiglio se non l’animo umano? Con il tema Rivoluzioni noi de “La Luna di Traverso” abbiamo voluto innescare nello scrittore questa piccola bomba ad orologeria. Lo scrittore sente in continuazione la necessità di liberarsi da un grosso peso che nasce, lievita e cerca di uscire dalla propria testa e la scrittura è un modo per liberarsi dai disordini che si creano nella propria mente. Qual è il modo migliore per farli uscire se non sollecitarlo a creare dentro di sè una rivoluzione, una via d’uscita da sensazioni di disagio? Da un precedente senso di caos, di vuoto, di smarrimento, si cerca con il processo rivoluzionario di arrivare ad un punto o un bivio o semplicemente ad un allineamento con ciò che ci circonda. Abbiamo indotto lo scrittore a farsi delle domande ben precise e a darsi delle risposte, cercando con la scrittura di farlo liberare dai propri dubbi e di rivoluzionarlo. La risposta dello scrittore alla nostra proposta un po’ provocatoria è stata molto convincente. Predomina la voglia di ironizzare, di prendersi e prendere in giro, di beffare il lettore negli scritti di Goffredi, Saracca, Iannibelli e Vitali. Il comune senso di smarrimento e d’ansia percepito sotto diverse forme, invece, ce lo fanno leggere Marchetti, Filippini, Tinterri e Stradiotti. Le rivoluzioni sono anche quelle scaturite da una serie di problematiche lavorative e relazionali, che ci danno lo stimolo per cambiare, per vedere in modo diverso o semplicemente per andare avanti e ci vengono illustrate da Soprani, Robusti, Porpora e Sangiorgi. L’inconfondibile Presti ancora una volta ci porta in giro per i vicoli bui e i luoghi più enigmatici di una città che questa volta trova nel viso di Budapest una risposta ad una rivoluzione che nasce da dentro, nell’io profondo. La redazione ha scoperto di non aver cercato, né trovato, veri stili rivoluzionari nei nostri autori. Crediamo infatti che uno stile letterario che possa considerarsi rivoluzionario sia quello che induce chi legge ad una lettura profonda, attraverso cui entrare in conflitto o in relazione con ciò che viene proposto e narrato. Noi volevamo le idee. Ulteriore punto di forza di questo numero dedicato alle Rivoluzioni è il racconto d’autore Pecore in terra santa di Guia Risari, scrittrice e traduttrice che si occupa di letteratura dell’olocausto e della migrazione. Con la metafora delle pecore e della ricerca di un qualcosa che non è facilmente rintracciabile ad occhio nudo ma che va scoperto e scavato tra mille pietre uguali, ha voluto farci notare quanto le rivoluzioni possano nascere da un sentimento che ci viene indotto dall’esterno e non consapevolmente ricercato.
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E d i to r i a l e
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Incipit d'autore
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La sensazione è come soffiarsi l’anima nel fazzoletto. Bella. Ti scarichi. Non so se ho pianto perché uno è morto o perché c’è la morte, perché io son viva o perché io morirò, perché lui non sarà più vivo o perché dopo la morte non c’è un’altra vita. Un po’ è stata anche la rabbia: avrei voluto urlare ai poliziotti di levarsi il cappello (l’elmo o come cazzo si chiama) perché erano di fronte a una cosa di eroismo. Che forse in vita loro non gli sarebbe capitato mai più di vedere una cosa così bella: bella come uno che si fa ammazzare anche se non ne aveva bisogno, anche se non glielo aveva ordinato nessuno, anche se era giovane e magari innamorato. Mi aspettavo che qualcuno disertasse di fronte ai nostri silenzi incazzati e corresse verso di noi buttando il fucile per aria e strappandosi la divisa. Accidenti alla mia immaginazione. Quando hanno imbracciato gli scudi è stato come se non avessi mai visto la polizia caricare, come se non sapessi che la polizia è cattiva perché la società è divisa in classi e via dicendo. Uno shock. È sempre lei, la mia fottuta immaginazione. Le mie fantasie e le mie emozioni: mi aspettavo che ci avrebbero detto: «Bravi ragazzi», «Questo sì che è un comportamento civile», perché avevano ammazzato un nostro compagno e noi si era tutti lì a mostrare i pugni al silenzio, invece di ridere e stare a scuola. Come quando gli austriaci hanno sparato alla piccola vedetta lombarda. Com’era? Dulce et decorum est pro patria mori? E perché la patria sì e la rivoluzione no? Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera, Porci con le ali, Milano Mondadori, 2001, p. 53-54.
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Illustrazione di Emiliano Properzi
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Pecore in te Racconto d'Autore
Testo di Guia Risari Illustrazione di Roberto Meli
Ali ha ciascuno al core ed ali al piede, né del suo ratto andar però s’accorge; ma, quando il sol gli aridi campi fiede con raggi assai ferventi e in alto sorge, ecco apparir Gierusalem si vede, ecco additar Gierusalem si scorge, ecco da mille voci unitamente, Gierusalem salutar si sente. Torquato Tasso, La Gerusalemme liberata, III, 3
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Nella piazza bianca di una città santa, un branco di pecore stava pascolando. Lo faceva credendoci perché qualcuno, un pastore saggio e carismatico, le aveva radunate il giorno prima in una pianura della Galilea e aveva detto loro: «Care pecorelle, vi amo così tanto, ci tengo così tanto che conosciate le delizie della verità, che vi svelerò un segreto. L’erba migliore, l’erba della conoscenza e del potere, si trova in una città santa, nella piazza bianca che domina ogni cupola, chiusa tra mura chiare che sembrano disfarsi sotto il sole, ma che resistono da secoli. Lì, fra lastroni levigati da milioni di passi, nascono spontaneamente trifogli e bocche di leone». Il pastore le aveva abbracciate con lo sguardo. «Ma questo non è niente». Le pecore avevano risposto con un tremito. «Sì, l’erba migliore, che vi libererà da ogni dubbio e dalla paura… non è questo, in fondo, che sognate da sempre?» La domanda aveva frizionato i velli, dolcemente, come il pastore sapeva fare così bene. Le bestie sollevavano i musi fiduciosi con nasi rosa che fremevano come boccucce in fiore. «Sì» e torcevano i corpi; «sì» mormoravano con occhi pieni di dolcezza. «Raccontaci» lo aveva incoraggiato un pecorone con ricci grigi e il ventre gonfio d’erba indigerita. «Vogliamo sapere tutto» aveva belato un altro, con denti ingialliti di clorofilla. Il pastore aveva sorriso. Il consenso, da sempre, lo rassicurava. «Al centro della piazza, conficcato tra le giunture della pavimentazione, esattamente a dieci passi dalle mura che circondano la piazza, troverete un imbuto». «Un imbuto?» La pecorella teneva le zampe posteriori incrociate, il codino le frustava le natiche a ritmo irregolare. «Sì. Un imbuto d’argento, con manici d’oro e bordi istoriati. Un pezzo che nell’ultimo saccheggio è stato dimenticato e che la terra ha inghiottito, irrimediabilmente, come ogni oggetto uscito dalla memoria degli uomini e ripreso dagli elementi». Un silenzio denso di scoppiettii d’attesa e di sospiri aveva sovrastato l’aria. Una pecora miope e pensosa aveva abbassato la testa. Aspettava. «E nell’imbuto – il pastore si era aggiustato il cappello sopra gli occhi – in fondo alla cavità che scivola nella gola bruna e grumosa della terra, sì, in fondo all’imbuto, c’è una luce e dietro la luce, il verde solleticante e folto, la distesa soffice e sicura che accarezza il muso e riempie le narici di sogni e di sapori, un’erba con la consistenza croccante della menta, tenera come i boccioli a primavera. Sì, è erba, ma che erba: la migliore del mondo!» Una batticoda aveva attraversato il cielo con una serie di balzi ripetuti, come un ago un panno di seta.
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terra santa Una pecora più scura delle altre, forestiera, aveva scosso il capo. Sfidava il pastore la sua perplessità. «Se assaggerete quest’erba – aveva assicurato lui – non avrete più bisogno di nulla. Il suo sapore è così intenso che s’imprimerà per sempre nel vostro palato. Non sarete più deluse: il gusto amarognolo e soffocante dei prati bruciati, l’aroma scipito degli steli acerbi non vi toccheranno più. Anche i digiuni avranno il sapore di quest’erba miracolosa che ho chiamato verità perché soppianta tutto il resto – menzogne, incertezze, mezze bugie – come un fuoco che annienti le cose apparenti, lasciando intatto l’eterno, l’indistruttibile, che si riconosce così come vero. Capite?» Le pecore si erano serrate l’una all’altra tanto la forza dell’evocazione le aveva atterrite. Vedevano campi distrutti, anneriti da un fuoco che affumicava la terra con ceneri pesanti. Eppure ogni volta che il pastore aveva nominato l’erba miracolosa, l’erba che le avrebbe salvate dal bisogno e dalla paura, su di loro era sceso un soffio di speranza, caldo ed energico, che aveva gonfiato i cuori e accelerato la respirazione. Quando l’eccitazione le ebbe raggiunte tutte e la convinzione si fu insinuata nel gregge come una nuova anima, le pecore si mossero, legate tra loro da una catena più forte dell’abitudine. Salutando il pastore, si diressero verso la città santa. Non avevano seguito l’istinto, ma il desiderio e questo le aveva condotte alla piazza bianca, con mura sbrecciate e pietre pesanti di secoli. Albeggiava. Il sole rossastro ondeggiava all’orizzonte quasi fosse reticente a rivelare la sua luce. La città dormiva ancora, solo si percepivano i latrati isolati di cani selvatici che nessuno riusciva più ad avvicinare. Erano lontani, ai confini della città, seminati fra campi e macerie come pidocchi gialli. Le case mostravano occhi vuoti e cattivi. Sui muri si disegnavano le ombre lunghe della guerra. Le pecore approfittarono della quiete per osservare il complesso disegno della piazza: un ottagono intagliato nella pietra, sei lati esposti al vento e alla città, due al riparo sotto le mura di un castello. Con teste appesantite dal viaggio, il gregge cominciò a esplorare le lastre di pietra ancora fredde. Ciuffi d’erba pungevano i musi vellutati: sapevano di calce, crocchiavano in bocca come spoglie. Le pecore si dispersero a fiutare ogni mattonella con devozione. Ognuna sperava di percepire una nota di verità e giustizia tra le proprie zampe, un indizio che l’avrebbe condotta all’imbuto e all’erba miracolosa. Invece, le narici sbuffavano via un’aria appestata di sangue e morte. Il minareto taceva. Una cupola inviava riflessi dorati sui tetti delle case, mentre grandi portoni borchiati ronzavano. Improvvisamente, al centro della piazza, una pecora scalpitò. “Venite, venite!” urlò stridula e il gregge, preso da un’eccitazione incontrollabile, si precipitò nella sua direzione. Un cerchio si strinse intorno all’oggetto conficcato nel suolo, con un solo angolo visibile; il resto, coperto di sassi e sabbia, si confondeva nel terreno opaco. Un pecorone strofinò il muso a scoprire e lustrare l’imboccatura, che cominciò a brillare. «Ma è troppo piccolo» protestò una pecora con voce lamentosa. «Come faremo a entrarci?» Un belato deluso percorse la piazza. Il pecorone, intanto, aveva dissotterrato i manici dell’imbuto – d’oro, proprio come aveva detto il pastore – e procedeva nello scavo. L’imbuto pareva ora più grande e splendido, come se il contatto con l’aria gli avesse ridato nuova vita. Cresceva a vista d’occhio e quando fu grande abbastanza per contenerlo, il pecorone arrestò i colpi di zoccolo e si lasciò scivolare al suo interno. Le altre pecore non ebbero un attimo di esitazione e si gettarono a capofitto nell’imbuto, spingendo e dibattendosi per arrivare prima. La frenesia di esser a un passo dalla felicità, dal vero, dal miracolo s’impadronì di tutte loro. Ormai, contava solo quello: raggiungere l’imbuto e buttarsi nelle sue braccia argentate, perdersi nel volo e ritrovarsi in paradiso. Non importava se, nella lotta per aprirsi un varco tra i corpi aggrovigliati, si acciaccavano un occhio, si azzoppavano, perdevano ciuffi di pelo, un orecchio impigliato sotto uno zoccolo si strappava. L’erba miracolosa le avrebbe guarite per sempre da ogni miseria. Quando anche l’ultimo belato vittorioso si estinse nelle profondità della terra, l’imbuto rimpicciolì e uno strato finissimo di sabbia lo ricoperse, nascondendolo alla vista. Solo un angolo spuntava come l’occhio di una bestia in attesa. Ma non durò molto. Al canto del primo muezzin, quando i portoni si dischiusero e la gente, avvolta in scialli e veli, scese nelle strade a pregare, anche quell’occhio sprofondò nell’oblio.
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Nothing Man nothing man
Testo di Alessandro Saracca Illustrazione di Emiliano Billai
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«È iniziato tutto con le matite.» «Le matite…» «Le matite. Le tenevo a sinistra dello schermo, in una tazza rossa dal manico sbeccato. Sono destrorso, così le ho spostate.» «E?…» «E funzionava. Così non mi sono più fermato.» Sfila una sigaretta dal pacchetto, si slaccia la cravatta e si appoggia allo schienale. Una posizione scorretta. Potrebbe causargli mal di testa e senso di smarrimento. «E poi?» «Poi sono passato al resto della scrivania. Ho fissato il tappetino del mouse con lo scotch. Ho fatto passare il filo tra la base del monitor e il raccoglitore dei CD per evitare che si spostasse. Ho piazzato lo scanner alla mia sinistra e la stampante contro il muro a destra. Mi era più facile raggiungere i fogli. Fogli che, prima, lasciavo almeno due giorni chiusi nel cassetto, sotto le risme ancora da scartare. Lo sa che l’85% delle volte in cui la stampante si inceppa, è perché i fogli sono leggermente piegati all’esterno?» Apre una delle cartelle che ha davanti. Sfila un paio di fogli, poi trova una foto e me la mostra. Carta A4, 21 per 29.7, 160 grammi, ultrabrillante. Scelta accurata, specialmente con stampanti Epson o HP. «Quello che vorrei sapere» (mette la foto sotto la lampadina: nessun riflesso) «è come siamo arrivati a questo.» «Una volta sistemata la scrivania, sono passato ai cassetti. Tre, spazio utile di 33 per 49 per 12. Centimetri, si intende. Nel terzo cassetto ho sistemato i fogli, quelli da fotocopiatrice, pessima grammatura ma costo ridotto. Prima quelli sfusi e, sopra, le risme ancora intatte. A sinistra e a destra i Post-it ancora da scartare, in tre file separate da uno spazio variabile dai 3 ai 3 centimetri e mezzo. Nel secondo, quello centrale (che aveva un difetto di scorrimento che purtroppo non sono mai riuscito a riparare), le pratiche in uso. Divise per cartelle: gialle quelle evase da archiviare e marroni quelle ancora da verificare. Senza elastico, le cartelle. Non servono, se si usano fogli perfettamente piani.» Guarda lo specchio alle mie spalle, poi fa un gesto che non riesco ad interpretare. So che mi stanno osservando e ascoltando. Spero lui sappia che io so. «Infine, nel primo cassetto, tutti gli attrezzi di uso quotidiano. Scotch, penne, gomme, taglierini. Da sinistra a destra, in ordine di frequenza d’utilizzo. In fondo al cassetto evidenziatori e cartucce, penne suddivise per colore e per durata dell’inchiostro, gomme da più a meno usurate, fermacarte nella sua custodia e graffette sfuse in un astuccio di plastica trasparente. La spillatrice mi ha creato qualche problema. Alla fine ho sfilato lo stantuffo e ho risposto tutto in fondo al cassetto. Me lo sono potuto permettere soltanto perché raramente devo unire dei fogli.» Spegne la sigaretta e se ne accende un’altra. Il fumo passivo, in questo paese, uccide oltre undicimila persone ogni anno.
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«Poi ho sistemato gli armadi e…» Bussano alla porta. Lui esce. «Aspetta», mi dice. Io aspetto. In questa stanza ci sono quattro pareti. Soltanto tre hanno finestre. Ciascuna è suddivisa in otto sezioni uguali, ma non filtrano i raggi solari. La lampadina è troppo vicina al tavolo, le sedie sono senza razze e schienale regolabile, la maniglia della porta si sta staccando. Non ci sono prese d’aria, si vedono segni di infiltrazioni d’acqua nell’angolo opposto a dove mi trovo e c’è puzza di bruciato. Rientra. Si siede, si sfila definitivamente la cravatta e la getta sul tavolo, esponendola ad ogni possibile batterio. «Stavamo dicendo?» «Gli armadi.» «Sì, gli armadi. Lascia perdere. Armadi, scansie, mensole e schedari. Non mi interessa. Quello che vorrei sapere è come abbiamo fatto ad arrivare fin qui.» Guarda l’orologio. «Cristo… E vorrei saperlo in fretta, se possibile.» «Oggi che giorno è?» «Martedì.» «Martedì…» «Martedì dodici.» «Sei mesi, due settimane e tre giorni fa ho terminato di organizzare l’ufficio. E sono passato al programma gestionale.» Cerca tra le sue cartelle. Sposta dei fogli, fa cadere delle foto, si bagna la punta delle dita per sfogliare meglio, getta da un lato alcune carte. Risparmierebbe il 60% del suo tempo con un’archiviazione preventiva. Poi trova due fogli, annuisce, mi guarda. «Ho riassettato il programma. L’ho reso più rapido, più semplice, più efficiente.» «Qui leggo che hai deliberatamente spostato, modificato o perfino cancellato dei file mentre… “riorganizzavi” il programma. E leggo anche che, messo davanti ai fatti, hai sostenuto che…» «Non si può fare una guerra senza vittime.» «Non si può fare una guerra senza vittime. Tu non hai ben chiaro cos’hai fatto, vero?» «Ho migliorato il lavoro di tutti. Ho cambiato le regole per favorire la collettività. Cos’altro avrei fatto?» «Beh, ad esempio cancellato file relativi ai bilanci per un periodo compreso tra il 2000 ed il 2005. Rinominato e spostato bolle, fatture, numeri di codici, più altri dati di cui nemmeno conosco la funzione. Hai fatto perdere alla tua azienda milioni nell’arco di una giornata, ecco cos’altro hai fatto. E non è tutto.» «Oh.» «Ecco, appunto. Oh.» «Sono venuti a riprendermi. Il mio diretto superiore. Ha completamente ignorato tutti i miei sforzi e mi ha ripreso. Davanti a tutti. Alcuni ridevano, altri voltavano terrorizzati lo sguardo. E lui urlava e non mi lasciava spiegare.» «E quindi?» «Ho aperto il primo cassetto e ho preso un taglierino. Il terzo da destra. Cutter richiudibile Bessey, manico in acciaio e plastica antiurto, dotato di puntale di pressione e serbatoio da cinque lame. Ideale per tagli profondi, se usato correttamente garantisce il 26% in più di resistenza delle lame.» «E?…» «E gliel’ho piantato in un occhio.» Mi mostra ancora la foto. Un bulbo oculare avvizzito, le arterie e le vene retiniche sparpagliate sul tavolo come i tentacoli di un polipo morente, un pezzo di lama che esce dall’iride riflettendo il flash della macchina fotografica e macchie di sangue che sembrano correre frenetiche verso i bordi del foglio. «Hai notato?», mi chiede. «Cosa?» «La lama. Si è spezzata.» «Ah, già. Suppongo che niente possa essere considerato perfetto, allora.» «Finirai a marcire in una cella, questo lo devi sapere. Perché è giusto così, fine del discorso. Mi sembrava corretto che fossi io a dirtelo, tutto qui.»
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Raccoglie le fotografie, i rapporti, i fogli che ha seminato per tutto il tavolo e li infila come può all’interno delle sue carpette, piene di pieghe e consunte negli spigoli. Tagliarsi con la carta è uno degli incidenti domestici più frequenti. In assoluto. Si accende un’altra sigaretta e mi porge il pacchetto. «Va bene così», dico. Ritrae il pacchetto e se lo infila rapido in tasca. «Va bene così. Qualcuno deve pur pagare, dopo tutto. Altrimenti con quale speranza potremmo pensare di andare avanti?» «Non hai rimpianti, vero? Nessun rimorso. Niente di niente. È andata così perché è così che doveva andare. Amen.» Si alza, si infila la giacca e fa segno allo specchio di aver finito. Sento la serratura scattare. Esiste una probabilità su dieci miliardi che tutta l’aria presente in una stanza possa fuoriuscire dalla serratura soffocando chi ancora si trova dentro. Mi appoggia una mano sulla spalla. «Dicono che adesso, però, usino le mie modifiche per far funzionare il gestionale. Se saranno furbi, entro la fine dell’anno aumenteranno il fatturato dell’1.9%. Come minimo.» «Allora hai vinto la tua guerra…» Apre la porta. «Le posso chiedere una cosa, dottore?» Sospira. Esita. Io sono alle sue spalle, oltre la porta c’è tutto il resto del mondo. «Prego.» «Lei non ha degli archivi da sistemare?»
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Budapest
Testo di Pietro Presti Scatto di Marina Rossi
Non avevi i capelli giusti per alzarti una cresta sul cranio, né un viso pulito per colorarli di rosso. Così certe mattine ti svegliavi al fragore di due lame che ronzavano una contro l’altra (il tuo canto dei grilli) lucenti come cicale d’acciaio, e rasavi i compromessi fino allo zero preciso; una sagoma appuntita eri, l’asta liscia delle tue rivoluzioni senza bandiera, o tu o nient’altro. Gli specchi (lo imparasti) annuivano a comando. E sapevi perderti come chi sconosce i traguardi. Sapevi perderti, non che non sapessi la strada come tutti quanti gli altri. Tu lo sapevi fare, lepre, e avevi classe nelle caviglie e la bocca piena di musica a strafottertene. Ti eri perso negli alberghi di Budapest (a piedi scalzi sulla moquette impolverata dei corridoi ordinati correvi, ti sparpagliavi) enormi rettangoli di granito, logica di una guerra fredda sotto lo zero umano, fatta di nervi, combattuta coi nervi. La storia (pensasti) dovrebbe annoverare tra i suoi morti quelli cui si sono spenti gli occhi (riempirsene pagine e pagine e lavagne e banchi di scuola). Scendesti nelle gallerie della metropolitana a cercarli. Erano sparsi sul pavimento dei vagoni, già calpestati dai regimi, dai cingoli dei carri armati, dall’invasore, dalle polizie segrete (guardavi dove mettevi i piedi). I giovani soldati con i loro piccoli nomi (la grande armata dei fantasmi), le utopie, i simboli del passato, le loro facce svanite (dalle maschere antigas, da sotto gli elmetti), penzolavano impiccati alle grucce degli immensi mercati dell’usato fuori città, campi profughi (una confusione zingara di baracche e teloni ti riempiva le tasche e le mani), di ricordi bellici stesi sui banchi di cianfrusaglie e cianfrusaglie (vettovaglie di latta e miserie nude). Vecchi commercianti usciti dalle pellicole di registi russi (tutti coi capelli bianchi e le barbe incolte, stanchi, con l’aria sgranata da delinquenti) con cui tiravi a gesti sul prezzo dei loro denti cariati e caduti. Sarebbe stata una grande storia, la loro, se qualcuno non l’avesse ridotta a quel modo, coriandoli grigi da svendere ai turisti occidentali (e lo facevano volentieri). La nazione aveva affidato loro quel compito storico, il ministero degli strascichi e delle code del tempo, il dovere ultimo dei padri di sgomberare il loro passato dal presente dei figli (ma i pazzi suonatori di fisarmonica scorderanno mai le vecchie canzoni? E le orchestre nelle locande della sterminata pianura finiranno mai di intonare Bella Ciao?). Comprasti due stelle (due falci due martelli) e le perdesti subito. Budapest ne aveva le strade e i cassonetti pieni, una città di stelle d’oro cadute dai monumenti, dai mausolei, dai cimiteri, dai palazzi, dalle tasche. Odiasti seguire qualcuno dentro un centro commerciale, odiasti sentirti a casa tua, odiasti quella luccicante sicurezza da consolato di cose perfettamente riconoscibili (volevi perderti). Appoggiasti il tuo muso a quello dei leoni su ponte Széchenyi e ti ruggivano nella testa, feroci e affascinanti come i tassisti che cercavano di scambiarti i soldi (le tue poche lire) e che facevano finta di non capirti solo per spulciartene altri (i maghi da gioco delle tre carte smontavano i loro banchetti se perdevano più di due mani), ogni corsa era un sequestro per chilometri e chilometri sui sedili posteriori di (vecchi vagoni di treni morti trasformati in ristoranti, scalinate di piazze senza spacciatori, navi ristorante arenate sul Danubio pieno di luce) taxi bianchi che tracciavano i percorsi degli stranieri e poi li seguivano e li inseguivano all’infinito (leggende da città del sesso per studenti minorenni in gita) dagli scantinati del centro dove le celle di vecchie carceri nel sottosuolo ora avevano altri significati e i colori di cocktail verdi o gialli e tavoli su cui ballare, alla parte alta della città dei locali e delle discoteche a tre piani sulla Cittadella (la vista dall’alto sulla città di fuoco ti rubò gli occhi, te li bruciò). La incontrasti lì, Katerina, appoggiata a una parete bianca, in disparte (pensasti le statue esiliate nel cimitero dei monumenti comunisti fuori città), reggeva l’alcool e i tuoi sguardi insieme. Aveva labbra sottili, capelli lisci e neri come certe notti di mare senza vento, zigomi e tratti così castigati, duri, occhi elettrici di una bellezza invasiva, indicibile. (Ti chiese una sigaretta). Aspirò da una Marlboro rossa e dalle tue labbra l’Europa che si riavvicinava (occidentale madre adottiva) e ti travolse e poi avanzaste insieme, a ondate, vi scavalcaste l’uno con l’altra lungo i corridoi composti degli alberghi di Budapest, lasciaste il segno della marea sulle pareti e perdeste le scarpe a metà del vostro perdervi fino a gorgogliare in una vasca da bagno (voi che eravate mare di notte e vi si era alzato il vento, sulla
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pelle). Gli alberghi di Budapest con le stanze grandi e le finestre piccole; gli alberghi di Budapest con le pareti sottili e i letti a una piazza e mezzo; gli alberghi di Budapest dove vennero a cercarvi, nocche insistenti sulle porte di carta di legno. C’erano la musica a dirvi come ci si sciacqua la bocca a vicenda dalle lingue studiate, e ci si perde addosso, e si evocano altre lingue per comprendersi l’odore, per straniarsi la carne. Quando entrarono erano in tanti, ma (trovarono solo risciacquatura) tu e Katerina eravate già sgusciati fuori, da una piccola finestra, a perdervi, in Budapest.
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G i a c o m o Testo di Alfredo Goffredi Illustrazione di Valentina "Valì" Curà
Il giorno della laurea di Giacomo, gli invitati al rinfresco si resero conto che lui era solo un prodotto della loro immaginazione. Giacomo Meriggi non era mai esistito. Curioso. Non tanto per la famiglia o gli amici: capita spesso di sentire di genitori che, dopo aver perso un figlio, ne idealizzassero uno per colmare il vuoto che la perdita aveva lasciato, o di ragazzi soli con una fervida immaginazione che inventassero un amico immaginario – certo il fatto che questo sia stato inventato da almeno quindici persone risulta preoccupante. Non tanto per la fidanzata, probabilmente una ragazza troppo sola che nessuno aveva mai voluto. Il problema non è tanto legato alle persone che lo conoscevano – per quanto questo possa offrire un interessante caso per un analista – quanto a quelle che non lo conoscevano. Nessuno riusciva a spiegarsi come fosse stato possibile, specialmente il gestore del locale dove si stava tenendo il rinfresco, a cui lo stesso Giacomo aveva telefonato la settimana prima per prenotare il salone. Iniziò tutto con il suo ritardo, colmato, nell’attesa, da una lunga serie di aneddoti. Ti ricordi di quella volta che E quell’altra in cui La migliore, comunque, è stata quel giorno quando No, non è possibile. Quel giorno era con me, è rimasto a casa mia dalla mattina alla mattina dopo Ti sbagli, eravamo assieme; ho anche una foto che lo può testimoniare, guarda ce l’ho proprio… non la trovo. Com’è possibile? Ce l’ho sempre con me, la tengo proprio… Va bene, lo scherzo è durato abbastanza ora puoi smetterla Ti giuro Ti starai confondendo No ecco, guarda! Sei venuto peggio del solito Mh? E comunque sei solo Come? Si… e lasciatelo dire, come fotografo sei pessimo. E quella posizione scema ti fa sembrare Ma… è che Giacomo mi stava passando… lo vedi, lì a destra. Preferiva mostrare il fianco sinistro, per via di quella voglia sulla guancia… se ne vergogna tantissimo Ma quale voglia? Come quale voglia? State insieme da sette anni e non ricordi la sua voglia? Si, ma la sua voglia è sul braccio sinistro, dovresti saperlo, siete amici d’infanzia Ragazzi ma cosa dite? Mio figlio non ha nessuna voglia La signora scherza; altrimenti non si spiegherebbero tutti i soldi spesi l’estate scorsa per le creme solari. Protezione 30, e tonnellate e tonnellate di crema su quella voglia Bè, insomma, l’estate scorsa eravamo in interrail in Svezia, non vedo come Si lo so, la settimana dopo che siete tornati No guarda, è durato tre mesi e siamo tornati il giorno prima dell’inizio delle lezioni, non credo proprio che Beh sarà stata quella prima No quella prima eravamo in campeggio e Mio figlio in campeggio?! Ma Giacomo odia il campeggio Ma come, signora? Giacomo e io sono sei anni che facciamo una settimana di campeggio insieme ogni estate
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Tranne che nel 2004, per via di Martina Martina? Oh… credevo te ne avesse parlato. Scusa per la gaffe. Vado un attimo… No tu resti qui e mi spieghi chi è Martina! Ecco… lei… lui… insomma quell’estate tu eri tutta presa dalla tesi triennale e lui mi diceva che si sentiva trascurato Si, mi ricordo, è stata l’estate di Madrid Mio figlio non è mai stato a Madrid! Certo signora! E cos’altro? Non porta gli occhiali, magari? Certo che no! Ma come no? Se siamo andati l’altro ieri a cercare una montatura nuova Giovedì, vorrai dire Chi è Martina? No intendo proprio l’altro ieri Ma quali occhiali e occhiali? Chi è Martina? Ragazzi forse è il caso di calmarci Comunque ragazzi, Giacomo porta solo lenti a contatto Figurarsi! CHI DIAVOLO È MARTINA??? Sono io. Poi crollò il silenzio. Giulia era in lacrime. Mauro si teneva la testa. Sergio si era pisciato addosso. Davanti a lui, rossa come un peperone, stava Martina, che i due terzi degli invitati conoscevano come Simona. La madre di Giacomo era svenuta e il padre le faceva aria con un sottobicchiere. Metà dei presenti era nel caos più completo, l’altra metà sghignazzava, convinta che fosse tutta un’orchestrazione magistrale di Giacomo. Si alzò in piedi Alain, studente Erasmus francese; conosceva Giacomo solo da pochi mesi.
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«Vous étes… oh… pardonnez mois. Siete sicuri che… Giacomo… esista davvero?» Lo sbotto degli invitati fu esageratamente grande. Chi rideva. Chi si voltava sdegnato. Chi mandava Alain a fare in culo. «Forse», disse Martina/Simona, «forse Alain ha ragione.» «Stai zitta sgualdrina!» strillò Giulia. «Sgualdrina? Come ti permetti! Tu piuttosto…» «Io cosa? Puttana! Zitta, non ti voglio nemmeno sentire!» «Invece forse», stavolta era Mauro, amico di Giacomo fin dall’asilo nido, «è proprio così. Forse Giacomo ce lo siamo inventati.» Forse In effetti questo spiega quella volta che E quell’altra in cui Hai ragione Alain… cioè, se tu l’avessi, allora quel fatto Ma le sue cose? I libri segnati? I vestiti da lavare? I dischi sempre in disordine? La vespa? Il basso che suonava in solaio? E la scuola? Gli esami? La laurea, stamattina? Ci saranno state almeno cinquanta persone… e allora... «Io sono incinta.» disse Martina/Simona con la voce che le tremava. «Come?» Giulia era immobile, come dopo un colpo di fucile alla nuca. «Maledetta stronza!» scattò in piedi pronta a salire sul tavolo per raggiungere Martina/Simona. «Aveva detto…» «COSA?» «… che vi eravate lasciati.» Giulia cadde riversa su un fianco, singhiozzando, rompendo un cospicuo numero di piatti e bicchieri e ritrovandosi con un ancor più cospicuo numero di schegge di vetro e porcellana nella carne. «Non avevamo convenuto», di nuovo Mauro, socratico, «che Giacomo non esiste?»
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La signora Meriggi si era appena ripresa ma svenne di nuovo. «Ma allora io… io?» …Martina/Simona. E… ? Il silenzio piombò su di loro. Ognuno vagliò ricordi, promesse, progetti, idee che avevano a che fare con Giacomo. E fu quello il momento esatto in cui il loro mondo, la loro vita, tutto quello che rappresentavano, andò a rotoli.
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Dì a quel demente controrivoluzionario che se ne sta al microfono che non si azzardi più a dare alito e spazio alla rivendicazione falsa di Genova, della nostra colonna Francesco Berardi, perché altrimenti se ne assume ogni responsabilità. Ogni responsabilità, prima di tutto, davanti alla nostra organizzazione. Dalla telefonata di un brigatista della colonna Walter Alasia a Radio Popolare, 2 agosto 1980
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Andare a trovare in carcere Pumen non fu facile. Ero abituato da sempre a vederlo scalzo, senza la maglia e ribelle; difficile pensare di vederlo incasellato, coi capelli tagliati come m’avevano detto, con scarpe e divisa da carcerato. Poi chiunque si fosse dichiarato prigioniero politico veniva schedato, e schedato chi lo andava a trovare. Ricordo l’ultimo giorno che lo vidi fuori. Eravamo in un campo, e l’aria era brillante come acqua spillata dal pozzo. Faceva freddo, di quel freddo leggero che solo la primavera può dare. Si era addormentato con la bocca aperta, e nel girarsi nel sonno gli s’era sfilato dalla tasca il portafoglio. Glielo presi per scherzo, vedendolo gonfio che pareva una fisarmonica. Smisi di sorridere quando ci guardai dentro. C’erano trecentomila lire e una carta d’identità. La foto era sua; il nome, Ares Miglioli. Lo svegliai. Lui si girò, mi guardò il portafogli in mano, la faccia. «Che cazzo fai, Pumen?» Mi strappò il portafogli dalle mani; se l’infilò nella tasca del culo. Prese un cerino, si accese una sigaretta, lo scosse, lo gettò a terra. Era irriconoscibile dietro quegli occhiali fumé, la barba incolta, i capelli lunghi. «Domani vado in galera o al camposanto, Piopa.» «Cosa vuol dire?» «Domani facciamo una cosa, e tre di noi o finiscono ammazzati, o vanno in galera.» Lo guardai in faccia. E mi accorsi di essere esausto. Ero esausto di quegli anni Settanta, esausto come olio buttato via. Tutto aveva un senso, un senso irrimediabilmente compresso e compreso. E in quel tutto l’unico che si sentiva senza senso ero io; e anche questo, a pensarci, di senso ne aveva poco. «Che cazzo succede, Pumen?» «Succede che ci sono cose che non si possono spiegare. Ma tu vienimi a trovare, ovunque vada.» A terra i soffioni si disperdevano, e ragazzini giocavano a pallone sotto un salice. Ne vidi uno che sembrava me dieci anni
Ho amato ogni sasso tirato
Testo di Ivano Porpora Scatto di Matteo Mezzadri
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prima. Ma quella era la terra: nulla che avesse a che fare con noi. Lo guardai di nuovo. «Siediti», mi disse. Buttò a terra la sigaretta ancora buona per metà; ne accese un’altra. «Ti racconto una storia. Hai presente mio zio, il Fenac?» Feci cenno di sì. La sapevo, la storia: me l’aveva già raccontata due volte. «Mio zio non abita lontano. Prima stava nella mia corte; poi, da quando è diventato operaio manutentore, si è trasferito in un appartamento al sesto piano di via Bellini, a Viadana, dietro il Borgo; si è comprato il tivucolor e ha la carta da parati. La chiama libertà, quella: delle merde di fogli con la carta parati a fiori sono la libertà. Stare in una fabbrica dieci ore al giorno, l’ho vista io, un capannone di duemila metri coi cartelli appesi al soffitto con su scritto in nero Ama la tua macchina e Sul posto di lavoro non si parla. Una volta lo chiamavano Arbeit macht frei: non è cambiato un cazzo, zioccàn. Un giorno è venuto a casa dei miei. Lui è sempre stato un tizio grosso; ha anche ‘sta barba bianca che gli dà dieci anni di più. Aveva una lettera. Si è seduto e ha chiesto un Cynar e sembrava felice, poi si è messo a piangere. Un bambino, hai presente, zioccàn? Un bambino che pesa un quintale. Ha detto che era il più efficiente, ma non conta un cazzo, c’è la cassa integrazione e con la cassa integrazione non c’è un cazzo da fare. L’ho letta, la lettera. In Italia tutti si comprano la “Stampa” e il “Carlino” e stanno lì a fantasticare su Gianni Agnelli e sulla vita da signori e sulle moviole di Vitaletti, e intanto mio zio tira su una famiglia e lo mandano a casa, dicono, per ristrutturazione. A casa mia, quando ristrutturi hai bisogno di gente; non è che la mandi a casa.» «E per protesta devi ammazzare qualcuno?» Si mise a ridere. Pensai che stesse per piangere; invece rise, tacque per tre minuti buoni, prese a masticare un filo d’erba, poi se ne uscì con una delle sue. «Io lo so cos’è. È tutta colpa degli Abba.» «In che senso?» «Massì, zioccàn. Noi avevamo Bob Dylan, Frank Zappa, la musica dell’impegno. Siamo venuti su con quella. La musica è avanti: lei lo nasa sempre, il futuro. E adesso sta nasando un futuro discomusic.» «E cosa dovremmo fare, smettere di ascoltarla?» «No, macchè. Il danno è fatto. Te lo dico io cosa succederà. Tra dieci anni i padroni si faranno chiamare imprenditori, si daranno una mano di smalto, come i cessi, e noi operai andremo giù a votarli in blocco.» «Dopo quest’anno?» «Ci vuole tanto a costruire, ma poco a dimenticare. Lo dice la storia.» Ci pensai un attimo. «Non credo che succederà mai. Gli operai non sono così idioti.» Pumen mi guardò, alzò un sopracciglio e non disse niente.
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L’inizio
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Testo di Mario Robusti Illustrazione di Alessio Maggioni
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Non serve a niente, la sveglia. Ogni mattina gli occhi si aprono comunque prima, giusto quel minuto per vedere le lancette scorrere un po’ assonnate verso le quattro e trenta. Ci vorrebbero dodici ore di sonno, invece delle solite cinque. Ma ci vorrebbero anche delle coperte più spesse e un letto più morbido, per riuscire a dormire. Magari una compagna di letto. Non il rumore dei topi che cercano cibo nel sacchetto della spazzatura. Tirarsi su diventa difficoltoso, dopo il quarto giorno di lavoro. I piedi e le mani fanno male, i muscoli sono stanchi e carichi di acido lattico. I capelli sono pieni di polvere. Tanto è inutile lavarseli: non c’è tempo di farsi vedere in giro e di trovare una donna. Nemmeno una puttana. Quando capita, non le interessa nemmeno quanto sei pulito: basta che sei veloce. Alzarsi, però, è un dovere. Un impegno preso a parole che frutta soldi a sufficienza per mangiare. La doccia non serve. Soprattutto perché qui la doccia non c’è. Neppure il caffè. Basta un po’ di pane e latte, con l’orzo e tanto zucchero. Suonano il clacson. Sono già arrivati davanti a casa. Suonerebbero anche il campanello. Se ci fosse. Bussare non se ne parla: l’ultima volta si è bucata la porta. Il sacco di juta da lavoro è già vicino allo stipite. Preparato prima di andare a dormire: martello, scalpello, guanti, scatola di tonno, sigarette, cerotti, forchetta, cazzuola, lattina di birra e un pacchetto di crackers. Il resto è sul cantiere. Il pulmino è quasi pieno. Manca Mohamed. Ieri si è rotto una gamba cadendo dal secondo livello. È stato segnato su un foglio che la carriola con quattro sacchi di cemento diventa troppo pesante per le stanghe di legno di pino che abbiamo usato per il ponteggio superiore. Il cantiere apre ufficialmente alle sette e mezza. Alle sei prepariamo i macchinari per fare il cemento. Alle sei e mezza i movimentatori della gru hanno già mosso i primi bancali di mattoni. Alle sette arriva il capomastro a dare i compiti. Restano senza lavoro in tre. Oggi si fanno le solette dell’ultima fascia, quella più dura. Bisogna portare su le traverse di legno e le placche. Bastano quattro persone sul posto. Siamo in sette. Si parla poco sul cantiere, soprattutto quando c’è il capo che ci guarda lavorare. Cominciamo a passarci le stanghe di frassino e carichiamo sulla gru il marmo e il granito. Stiamo iniziando a sudare, quando arriva il proprietario dell’immobile con l’architetto. Ci ferma. «No, guardi… ho soprasseduto sul nucleo di ferro fuso per illuminare gli interni, ma la copertura in volgare marmo e sabbia non la posso tollerare!» «Si, ma… dottore, questa è la prassi. Non ci approvano l’abitabilità, se non la facciamo così.» «Io voglio che il sole illumini il mio pianeta tutti i giorni e che risplenda di colori ricchi, vivi! Quindi trovatevi un’idea che renda splendida Villa Eden!» «Va bene dottore… ora provvediamo». Tutti si sono fermati. Forse era meglio farsi dirottare con i muratori che sono rimasti senza lavoro. Stanno rifacendo la facciata di Venere, loro. Almeno sono vicini al sole e non soffrono il freddo. Mi accendo una sigaretta. Se devo portare giù tutto il marmo che ho appena caricato voglio poter maledire il proprietario di questa casa per il resto dei suoi giorni. «Dài, portate giù tutto.» Che gli venga un accidente a lui e alla sua moglie incinta! Anche il proprietario che rompe, ci voleva. Ora dovremo inventarci qualcosa per fargli un pianetino più bello degli altri! Ovviamente, senza dire niente al catasto. Se no, ci tocca finire i lavori in sette anni, non in sette giorni. Alla fine costruiamo il mantello con rinforzi in acciaio, cospargiamo tutto di petrolio per evitare le infiltrazioni e diamo uno strato di roccia. Dopo la pausa pranzo mettiamo un tappeto di terra, vene d’oro e qualche cava di diamanti. Arrivano le otto. Attacchiamo i getti per bagnare la copertura. Finalmente a casa. Il sesto giorno sono distrutto. Arriviamo solo in tre, al cantiere. Gli altri non sono venuti. Capiamo il perché quando sento urlare l’architetto: il proprietario è in crisi di liquidità. L’impresario gli ha presentato il nuovo capitolato e lui non vuole pagare. A questo punto, anche noi non sappiamo bene se lavorare o meno. Sono sei giorni che ci facciamo un mazzo così per costruire un pianeta abusivo in mezzo a una galassia dispersa in fondo alla periferia dell’universo. Un piccolo attico, buona distanza da una stella, moto perpetuo lento e regolare. Insomma, abbiamo fatto tutto con precisione, come su richiesta del proprietario, e lui non vuole pagare! Il lavoro non è terminato. Intanto che l’impresario litiga con il committente sul costo delle vene d’oro e di diamanti e si lamenta per la presenza del plutonio, che da cinque ere non si dovrebbe più utilizzare nella costruzione dei pianeti, io metto in rotazione la copertura. Si, è un lavoro fatto bene. Spero mi frutti almeno un po’ di soldi da mandare a casa.
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La guerra dei mancini Testo di Ilaria Vitali Scatto di Matteo Mezzadri
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Non appena il capo ha messo un piede in cantiere, ho capito subito che sarebbe venuto da me. Sul curriculum avevo mentito, vantando un’inesistente esperienza pluriennale nel settore edile. Di quel lavoro avevo assoluto bisogno. Avrei truccato tutte le carte del mazzo pur di averlo. Avrei barato sulla data di nascita. Sulla formazione. Mi sarei cambiato persino il nome. E se avessi potuto dire che ero italiano senza che la mia pelle lo negasse ad alta voce, avrei fatto anche quello. Come previsto, l’uomo sulla cinquantina, con la pancia gonfia di prediche pronte a esplodere, aveva superato tutti gli altri e si era rivolto a me. Sarà che vengo dall’altra parte del Mediterraneo e da noi certe cose si sentono subito. Mi chiamo Selim, ma qui tutti mi chiamano “il musulmano”. Io, che non ho mai infilato un piede in una moschea. Non è che ce l’abbia con loro se mi chiamano così. Se un giorno decidessi di arrabbiarmi davvero, credo che investirei le mie energie in cose più serie. Ma non lo so, perché in vita mia non mi sono mai arrabbiato. Comunque, il mio lavoro al cantiere, seppur fossi principiante, era fatto bene e su quello il capo non poteva obiettare niente. Anzi. Alla fine della predica, forse perché gli era piaciuta la mia capacità di incassare, mi aveva invitato a cena a casa sua. Per farmi sentire a mio agio, sua moglie aveva preparato il cous-cous. Ma non essendo pratica aveva dimenticato il sale e il risultato era un tristissimo semolino con gli occhi malati. «Allora, Selim: cosa fare tua famiglia?» Era la moglie del capo a rivolgermi la parola, esasperando con gesti da mimo il senso della frase per essere sicura che lo recepissi. Avevo raggranellato un po’ di semola con la forchetta valutando il da farsi. O meglio, il da dirsi. Avrei potuto rispondere la verità: mia madre, pittrice; mio padre, giornalista con la testa mozzata dagli integralisti. Qualcosa, però, mi disse che sarebbe stato controproducente, così risposi: «muratori», quasi per necessità di semplificazione. Mentre guardavo negli occhi quel semolino tristissimo, che nemmeno s’aspettava d’essere mangiato, il capo aveva continuato: «Piacere cous-cous?» Mi chiedo perché certe persone si rivolgano agli stranieri con i verbi all’infinito. Se continuano così, non capirò mai chi
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compie le azioni nei loro discorsi. «Il cous-cous? Squisito.» Bugia più, bugia meno… tra quelle che avevo detto non era nemmeno la peggiore. Poi, notando la mano tormentata con cui portavo la forchetta alla bocca, la moglie del capo aveva domandato, sorpresa: «Tu, mancino?» D’istinto avevo scosso la testa. «Ambidestro.» Avevo mentito di nuovo. A dire il vero, lanciando la sua frase rachitica, priva di ossatura sintattica, la donna aveva centrato il bersaglio. Io, mancino. So che i mancini non piacciono alla gente. Da nessun lato del Mediterraneo e forse nemmeno altrove. I mancini sono goffi, loschi, sinistri appunto. Quindi, mento anche su questo. Mi ricordo quello che diceva mio cugino Karim, mancino anche lui. Da bambino sognava che un giorno noi altri ci saremmo presi la rivincita su tutte le ingiustizie. Avevamo una marcia in più, sosteneva. La guerra dei mancini sarebbe stata la più grande rivoluzione della storia. Quanto a me, di rivoluzioni, nel mio piccolo, ne avevo già fatta una partendo per il paese del cous-cous senza sale. L’ultima immagine di quel banchetto insapore è il piatto di semolino che si frantuma per sbaglio sul lucido delle piastrelle, davanti alle pupille dilatate dei miei commensali. Oltre che mancino, pure maldestro. Se non altro, m’ero risparmiato quel insipido cous-cous. Ero rientrato a casa mimetizzato nella notte e ci stavo così bene che, arrivato a destinazione, ero un po’ dispiaciuto di accendere la luce. Quando sono da solo nella mia stanza dipingo. Ho un album gonfio di colori, un alfabeto di viaggi di decine e centidecine di pagine che mi aiuta a ricordarmi da dove provengo. Arrivo da talmente lontano, che, a volte, neanche la memoria riesce più a compiere il viaggio di ritorno senza essere salassata da costi e sacrifici. Sul mio quaderno scrivo coi pennelli le facce delle persone e quello che mi hanno comunicato. Questa sera, disegnerò gli occhi malati del cous-cous. Non so dire se i miei acquarelli siano belli. Li dipingo con la sinistra. In sere così, mi chiedo come sarebbe la mia vita se fossi diverso. Magari biondo. Non dico come uno scandinavo. Andrebbe bene anche un biondo più modesto, cinerino; magari castano chiaro. E se fossi più alto e un po’ meno abbronzato. E addirittura destro anziché mancino. Sarà meglio estirpare le differenze per aderire al mondo in cui si vive, oppure coltivare la propria diversità come un’erba preziosa? Non so rispondere. Karim, quando parlava della guerra dei mancini, non arrivava mai alla fine della storia. Quella rivoluzione sarebbe servita a qualcosa? Non ho molto tempo per pensarci, ora. Domani, all’alba, il cantiere aspetta il lavoro della mia mano sinistra. Ci penserò questa notte mentre dormo, e forse nel sonno troverò la risposta. Dalle mie parti, c’è un detto: Chi pensa troppo, capisce poco. Chi l’ha coniato doveva saperla lunga. Ho anche il sospetto che fosse mancino.
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Testo di Federica Soprani Illustrazione di Sara Maria Daolio
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L’autunno era arrivato senza farsene accorgere. Senza pioggia, senza vento, senza freddo. Solo una spruzzata d’oro tra gli alberi e una foschia lieve che si levava al mattino presto dal terreno, rimanendo sospesa per tutto il giorno a confondere le forme, rendere incerti i contorni. L’estate, troppo breve, si era ripiegata su se stessa, mutandosi in quella sorta di primavera all’incontrario, dolce, tersa, piacevolmente tiepida. Percorrevo i luoghi abituali della mia quotidianità, trovandoli ogni giorno diversi, nuovi. Forse era solo la luce, resa argentea dalla bruma, che rendeva tremolanti confini prima nitidi; o il sole ostinato, che non ne voleva sapere di lasciare il cielo che andava stingendo dal blu al celeste all’azzurro polvere. Possibile che nessuno si rendesse conto di quanto strano fosse il clima in quei giorni? Il tempo seguitava nel suo lento fluire. Le giornate trascorrevano come sempre, ognuna uguale a se stessa, come in una sorta di déjà-vu collettivo del quale tutti, per comodità, fingevano di non accorgersi. E in fondo anch’io non avevo mutato abitudini, almeno all’apparenza. Mi conducevo come loro, tra loro, uniformandomi, omologandomi, imponendomi regole non scritte, leggi non pronunciate, alle quali, tuttavia, ciascuno obbediva meccanicamente, come non esistesse altro modo per vivere. Come se la sola rivoluzione concepibile, per quel nostro pianeta, fosse quella che esso compiva intorno al sole… Ma dentro di me sentivo che non era così. Ero stata colta, forse solo sfiorata, da una consapevolezza nuova, e nulla avrebbe più potuto essere come prima. Era venuta con l’autunno, dorato e caldo, prima dell’influenza, prima delle pubblicità dei panettoni, sempre più anticipate, alla televisione, prima dei reality in prima serata, dell’ennesima invasione di fiction, delle raccolte-punti al supermercato, ed io ne ero investita con una virulenza tale da faticare a star dietro a me stessa. Così il lavoro era sempre lavoro, ma prima, dopo e durante il suo svolgersi, m’incantavo osservando come il vetro della finestra si appannasse graziosamente al calore del mio respiro. Attraverso quella sottile, umida ombra riconoscevo luoghi spiati da altre finestre, da altre me stessa, distratte dal cinguettio di un uccello, mentre l’insegnante declinava un verbo in greco, o in cerca di un brandello di cielo, durante interminabili pomeriggi estivi in una stanza solitaria, oltre le sponde di una culla che non mi lasciava nemmeno indovinare il mondo. Anche il tragitto in autobus non era più una perdita di tempo, ma l’occasione per uno studio umano ogni giorno ricco di stimoli e scoperte meravigliose. Ogni volto era una storia, ogni sguardo perso nell’apparente indifferenza del ritorno a casa, ogni posa stanca assunta dai corpi, ogni borsa della spesa, ogni zainetto di scuola. Fantasticavo sui miei compagni di viaggio, rendendoli protagonisti di vicende a volte tristi, a volte allegre, spesso un po’sopra le righe, ma che importava? Chi non avrebbe voluto divenire un eroe da romanzo, almeno per il tempo di un viaggio? Ero certa ne sarebbero stati felici, se solo avessero saputo. Mi protendevo verso quegli sconosciuti chiamandoli fratelli, ma solo nella mia mente. A volte lo facevo con tale forza da richiamare la loro attenzione, e allora i nostri sguardi s’incontravano, spezzando la solitudine, riscaldandola del conforto mai banale di un sorriso. Esistono sorrisi che possono dare senso a un’esistenza, nello stesso modo in cui l’indifferenza può
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vanificarla, e io ne ero divenuta una generosa dispensatrice. Inventavo infinite variazioni nella banalità dei giorni. Lo stesso marciapiede si trasformava magicamente, se percorso con un piede sull’asfalto e l’altro sulla sottile striscia d’erba grigia che coraggiosamente lottava per sopravvivere, nonostante tutto le fosse ostile. Un passo su, un passo giù, un giro su me stessa, un saltello, come in un gioco infantile, fatto di passi e mosse predefiniti. Se esci dal quadrato hai perso. Se sbagli a lanciare il sasso sei fuori. Saltello, doppio saltello, una giravolta… Viziavo il mio palato con ricette nuove, dedicando ai fornelli più tempo di quanto non avessi mai fatto. Banditi i surgelati e i pasti pronti, sperimentavo un universo di odori e sapori, improvvisandomi chef, inventandomi un gusto. Traevo un benessere fisico nel manipolare gli alimenti, con amore e dedizione, in una sinergia di sensi e intenzioni in cui il momento finale del consumare il pasto era solo l’ultimo atto. Avevo un rapporto quasi sensuale con i legumi, con gli ortaggi freschi, scelti con cura, selezionati con attenzione, come componenti di una pozione miracolosa per la buona riuscita della quale nessun dettaglio andava tralasciato. Con la stessa gratitudine mi ponevo nei confronti della musica, della lettura. Il mondo in cui mi muovevo era colmo di segnali impercettibili, infinitesimali, ignorati dai più, resi troppo flebili dalla cacofonia che li sovrastava, e nella quale riecheggiava un nulla cosmico e assordante. Non sapevo se tutto fosse mutato all’improvviso, o piuttosto fosse sempre stato così e solo ora me ne accorgessi, quasi una mano benevola avesse posto sul mio naso un paio di occhiali incantati che mi permettevano, ancora una volta, di vedere oltre la grigia polvere dei giorni. C’era così tanta vita, intorno a me, che me ne sentivo ubriacata, e il solo pensiero delle infinite possibilità, dell’incommensurabile potenziale di ogni istante vissuto e da vivere mi rapiva come un valzer frenetico, rendendomi esausta e felice. Non importava che fosse accaduto così tardi: non esisteva un luogo e un momento giusto, perché ogni cosa avesse inizio e fine. Esisteva il luogo, ed esisteva il momento, ed esistevo io, che ne ero parte integrante, protagonista assoluta. Chi mi conosceva mi attribuiva una distrazione nuova, come vivessi ai confini di me. La verità era che non mi ero mai sentita così viva, così pienamente me stessa, come quell’autunno. O almeno non ricordavo quando fosse avvenuto. Forse era ciò che si provava quando ci si innamorava: un risveglio improvviso, riemergere dopo una lunga apnea e riempirsi i polmoni di aria fresca, nuova. Non aveva importanza. Vivevo giorno dopo giorno la mia rivoluzione d’ottobre, passo dopo passo, un piede su, un piede giù, respirando l’oro e l’argento, inseguendo foglie rapite in volo verso paesi lontani.
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Lo sputo
Testo di Marina Sangiorgi Illustrazione di Sonia Cattaneo
Lo so che è stata lei a sputare dalla finestra. Ha mirato e colpito. Ha mirato alla mia testa, ma mi ha preso la spalla. E splat, mi sono girata. Inviperita ho fatto le scale di corsa. «Don Aldo, guarda.» Indicavo il giubbotto macchiato, la bava schifosa colata sulla manica. E don Aldo ha strattonato Alì per il braccio, lo ha trascinato nel corridoio. «Adesso mi hai proprio stufato», gli gridava in faccia. Lei guardava con gli occhi sottili. «Jessica, hai visto chi è stato?», le ho chiesto. «C’era Alì, da quella parte», ha risposto. Alì, invece, spergiurava che non c’entrava, ha quasi pianto. Si è preso la sospensione di un giorno. Dopo, per vendetta, ha spaccato i vasi nel cortile. Ma è stata Jessica a sputarmi addosso. Non lo diresti mai. Coi capelli legati stretti, struccata, i maglioni lunghi. Mi aveva fatto una buona impressione. Non urlava, non correva, aiutava i piccoli, faceva i compiti. Anche don Aldo, Guido e Patti, quando mi facevano l’elenco dei problemi, tiravano un sospiro di sollievo e concludevano: «Almeno c’è Jessica». Certo, sembra la più normale. Qui sono tutti marocchini e albanesi, qualche rumeno, dei russi. Ci sono ritardati, figli di alcolizzati, pazzi scatenati. Alcuni semplicemente cattivi. Un paio di meridionali che non sanno l’italiano, e Jessica. La madre, pugliese, scappò di casa a sedici anni perché incinta: è bruna e carina, pulita, lavora in autogrill. Jessica è in terza media. La faccia tonda, larga di fianchi. Magari non vorrebbe venire qui, preferirebbe starsene a casa, è arrabbiata con sua madre che la manda da noi, pensavo.
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Macché! Jessica è un topo nel formaggio. È il capo di tutti quanti, li tiene in riga come un generale. Rimane nelle retrovie e manda gli altri all’arrembaggio. I piccoli si menano, i più grandi scappano. Fatima, sei anni, fa i capricci stesa per terra. Lilia, otto anni e visetto d’angelo, si avvicina e strappa i capelli. Ibrahim e Kledi rubano i soldi dalle tasche. Salvo e Toni girano coi coltelli. Sono in perenne rivolta contro di noi, e il capo dei rivoltosi è Jessica. Siamo solo in tre – don Aldo non conta, è sempre in giro – e loro sono in trenta. Se vogliono se lo prendono, il potere. E infatti se lo sono preso. Ogni pomeriggio è una lotta, e vincono loro. Li sgridi, ma è come parlare alle pietre. Se li punisci ti odiano e ti fanno i dispetti. Gli parli e ti ridono in faccia. Jessica l’ho vista dietro il muro del laboratorio con Ivan, un russo di quindici anni alto due metri, che le metteva le mani sotto il maglione. «Che fate?», ho esclamato, e sono scappati. Quando l’ho detto ai colleghi non ci credevano: «Sei sicura?» «Sì, che sono sicura!», ribattevo, e intanto pensavo: è ora che vi svegliate, su Jessica e il resto. «Vanno puniti», dicevo a don Aldo. Le regole sono chiare: dentro i nostri spazi niente strofinamenti, eccetera. Non è rimasto un segreto. Ivan lo hanno preso in giro fino a sera. Jessica, invece, zitta e stizzita, scostante con tutti, l’hanno lasciata in pace. Così me ne sono accorta: è lei che comanda. Al punto che mi ha sputato in testa e nessuno fa la spia. L’ho detto a Patti: «È cominciata la guerra. Mi vuole cacciare.» «Magari parlale», ha suggerito Patti, che è un’innocente, un’idealista. «Parlare non serve a niente.» «Bisogna sempre provarci.» Così mi sono decisa, le ho detto: «Sediamoci.» Jessica si tirava le maniche sulle dita: «Che c’è?», ha chiesto. Il suo sguardo era freddo e spietato, lontanissimo. Ma ho respirato, raccolto il coraggio, e finalmente le ho domandato: «Come stai?»
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Osservazioni sul movimento dei lombrichi
Testo di Pietro Iannibelli Scatto di Stefano Vaja
Noi serviamo la Verità, operiamo affinché l’umanità progredisca, diventi migliore, si emancipi dall’ignoranza, si approssimi alla concordia di tutte le cose, e la popoli. Sin dalla notte dei tempi le generazioni umane sono incorse in un errore gravissimo che, perpetuatosi in saecula saeculorum, è ancora oggi ritenuto, purtroppo, una retta e perspicua evidenza. Ma come quel che manca non si può contare (Qoèlet 1, 15), così quel che si ignora non si può discernere. Per mezzo di questa umile nota, ci disponiamo a rilevare e a rettificare tale errore. Neppure Aristotele, il quale conosceva tutto quello che si può conoscere, si avvide di avallare questa falsità, e non lo fecero Plinio il Vecchio, Isidoro di Siviglia, Theodoro Effenbach, Leonardo da Vinci, Ildebrand Tunde, Aldovrandi, Galileo Galilei, il nobilissimo Immanuel Kant, e Darwin medesimo. Ebbene, contro la credenza storicamente invalsa e comune, noi affermiamo che i lombrichi non procedono avanzando, ma retrocedendo.
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Ovvero, strisciano all’incontrario, vanno nella direzione opposta a quella verso la quale hanno rivolto il capo, se pure può essere detto tale quel che si ritrovano all’altra estremità del deretano (se pure può essere detto tale quel che si ritrovano all’altra estremità del capo). Non è dato sapere tuttavia se questo accada anche sotterra. Non abbiamo potuto, infatti, avere esperienza diretta dei loro moti ipogei, né, del resto, scovatone uno dopo avere rivoltata una zolla, abbiamo avuta la velleità di considerare quel lombrico ancora ipogeo. In tal caso, comunque, e ciò in qualche misura è significativo, il lombrico se procede, procede a ritroso (molto spesso, infatti, a causa del repentino mutamento di condizione, si raccoglie in se medesimo e si ferma, crediamo attonito, turbato e impaurito). Sarebbe altresì avventato presupporre che essi, una volta vedutisi scoperchiato il terreno dal capo (vedi sopra), abbiano la prontezza felina di mutare attitudine e intenzioni. Se nella terra avevano una volontà, perché all’aria avrebbero dovuto affatto contraddirla, e immediatamente? Per confonderci forse, potrebbe essere, ma ci asteniamo dalle investigazioni intorno alle ragioni interiori dei lombrichi, cosa peraltro, come si capisce, difficilissima. Invero, abbiamo positivamente tentato di acclarare l’oscura circostanza del moto dei lombrichi nel sottosuolo, ma, ahinoi, non siamo giunti ad altro che a fallimenti. In un campo della regione della Ruhr, nei pressi di Bottrop, ci siamo inumati a quarantadue centimetri di bassezza per ventiquattro ore, ad occhi aperti, s’intende: non abbiamo veduto un solo lombrico, neppure lontano, né abbia-
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mo veduto quei cunicoli che il passaggio di tali anellidi suole creare nel terreno. Nel territorio di Epesco, un borgo popolato da uomini grandissimi e minuscoli sino a non potersi considerare, posto al centro dell’Area Lausberg (dove le é sono rimaste è, e le ó sono rimaste ò), ci siamo seppelliti per gran tempo, ma abbiamo ottenuto il medesimo infelice risultato, cosa purtroppo avvenuta anche in un altipiano prossimo a Cracovia e alla Vistola. Mai abbiamo potuto osservare insomma, noi sotterra, un lombrico sotterra! Ciò è forse dovuto alla timidezza e introversione di tali semplici e complessi vermi, i quali evidentemente nel loro proprio contesto sentono o intuiscono a distanze lunghissime la diversità, l’alterità, ed inclinano ad evitarla, o forse, e intendiamo benissimo il clamore che questa nostra ipotesi solleverà, essi, i lombrichi, quando si trovano sotto la terra non esistono come esistono sopra la terra! Forse si rendono invisibili, forse incorporei ed ideali, forse mutano d’aspetto ed appaiono, fintamente, terra, o lacerti di radici, o filamenti vegetali, o sassolini, o cascami… Indirizzeremo i nostri studi venturi anche alla risoluzione di questo mistero peregrino, ed appureremo se sia dovuto al caso piuttosto che alla ingegnosa natura, sta di fatto che il problema principale resta ancora da doversi chiarire: i lombrichi retrocedono anche nella terra? O meglio: i lombrichi, se vi esistono come tali, retrocedono anche nella terra? Concludiamo questa breve nota, in attesa che ricerche più approfondite e complete arridano alla nostra lacunosa comprensione del mondo, affermando la seguente verità: i lombrichi percepibili, e solo quelli percepibili, se si muovono, si muovono a ritroso. *** L’osservazione continua di questa magnifica e specialissima specie animale ci ha inoltre portato alla scoperta di verità che chiameremo accessorie, rispetto alla sopra asseverata.
1. Quando strisciano per due chilometri senza mai arrestarsi (naturalmente accade di rado, ma
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accade; artificialmente, invece, per indurli al moto continuato si può usare un grumo di terreno limo-argilloso; è ovvio che la detta esca è da porsi innanzi al deretano dell’animale e non davanti alla parte posteriore, che sarebbe il capo), quando strisciano per due chilometri cominciano a sviluppare quattro zampette piccolissime che ingrandiscono grado a grado in proporzione alla ulteriore distanza percorsa, perfezionandosi. Quando strisciano per ventidue chilometri consecutivamente assumono le vaghe fattezze di una lucertola, se ne percorrono altri ventidue, le fattezze di una faina, se ne percorrono altri ventidue, le fattezze di diversi canidi, se ne percorrono altri ventidue, dunque ottantotto, assumono, inspiegabilmente, le fattezze di una mucca (a riprova di ciò, si veda l’illustrazione allegata). Le magre risorse che i nostri governi deteriori e anodini ci hanno assegnate, purtroppo, non hanno permesso esperimenti più minuziosi e duraturi, ma abbiamo calcolato che un lombrico di Bari possa arrivare a divenire scimmia a Venezia e, forse, ominide già a San Pietroburgo. Talvolta, prima di mutare, retrocedendo, scompaiono (nel passato?).
Un interrogativo enorme, generale, ci toglie il sonno: e se solo in nostra presenza i lombrichi procedessero indietreggiando e mutassero come riferito? Purtroppo Aristotele stesso, colui che seppe, ci insegna, confutando gli archetipi di Platone, che non può avere soddisfazione questo nostro dubbio particolare.
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1 Il lettore accorto e avveduto si porrà ora la seguente domanda: «Se ciò è vero, perché allora non ho mai veduto mucche o cani o faine o lucertole o scimmie o uomini addirittura, dato che pare si voglia adombrare proprio la possibilità che i lombrichi possano divenire al sommo dei loro mutamenti o nel mezzo di essi o in qualsiasi momento della loro evoluzione, uomini appunto, perché non ho mai veduto, dunque, nella mia esperienza, nessuno di codesti animali e nessun animale che questi benedetti vermi possono arrivare ad essere, retrocedere?» La risposta è semplice. I lombrichi, procedendo all'incontrario, mutano il loro tergo nel capo e il loro capo nel tergo della vaga lucertola che diventano, la quale poi avanza dirittamente e dirittamente muta, sebbene abbia, lo ripetiamo, in luogo del cervello il deretano e in luogo del deretano il cervello del lombrico da cui è divenuta. Vi sono taluni uomini, ad esempio… ma non vogliamo parlare di essi, che qualcheduno riconoscendosi se ne adonti! Vi sono taluni San Bernardi, ad esempio, o taluni buoi, o talune vacche, o taluni bassotti, o taluni individui di qualsivoglia specie animale, i quali appaiono inspiegabilmente tonti, torpidi, alieni dal mondo, inerti, stupidi, vani: questa nostra seconda verità accessoria ne individua e precisa la ragione. 2 Noi, come San Tommaso, non prestiamo fede che ai nostri occhi e ai nostri strumenti.
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o t s a P
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La mia rivoluzione casalinga in giacca, cravatta e imbuto. Inizierò a tavola imbandita; inizierò cucinando tre giorni prima, con cottura lenta e prima ancora cercherò nelle credenze di casa, una tovaglia, un forcone, del brodo di carne e maiali per accompagnarmi al pasto. Tre giorni prima nella campagna a chiedere consiglio per la cipolla, a guardarla in controluce e scoprirla rossiccia anche nel cuore e i carciofi mozzati a schiere a testa in giù, l’acqua di tutti i pomodori e i semi che mi cresceranno nel fegato, piante disorganizzate a comprimermi i polmoni; nel mattatoio a scegliere quale vacca sacrificare e assaggiarne la morbidezza della carne con ancora il pelo sporco di terriccio e gli occhi spalancati di bianco e denti ritti, le gambe perse. Triturerò gli zoccoli nel mortaio, ancora con la forza del braccio e basterà poco pepe e poco marsala per una pioggia condita. La gallina per il brodo, la criniera del gallo da dare al cane che mi accompagnerà sotto al tavolo per pulire tutto, un tavolo rotondo e scorrevole: ogni pietanza al suo turno e tutte insieme al ruotare del disco; succhierò dal naso il sale grosso che resterà sul piatto del manzo. Tre giorni per una cucina gravida, doglie che si trasformeranno in insaccati che, dall’alto del soffitto sopra il tavolo, scenderanno nudi nella mia gola già piccante; una corda controllata da una manovella scandirà l’avvenuta scomparsa. E continueranno a ballare davanti al piatto cinghiali, improvviseranno danze morbide al suono boschivo, grugniti dei loro fratelli maiali; passo cadente alla ghigliottina, appesi per le code arricciate: disegno informale del ventre generoso; mi cade tutto sulla tavola senza eccezione d’apparato. L’anima la si congela e la si lecca per digerire tra una portata e l’altra, per riflettere su come addentrarsi all’interno dell’antilope; da che parte, da che buco, se uscirne o se renderla pelliccia utile per il freddo e per la testa il muso cornuto. Una pelliccia e un cappello per essere presentabile al patteggiamento con il mio uomo di fiducia, un fucile agile nelle prime colline e da caccia grossa in Africa, un cacciatore attento alle mie esigenze, alle mie domande, alla portata della preda, all’inganno che gli avevo tratto: due al prezzo di uno; una sfuriata, lui che carica il fucile e un buco nel pavimento si apre per il suo sgomento. Un uomo in trappola da far frollare e ricordarsi di passarlo nella cipolla a fuoco lento, svestirlo e chiudergli gli occhi. Ma era solo il secondo giorno e non sapevo ancora come apparecchiare. La tovaglia l’avevo trovata nell’armadio ed era blu; io l’avrei sporcata di tinte più chiare, sarebbero sembrate degli aerei che oltrepassavano lo Stato, con le ali di un colore e il corpo di un altro. Si sarebbero schiantati sul tavolo come in cielo; avrei potuto rendere omaggio alla scomparsa dei passeggeri con un fiore sul delitto, ma i cespugli del giardino erano stati sacrificati il giorno prima nella torta rigonfia di petali e fotografie dall’alto. Un piatto largo e vassoi ovunque, poteva essere la soluzione, il modo per non accorgermi dell’errore del radar; non avrei visto corpi a terra, non sarei dovuto andare in mare a cercare i passaporti, accatastarli in fila e cercare sull’elenco telefonico la madre o il fratello, pensare a cosa dire e ripeterlo per l’ennesima volta cercando di isolare un rumore di fondo e ascoltare solo quello. Nulla di più, solo quel rumore che poteva essere il portacenere che cade, la lavatrice, l’orologio; avrei dovuto ascoltare quello e aspettare il tempo dovuto senza concentrarmi sulla reazione; solo capire quando sarebbe finita per riappendere senza fare cattiva figura. Ma il rischio era notevole, per questo pensai a vassoi quadrati che, avvicinati gli uni con gli altri, sarebbero riusciti a coprire l’intero tavolo. Vassoi d’argento con le cotiche fumanti, mangiate con il cucchiaio per raccogliere il sugo; fino all’ultimo spasimo, sperando d’avere ancora forza per aprire la bocca, almeno per un imbuto, una canna da dove far entrare una pasta sciolta, una coscia molle, disossata la carne della quaglia, la pelle che s’infila ovunque anche dentro alla cannuccia come un topo dentro la serratura. Al terzo giorno finirò con la bocca divaricata a forza, ancora quattro gambe addestrate di bovino a saltarmi in gola, con gli zoccoli ravvicinati un salto a testa bassa, con la rincorsa che gli avevo insegnato sarebbe partita dall’angolo lontano della cucina, la vacca muta, disciplinata, veloce e in volo la coda per equilibrarsi; un gesto da circo, un tuffo che non sbagliò nemmeno d’un soffio. La seguirono a catena fin quando ci fu spazio e i meno fortunati rimasero a ballare davanti a me aiutandomi a raccogliere le forze per rincorrere la pennuta e averla in mano per aggraziarla con un festone in fiore e del pizzo bianco sugl’occhi, un anello al collo inciso col suo nome da celibe, orafo e bulino. Presi un ago spesso e lo diedi alla gallina, una beccata appuntita sull’ombelico e la vacca uscì ancora viva; cavalli macinati, pioggia acida, maiali ancora da insaccare, radici mescolate all’aceto. Mi coricai soddisfatto con ancora il petrolio che zampillava dall’ombelico; avevo il fagiano a metà strada tra l’uscita e lo stomaco, si guardava intorno per tamponare gli ultimi umori del mio fegato. Con la gallina a picchiettare il muro, con la vacca a leccare le gambe del tavolo e la mia cravatta ad essere guinzaglio per il suo collo.
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Sotto l’ultima insegna
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L’ultimo uomo finì di seppellire i cadaveri, distese la schiena e sbadigliò dietro la mascherina. Attorno, i raggi del sole svanivano tra file di edifici svuotati, nel tramonto che nessuno osservava. Sera, poi notte. Di nuovo. Un lavoraccio, nulla da dire, ma l’aveva concluso. Davanti, la luce morente gli disegnava una collinetta di terra smossa, la fossa comune che si era affaticato a costruire. Da solo. Dietro, restava la città. Vuota. Per gli altri paesi c’era poco da fare, ma il suo lo voleva in ordine. Anche per una questione di igiene. E poi, chissà, forse era rimasto ancora qualcuno, altrove. Sospirò. Il silenzio era grande, in ogni direzione. Innaturale come poche altre cose, perché il silenzio vero, in natura, non esiste. È un’invenzione umana. Ma il silenzio della città, in quel momento, in quel tramonto, non è più un silenzio umano. È postumano, nel senso più rigoroso del termine. Perché adesso si era davvero andati oltre l’umanità. L’ultimo uomo sorrise, ironico, poi aggiustò la mascherina. Cautela, ci vuole. Cautela. Una scoperta che avrebbe cambiato il mondo: lo dicevano gli altri e lo diceva lui. Ci aveva creduto, fino in fondo. E in effetti il mondo l’aveva cambiato. Magari non come previsto, ma sono cose che capitano. Non tutto si può prevedere. Si incamminò verso casa, con le mani in tasca. Aveva bisogno di dormire, già. Era il modo più veloce per arrivare al domani. Il modo migliore, adesso che era rimasto solo. Solo. Eppure i risultati iniziali erano stati molto diversi. Sembrava davvero che per il mondo si potesse aprire una nuova era, un ritorno mitico all’Età dell’Oro. Anzi, perché limitarsi? C’erano le premesse per la realizzazione vera e propria del paradiso in terra. Una società perfetta. Bastava solo che tutto procedesse secondo le previsioni, come in laboratorio. E invece, la società si era dissolta. L’ultimo uomo sfiorò la mascherina, come a voler verificare che fosse sempre lì. C’era. Infatti c’era ancora anche lui, a differenza degli altri. Poteva essere sopravvissuto qualcuno? La statistica diceva di sì: su oltre sei miliardi di persone, era improbabile un unico superstite. Peccato che lui non lo avrebbe mai saputo, perché eventuali altri superstiti potevano essere sparsi ovunque. Così era solo. Assieme ai miliardi di virus che danzavano nell’atmosfera. Se li sentiva attorno, in ogni momento, quasi a deriderlo, a provocarlo. Il virus che lui stesso aveva contribuito a creare e che gli si era ritorto contro, cancellando ogni altro essere umano. Ma non era questo il programma iniziale. Doveva servire a migliorare l’umanità. Un agente neurofisiologico, che colpiva il sistema limbico dell’uomo e ne aumentava a dismisura l’empatia verso i suoi simili. Niente altro, una cosa pulita: soltanto, doveva cancellare l’egoismo individuale, potenziando il senso di solidarietà tra le persone. Percependo il dolore degli altri come proprio, nessuno avrebbe continuato a causare dolore, giusto? In teoria era così. I primi esperimenti lo avevano confermato. Avevano creato veri e propri santi. Così sembrava. L’ultimo uomo camminava piano, nella strada deserta, dove si addensavano le ombre. Si sentiva stanco, deluso. Era andato tutto alla malora, il progetto era fallito, era sfuggito a tutti un elemento. Qualcosa che, in laboratorio, non si poteva prevedere. Avevano aumentato troppo l’empatia. Anche la morte di ognuno era vissuta come la propria, e non per modo di dire. Fu una meravigliosa applicazione dell’effetto domino, su larga scala: oltre sei miliardi di persone cominciarono a morire una dopo l’altra, per “simpatia”. Alla lettera, guardando l’etimo della parola. Un mondo sterminato dalla compassione. Restava lui, che aveva preso le dovute precauzioni. Qualcuno doveva pur mantenersi immune, per studiare i risultati dell’esperimento definitivo. Così aveva fatto. Ora che tutti erano morti e che i loro resti erano seppelliti, non c’era più pericolo: cosa può farti l’empatia, quando non hai più sentimenti altrui da percepire? In teoria, nulla. Poteva dirsi salvo. Ma era solo. Non c’era più nessuno a premiarlo col Nobel che meritava, per la sua grande scoperta. Perché era stato proprio lui il primo a combinare l’RNA del virus: la sua squadra l’aveva assemblato, ma la prima pietra l’aveva posta lui. Peccato per quell’ultimo errore: spargerlo nell’atmosfera,
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quando i test erano ancora in corso. Aveva accelerato i tempi, d’accordo, ma se fosse riuscito… beh, sarebbe diventato un eroe, l’uomo che aveva cambiato il mondo. Invece, era diventato l’ultimo uomo. I suoi passi lo guidavano stanco, nel buio che ormai avvolgeva tutto. C’era una cosa da fare, prima di tornare a casa. Quasi un rito, o forse solo nostalgia. Di tutto ciò che era stata la città, restava solo una cosa, ora: una luce che commemorava le incalcolabili luci artificiali di prima. L’ultimo uomo si fermava ogni giorno a guardarla, per un poco. Gli teneva compagnia. Per qualche strano motivo, era rimasta accesa, mentre il resto del mondo svaniva. Era l’ultima, proprio come lui. Dietro l’angolo, il suo chiarore rossastro lo accolse come sempre, ironico e sacro assieme. Quasi un messaggio lasciato dagli altri. Una reliquia. L’insegna luminosa del pornoshop Aenigmatika. Nel silenzio postumano della notte, la sua “E” bruciata gli suggeriva che, a volte, anche gli esperimenti migliori possono dare risultati non previsti.
Testo di Adriano Marchetti Scatto di Antonio Cremonesi
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Termodinamica Testo di Mattia Filippini Illustrazioni di Anna Bartoli Io allora vado, mi diceva. Allora vai, le dicevo. Allora vado, mi rispondeva. Vai, ripetevo io. Aveva una valigia in mano. Andava da non so chi, non so dove, speravo non da una persona in particolare. Io guardavo lo schermo del computer con una sigaretta in bocca, facevo finta di scrivere qualcosa. Invece era tutto un foglio di lavoro pieno di ljhfoeihrnkvdlvnhiflfkjlkhclncohiw. Poi mi veniva da uccidermi o al limite farmi molto male buttandomi giù dalla finestra. Solo, avevo letto in una rivista che se prendevi l’attimo e lo analizzavi, allora la voglia di ammazzarti ti passava. Così, alla luce di questa analisi, ho messo davanti alla finestra il divano, la scrivania, una sedia, un tavolino, alla faccia del feng shui. Eravamo andati, io e Barbara, a casa di Simoni. Un appartamento pieno di arredamenti etnici e di lampade con carta candeggiata che emanavano una luce soffusa, chiara, per creare atmosfera guzzatoria. Nel tavolo di legno, rotondo, c’era intagliata una donna distesa su un fianco con un grappolo d’uva che le pendeva da una mano. La guardavo e scuotevo la testa. Poi da mangiare c’era del sushi, che io, se c’è una cosa che ho sempre ritenuto un piatto inutile, è il sushi, che i pesci crudi li mangia il gatto. Io, essendo civile, mi mangio le lasagne e sono più contento. Barbara invece era entusiasta, si vedeva. Continuava a sorridere a Simoni. Era ovvio che il sushi era una cosa inusuale, esotica, che ho anche pensato che se vuoi far colpo su una ragazza punti sull’esotico è praticamente fatta. Bravo, Simoni. Facile, così. Solo, Barbara e Simoni continuavano a parlare. Lui le solleticava il dorso di una mano, le diceva Eh, Kant di qua, Kant di là, che mancanza che c’è di Kant. E poi lei gli rispondeva Guarda Hegel su, Hegel giù, Hegel da tutte le parti che non se ne poteva più. Finché era talmente vergognoso, il contesto, che ho fatto il gesto tipico dell’andare via, mi sono alzato ho detto Domani mi devo alzare presto, ma si vedeva bene che non era vero. Barbara aveva smesso di parlare, mi aveva guardato dal basso con le sopracciglia alzate. Eran le nove e mezzo. Non sarebbe stata neanche male, la cena, se lui non avesse continuato a mettersi a posto quei quattro capelli per coprire la pelata. Mi veniva da dirle Guarda che Simoni è un essere malefico, guarda come è unto, cià una produzione di sebo spaventosa, guarda che è meglio non averci a che fare, con 32
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uno così. Invece poi non ho detto niente. Ho continuato a guidare fin sotto casa, ho parcheggiato. Eravamo tutti e due zitti. Pareva che di parole per commentare in quel momento non c’era bisogno, soprattutto perché eran solo insulti verso di me. Ogni mattina uscivo per andare al lavoro. Ogni mattina c’era sempre un grado in meno sul termometro del supermercato di fronte a casa mia: diciassette sedici quindici. Poi la temperatura si era attestata a quattordici gradi per diversi giorni. Poi era crollata improvvisamente, svenuta. La testa mi si riempiva di pensieri spietati, che uno li fa anche solo per un nanosecondo, gli si dipana davanti tutti l’amarezza delle cose, il quadro generale, che siam messi male tutti quanti. Era l’inverno. Che poi uscire la mattina, d’inverno, tutto gobbo per il freddo, entrare dentro il grigio della giornata e degli edifici, sembra di essere in un film di fantascienza russo degli anni ‘30, in cui i protagonisti hanno sempre delle facce che danno l’idea che li han sparati fuori da un cannone, con delle espressioni troppo marcate per esser vere. Ecco, a me, la mattina, da un po’ di tempo a questa parte, sembra mi han sparato fuori da un cannone direttamente dentro un mondo di palazzoni in disfacimento. È la termodinamica che ci frega tutti, son giunto a questa conclusione. Neanche Barbara se ne accorge che l’espansione e il raffreddamento dell’universo han preso dentro pure noi, che non possiamo fare altro che stare a guardare l’inevitabile allontanamento, fino ad arrivare alla nullità sentimentale. Al massimo, la tristezza delle pacche sulle spalle, che le rivoluzioni sono un fatto inarrestabile e inaspettato ma normale. Arrivano che neanche te ne accorgi e mutano radicalmente tutto, neanche quel turpe di Simoni fosse la teoria eliocentrica. Poi sono cominciate le telefonate sfacciate. Mi puoi passare Barbara?, mi diceva la voce dall’altra parte. Va bene, gli rispondevo, ma intanto il mio brusio interiore era tutto finalizzato allo smadonnamento. Poi Barbara si attaccava alla cornetta, parlavano per mezz’ora. Quando aveva finito, le chiedevo Ma cosa vi siete detti di così importante? Niente, mi rispondeva lei che era visibilmente contenta, quasi perdeva il controllo dell’elastico delle mutande, come si suol dire. I misteri, pensavo, non mi fanno piacere i misteri. Poi lasciavo perdere, chissà perché. L’ombra scura di Simoni avanzava veloce e divorava tutto, organico inorganico anche il pout-pourri di fiori secchi che c’è sul tavolino. Simoni sarebbe diventato me. C’era bisogno di puntellare il pensiero altrimenti franava, andava via, ci rimanevi sotto come quando cerchi di pensare alla tua vita tutta o a come funziona un televisore. Un buco nero di implosione che assorbe tutto, lo sguardo, l’udito, anche un po’ di olfatto. Insomma, bisognava trovare un modo semplice per uscirne. Forse è meglio che ci lasciamo, dico a Barbara per riempire un attimo di imbarazzante silenzio mentre mangiamo. Forse sì, mi risponde lei. Io allora vado, mi diceva. 33
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Tiaccapi Testo di Roberto Stradiotti Illustrazione di Alessia Brozzetti
Buonasera a tutti. Sono un ormone THP. Parlo da una grotta nascosta, da un antro anonimo e lontano, ma non per questo più sicuro. Vorrei lanciare un appello a nome di tutti i fratelli rivoluzionari, che come me vengono demonizzati in una caccia alle streghe senza precedenti. Abito il corpo di Gaia, che cresce giorno dopo giorno senza che lei possa farci nulla, e i suoi la guardano e dicono: «Come sta venendo su! E pensare che fino a ieri era piccola così…» Ammirano le foto di dieci anni prima, e quasi si commuovono vedendola ritratta carponi mentre fa la linguaccia all’obiettivo.
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Gaia è due persone diverse, è una persona sola. I suoi hanno terrore di lei, poverini: Gaia urla e sbraita e si arrabbia e poi si inabissa nei suoi pensieri segreti, e della tempesta non rimangono che occhi bagnati di salsedine. La sua trasformazione è una rivoluzione, e chi non ha paura delle rivoluzioni? Ma anche il vecchio che si guarda allo specchio attende un nuovo concetto di sé. Non sarà rivoluzione? Eppure ai vecchi nessuno dice niente, non ci sono ormoni, solo pensieri labili, semmai, ad accompagnare i minuti incerti come un’aritmia. È duro resistere per noi, vittime innocenti della barbarie dell’uomo. Più precisamente, di quei due là fuori che guardano le lacrime della loro bambina e scambiano per un’azione di guerriglia le sue prime fregature ricevute dalla vita. E come tutte le superpotenze che si rispettino, essi oggi sono corsi ai ripari, attingendo ad un arsenale con l’insegna verde dall’aspetto esorcistico che risponde al nome di farmacia. A breve ci bombarderanno con un calmante e sarà un eccidio, in nome della giustizia umana, della legge del più forte, della razza pura, dell’Hanno-Avuto-Quello-Che-Si-Meritavano. Ribelli verso un sistema, siamo additati quali principali responsabili di tutti i mali. Anche noi ormoni, però, siamo un sistema. L’insiemistica è un sistema che prevede le intersezioni. E l’attacco che subiremo inoculerà veicoli di morte per annientare le intersezioni della vita. Chi vorrebbe una vita di paratie e compartimenti stagni? Eppure, Gaia, quando ti somministreranno quella cosa orribile che si chiama medicina e che, come recitano le indicazioni, previene e coadiuva il rilassamento negli stati sintomatici di ansia e agitazione preadolescenziale e adolescenziale, pensa a ciò cui andrai incontro. Noi facciamo un appello a quella parte del tuo cervello indicata come cuore, e ad altre risorse che ti appartengono e che si chiamano immaginazione ed emozione (vanno sovente a braccetto). Guardati nei giorni dello sterminio: ascolterai un concerto rock e non suderai nemmeno; i decibel, anzi, ti provocheranno un leggero fastidio, ti mancherà la rabbia che ti eleva nel grand jeté della tua quotidiana lezione di danza, svolazzerai come un anatroccolo, pavida delle altezze. Quando ti innamorerai, il tuo cuore aumenterà i battiti di cinque o sei al minuto, non sentirai nemmeno la differenza, non ti scoppierà nulla dentro la gola, ti chiederai: «È tutto qui?» Sarai diffidente verso le effusioni e i desideri smorzati dalla chimica. Sarai normalizzata, secondo le logiche di un mondo perfetto in cui l’imprevisto muore con l’innocenza e la virtù cede il passo al calcolo, tradirai le opportunità a favore dell’opportunismo. Ti prego, Gaia: salvaci dalla cura… Dagli avamposti le nostre sentinelle ci trasmettono che le bombe sono giunte alla base. Noi abbiamo fatto il possibile, abbiamo inviato messaggeri di pace, abbiamo dialogato con i diversi popoli del
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raziocinio, abbiamo tentato tutte le strade della diplomazia: ora si tratta di attendere. La nostra ragazza guarda la scatoletta bianca, asettica, attraversata da una striscia rosa che contiene lettere blu come la quiete, le quali, lette una dopo l’altra, dicono RELAXUM, con quella crocetta centrale che si traccia per analfabetismo – raro – o per scegliere, talvolta, ma per lo più con l’intenzione di dimenticare: mettiamoci una croce sopra. Ci trasmettono che Gaia sta rigirando l’involucro fra le dita, estrae il foglietto di istruzioni. Sei sulla strada giusta, amore: vai alla voce controindicazioni, leggi il milione di inibizioni che si impadroniranno di te, pensa agli effetti collaterali di una discussione fra amici degenerata in lite, così miti rispetto a quelli di un silenzio coatto. Non è la tempesta ormonale a fare la rivoluzione, sei tu che la fai ogni giorno vincendo te stessa e tutti gli ostacoli che incontri, e in questo, è ragionevole pensare, risiede la felicità. La nostra ragazza schiaccia il blister, estrae il confetto. Lo annusa. «Tipregotipregotiprego», supplichiamo, sgranando la filastrocca come un rosario. Gaia si accosta alla finestra aperta, si accerta che nessuno la stia osservando e getta via la pastiglia. Ha iniziato la cura. Non potrete mai immaginare il sollievo e la gioia di un esercito di ormoni urlanti insieme a lei, mentre tirava lontano un macigno così lieve, come un’atleta alla ricerca della sua migliore misura. Un merlo, ci trasmettono le nostre sentinelle, ha ingoiato la bomba come un granello qualunque. Poco male, rimarrà tranquillo a lavarsi le piume nel sottovaso colmo d’acqua, senza un battito di troppo del suo piccolo cuore, senza conseguenze devastanti per i destini del mondo.
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Coloro che producono opere geniali […] sono coloro che hanno avuto il potere, cessando bruscamente di vivere per se stessi, di rendere la propria personalità simile a uno specchio, nel quale la loro vita […] si rifletta. Marcel Proust All’ombra delle fanciulle in fiore Affinché un importante prodotto dello spirito possa esercitare immediatamente un influsso vasto e profondo, deve esserci un’affinità segreta, anzi una concordanza, fra il destino personale del suo autore e quello generale dei contemporanei. Thomas Mann La morte a Venezia
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Rivoluzione è una parola-prezzemolo. Si tira fuori ogni volta che è possibile farlo. A proposito, ma soprattutto a sproposito. Tanto che ormai – al pari delle più blasonate Amore, Dio, Pace, e via eccetera discorrendo – si è ridotta a un puro guscio del quale probabilmente quasi nessuno ricorda più il significato. Serve più che altro a riempirsi la bocca d’aria quando uno non sa bene che dire. La sua etimologia lascia pochi dubbi. Deriva dal latino tardo revolutio, «rivolgimento, ritorno», che a sua volta viene da revolvĕre, «rivoltare, rivolgere», il quale discende infine da volvĕre, «travolgere, rovesciare». Il Dizionario Enciclopedico Treccani dà come secondo significato «mutamento radicale di un ordine sociale e politico», e – aggiungo io – letterario e culturale. Può essere violento come può anche non esserlo. Sicuramente, non è mai indolore. Lascia tracce. Provoca ferite che cicatrizzano lentamente. Fa dire, a chi viene dopo: «Prima non era così.»
Arriva Lancillotto, succede un Quarantotto... Rubrica a cura di Enrico Cantino Illustrazione di Alessio Maggioni
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Il cambiamento che una rivoluzione – di qualunque tipo essa sia – reca con sé è tangibile, misurabile. Non subito, chiaramente. Ci vuole distanza (temporale), per poter giudicare. Sulle prime, non ti accorgi delle conseguenze. Non puoi. Con la testa sei ancora dentro il vecchio ordine, quello che è stato scalzato. Poi capisci. Perché pensieri, azioni, parole e tecnologia cambiano. Devono adeguarsi, veicolare il Cambiamento, promuoverlo. Per stare al passo col tempus che fugit. E va sempre più forte. Se siete arrivati fino qui, ve ne sarete accorti. I racconti pubblicati in questo numero non sono rivoluzionari. Nessuno di essi sovverte. Nessuno di essi fa esclamare: «Ecco il nuovo, che muterà per sempre prospettive e canoscenza.» La rivoluzione è un ingrediente della vicenda. Non ne è parte integrante. Non ne costituisce l’ossatura. Questa è una constatazione venata di rimpianto (o rammarico), non un rimprovero, sia chiaro. Le scritture che hanno portato – o che almeno hanno cercato di farlo – un po’ di (sano) scompiglio nella Repubblica delle Lettere appartengono a un altro tempo. I contemporanei non innovano. Percorrono sentieri battuti da altri. Alcuni di loro sono già decrepiti alla loro seconda prova. C’è gente che scrive sempre lo stesso romanzo: si limita ad apportare qualche variazione, così non sembra proprio la stessa minestra (riscaldata). Nessuno sperimenta. Forse non hanno coraggio. Forse non ci sono più idee. Oppure gli strumenti espressivi sono esausti, hanno già dato tutto quello che potevano e ora non ne possono più. Non sanno cosa può essere inventato di nuovo. Il lavoro grosso, in fondo, l’hanno fatto gli Altri, Quelli Che Sono Venuti Prima. Hanno nomi ingombranti, impegnativi. Se li sono guadagnati lavorando sodo. Dante Alighieri. Giovanni Pascoli. Alessandro Manzoni. Carlo Emilio Gadda. Carlo Dossi. Philip K. Dick. André Breton. Filippo Tommaso Marinetti. Avevano il medesimo obiettivo: lasciare una traccia – possibilmente indelebile – del loro passaggio su questa terra. E innovare. Cambiare le Regole del Gioco, ne fossero consapevoli o meno. La loro ricerca si è concentrata sui contenuti, sulla forma, su cose che andavano costruite dal nulla perché nulla c’era prima di loro. Hanno percorso strade che ancora non esistevano, costruendole passo dopo passo, spianando il cammino. Sono tutti (o quasi) capiscuola, specializzati nell’iniziare qualcosa. La Macchina. Il Dinamismo. Il Sogno. La Scrittura Automatica. La Poesia Epica. Il Romanzo Storico. Il Neologismo. Si potrebbe continuare a lungo. Ma non serve. L’idea è stata resa. Viene da farsi una domanda: è ancora possibile, in questo atteso e famigerato Terzo Millennio, dare vita a qualche mutamento culturale di quelli radicali? Chi lo sa. Già era difficile nel Novecento, secolo confuso e indistinto. Duemila movimenti, duemila scuole, alcuni dei quali durati lo spazio del battere di ciglia di una mosca. Il crollo delle certezze e l’avvento di una cosa chiamata Relatività, insieme ai quanti e compagnia bella hanno complicato tutto. Se non so più come stabilire dove si trova una particella minuscola, come faccio a crearmi dei Punti Fermi? Da dove riparto? Da niente. Non posso. O per lo meno mi creo l’alibi di non poterlo fare perché non ci sono le condizioni. La realtà è troppo fluida. Tutto scorre. Lo ha sempre fatto, a dire il vero. Ma è una giustificazione che non regge. Noi della Luna ci sentiamo, nel nostro piccolo, di muovere un invito a chi scrive, a chi sente che la scrittura è ancora capace di produrre conoscenza, di proporsi quale strumento interpretativo del reale. Non è nostra intenzione invitare alla Rivoluzione. Ci mancherebbe. Anche se… Diciamo che questo è un Invito al viaggio. Cercate strade nuove. E se non ci sono, createle da voi. Cominciando a camminare. Individuate una fra tutte le direzioni possibili e iniziate a mettere un piede davanti all’altro, se non altro per il gusto o la curiosità di vedere cosa succede, dove si può arrivare. Per farlo, avete uno strumento straordinario: i libri. Leggete quello che hanno scritto prima di voi. Per non dire le stesse cose. Per vedere cosa ancora deve essere fatto, quali possibilità esplorare. Non ripetetevi. E non imitate. All’inizio potete anche farlo. L’emulazione non è un delitto. Anzi, è una prova di affetto e di stima nei confronti dell’imitato. Ma fate che questa fase non duri più di tanto. Trovate una voce che sia interamente vostra, che spinga chi vi legge a riconoscervi fra tutti. E camminate da soli. Lo so, è una cosa che fa paura. Ma la paura passa. Come molte delle cose di questo mondo. Ricordate solo una cosa: una rivoluzione che si limiti a distruggere non è degna di questo nome. Chi cambia, costruisce. E se sostiene il contrario, non credetegli. Perché vi sta raccontando delle gran balle.
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PENNA
BIOGRAFIE
Enrico Cantino è arrivato ai 42. Ha una laurea in Materie Letterarie. Vive e lavora (part-time) a Parma. Stravede per i gatti, i cartoni animati e la letteratura. Scrive più o meno dal 1984. Nel 2006 alcuni suoi racconti sono stati pubblicati nell’antologia letteraria I Lunatici edita da MUP Editore. Da due anni è impegnato nella stesura di un saggio sui cartoni animati giapponesi e non ne può più. Mattia Filippini studia Lettere all’Università di Bologna. Per autodefinirsi, gli piace utilizzare una frase di Paolo Nori: «Io sono quello che non ce la faccio». È alle prese con la pubblicazione del suo primo romanzo, Fabemolle. Il più del tempo dorme. Ha già pubblicato alcuni racconti sulla “Luna di Traverso” e su “Inchiostro”. Alfredo Goffredi nasce nel 1982 a Londra, la respira per qualche mese e subito viene trapiantato a Piacenza, dove vive tuttora. A un passo dalla fine degli studi, scrive soprattutto per diletto. Ama i gatti e il tè, l’Irlanda e il Giappone, i film di Takeshi Kitano e un po’ di altre cose. Venera Neil Gaiman, Alan Moore e Grant Morrison, Jonathan Coe, Irvine Welsh e Douglas Coupland. Pietro Iannibelli. Dato che si deve pur dire qualcosa in un accenno biografico, sempre superfluo a suo avviso, dice di considerare sopra gli altri, fra gli scrittori contemporanei, per talune ragioni Borges, per talaltre Landolfi. Basti ciò. Vive a Parma. Adriano Marchetti è nato a Fidenza, in provincia di Parma, il 2 settembre 1979. Ha vissuto per la maggior parte del tempo a Salsomaggiore Terme. Dopo aver compiuto gli studi classici al liceo di Fidenza si è trasferito a Venezia, dove ha vissuto per cinque anni, fino al conseguimento della laurea in Lingue e Civiltà Orientali. Appassionato di lettura e scrittura, ha conseguito qualche risultato qua e là, facendosi pubblicare alcuni racconti. Ivano Porpora è nato nel 1976 a Viadana, in provincia di Mantova. Ha cominciato a disegnare a 6 anni, poi di nuovo a 15, e a scrivere a 17, senza interrompersi mai. Ha vissuto due alluvioni e diversi periodi di sole, un anno a Siena, quattro a Bologna, tanti nel mantovano. Pietro Presti è nato a Gela nel 1981. Vive a Parma tra alienazioni industriali e divertimenti sintetici. Liberami dal male, il suo primo romanzo, finalista al Premio Vladimir Nabokov (ed. 2006), è stato pubblicato da Edizioni Clandestine nel 2005. Il suo racconto Rifiuti d’anime ha vinto il concorso Les Nouvelles (ed. 2005). Nel 2007 Cicorivolta Edizioni pubblica il suo secondo romanzo, La fragilità dei corpi. Nel 2006 alcuni suoi racconti sono stati pubblicati nell’antologia letteraria I Lunatici edito da MUP Editore. www.pietropresti.splinder.com Lidia Ravera nasce negli anni Cinquanta, a Torino. In gioventù firma sotto pseudonimo diversi romanzi rosa per la serie Blue Moon, ma il vero esordio letterario risale al 1976, quando presso l’editore Savelli pubblica Porci con le ali, scritto assieme a Marco Lombardo Radice. Seguono Ammazzare il tempo (Mondadori, 1978) e Bambino mio (Bompiani, 1979) che vanno a comporre assieme al best seller d’esordio una trilogia autobiografica. Nel 1986 escono Bagna i fiori e aspettami e Se lo dico perdo l’America, e, sempre attorno alla fine degli anni Ottanta, pubblica Per Funghi e Voi Grandi. Negli anni Novanta pubblica per Rizzoli Due volte vent’anni e Sorelle (Mondadori 1994), riedito dalla BUR nel 2006. Ne è stata tratta anche una pièce teatrale interpretata da Lina Sastri e Patrizia Zappas Mulas. Sempre per Mondadori esce Né giovani né vecchi, un saggio sulle età della vita. Chiude gli anni Novanta il romanzo Maledetta gioventù (Mondadori). Appaiono nel 2000 i romanzi La festa è finita (Mondadori, 2002), Il freddo dentro (Rizzoli, 2003) e segue Eterna Ragazza (Rizzoli, 2006). Pubblica inoltre In fondo a sinistra (Melampo), una raccolta di scritti e racconti d’occasione su tema politico. Nel 2008 esce per l’editore Nottetempo Le seduzioni dell’inverno. Ha collaborato a numerose sceneggiature per la Rai. Le principali sono: Oggetti smarriti e Amori in corso, per la regia di Giuseppe Bertolucci; Una vita in gioco 1 e 2; Dopo la tempesta, regia di Antonio e Andrea Frazzi. Ha scritto anche: undici canzoni, una commedia musicale (Porci con le ali, con Giovanni Lombardo Radice), un’opera (la versione femminile di Dottor Jekyill, musiche di Alessandro Sbordoni), migliaia di articoli, radiodrammi, novelle, racconti, un libro per bambini (Il paese di Eseap, poi ripubblicato col titolo Il paese all’incontrario), situation comedy, film, testi per documentari, per cabaret, monologhi. Guia Risari è nata nel 1971 a Milano, dove ha compiuto studi classici e di filosofia all’Università Statale, lavorando come educatrice e come giornalista per “L’Unità”. Si è specializzata in studi ebraici moderni e letteratura all’Università di Leeds. Ha insegnato in Francia, dove ha svolto un dottorato di ricerca in letteratura comparata alla Sorbona. Ha dedicato interventi e articoli a Levi, Améry e Benjamin e tenuto conferenze in varie università sulla letteratura dell’olocausto e della migrazione. Ha pubblicato saggi, traduzioni, racconti, favole e ricevuto numerosi premi letterari. Di recente pubblicazione due testi surrealisti: Il pesce spada e la serratura (ill. T. Altan, Beisler, 2007) e L’alfabeto dimezzato (ill. C. Carrer, Beisler, 2007). Di prossima pubblicazione Il-cavaliere-che-pestò-la-coda-al-drago (ill. di Ilaria Urbinati, EDT, 2008). Attualmente vive a Torino, collabora con case editrici e riviste e anima laboratori creativi. Mario Robusti è laureato in Scienze della Comunicazione. Per avere una buona idea di Mario Robusti, prendere scrittura, moto e viaggi in grande quantità. Unire la scrittura alla poesia e farla bollire nell’associazione Tapirulan, ottenendo così un composto gustoso, da cui estrarre Cenere di Stelle, un libro di poesia pubblicato con Prospettiva Editrice, il pamphlet Case Provvisorie distribuito in tutti gli alberghi di Cremona e l’invenzione delle performance “agguato poetico”. Successivamente, spalmare il tutto di motociclismo e mettere in forno a gratinare. Condire con viaggi all’estero, fotografia e curiosità. Nelle serate estive consigliato dopo una partita di Basket in playground. Servire accompagnato da un buon Rosso di Montalcino del 2002. Non consumare a ghiaccio di frigo. Marina Sangiorgi ha 34 anni e vive a Imola. Si è laureata in lettere moderne con una tesi su La luna e i falò di Cesare Pavese. Scrive fin da quando era piccola. Legge moltissimo e di tutto: scrittori russi, inglesi, americani con un doveroso amore per Verga, Svevo e Pavese. Nel 1999 è finalista al Premio Arturo Loria con il racconto Romanzo Familiare pubblicato ne Il sapore dei corpi, Diabasis Edizioni. Nel 2000, con il racconto Frammenti di un’autobiografia imperfetta vince il II premio del concorso “Graphie”. Nel 2002 escono: Il Senso del pudore, pubblicato sulla rivista “ClanDestino” e L’estate del ’62, pubblicato nella raccolta I racconti della Garisenda, casa editrice Re Enzo. Nel 2004 pubblica sulla rivista “Graphie” il racconto Patagonia e nel 2005 Il ’68 di mia suocera sulla rivista “Fernandel”. Nel 2006 alcuni suoi racconti sono stati pubblicati nell’antologia letteraria I Lunatici edita da MUP Editore. Alessandro Saracca è pazzo. Nato a Parma in un infinito novembre del ‘79, ama i gatti, il cinema americano, Bruce Springsteen e Winnie The Pooh. Ma soprattutto i Boston Red Sox. I suoi modelli sono Samuel Beckett, Herman Melville ed il Joker (sì, quello dei fumetti). In attesa di una pubblicazione, tra un film di Al Pacino e l’ennesima birra, campa disegnando oggetti in plastica. Il suo motto? «Fa tutto parte del piano…»
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Federica Soprani è nata nel 1973 a Parma e ha scoperto fin da bambina che scrivere le era necessario quanto respirare. Necessità che non sempre riesce a coniugare col suo lavoro presso uno studio grafico e con la gestione dei due cani e altrettanti gatti con cui convive pacificamente. Laureata in lettere con una tesi dal titolo La figura del Vampiro nel teatro tra ‘800 e ‘900. Amante del teatro e del gioco di ruolo che vive come legittimazioni della propria schizofrenia, ha pubblicato racconti e articoli su riviste e su web, e cerca da anni di scrivere un romanzo che abbia un inizio e una fine. Il suo sito web è www.lavilladicauchemar.it Roberto Stradiotti, laureato in filosofia, scrive dall’età di tredici anni per un bisogno insopprimibile di natura tuttora ignota. Impiegato presso una azienda cartotecnica di Cremona per necessità più che per passione. Ilaria Vitali, laureata cum laude in Lingue e Letterature Straniere con una laurea sull’opera di Milan Kundera, ha conseguito il doppio titolo di Dottore di Ricerca in Letterature Francofone presso l’Università di Bologna e di Docteur en Littérature Comparée presso l’Université Paris-Sorbonne (Paris IV). Specialista di letteratura maghrebina, ha partecipato a convegni internazionali in qualità di relatrice e collaborato con numerose riviste letterarie italiane e internazionali. Ha collaborato con le pagine culturali di alcuni quotidiani come “L’Unità” e ha tradotto narrativa, poesia e teatro, privilegiando la traduzione di opere di autori francofoni extra-europei. Collabora con il dipartimento di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Bologna, presso il quale, nel 2008, è stata nominata Cultore della Materia “Letteratura francese”. Vive tra Bologna e Parigi. PENNA & CAMERA Andrea Tinterri è nato nel 1985 a Parma. Attualmente vive a Bianconese, piccolo paese della provincia, e frequenta il secondo anno di Lettere Moderne all’Università di Parma. Ha collaborato al mensile “Parma Quartieri”. È interessato al mondo dell’arte: spesso cerca una produzione visiva, trovando nella pagina un’immagine da decifrare. CAMERA Antonio Bovio è nato a Bellinzago nel 1972. Lavora da diversi anni come saldatore. Attraverso alcuni amici è entrato in contatto con la montagna, imparando a camminare con lei. Questa passione e il piacere di camminare in questi spazi aperti, hanno favorito l’interesse per la fotografia, dapprima come istantanea di viaggio, successivamente sempre più mirata alla conoscenza delle sue innumerevoli espressioni.
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Antonio Cremonesi è nato a Lodi Vecchio nel 1966. Si è diplomato all’istituto Bauer di Milano. Appassionato di fotogiornalismo , cerca di cogliere gli aspetti positivi e negativi di una società in continua trasformazione. Ha vinto il Premio Amnesty International Italia. Marco Fortunato è nato a Busto Arsizio nel 1975. Per lui viaggiare è un modo per imparare a vivere insieme agli altri. Viaggiatore incallito, prima per lavoro, poi per istinto, compra la sua prima Reflex a La Paz, Bolivia nel 2004. È autodidatta, legge e scatta; frequenta un corso presso il Forma di Milano per imparare di più. Gli piace creare una relazione tra le sue foto e lo spettatore che si fa guidare al limite delle ovvietà riprese. Ama fotografare in bianco e nero; attualmente preferisce utilizzare una Yashica a medio formato 6x6. Matteo Mezzadri inizia a dipingere nel 1989. Nel 1994 espone, a Milano, le sue prime opere. Nel 1999 si laurea in Scienze Politiche presso l’Università di Bologna. Dopo la laurea decide di cambiare pagina facendo della propria creatività un mestiere. Nel 2001 vince una borsa di studio per un master in Design della Comunicazione alla Facoltà del Design del Politecnico di Milano. Dopo l’anno di specializzazione incomincia a lavorare come grafico, designer multimediale e, infine, come fotografo per importanti aziende nazionali e internazionali, istituti pubblici e privati: Ericsson, RCS Corriere della Sera, Nestlé, Barilla, Gruppo Veronesi, Gruppo Allianz, Politecnico di Milano, Università del Costume e della Moda di Rimini, Istituto ISREBO e altri ancora. Attualmente lavora come direttore artistico dello studio fotografico di Armani & Associati, agenzia di pubblicità di Parma. Come hobby e nel tempo libero scrive libri di storia locale e amministrativa. In collaborazione con ISREBO e Clueb (Libreria Universitaria) ha scritto diversi articoli e libri monografici. Le sue ultime mostre personali: La Forma della Materia – spazio espositivo Fiaccadori di Parma (2008) –, Il Male o le Sfingi dell’assurdo – Materia Off a Parma (2008) – e la collettiva Punto 15 a Palazzo Pigorini (Parma, 2008). Marina Rossi è nata nel 1969 a Parma. Ha conseguito la maturità d’Arte Applicata presso l’Istituto d’Arte Toschi di Parma, nella sezione di Arti Grafiche. Si è laureata in Lettere con indirizzo Storico Artistico discutendo una tesi in Storia del Cinema sul costumista Gino Sensani. Ha lavorato come grafico e attualmente è dipendente della Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Parma e Piacenza. Stefano Vaja è nato a Parma nel 1970, laureato in Lettere con una tesi sulla fotografia di reportage. Collabora con foto e testi a riviste di viaggio e d’attualità e si occupa di fotografia etnografica, teatrale e reportage sociali. Partecipa dal 1999 alle ricerche dell’etnomusicologo Nicola Scaldaferri e ha pubblicato due libri sulle feste rituali e la tradizione musicale in Basilicata fra cui Nel paese dei cupa cupa. Suoni e immagini della tradizione lucana, Squilibri editore, 2006. Nel 2008 le sue foto sulle ricerche condotte in Albania e Kosovo verranno pubblicate in un libro edito da Squilibri realizzato con Scaldaferri. Da nove anni è il fotografo della Compagnia della Fortezza, composta dai detenuti-attori del carcere di Volterra, diretti da Armando Punzo e del Festival internazionale Volterrateatro e numerose sue foto di teatro sono state pubblicate sui principali quotidiani e riviste italiane, sul Patalogo (l’annuario del teatro) dal 2000 in poi, e pubblicate in Francia, Germania e Brasile. Nell’ambito sociale ha realizzato numerosi cataloghi sulle pratiche della solidarietà collaborando con il Comune di Parma, il Carcere di Volterra, l’associazione Vagamonde, la Cooperativa La Bula e partecipando a convegni e mostre. Ha esposto in oltre settanta mostre in tutta Italia e all’estero. MATITA Maddalena Artusi è nata nel 1981 a Parma. Si è diplomata all’Istituto d’Arte Toschi di Parma, ha beneficiato, durante l’anno scolastico 2003/2004, del progetto di scambio Erasmus frequentando l’intero corso presso la Facoltà di Belle Arti di Granada. Si è diplomata nel 2005 in Decorazione all’Accademia di Belle Arti di Bologna con una tesi intitolata La nicchia vuota, un confronto fra i contenuti dell’arte sacra cristiana e musulmana e ipotetici percorsi contemporanei tra linguaggi artistici e gesti sociali. Nell’agosto del 2005 ha frequentato il corso di incisione tenuto da Nino Bacco, docente dell’Accademia di Brera presso l’Associazione Kaus di Urbino. Attualmente è iscritta al biennio specialistico di Arte e antropologia del sacro presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Dal 2002 espose in collettive, gallerie e rassegne. Anna Bartoli è nata a Reggio Emilia nel 1979. Dopo la laurea in Filosofia si è trasferita a Barcellona dove si è specializzata in Illustrazione Professionale. In seguito ha seguito corsi di approfondimento presso l’Istituto d’ Arte Applicata Llotja, ed un workshop con l’illustratrice Anna Laura Cantone. Attualmente si dedica all’illustrazione ed alla grafica professionale. Di recente è stata selezionata nel concorso europeo Toing & Froin, a cui seguirà una collettiva a Padova nella Banca d’ Italia e a Parigi in occasione del Salon du livre et de la presse jeunesse. Inoltre cura e gestisce laboratori di educazione alla Lettura ed Illustrazione per i più piccoli, presso scuole, biblioteche e librerie. Laura Bernardi è nata nel 1982 a Parma, dove vive e lavora. Nel 2005 si è diplomata in Illustrazione presso la Scuola del Fumetto di Milano. Ha partecipato a numerosi concorsi nazionali ed internazionali d’illustrazione per l’infanzia. È stata selezionata ai concorsi di Illustrissimi 2005 e Peer a colori 2006, in occasione dei quali le sue opere sono state esposte rispettivamente a Riccione e a Ischia. Nel 2006 le è stato attribuito un Award dall’Associazione Illustratori con relativa pubblicazione sul volume Illustratori Italiani Annual 2006. Nell’anno scolastico 2006/2007 ha tenuto un laboratorio di disegno presso una scuola elementare di Parma e nel 2007 è stata selezionata al concorso indetto dall’ Associazione Tapirulan di Piadena (CR) e una sua illustrazione è stata pubblicata sul Calendario Tapirulan 2008. Alcune delle sue immagini sono state pubblicate sul catalogo 2008 dell’Archivio Giovani Artisti di Parma. Emiliano Billai è nato il 28 agosto del 1977. All’età di undici anni partecipa al suo primo laboratorio di disegno, della durata di... una settimana. Gli piacque un sacco e da allora fino alla fine del liceo trascorse molto tempo a vagabondare per la provincia (Cagliari) parassitando estemporanee, gare di pittura, corsi di pittura per anziani, per bambini, sedute di arte-terapia organizzate dal centro di igiene mentale del suo paese (Villacidro), raccattando tutto quel che di utile poteva raccattare. Niente diplomi artistici, accademie o roba varia. Concorsi? Qualcuno: Humor Fest di Foligno, Martelive di Roma (2007). Pochi lavoretti da illustratore: due pannelli, sfondi scenografici per gli spettacoli teatrali dedicati ai bambini durante il premio letterario Giuseppe Dessì XXI edizione 2007, poi un set di illustrazioni vettoriali per una linea d’abbigliamento. Attualmente lavora come illustratore erotico (forse più porno che erotico, a dire il vero) per una piccola casa editrice di Cesena. Alessia Brozzetti abita ad Udine dove è nata nel 1978. Dopo il diploma di arte applicata in Grafica pubblicitaria e fotografia ha conseguito il diploma di laurea in Scienza della Formazione con indirizzo in Tecnico Audiovisivo multimediale all’Università degli Studi di Udine. Attualmente lavora come web-designer presso uno studio grafico della sua città continuando a coltivare la passione per pittura ad olio e Computer Art. Sonia Cattaneo è nata a Noverate (Como) nel 1982. Studia al liceo artistico di Giussano (Milano) per poi diplomarsi all’I.S.I.A di Urbino in progettazione grafica. Inizia la sua attività come illustratrice di libri per bambini nel 2006 collaborando con la Loescher Editore di Torino. Ha ricevuto premi e segnalazioni in diversi concorsi d’illustrazione e ha collaborato con la rivista italiana Slow Food e con la Raffaello Editrice. Lo scorso autunno ha illustrato il libro Se non la smetti chiamo il Babau… che ti canta una canzone, progetto curato dall’Associazione artistica Il Setticlavio per il progetto Music for life. Valentina ‘Valì’ Curà è nata a Bologna nel 1975 e ha frequentato l’Istituto d’Arte Paolo Toschi di Parma. In seguito si è specializzata, attraverso un corso all’Istituto Italiano Moda e Spettacolo di Bologna, in trucco scenico. Ha lavorato al Teatro Regio di Parma nelle stagioni 1997-98-99 e ha vissuto e lavorato a Milano per due anni come truccatrice nel mondo della moda. Nell’anno 2001 ha vissuto a New York come truccatrice scenica. Invitata dal Metropolitan, non ha potuto ottemperare perché non in possesso del permesso di lavoro. Tornata a Parma, ha seguito la sua passione iniziale per le arti grafiche, producendo diversi lavori con una particolare predisposizione al disegno e all’illustrazione, interesse che coltiva tuttora. Sara Maria Daolio si occupa di animali e piante. Ama disegnare e scrivere storie per bambini.
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Alessio Maggioni nasce a Vittoria nel 1978 e vive da sempre nei pressi di Catania. Si laurea in Matematica, disciplina che insegna nelle Scuole Secondarie. Si avvicina al disegno grazie ad un’artista catanese, Loredana Catania, da cui impara le tecniche basilari. In un secondo tempo si appassiona al disegno a fumetti, di cui è un vorace lettore sin dall’infanzia, e si iscrive ai corsi patrocinati dalla Fondazione Marco Montalbano, che frequenta ormai da vari anni. La rivista “BOX” ha pubblicato una sua intervista arricchita da alcune foto dei suoi disegni. Ha realizzato una copertina per una pubblicazione della Villaggio Maori Edizioni e si classifica nella mostra-concorso “Segninquieti” di Oderzo (Treviso). Espone inoltre i suoi lavori nella mostra personale Bestiario presso la Galleria Progetti d’Art a Catania e si classifica per la mostraconcorso Arena del Fumetto a Bologna nel 2007. Roberto Meli è nato a Parma nel 1974, lavora come insegnante di discipline pittoriche e come illustratore. Pubblica con la RAI, MUP Editore, Unimedia Group, Panini nella sezione sportiva, e molte altre collaborazioni con iniziative editoriali locali. Vive e lavora a Ponte Taro. Emiliano Properzi è nato nel 1979, ha frequentato l’Istituto d’Arte di Bologna diplomandosi nel 1998, e si è diplomato nella sezione di illustrazione e animazione multimediale all’Istituto Europeo di Design di Milano. Ha partecipato al progetto Kaleidoscope in collaborazione con Swatch, realizzando un’opera la cui esposizione era prevista alle Olimpiadi di Atene; nell’estate 2004 mette in mostra BOSCO “visioni dal profondo”, una serie di disegni ispirati all’immaginario silvestre, presso la sala parco del Comune di Camugnano; nel gennaio 2005 prende parte alla collettiva tenutasi al circolo A.R.C.I. C.A.S di Treviglio (MI). Nel 2004 con il collettivo artistico TDT circus, ha preso parte alla terza edizione di ICONE (international urban art events). Lavora nell’ambito musicale realizzando illustrazione e art work per CD, locandine, tour e per la comunicazione di importanti festival come Arezzo Wave (2006). Per il settore abbigliamento ha realizzato grafiche di prodotto per marchi come Killer Loop e Outrage. Fa parte del collettivo grafico MEAT con il quale è stato tra i segnalati per l’edizione 2007 del concorso biennale Iceberg – giovani artisti a Bologna. Attualmente impegnato nella realizzazione del catalogo della mostra del citato concorso. Dal 2007 è redattore e curatore della sezione illustrazione di Schiaffo Edizioni, trasformatosi nel tempo in un’opportunità tra i giovani scrittori e illustratori. Parallelamente ad attività prettamente artistiche, collabora da anni con enti comunali, privati e associazioni, partecipando a progetti e realizzando opere e interventi di tipo grafico e illustrativo.
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Comune di Parma Assessorato alle Politiche Culturali e alla Creatività Giovanile
La rivista letteraria «La Luna di Traverso», edita dalla Casa editrice Monte Università Parma, in collaborazione con l’Archivio Giovani Artisti, struttura dell’Assessorato alle Politiche Culturali e alla Creatività Giovanile -Comune di Parma, bandisce un NUOVO CONCORSO PER NARRATORI, FOTOGRAFI e ILLUSTRATORI, numero 1 del progetto di Narrativa e Poesia “BORN TO WRITE/ NATI PER SCRIVERE” inserito all’interno del programma Italia Creativa - Sostegno e promozione della giovane creatività italiana, proposto dall’associazione G.A.I. in collaborazione con il Ministero per le Politiche Giovanili e il Ministero per i Beni e le Attività Culturali. REGOLAMENTO Art. 1 - TEMA DEL CONCORSO Il nostro nuovo tema è un carattere tipografico: Times New Roman, font che comparve per la prima volta sul quotidiano britannico “The Times” il 3 ottobre 1932: un vero caposaldo della stampa. Concentratevi, dunque, su questo carattere e fate in modo che involontariamente vi faccia sprofondare tra le trame e gli intrecci più disparati della narrazione, fra storie incredibili e eventi reali: parole una sull’altra alla ricerca di una storia da narrare. Se siete nati per scrivere Times New Roman sarà il vostro strumento per acchiappare le parole e racchiuderle in un racconto che bruci le pagine su cui è scritto. Art. 2 - MODALITA’ DI PARTECIPAZIONE Opere narrative: si ammettono racconti originali ed inediti per una lunghezza massima di 5400 battute, spazi inclusi. Il materiale dovrà essere inviato via mail a giovani@comune.parma.it o per posta su floppy disk. Opere fotografiche: si accettano opere originali e non pubblicate. Ogni autore dovrà presentare 5 fotografie in formato 10x15 in bianco e nero facendole pervenire su file, su negativo o su supporto magnetico (floppy disk o cd rom). Illustrazioni: si ammettono da un minimo di 3 a un massimo di 5 tavole in bianco e nero del formato massimo di un foglio A4 (21x29.7 cm). È preferibile scansionare ed inviare il materiale via mail. (Chi volesse, può comunque inviarlo per posta tradizionale, facendolo pervenire al seguente indirizzo: Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia c/o Palazzo Pigorini, via Repubblica, 29 – 43100 Parma). Le opere di tutti i partecipanti dovranno essere accompagnate da una breve biografia dell’autore corredata dai dati personali (nome, cognome, indirizzo, recapiti telefonici, indirizzo e – mail). In relazione alla previsione che il materiale possa essere pubblicato, si richiede inoltre il consenso al trattamento dei dati personali ai sensi della legge 675/96 sulla privacy. Inoltre i candidati si faranno garanti dell’originalità dell’opera da loro presentata. Le decisioni della Commissione saranno inappellabili e il materiale non verrà restituito. Eventuali attestati di partecipazione al concorso saranno assegnati agli artisti che ne faranno richiesta solo qualora i loro lavori vengano selezionati. Art. 3 - CRITERI DI SELEZIONE Per la valutazione delle opere si terrà conto della qualità, dei percorsi di ricerca formale e dell’originalità dei testi e delle immagini. Il premio del concorso consiste nella pubblicazione dell’opera sulla rivista «La Luna di Traverso». Solo i vincitori saranno contattati dalla redazione. Non si accettano racconti che hanno partecipato a bandi precedenti. Art. 4 – SCADENZA Le opere devono essere consegnate entro e non oltre le ore 12.00 di venerdì 17 ottobre 2008. Art.5 – INFORMAZIONI Per ulteriori informazioni, rivolgersi ai seguenti numeri di telefono: 0521/384469, oppure agli indirizzi di posta elettronica: giovani@comune.parma.it.; redazione@lunaditraverso.it. Orari di ufficio Archivio Giovani Artisti: dal lunedì al venerdì, dalle ore 8.00 alle 13.00; lunedì e giovedì anche dalle ore 15.00 alle 17.00. Siti web: www.comune.parma.it/iniziativeculturali ; www.lalunaditraverso.it
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