NR. 15 SEGNALI

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SOMMARIO Incipit d'autore Testo di Franz Kafka

Racconto d'autore Sul fondo Testo di Gianluca Morozzi

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A perfect day Testo di Tommaso Chimenti

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Carlo II Testo di Pietro Iannibelli

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Esodo Testo di Mattia Filippini

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Il principe azzurro Testo di Angelo Collina

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VICE DIRETTORE Guido Conti

Il puparo Testo di Luisa Turchi

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ORGANIZZAZIONE E COORDINAMENTO Mariella Toscani - Responsabile Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia

Segnali di fumo Testo di Erika Morgagni

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REDAZIONE Silvia Bia, Enrico Cantino, Luigi Casa, Simona De Blasio, Lucia Gambetta, Armando Minuz, Federica Pasqualetti, Federica Sassi, Denis Zuliani

Sospetti Testo di Silvia Bia

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RELAZIONI ESTERNE Roberta Gatti

Sul vetro Testo di Andrea Cirillo

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Tunny fish Testo di Alessandra MR D'Agostino

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Vicini di casa Testo di Teresa Regna

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Viscere e sangue Testo di Simona De Blasio

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CHI SIAMO DIRETTORE Massimo Carta

IDEAZIONE GRAFICA Alessandro Berti

Simboli E Geometrie Nati A Libera Immaginazione Testo di Lucia Gambetta

REALIZZAZIONE Simone Pellicelli STAMPA Mattioli1885 - Fidenza (Parma)

RUBRICHE

PROMOZIONE E DISTRIBUZIONE PDE - Promozione Distribuzione Editoriale LALUNADITRAVERSO Anno 6 - Numero 15 Monte Università Parma Editore - Vicolo al Leon d’Oro, 6 43100 Parma - www.lalunaditraverso.it INFORMAZIONI Per collaborare alla rivista scrivi all'indirizzo redazione@lalunaditraverso.it oppure telefona all’Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia (via Repubblica, 29 - Palazzo Pigorini 43100 Parma, giovani@comune.parma.it tel. 0521/384469-70).

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Il giudizio e il lavoro editoriale della redazione sono insindacabili e accettati implicitamente.

Biografie

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Gli autori pubblicati riceveranno due copie in omaggio.

Monte Università Parma E D I T O R E

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E se domani (e sottolineo se)... Testo di Enrico Cantino

MUP

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Scatto di copertina Giuseppe Ammannato

La Luna di Traverso è sostenuta da Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia e Assessorato ai Servizi Sociali e alle Politiche di Parità del Comune di Parma.

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Illustrazione di Sara Maria Daolio

Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia Comune di Parma

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Quando nel 2001 è nata la rivista “La Luna di Traverso” probabilmente nessuno poteva supporre che quel laboratorio narrativo sarebbe durato nel tempo, che da quell’osservatorio sarebbero scaturiti dei segnali. Ma quali segnali, se non erano stati concordati in modo unanime? Il tempo li ha portati in luce, erano già nel marmo, bisognava solo togliere l’eccesso. I narratori inviano “le prove d’autore“ chiedendo segnali di conferma, di incoraggiamento o anche semplicemente di critica. I redattori con la discussione, la ricerca, il confronto serrato e continuo mostrano, secondo Fulvio Panzeri, “la vitalità e la forza propositiva che possono avere, oggi, le riviste su carta, stampate in tipografia“. Segnali, sempre segnali. Nelle Lezioni americane Italo Calvino si chiedeva se sarebbe stata possibile una letteratura fantastica nel 2000, in una crescente inflazione di immagini prefabbricate. Tutte le esperienze laboratoriali che procedono nella direzione della ricerca aprono, dunque, un varco in un contesto quotidiano ormai saturo di segni e segnali prefabbricati. Le parole, usate in un nuovo contesto, alla scoperta di una narrativa di qualità e mai scontata, costituiscono una risposta alla prepotenza delle strutture comunicative in atto, privilegiando l’autenticità delle storie. Un atto di creatività, un segnale che indica una via d’uscita da parole perdute o smarrite in una società incapace di comunicare. L’Archivio Giovani Artisti ha inteso ed intende affidare a “La Luna di Traverso” il compito di maturare un progetto alternativo, in cui il denominatore comune sia la volontà di gestire un progetto territoriale locale, ma non localistico, che interpreti i giovani non come un problema ma come una risorsa. Segnali di qualità, di cambiamento sociale e culturale. Mariella Toscani Archivio Giovani Artisti di Parma e provincia Comune di Parma

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Scatto di Luigi Casa Credo che i segni siano gli antenati del nostro modo di comunicare. Non riesco, però, ad immaginare quale arguzia ed ingegno e quale situazione contingente abbia spinto uno – probabilmente fra i più acuti ed ingegnosi – dei nostri progenitori a partorirne l’idea. Sarà forse stato per necessità, ma segni e segnali da allora sono diventati la nostra eredità più antica, un patrimonio inestimabile che a tutt’oggi utilizziamo spesso con sufficienza e talvolta con colpevole inconsapevolezza. Così, il tema Segnali, proposto per questo numero, sembra avere solleticato e sollecitato l’emisfero sinistro del cervello regalandoci una selezione di racconti più emotivi che razionali, pervasi da una sostanziale vena d’ottimismo, e, spesso, di sana ironia. Di primo acchito, il segnale principe percepito dagli autori, quasi fosse palpabile, è la musica. Nonostante l’iperbolica evoluzione del periodo della globalizzazione, l’uomo non riesce – per fortuna – ad allontanarsi da una vita accompagnata dal ritmo di una buona colonna sonora. Sebbene i segni visuali siano quelli maggiormente in grado d’appagare la feroce bramosia degli sguardi, i temi delle buone melodie sembrano incidere maggiormente nelle carni e nelle coscienze. Ci si può riscoprire sereni anche all’indomani di una sonora sbronza, se a svegliarci è un’immortale canzone di Lou Reed. Così, anche se la testa è ancora indolenzita dallo stravizio, sembrano meno gravi quelle idiosincrasie che ci mostrano quanto siamo uguali nella più assoluta diversità, tanto da permetterci di risolvere i problemi con un po’ di sana autoironia. Per la prima volta – sempre per fortuna – il materiale arrivato non trasuda tristezza e piagnistei da postfallimenti sentimentali, dimostrando che i nostri alchimistici scrittori hanno un orizzonte ben più ampio dell’immaginabile. Piccole paranoie matematiche (citazioni da simpatiche commedie hoolywoodiane); strade polverose che conducono a luccicanti cattedrali commerciali; tenui segnali di fumo che pongono in conflitto studenti con insegnanti, realtà con fantasie, cibarie e teorie filosofiche. Questi gli ingredienti principali utilizzati dagli autori. E, per ironia della sorte e di uno strano gioco di parole, i loro segni lasciano il segno. Storie di pupari che sognano finali diversi per i poemi interpretati dai loro amati fantocci, tormentati sospetti adulterini che trasformano improvvisati detective in anziani innamorati della propria vecchia compagna, o ancora singolari ed improvvisate visite di figli sbadati ad assenti genitori divoratori di tonno in scatola e di sgangherati principi azzurri cavalcanti ronzini con occhi da fata vezzosa: tutto ciò rappresenta la variegata cornice di un mondo più concreto e reale della realtà. Un mondo in cui le persone si confrontano, si scontrano, si amano, litigano, sperano, soffrono ed amano imparando a raccogliere e disseminare di segnali le proprie vite. In questo modo i nostri nuovi narratori riescono a staccarsi dai luoghi comuni finendo col mettere in dubbio alcune fra le altezzose convinzioni degli uomini moderni. Il mondo dei segnali sarà anche popolato da polverose reminiscenze del passato, ma se lo si osserva con attenzione si può capire con quanta sciocca supponenza l’uomo moderno è convinto che la razionalità vecchia di un paio di millenni possa prevalere in confronto a qualche milionata d’anni d’istinti. Che brutto segnale per chi non ha fede!

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«[...] Quello che voglio, è solo la discussione pubblica di un pubblico abuso. Mi ascoltino: una decina di giorni fa venni arrestato, sul fatto in sé dell’arresto io rido, ma qui, adesso, non si tratta di ciò. Venni sorpreso a letto la mattina presto, da quanto ha detto il giudice non escluderei avessero l’ordine di arrestare un pittore decoratore, innocente quanto me, in ogni modo scelsero me. La camera vicino alla mia fu occupata da due rozze guardie. Fossi un brigante pericoloso, non avrebbero potuto prendere misure migliori. Le guardie, inoltre, erano gentaglia priva di morale, mi riempirono le orecchie di chiacchiere, volevano farsi corrompere, volevano arraffarmi con false promesse, abiti e biancheria, volevano soldi, con il pretesto di portarmi una colazione, dopo avere avuto la sfacciataggine di divorare, davanti ai miei occhi, la mia colazione. [...] Non fu facile mantenere la calma. Ma ci riuscii e chiesi calmissimo all’ispettore – se fosse qui sarebbe costretto a confermarlo – perché fossi in arresto. Cosa rispose quell’ispettore, che ancora adesso vedo davanti a me, seduto sulla seggiola della signorina prima rammentata, come un’immagine della presunzione più ottusa? Signori miei, in fondo non rispose nulla, forse non sapeva davvero nulla, mi aveva arrestato ed era soddisfatto. Tutta la faccenda [...] mi ha procurato soltanto fastidi e un’arrabbiatura momentanea, ma non avrebbe potuto avere conseguenze peggiori?» K., a questo punto, si interruppe e, guardando verso il giudice rimasto silenzioso, credette di notare che quello, con un’occhiata, faceva segno a qualcuno in mezzo al pubblico. K. sorrise e disse: «Il signor giudice ha appena fatto a uno di loro, qui, vicino a me, un segno segreto. Tra di loro ci sono dunque persone che sono dirette di quassù. Non so se il segno doveva provocare fischi o applausi, e rilevando la cosa prima del tempo, sono ben consapevole che rinuncio a conoscere il significato di quel segno. Mi è del tutto indifferente e autorizzo pubblicamente il signor giudice a dare ordini ai suoi impiegati pagati, lì sotto, invece che con segni segreti, a voce alta, dicendo, per esempio: “Adesso fischiate!” oppure: “Adesso applaudite!”». Per imbarazzo o impazienza il giudice istruttore si agitava sulla seggiola. L’uomo alle sue spalle, con cui aveva parlato anche prima, di nuovo si chinò su di lui, vuoi per infondergli in qualche modo coraggio, vuoi per consigliarlo su un punto particolare. Sotto, la gente discorreva a bassa voce, ma con vivacità. I due partiti, che prima sembravano avere opinioni tanto opposte, si mescolarono, alcuni puntavano il dito su K., altri sul giudice. L’aria densa di vapori del locale era estremamente molesta, impediva persino di osservare bene chi stava lontano. Ne dovevano risentire in specie quelli sistemati in galleria, che si vedevano costretti, gettando occhiate timorose verso il giudice, a porre con voce sommessa domande ai partecipanti all’assemblea, per informarsi meglio. Le risposte venivano date con voce altrettanto sommessa, le mani davanti alla bocca.

Franz Kafka, Il processo, Milano, Adelphi, 1981, pp. 46-48.

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Scatto di Ilaria Ghidini

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SUL FONDO

Racconto d'autore Testo di Gianluca Morozzi Illustrazione di Emanuele Ferrari

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Sbadigliando, allungo la mano nell’altra metà del letto. È vuota. Silvia si è alzata poco prima di me per preparare la sua assurda tisana al finocchio. Non è mica una persona classica, lei, di quelle che al mattino bevono il caffè. No. Lei comincia la giornata con una tisana. Al finocchio. Facciamo colazione. Io bevo il caffè nella canonica tazzina, lei sorseggia la sua tisana nella mia tazza con lo stemma di Superman. «Vuoi un po’ di caffè?» «Non bevo caffè la mattina», dice. «Silvia», dico, «ma come diavolo fai a iniziare la giornata con una tisana?» «Stella mia... il mio corpo ha i suoi ritmi. Devo attivarlo la mattina con qualcosa di rilassante, tipo la tisana al finocchio: questa qui, presente? Poi proseguire secondo una curva esponenziale. Quando mi metto a studiare, di pomeriggio, bevo una tazza di tè. Quando esco con le amiche, la sera, bevo un caffè. Curva esponenziale. Molto semplice». Mi guarda in tralice sopra la tazza di Superman. «Se la tua Roberta beve il caffè al mattino, non per questo devo farlo anch’io, sai?» La guardo storto anch’io, sopra la tazzina di caffè. «Questa cos’era? Una frecciata?» «Frecciate? Io? Su Robertina, l’amore tenerissimo tuo? Quando mai...» «A me sembrava proprio una frecciata». «Guarda, se proprio volessi fare delle frecciate sulla tua fidanzatina...» «Non la conosci neanche». Ridacchia.

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«Be’, basta guardare le sue boccettine nella mensola del bagno...» «Cos’hanno di strano le boccettine nella mensola del bagno?» «Si capiscono molte cose di una persona, da come dispone le boccettine nel bagno». «Interessante. E tu cosa avresti capito di Roberta?...» «Che è una persona metodica, inquadrata, e – scusa se te lo dico – noiosa. Senza offesa per l’amore tuo, eh?» «Buono a sapersi. A proposito... ricordati di togliere lo struccatore dalla mensola, per favore». «Ho lasciato lo struccatore sulla mensola?...» «Sì, stellina dolce. E anche il fermacapelli sotto il cuscino». «Oh... ecco dov’era! Ma certo, non ti preoccupare: non sia mai che Robertina tua torna dal corso e vede un misterioso struccatore sulla mensola del bagno, o un fermacapelli sospetto sotto il cuscino. Poi magari sospetta qualcosa e litigate...» «Silvia?» «Sì?» «Stai volutamente lasciando dei segnali in giro per casa? Degli indizi per far scoprire tutto a Roberta, nella speranza che mi lasci?» «No... scherzi? Mai e poi mai! Anche se...» «Anche se?...» «... sarebbe ora di farla finita con Roberta, secondo me...» «Silvia... Magari lo decido io, se e quando farla finita con Roberta, eh? Senza trucchetti da avanspettacolo. Concordiamo su questa questione?» «Certo, certo... Siamo d’accordo». «Ecco, brava... Allora vai a recuperare la collanina che hai casualmente dimenticato sul bracciolo del divano». «Oh, che distratta che sono... Dai, dammi la tazzina, va’, che lavo tutto quanto e faccio sparire i resti della colazione. Non sia mai che Roberta sospetti vagamente qualcosa, al rientro dal suo corso...» «Brava». «Chissà, poi, cosa sta combinando, tutta sola, quella santa donna...» «Silvia. Per favore». «Okay, okay...» Mentre Silvia lava le tazze, io perlustro la casa in cerca di ulteriori tracce disseminate in giro. Ritorno con la collanina dimenticata – casualmente – sul bracciolo, lo struccatore dimenticato – casualmente – sulla mensola del bagno, il fermacapelli sotto il cuscino. Silvia ha già messo le tazze ad asciugare, e fatto sparire i rimasugli della colazione. Uscendo di casa, il mio occhio vigile scorge il suo accendino dietro i miei cd. Dimenticato casualmente lì. Certo. Prima che torni Roberta dal corso, cancello le ultimissime prove delle mie infedeltà. Il letto perfettamente rimboccato da Silvia, per esempio, con una perizia che Roberta sa benissimo essermi aliena. Uno strattone violento a lenzuola e coperte, il letto rifatto in modo approssimativo, come mio solito, e lo scenario diventa di gran lunga più plausibile. L’ultima perlustrazione porta a rinvenire un anello di Silvia dietro il portaspazzolino. L’anello a forma di fenice, uno dei tanti che porta abitualmente. Così tanti, che non ne avevo notato la casuale sparizione dalle sue dita. Per il momento lo nascondo in un posto sicuro. Silvia, poi, mi sentirà.

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Cinque minuti dopo, Roberta varca la soglia di casa con le sue borse e le sue valigette, di umore a dir poco funesto. «... santo cielo, Tato», geme, «non t’immagini com’era l’autostrada... un inferno!». Scuote la testa, allinea borse e valigette ai piedi dell’armadio. «Una muraglia di camion, cantieri su cantieri...» «Poverina». «... e poi tutte quelle deviazioni, i cambi di corsia...» «Mi dispiace. Sarai stanca». «Distrutta. Adesso mi faccio una camomilla per calmarmi: cinque chilometri di coda in mezzo ai TIR, sono un fascio di nervi...».

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Apre la credenza, guarda dentro piacevolmente stupita «... Tato, che bravo che sei stato! Hai lavato tutto per bene: pensavo di trovare una montagna di piatti sporchi...» «Eh, quando mi ci metto...» «... sì, anche se come al solito fai i lavori a metà», e guarda la tazza di Superman. «Questa tazza non l’hai lavata bene...» «Davvero? Dammela, che ci penso io», ma Roberta si è fatta serissima. Ha gli occhi fissi sul fondo della tazza. «Tato, scusa... hai avuto ospiti in questi giorni?» E qui mi si drizzano i peli sulla nuca, ma rimango calmo. «Ospiti? No, figurati. Perché?» «Perché ci sono i fondi di una tisana, in questa tazza...» «Tisana?...» «Cos’ho detto? Non parlo italiano?... Una tisana. Questi sono i fondi di una tisana». «Ma dai...» «Tu non hai mai bevuto una tisana in vita tua, Andrea”» e, notare, Roberta mi chiama per nome solo quando si scalda o sta per scaldarsi. «Ti conosco come le mie tasche. Tu non sai neppure come si prepara, una tisana. Chi ha bevuto in questa tazza?...»

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A questo punto bisogna rimanere concentrati, lucidi, calmi. A strangolare Silvia, lei e i suoi diabolici trucchetti, penserò in un secondo momento. Così, tranquillissimo, dico: «Mauro». «Mauro? Cosa c’entra Mauro?» «È lui che ha bevuto in quella tazza. Mauro». «Hai appena detto che non hai avuto ospiti, in questi giorni». «Eh, Mauro è in una situazione delicata... Te ne avrei parlato dopo, con calma». «Invece me ne parli adesso», e mi fissa con le braccia conserte e gli occhi fiammeggianti. Ora bisogna reggere il bluff con calma e intelligenza, annullando il più possibile il linguaggio del corpo. «Ecco, Mauro e Katia...» «Mauro e Katia?» «Si stanno lasciando». «Si stanno lasciando?» «Si stanno lasciando». «Siamo stati da loro martedì scorso. Erano felicissimi. Cosa vuol dire che si stanno lasciando?» «Eh, Roby... magari non volevano rovinarci la serata... poi, ieri, è venuto qua Mauro. Mi ha parlato. Era distrutto. Si è preparato una tisana per rilassarsi». «Andrea, non credo a una sola parola di quello che hai detto...» «Be’, Roby, non so che dirti. Farai meglio a crederci». Roberta afferra il cellulare, compone un numero, sfiora col pollice il tasto Invio. «Adesso chiamo Mauro». La guardo con gli occhi più convinti, sereni e sinceri del mondo. «Fai pure». Mi guarda fisso, sempre col pollice sul tasto Invio. «Guarda che lo chiamo sul serio...» «Prego. Non ho niente da nascondere». Mi scruta. La guardo. Mi fissa. Sorrido. Dopo qualche secondo di insostenibile tensione, appoggia il cellulare sul tavolo. «Tanto è inutile: vi sareste preparati una storiellina da rifilarmi, tu e il tuo amicone Mauro. Vado a farmi una doccia, che è meglio». «Ti preparo un caffè?» «No, per carità. Il tuo caffè sa di smacchiatore». Quando si chiude alle spalle la porta del bagno, la prima cosa che faccio è tirare un sospiro di sollievo lungo un miglio e mezzo. La seconda, mandare istantaneamente un messaggio al cellulare di Mauro. Che mi regga il gioco, quantomeno. E che sappia rispondere a possibili domande su come si prepara la tisana al finocchio. Non si sa mai.

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Testo di Tommaso Chimenti Scatto di Matteo Varsi

Svegliarsi con Lou Reed non era così male. Cioè... non proprio lui in persona. La sveglia era sintonizzata su Radio Rosa, «la radio che fa sorridere ogni cosa». Slogan idiota per una frequenza melensa. L’aveva impostata Giulia prima di andarsene e Giorgio aveva litigato con la tecnologia molto prima che con lei. Già si immaginava Lou che, il lenzuolo che gli fasciava il culo, cercando gli occhiali sul comodino, senza neanche guardarlo, la testa tra le mani per la sbronza della sera prima, gli diceva: «Take me a coffee», aggiungendoci un soon, invece del classico please. Comunque, Lou stava soltanto cantando con una decina di colleghi per la solita colletta autopromozionale travestita da aiuto umanitario. Al piano di sotto continuavano i lavori in corso. Martellate. Betoniere e calcinacci. Polvere e mattoni. Le scale piene di terra rossa. Sembrava di stare al “Roland Garros”. Mise a terra prima il piede sinistro, come gli accadeva sempre. Toccò con l’alluce le ciabatte rosse. «Strano», pensò con la solita flemma. Non erano perfettamente allineate. Non erano parallele. Come aveva fatto a dormire sonni tranquilli con quell’obbrobrio proprio sotto le lenzuola?. Certe cose non dovevano capitare. Si passò tre volte la mano sinistra tra i capelli radi e contò quanti ne erano caduti sulla federa. Se il numero era dispari sarebbe stata una buona giornata. «Tre». Si dette un five d’incoraggiamento. Si lisciò la barba. Si sistemò il pacco, che la mattina era gonfio. Guardò i cristalli liquidi. 7:48. Con un rapido conteggio: «Sette più quattro più otto: diciannove, uno più nove: dieci, uno più zero: uno». Ancora dispari. Un piede dietro l’altro all’interno delle mattonelle del soggiorno facendo attenzione a non sfiorare le linee di divisione. Tre wafer a colazione e tre sorsi d’aranciata. Tutto stava scorrendo liscio e tranquillo. Senza intoppi nei suoi calcoli. Era bella la vita. Rimise a posto la tazza con estrema cura dentro l’acquaio. Richiuse e ripose i wafer. Andò in bagno. Controllare le sopracciglia. Tirarle, tre volte a destra e tre a sinistra. Contare quelle cadute. «Una mattina fortunata», gli venne da pensare. Strofinò l’indice ed il pollice e contò i peletti morti nel lavandino. Porcellana e acari. «Uno, due, tre... sette». Tardelli dopo il gol Mundial. Era forse quello il giorno perfetto? Pulì tre volte le scarpa di pelle nera. Annusò una volta ogni calzino. Segno della croce. Mani a controllare i gemelli di famiglia. Dita incrociate. Toccando ferro. Finì di allacciarsi la camicia. Pulì con il cattura polvere la giacca. Anni di calcoli e congetture, algebriche equazioni, incognite. Il rebus andava dipanandosi. I numeri gli erano amici. E lui che aveva creduto il contrario. Si toccò la punta del naso. Quel gesto usciva completamente dagli schemi prefissati della mattina. «Qui mi va a puttane tutta la combinazione fortunata», disse ad alta voce. Non era stato calcolato quel tocco infantile alla Bruce Lee. «Mi son distratto un attimo». Radio Rosa ora passava Vasco quando

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dava sempre colpa a qualcun altro. Le ascelle cominciavano a sudargli. 8:43. Otto più quattro più tre: quindici; uno più cinque: sei. Strinse i pugni dalla rabbia. Schiumava. Prese la decisione più drammatica. Rifare all’indietro tutti i passi che lo avevano portato alla conclusione affrettata che quello sarebbe stato il suo giorno perfetto. Senza sgarrare stavolta. Il Giorno con la maiuscola arriva una volta nella vita e devi essere pronto a saperlo riconoscerlo, fargli gli onori di casa, farlo mettere comodo sul divano di pelle. Anche se Lui ha la schiena sudata e sulla poltrona fa un flap ciancicato. Si stava slacciando accuratamente le scarpe ormai lucide senza più motivo. Sarebbe inevitabilmente arrivato tardi a lavoro. Erano sedici anni, sette mesi e dodici giorni. Cioè da mai. Era tutto scritto nei segni disseminati come briciole di Pollicino. Rimettere a posto la fortuna e ricominciare sperando di non aver sprecato il bonus. Per alcuni ritorna, per altri il giro è troppo ampio. La prima scarpa era sciolta. Con cura millimetrica estrasse il piede dalla scarpa sinistra. Posò il 43 vicino alla sedia. Si risedette in poltrona. Il mondo sembrava essersi fermato in attesa del ricompattarsi degli eventi. Cominciò a slacciarsi il secondo mocassino. Tirare il filo dolcemente, sentire il nodo sotto le dita che alla fine si stacca e si libera in uno sciogliersi di tiranti. Gulliver legato come un salame dai Lillipuziani. E due liberi. Due. Simmetrico. Erano anni che non pronunciava quella parola. Tabù, onta, bestemmia. Vide due piedi, due gambe, due mani, due braccia, due orecchie, dieci dita. Tutto pari. Una lacrima corse sullo zigomo. Una sola. Il Giorno perfetto l’aveva abbandonato o lo aveva ingannato. Forse non esisteva neanche. Si sfilò i pantaloni. Tornò in bagno, si rilavò i denti, si rasò nuovamente. La pelle si screpolava sotto il lavoro della bilama. Sanguinava arrossato. Le guance gli bruciavano. Quel Giorno perfetto stava diventando il giorno peggiore della sua vita. Si rimise a sedere e rifece colazione. Tre sorsi d’aranciata, tre wafer alla nocciola. Bevve e mangiò senza voglia. Si rimise il pigiama e tornò a letto. 10:47. «Uno più quattro più sette: dodici; uno più due: tre». Le cose stavano tornando al loro posto. Chissà se tutto era dipeso da quelle ciabatte lasciate non parallele la sera prima.

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Testo di Pietro Iannibelli Scatto di Matteo Varsi

Il fluire dei giorni e l’invecchiare di tutto, soggettivo e oggettivo, non mi duole perché lo sento ma perché lo penso... Fernando Pessoa, Faust Se è sì, state bene attento... per non farvi rodere l’anima, spalancherò del tutto le persiane della finestra contro il muro, così voi le potrete vedere... sporgendovi sulla siepe. E se ne andò. Carlo attaccò il cavallo ad un albero e corse ad appostarsi sul sentiero. Ma, una volta acquattatosi al di qua della siepe e dispostosi a spiare, tra le fronde e le frasche di questa, la finestra malchiusa, così, fra sé, principiò a ragionare (sopra la casa il sole calava, per gradi veniva la sera, per gradi recando nell’aria ombra e calma): «Tutte le cose sono soggette al tempo, il quale le muta. Nel caso in cui Emma mi rifiutasse, questo mi permetterebbe di sperare... ma, nel caso contrario, se dunque ella mi amasse, tale verità mi costringerebbe al timore... non peggiora il pessimo, la felicità, all’opposto, non potendo né migliorare né perdurare, deve di necessità declinare... il giorno si oscura, non la notte... eppure, che gioia grandissima mi arrecherebbe un suo consenso, sebbene momentanea! Questo tormento verrebbe ad assumere finalmente un verso, avrebbe un ricetto al quale liberato propendere, invece di solo evolvere chiuso in me... da cura mia diverrebbe realtà, aìre ed approdo legittimo di atti, di pensieri, popolerebbe il contesto nel quale vivo, le cose che guardo e che dico, l’aria che respiro... il tumulto nel pruno esploderebbe in fiori, in profumo di fiori... Ma credere duratura una tale condizione, sarebbe presumere dell’avvenire, poiché essere umano è Emma ed essere umano sono io, nostro è il mutare, l’averne coscienza... percepire il divenire del mondo, il divenire di sé, e tentare di venirne come si può a capo, come Achille inseguire una tartaruga, pensare... (ah, se una volta svelatosi l’amore, la mente nostra si facesse cosa inerte o pietra, sì da non essere corriva alla realtà, ai cambiamenti!). E se pure Emma ed io scoprissimo le anime nostre l’una all’altra inclini dunque, o, come infinge

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l’amore, congiunte, chissà a che e dove, il caso e il tempo, le menerebbero! Il medesimo vento, infuriando, non porta ciò che investe in diversi luoghi? La piuma o la foglia a impigliarsi nel rovo e la piuma o la foglia vicina in alto nell’aria? Non scompiglia irrimediabilmente vicinanze? ... In più, se Emma mi desse la possibilità di esternare quel che sento (dappertutto, intorno a questa particola di razionalità), mi darebbe insieme la possibilità di consegnarlo alle abitudini, all’uguale ripetersi dei giorni, di assistere al suo contaminarsi di noia e di quotidianità, di vederlo deteriorarsi sino all’ordinarietà, indistinto ed inavvertito, o solo come larva e memoria, nella continua fatica di esistere... e anch’io, per bocca del padre, adesso, le offro questa possibilità... Amandosi infatti, non si acconsente a che il meraviglioso si faccia turpe e via via nulla? E non di gioia in gioia un poco minore, ma, una volta esperita, compresa la sorpresa o la malia di sapere necessario per sé quel per cui si è necessari, di pena in pena, passando, a seconda delle vicissitudini, talvolta per taluna gioietta, talaltra per l’indifferenza, talaltra ancora per patimenti rassomiglianti all’Inferno, senza mondani paragoni, invivibili pare... è che l’amore nasce dall’ignoto, senza legge o perché... esso è l’arbitrario effetto di un mistero, ma quando lo si sente e riceve, pretende un ordine in cui adagiarsi, consuetudini, esige termini entro i quali millanta di effettuarsi e perdurare, termini che tuttavia costituiscono la sua conclusione (è contro se stesso, è come se non volesse essere), termini ove muore, e che restano, esso vanito, a convogliare sentimenti minori, argini di un rigagnolo appena, sua vuota forma soltanto... (due volontà che si avviano e seguitano per una via, scelgono lo stesso futuro dapprima a causa di ciò che è, poi, a causa di ciò che è stato...), e comunque, l’amore (che parola odiosa! È melliflua, ma riguarda l’aspro e l’amaro!) pare la transizione effimera fra due noie consecutive... o accade, addirittura, che il tedio, stanco di essere tedio, decide di divenire qualcosa... ma incapace di essere qualcosa...» Le persiane restavano socchiuse di tra gli ingarbugli della siepe, nonostante fosse di già passata una buona mezz’ora. La sera era quasi tale, la serva avrebbe a breve accesi i lumi. Cosa avveniva dietro quelle immobili imposte? Che parole venivano proferite? In quali toni? Con quali espressioni? E, ne venivano proferite? Poteva essere che il padre avesse deciso di riferirle la notizia per ambagi, o che Emma, colta da comprensibili paure ed esitazioni, non si sapesse risolvere; poteva essere che padre e figlia insieme considerassero freddamente la circostanza, che a causa di una indecisione di Emma, ponderassero i pro e le conseguenze di un consenso e di un diniego; poteva darsi che ella avesse chiesto tempo, per realizzare e per discernere a fondo in sé; poteva darsi, infine, che avesse di già e subito risposto di no, neppure tocca, e che la finestra, dunque, non sarebbe stata mai spalancata... Carlo non sapeva che convincimento cavarne da quella stasi, come interpretarla... era faconda

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15 tuttavia... poi pensò: «...ma, se pure una felicità ne viene, essa riguarda il momento... e sempre dai suoi contrari sarà continuata e da ultimo conclusa... come il tentativo di volo del folle, il quale, spiccato il salto dal sommo della rupe, per un attimo di fatto si leva, ma poi cade e cade soltanto... sebbene dimenando le braccia o le ali...» Intanto, Carlo si era alzato, aveva slegato il cavallo e vi era salito in groppa. Allontanandosi lentissimamente, si disse: «Il sereno non è che la più diffusa delle nubi... mi aspetterebbero lo stesso, uno dopo l’altro, gli istanti, i giorni, i pensieri...» A un tratto, si udì un rumore secco, ed egli... * I brani in corsivo sono tratti da La signora Bovary (Sansoni Editore), traduzione di G.B. Angioletti e P. Angioletti

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Testo di Mattia Filippini Scatto di Matteo Varsi

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Ormai c’era quasi arrivato sotto. Un pezzo di cibo giapponese che stava mangiando mentre guidava, gli era caduto dalla bocca e atterrato sui jeans lasciando una larga macchia unta. Ai lati della strada, molte auto parcheggiate sotto il sole cocente del deserto anticipavano la vasta schiera dei curiosi e dei fanatici accorsi dalle città vicine. Forse molti, proprio come lui, erano lì nel bel mezzo del niente perché quella era la risposta ai loro personalissimi dubbi, l’ossessione che li tormentava nel sonno e da svegli, il segnale generico che aspettavano impazienti: qualcosa che gli dicesse cosa fare, quando agire. Non c’era più un solo posto in parcheggio, comunque. Tanto valeva lasciare la macchina in mezzo alla strada e farsela a piedi nella polvere del deserto. Doveva ammettere di esser stato scettico, ma ora che l’aveva sopra la testa, davanti agli occhi, non poteva far altro che crederci. C’era e basta. * I telegiornali del giorno precedente erano stati chiari e le immagini trasmesse lo avevano confermato. Su tutti i canali, i reporter reggevano con una mano il microfono e con l’altra indicavano per aria, suggerendo al cameraman cosa inquadrare. Ovunque programmi interrotti, ovunque edizioni speciali di notiziari, ovunque la stessa notizia. A K., come al solito, seduto sul suo divano a guardare programmi spazzatura e a farsi crescere muffe addosso, quello era sembrato il pretesto, il richiamo che aspettava da sempre per scappare dalla noia della sua vita: in un istante si era riattivato. Rovesciata la lattina di birra che teneva sullo stomaco, aveva preso le cartine stradali ed era partito a razzo, controllando di tanto in tanto che la strada fosse giusta. Aveva guidato tutta la notte da uno stato all’altro, come un dannato, fermandosi solo a far scorta di caffè e ad espletare bisogni fisiologici. Furgoncini con grosse croci che sporgevano dai finestrini, auto ricoperte di carta stagnola, sagome in compensato raffiguranti un corpulento Elvis, erano tutti segni di un esodo autostradale; era un intero popolo che si muoveva nella sua medesima direzione, diretto alla sua stessa meta. * Erano appena cinque minuti che camminava nel deserto e già sentiva le vesciche crescergli sotto le piante dei piedi, la pelle incresparsi per il caldo eccessivo. Il sudore gli colava copioso in rivoli dietro le orecchie e giù lungo la schiena, inzuppandogli la camicia. Più avanti, un folto gruppo di persone guardava in alto e si schermava gli occhi con la mano: fra questi, un uomo grasso sulla cinquantina, infilato a forza in una tuta aderente da equipaggio di Star Trek, lo seguì mentre si avvicinava, cercando di metterlo a fuoco, e lo guardò con un’espressione stupida, come se avesse voluto chiedergli se anche lui poteva vedere quello che c’era lassù. K. evitò di incrociarne lo sguardo, si mischiò alla folla e si concentrò a fissare in alto, socchiudendo gli occhi per vedere meglio attraverso l’aria spessa, in spasmodica attesa di una comunicazione dall’oggetto in cielo. * «E adesso che siamo qui, che facciamo?», chiese il grassone senza rivolgersi a nessuno in particolare ma piuttosto ragionando tra sé ad alta voce.

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«Aspettiamo», gli rispose un altro sentitosi chiamato in causa. «E se non dovesse fare niente?» «Aspettiamo comunque.» «Ah!» K., invece, era stufo d’aspettare perché per quasi tutto il pomeriggio non era successo niente. Quel maledetto posto doveva essere l’inferno. Non disponeva nemmeno d’un chiosco con bevande gelide per dare sollievo alle gole riarse dalla polvere. Di segnali particolari non se n’erano visti; qualunque cosa fosse, si limitava a starsene lì, ferma, a farsi osservare. Nessuno, però, aveva il coraggio né d’andarsene, né di voltarle le spalle, con la paura di giocarsi la seppur minima indicazione. Un cenno, un segno da interpretare come consiglio cui indirizzare la propria vita. Si temeva l’ennesima bidonata. * Il sole cominciava a calare dietro le colline aride all’orizzonte. Il terreno continuava comunque a rilasciare il calore accumulato durante la giornata, facendoli sentire come sopra una graticola. La gente era spazientita: alcuni si lamentavano, altri cominciavano ad andarsene defilati e delusi. Solo allora, quando nessuno se l’aspettava più, l’entità sospesa in mezzo al cielo cominciò a ronzare, prima sommessamente, poi sempre più intensamente, fino a splendere di una luce accecante. Come fosse un nuovo sole. Tutti si ripararono gli occhi, abbagliati, fino a quando il bagliore svanì, lasciando il posto ai caratteri cubitali della pubblicità di una famosa bibita. Altri segnali emersi dal terreno suggerivano l’allocazione del nuovissimo ipermercato ubicato all’interno delle colline in lontananza, ormai illuminate a giorno da lampioni della stessa forma dell’oggetto che per ore avevano osservato ansiosi in cielo. Una nuova cattedrale d’acciaio e cemento con aria condizionata, più di trecento negozi e un gigantesco parcheggio sotterraneo, sponsorizzato in ogni dove. «Questo mi sembra un segnale abbastanza convincente», pensò K. «Già che siamo qui...» E la folla degli astanti prelevò i carrelli e s’incamminò come un solo essere verso la propria mecca.

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Testo di Angelo Collina Scatto di Daniela Masi

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Il principe azzurro dondolava leggermente col capo, appena piegato verso la sua destra, mentre percorreva l’immensa pianura in sella al suo ronzino grigiastro. Al solito, si era addormentato. Non poteva farci nulla: quell’incedere ritmato a intervalli sempre uguali del quadrupede gli metteva sonno, e provare a resistere non contava affatto. Poco male. La strada era lunga, lunghissima, perché al termine della pianura avrebbe incontrato le aspre e rugginose montagne, e, valicate queste, un’altra sterminata pianura da attraversare russando... Ma in fondo a tutto ciò, quando anche l’individuo più ottimista avrebbe da tempo abbandonato le speranze e decretato l’inutilità di questo viaggio, alla fine di tutte le pianure e di tutte le montagne, avrebbe raggiunto e incontrato Lei: lo scopo, la meta, la promessa. L’imbrunire. Il sole si nascondeva dietro l’ultimo albero, l’ultimo filo d’erba. Ecco, svaniva. Con un rumoroso sbadiglio il principe si destò, rischiando di precipitare dalla sella per la sorpresa. «Vacca, se è tardi!» esclamò a gran voce, espiantando con l’indice della mano destra le sedimentazioni dai bordi degli occhi assonnati. Scese dal destriero, con fare un poco sgraziato a dire il vero, ed estrasse dalle capienti sacche penzolanti dal basto la borraccia, il fornelletto a spirito, la padella, e una scatola di succulenti fagioli precotti. Appena si fu discostato di qualche metro dall’animale, si udirono due sospiri di sollievo, all’unisono. Non era certificabile quale dei due mammiferi puzzasse di più, il principe o la cavalcatura, comunque entrambi allietavano le nari per l’improvviso e reciproco allontanamento. Mangiati i fagioli, l’uomo ruttò compiaciuto, asciugandosi la bocca lorda di sugo rossastro nella manica della camicia. Era una notte ricolma di stelle. Osservare la volta celeste avrebbe potuto sciogliere in lacrime le più aride menti, nel confronto impietoso tra la pochezza delle nostre misere molecole aggregate a casaccio e l’immensità dell’universo, a porsi eterne domande in cerca di risposta da sempre. Il principe e la bestia crinita, invece, dormiron di grosso, russando sfasati, dandosi rigorosamente le spalle, per star controvento e concedersi, almeno la notte, un po’ di respiro. Passano i giorni, sempre uguali, monotoni. Cavallo, rutti, fagioli, occhi cisposi, fetore diffuso. Ma intanto la strada che han dietro s’allunga, s’allunga, s’allunga... Sapete... arriva il tempo per tutto, lo vogliate o lo temiate, e quel mattino, mettendo la mano sugli occhi a far da tettoia, il principe scorge il villaggio, un po’ tremolante nel miraggio della foschia estiva, ma vero, reale! Guardatelo bene, perché così com’è ora non lo rivedrete mai più.Guardatelo scender di sella, estrarre con mano sicura dalle borse una sporta ricolma di oggetti. Colorante per capelli, a mutarli da marrone palude a biondo lucente, lenti a contatto per occhi celesti come il mare all’ora di pranzo. E poi: fondo tinta, antirughe per i solchi sul viso, un’intera bottiglia

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di acqua di colonia con tanto di pompetta per spruzzarla dovunque. Poi l’abito buono, casacca dai bottoni dorati, calzoni inguainanti, cintura con appesa la spada brillante, calzari lucidi a specchio, cappello con piuma di falco, sulle spalle un drappo di seta a far da mantello, e denari sonanti nelle tasche capienti. E poi, il cavallo! Un orcio di tintura indelebile, bianca come il latte o le nuvole, o i ghiacci perenni, e da grigio il destriero diventa d’avorio. Oh fanciulla, che aspetti impaziente sulla soglia di casa, che lo vedi arrivare al galoppo dalla grande pianura, un puntino che piano diventa una sagoma certa, delineata nel sole accecante. Fanciulla, che col cuore in tumulto lo osservi nello scendere con fare intrigante dal cavallo imponente, nel chinarsi ai tuoi piedi, nel baciarti la mano, proponendo l’anello che sognavi da sempre. Aspetta, ti prego... non aver quella fretta che talvolta conduce al delirio. È difficile, lo posso capire, ma talvolta bisogna pensare, pensare... E guardare, guardare con molta attenzione ad ogni particolare, da sopra, da sotto e di lato, e annusare per bene, non fermandosi all’impatto iniziale e, davvero, mi devi dar retta, se ciò non dovesse bastare, occorre girare lo sguardo un poco di lato, e osservare il cavallo. Lui sa tutto, ma purtroppo di parlar non gli è dato, non può raccontare alcunché. Ma se lo fissi nelle palle degli occhi, con quell’espressione da fata vezzosa che tanti successi ha ottenuto, anche lui dovrà emozionarsi un tantino e, se sei fortunata, complice il caldo, dovrà cominciare a sudare, a sudare, e la tinta pian piano a colare, a colare, e qualche sospetto, forse, allora, ti potrebbe assalire...

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Testo di Luisa Turchi Scatto di Luigi Casa

Ho assistito al funerale di un puparo morto nell’incendio della sua casa non parlava mai con nessuno nessuno aveva mai visto i suoi spettacoli lo hanno trovato che stringeva ancora due pupi nelle mani Orlando e Angelica, segnali d’amore e di morte Tommaso, guardiano del cimitero

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Rosso. Il colore del gonnellino e del mantello di raso di Orlando, primo paladino in Francia. Il colore della fierezza d’animo. Antonio passò una mano sull’armatura in alpacca, lavorata a sbalzo, e sull’elmo lucente. Poi sfiorò con le dita il volto ligneo del pupo, che aveva dipinto con attenzione. Aveva occhi grandi, fissi, e baffi all’insù. Mosse il ferro di testa. Il capo e il busto si abbassarono, e il cimiero piumato ondeggiò per lo spostamento d’aria. Un burattinaio. Un uomo eccentrico, che passava il tempo a costruire marionette per sé. Questo dicevano di lui in paese. Ignoravano cosa volesse dire essere oprante. A dire il vero, non lo era. Non aveva una compagnia itinerante con la quale mettere in scena l’Orlando Furioso dell’Ariosto, ma costruiva pupi dall’età di ventiquattro anni. Il suo bisnonno gli aveva raccontato di avere conosciuto Giovanni Grasso, il più grande puparo catanese, lo stesso che, si diceva, aveva perso la ragione tentando di costruire un congegno per dare non solo i movimenti, ma anche la voce ai pupi. Antonio amava credere che il puparo fosse riuscito nel suo intento, ma che la morte l’avesse colto impreparato. Ne era certo: i suoi pupi parlavano, e conoscevano il segreto del loro artefice. Ma da soli non avrebbero mai potuto rivelarlo. Così doveva accontentarsi di mettere in pratica ciò che il suo bisnonno aveva appreso da quell’in-

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contro fortuito. «Un pupo non è un burattino, che è animato dal basso, con il pollice, indice e medio della mano, o da asticelle. Il pupo – ricordalo sempre – si manovra dall’alto, con due aste di ferro. Una è infissa nella testa e imprime il movimento al corpo; l’altra è nel braccio destro, la cui mano, chiusa a pugno, impugna la spada. Lo scudo è invece retto dalla mano sinistra, dritta e aperta, e comandata mediante un filo.» Antonio aveva ascoltato rapito la tecnica di costruzione dei pupi. Sapeva che quelli catanesi, più alti e pesanti, a differenza dei palermitani avevano le gambe costituite da un unico pezzo di legno rigido. Il suo Orlando non si sarebbe mai inginocchiato davanti a nessuno, neppure di fronte ad Angelica, per pregarla di ritornare con lui. La figlia del re del Catai, dalle lunghe trecce e dalla veste ornata, era abbandonata sul tavolo, accanto a Medoro, il biondo saraceno che l’aveva portata via ad Orlando. La principessa aveva curato le ferite del moro e, innamoratasi, era partita con lui per raggiungere la lontana patria dell’amato. Con un gesto rabbioso separò i due pupi. Antonio chiuse gli occhi. Pensava alla follia di Orlando, che, entrato nel bosco, aveva letto su rocce e alberi i nomi di Angelica e Medoro. Il loro amore era scritto – quasi gridato – ovunque. «Non son, non sono io quel che paio in viso: quel ch’era Orlando, è morto, et è sotterra; la sua donna ingratissima l’ha ucciso.» Antonio recitò a voce alta le parole che conosceva a memoria. Poi ascoltò il silenzio che entrava dalla finestra aperta, al crepuscolo. Pensava a Maria Catapano. Avevano ballato insieme alla sagra del paese. Da allora non era più riuscito a togliersela di mente. Quanto l’aveva inseguita, sperando di farla sua... e, come Orlando, aveva scoperto che era innamorata di un altro. Nicola De Luca l’aveva conquistata con i suoi gradi da ufficiale e con le sue promesse d’amore. Voleva portarla via dal loro paese. «Angelica a Medor la prima rosa, coglier lasciò, non ancor tocca inante.» Lui, Antonio Esposito, non era nulla, se non un trovatello cresciuto. Medoro, il fante saraceno, avrebbe dovuto essere lui, non Nicola. Invece la sorte l’aveva reso, se non conte, solo e furioso. Come Orlando. Inutile sperare in Astolfo, che, col carro del profeta Elia, era andato sulla luna per riportarne indietro l’ampolla che custodiva il senno perduto. Non sarebbe più tornato come prima. Era impossibile. Il poema aveva un altro finale, nella sua testa: Orlando ritrovava Angelica e Medoro, sul lido sabbioso di Tarragona, e piantava la spada Durlindana nel cuore di entrambi. Antonio rappresentò la scena, come sempre. Poi mise i pupi sul tavolo, e si preparò per andare a letto. Prima di chiudere la finestra, diede un ultimo sguardo al bosco di olmi dietro la casa. Li aveva seppelliti laggiù.

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Testo di Erika Morgagni Scatto di Bianca Ammaturo

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Ho fame. La fame non dipende dall’appetito. È profonda come una preghiera. E ti lascia sempre a stomaco vuoto. «Passiamo ai Promessi Sposi. Mi saprebbe dire quale funzione svolge Don Rodrigo all’interno del romanzo? Secondo una lettura più superficiale egli potrebbe sembrare l’antagonista, ma provi a formulare un’ipotesi diversa». La fame non ti lascia spazio. Vuoi un panino e lo mangeresti subito. Non puoi pensare ad altro: la fame è vigliacca. «Forse Don Rodrigo può, diciamo, essere considerato come una vittima della provvidenza. Il disegno divino prevede l’esistenza di buoni e di cattivi e in nessuno dei due casi si può parlare di veri e propri meriti o colpe». «Vittima della provvidenza?». Siamo tutti vittime. Io della fame, lei della miopia, del preside, del Ministro della Pubblica Istruzione, dei programmi ministeriali. Me la immagino con il preside... le chiede di Cesare Pavese e lei gli risponde: «quest’anno lo faccio, non si preoccupi». Poi esce dall’ufficio, sempre del preside, tutta sudata per la paura. Ha usato ancora Cesare Pavese per ricordarle che da quando lavora in questa scuola non ha mai finito il programma. «Se esiste un disegno divino cui noi tutti siamo sottoposti perché attribuire a qualcuno la colpa di essere cattivo?». Poi cattiva è anche lei, e mica per disegno divino. Se le dico che tutte le notti vedo dei segnali di fumo, manda a chiamare subito lo psicologo della scuola e in privato gli dice che sono una schizofrenica denutrita. Allora lui, che non è neanche laureato in psicologia, chiama al telefono il suo mentore settantenne che è in pensione da un anno e sta ai Carabi con una collana di fiori, per provare a tutte le ragazze dell’isola che sì, Freud aveva ragione, la libido è una forza che non si spegne proprio mai. «Quindi, lei crede che nessuno, proprio nessuno, in questo romanzo possa dirsi libero di scegliere? Si ricordi che siamo nell’Ottocento anche se il Manzoni ambienta il suo romanzo nel Seicento». La chiami provvidenza, fame, miopia, preside. È che tanto si sceglie sempre, sì, ma il male minore. Quello che, se ci pensi bene, non ti fa troppo male, che non ti manda dallo psicologo della scuola per farti dire che sei una schizofrenica denutrita. Quel tipo di scelta lì. E poi io ho i segnali di fumo. E quelli sono libera di vederli, di guardarli, oppure di dormire. Uno può anche dire che a farli è un contadino che tutte le notti fa un falò. Allora ci dovrebbe andare lui, dallo psicologo, e anche di corsa.

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«Lucia. Sembra la più libera di tutti, alla fine. Ma è stata veramente libera solo quando, prigioniera dell’Innominato, fa il voto di castità. Tutto il resto era già scritto». Che poi Lucia è stata anche più libera di Manzoni, in quel momento. Che sei libera solo quando non hai spazio. Ed io sono libera solo di notte, quando vedo i segnali di fumo. Resto a guardarli e penso che sono bellissimi. E potrei vestirmi e andare a vedere se esiste veramente qualcuno che li fa ma preferisco vederli e basta perché sono lo spettacolo di un sopravvissuto. Forse. Di uno che è scampato a una tragedia e vuole essere salvato e cerca di segnalarlo al mondo. Che lui c’è ancora. «Può andare a posto. Il voto glielo dirò domani». Il voto. Di voti, poi, ce ne sono tanti. Il voto è anche una promessa. Che una persona fa a uno studente, a Dio, a se stesso. Qualcosa di silenzioso. Ed io ho fatto un voto quando ho visto i segnali di fumo per la prima volta. Non voglio salvare nessuno, mi sono detta. Voglio solo vedere lo spettacolo della sopravvivenza. E se è un sogno, è il segnale di un segnale di fumo. Che poi anche i sogni sono segnali di qualcosa. Sono quello che rimane di una mente, incendiaria e razionale. Che brucia le cose per capirle. «Adesso voglio interrogare la tua compagna di banco e sentire un po’ cosa ha da dirmi». Gli studenti non si sfidano. Perché hanno le loro armi anche loro. Il preside ha Pavese, lei ha il voto dell’interrogazione e loro hanno le canzoni heavy metal, le catene ai polsi, i vestiti sgualciti, il gergo giovanile e gli sbadigli. Quelli non li dimentichi mai. Che di segnali come quelli non se ne trovano facilmente. Anche se si mettono le mani davanti alla bocca è sempre uno sbadiglio, perché si annoiano. Si annoiano perché lei non fa sopravvivere nessuno. Li fa morire tutti: i personaggi, gli scrittori, i poeti. E se sono già morti, li fa morire due volte e se non sono mai esistiti li uccide lo stesso. E se li vedesse anche lei, i segnali di fumo, magari, farebbe sopravvivere anche noi. Nelle ore di italiano. «Vedo che non avete studiato molto. Mi aspettavo più impegno da tutti. Così non andiamo mica bene». Andiamo, intanto, è plurale. Non si usa un plurale. Lei e il preside volete fare Pavese? No, il preside lo vuole. A lei Pavese non piace perché parla troppo forte. Ha una bella voce. Che la voce non è solo un’emissione vocale e si sente anche dalle pagine di un libro, se hai un buon orecchio. E questa notte voglio proprio aspettare i segnali di fumo con un in mano La luna e i falò, che è anche in tema. E quando li vedo, i segnali, penso che sto respirando e che respirare non è tanto facile, che è un segnale anche quello. Che se respiro, vivo. E c’è uno che sopravvive, poco lontano, che mi fa i segnali, non analogici o digitali, ma di fumo. Perché anche la televisione o il telefonino vanno con i segnali, ma non sono mica di fumo, quelli. Non sono accesi. E il segnale è una forma d’onda adatta ad essere codificata e decodificata secondo un metodo standard, quando lo cerchi nel vocabolario. Ma quando lo vedo io, di notte, con in mano un libro di Pavese, il segnale di fumo è uno spettacolo di sopravvivenza. Altro che metodo standard.

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Testo di Silvia Bia Scatto di Giuseppe Ammannato

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La osservava da molti anni, ormai. Senza farsi vedere, naturalmente. Senza lasciare mai trapelare nulla dai suoi sguardi o dalle sue parole. Ora, finalmente, era chiaro: ne era assolutamente certo. Il sospetto si era insinuato in lui in un tardo pomeriggio d’autunno, quando, rientrando dal lavoro prima del previsto, aveva notato tra i suoi capelli un insolito bagliore, come una ragnatela trasparente nella cascata di riccioli neri. Con gli occhi turbati, era tornato immediatamente su quel particolare sfocato, colto solo di sfuggita, senza però riuscire a ritrovarlo. Doveva essere stato il movimento della mano di lei, quel gesto compiuto frettolosamente non appena lo aveva visto comparire sulla soglia di casa, riavviandosi alcune ciocche dietro le orecchie per non farsi scoprire. O forse era soltanto lui ad essere troppo diffidente... forse era stato solo ingannato da un riflesso del lampadario al neon e sicuramente aveva frainteso ogni cosa. Così l’aveva assecondata, senza più dare molta importanza all’episodio. Ma qualche anno dopo accadde qualcosa che lo fece trasalire di nuovo. Fu verso la tarda serata di una giornata senza sole, mentre lei preparava la cena: gli parve di vedere, proprio all’angolo della bocca, dove le labbra diventano pelle, una specie di ombra più scura, come un bacio al rossetto cancellato male, un segno profondo e indelebile. Si alzò di scatto facendo cadere la sedia e le piombò davanti. Lei sorrise, lui la guardò pensieroso e confuso. Sparito. D’un tratto sembrava sparito. Forse stava impazzendo. Cercò di non pensarci, di far finta di nulla, ma da allora un leggero presentimento amaro s’impadronì di lui: una sensazione di stranezza, un senso di vertigine che non lo abbandonava nemmeno quando andava a dormire. Cosa stava succedendo? Nei giorni seguenti cercò incessantemente qualche indizio che la smascherasse, tentando di scorgere un altro segnale nei suoi sguardi assorti, mentre sedeva in poltrona davanti al televisore acceso, o sfogliava distratta un settimanale di moda. Finché una sera gli parve di intravederlo ancora. Dal bagno, la sentì bisbigliare nella stanza da letto e dalla serratura della porta vide che parlava al telefono con qualcuno. Fu dalla sua mano, dal modo in cui attorcigliava il filo intorno alle dita e dalla sua voce appena sussurrata, che capì tutto: l’aveva scoperta, non poteva negarlo in alcun modo. I capelli, la bocca, le mani, perfino la voce. Ripensava a tutti quei particolari. Com’era possibile? Come poteva essere? Aveva sempre pensato che sarebbe stato senza fine. Per sempre. Ma ora tutto gli sembrava crollare addosso e non riusciva a darsi pace. Come in uno specchio, cercava in lei spiegazioni a quello che stava accadendo, inseguendo affannosamente altri indizi che confermassero i suoi timori. Mentre desiderava più d’ogni altra cosa coglierla in fallo, allo stesso tempo provava una paura lacerante di scoprire che era tutto irrimediabilmente vero. Ormai era inutile mentire a se stesso. I suoi sospetti erano diventati certezza e la certezza si era trasformata in un’ossessione che lo consumava, dipingendo negli occhi di lei il terrore di essere messa con le spalle al muro, fino al punto in cui, pochi anni dopo, non riuscendo più a nasconderlo, esausta, lo ammise. Accadde in un pomeriggio d’estate, mentre lei gli sorrideva stretta negli occhi. Lui vide con chiarezza la fine di quel sorriso, come una nuvola che oscura i pensieri. Ma non disse niente, lei nemmeno. Mentre crollavano tutte le certezze di una vita insieme, non si dissero nulla. Continuarono a fingere che non fosse mai stato, vivendo i loro giorni da amanti e compagni e confidenti, senza lasciare spazio a domande e riflessioni. Segretamente però, lui continuava a osservarla. La spiava ogni momento, ogni minuto della giornata, evitando il suo sguardo, come gli specchi in cui affioravano i segni della sua sconfitta. Ormai non

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c’era più niente da capire, niente da svelare. Sembrava impossibile... sembrava ieri il giorno in cui si erano conosciuti a quella festa e avevano ballato insieme per la prima volta. Eppure era così. Cercò di pensare a com’era avere vent’anni, a cosa era accaduto in quei giorni che erano trascorsi inesorabili tra loro, come avevano fatto a diventare a poco a poco diversi senza nemmeno rendersene conto e, soprattutto, fino a quando avrebbero potuto resistere. Rivedeva il suo volto radioso davanti alla chiesa di campagna coperta di fiori, i progetti, i sogni di una vita insieme. Intanto non poteva fare altro che continuare ad amarla, come e più di prima, mischiando all’amore l’angoscia inconsolabile di perderla, di veder finire tutto in un istante. Fino a quel mattino nel letto, sveglio stranamente prima di lei, per una volta. La fissò intensamente, guardandola dormire, il volto rilassato sul cuscino, il respiro regolare. E ad un tratto provò un’indescrivibile sensazione di pace. La ruga all’angolo della bocca, i capelli bianchi, le mani nodose. La loro giovinezza, i loro giorni spensierati.

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Testo di Andrea Cirillo Scatto di Maria Cecilia Camozzi

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Mentre rifaccio i letti mi piace immaginare la vita di chi ci ha dormito. Mentre rifaccio i letti mi piace immaginare la vita di chi ci è morto. Perché è questo il mio lavoro: togliere le pieghe dai lenzuoli, tirare i capi, stendere le coperte per il prossimo moribondo. Lavoro in quest’ospedale da ventidue anni, tre giorni e una manciata d’ore. Ho immaginato centinaia e centinaia di vite. Certe le vedo, come fossero film; altre, invece, le ascolto, come alla radio. Capita, qualche volta, che mi scappi una lacrima, ma è per il vivo e non per il morto. Io per i morti non piango più. Il giorno che ho smesso era una domenica ed è passato parecchio tempo. Oggi, rifacendo il letto, ho immaginato un bambino seduto su un divano verde scamosciato, in un salotto illuminato da una lampada bianca con frange oro. Non so se è Natale: non vedo né l’albero né alcun presepe, ma c’è un pacchetto che dalle mani di una donna passa a quelle del bambino. Non so... avrà otto, nove anni, credo. Toglie la carta senza preoccuparsi di non romperla e un poco ci rimane male vedendo che nella scatola non c’è un giocattolo. Ma è un bambino gentile e non si lamenta: ringrazia, dà un bacio alla donna – lento – sulla guancia. Se qualcuno mi chiama, mentre sono al lavoro, io non lo sento. Non lo sento e può sembrare scortese che non risponda, ma non è così. Oggi, però, quando ho tirato via il lenzuolo sporco, un suono metallico mi ha distratto. Sulle piastrelle bianche e nere del pavimento c’era un oggetto luccicante. L’ho raccolto. In genere, gli effetti personali del defunto vengono portati via prima del mio arrivo, ma oggi mi sono trovato tra le mani una catenina d’oro. Non l’ho esaminata. L’ho stretta nel pugno e sono uscito nei corridoi in cerca di qualcuno che potesse aiutarmi. Ho chiesto, ma nessuno ha saputo rispondermi. Un paramedico con le mani in tasca mi ha consigliato di tenermela. Sono andato giù, dove tengono i cadaveri, ma erano tutti molto impegnati. Mi hanno detto di aspettare. Ho aspettato. Mi hanno detto che erano molto impegnati e me ne sono andato. Alla fine, un uomo con baffi folti che stava spazzando al terzo piano, mi ha dato il numero di un interno. Si è fermato e me lo ha scritto dietro un volantino che teneva in tasca. Ho chiamato. Mi ha risposto una donna. «Buonasera... ho trovato un oggetto rifacendo il letto di un paziente defunto. È a lei che devo portarlo?» «Mi spiace, qui non c’è più nessuno che possa aiutarla. L’orario di quest’ufficio è fino alle 17.30, ma per un errore burocratico io finisco alle 18. Può aspettare domani?» «Questo è il mio ultimo giorno di lavoro.» «Mi spiace, io sono solo una centralinista, non sono autorizzata a ritirare oggetti o cose del genere. A dire il vero, non sono autorizzata a quasi nulla. Rispondo al telefono e poco altro.»

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Riattacco. Fisso il foglio dove è scritto il numero. Lo volto: si legge «Pagabile a rate». Mi metto alla finestra in fondo al corridoio. Vedo una donna che esce dall’ospedale. Ormai è buio, ma quando arriva alla fermata del bus, illuminata dal lampione, vedo che ha dei capelli lunghi, biondi, e una borsetta colorata. Mi si avvicina un uomo. Lo riconosco senza voltarmi, dal riflesso del vetro. È quello che spazzava il pavimento del terzo piano. Gli leggo il nome sul cartellino. «Ha una bella voce, vero?» «Si, Alfredo, ha una bella voce.» «Ti ha saputo aiutare?» «Ho ancora la catenina nel pugno che suda.» «Non può far molto, risponde al telefono, e dalle 17.30 alle 18 è sola. Ma ha una bella voce e io la chiamo ogni sera.» «È una persona cortese.» Alfredo si gratta i baffi. «È morto?», mi chiede. «Già. È morto oggi, ma ci tiene che tutto sia a posto.» Vedo il suo riflesso allontanarsi. «Vai?» «Si. Dimmi una cosa: quell’uomo... l’hai mai visto?» «L’ho immaginato.» «Che tipo era?» «Un tipo preciso, direi.» Se ne va. Lo vedo farsi sempre più piccolo nel lungo corridoio invertito dal vetro della finestra. La donna è ancora alla fermata. Arriva l’autobus e la fa salire. È tardi. È il mio ultimo giorno e devo finire il mio ultimo letto. Ho una catenina d’oro nel palmo stretto e so che appesa alla catena c’è una medaglietta che raffigura Papa Giovanni XXIII. L’ho vista prima, mentre rifacevo il letto. Torno nella stanza. Prendo il lenzuolo sporco. Vi apro il pugno sopra e lascio cadere l’oro. Immagino i funerali dell’uomo e una ragazza con una borsa colorata che rimette al corpo la sua catenina, regalo dell’inestimabile affetto della madre. Immagino la bara portata in processione lungo il cimitero, con l’autista del bus a condurre e i dipendenti dell’ospedale ad applaudire ai lati dello stradello e a lanciare volantini per pagamenti rateali. Immagino Alfredo che si gratta i baffi e dice alla donna che ha una bella voce e che la chiamerà anche domani. Immagino la donna parlare e parlare, con la sua bella voce. Immagino il paramedico con le mani in tasca che l’ascolta e come lui tutti gli altri; tutti, anche il morto, dalla bara, l’ascolta. «Hai lavorato per l’ospedale ventidue anni, tre giorni e una manciata d’ore, immaginando centinaia e centinaia di vite, ed ogni vita era un pezzo di vetro, ed ogni vetro era un pezzo del puzzle immaginato della tua vita».

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Testo di Alessandra MR D'Agostino Scatto di Maria Cecilia Camozzi

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«Suppongo sia stato qui di recente.» «Come fai a dirlo?» «Il mozzicone. Vedi?» «Potrebbe non essere suo.» «È suo, invece.» «Come fai a esserne così certa?» «Sensazione. E di solito non sbaglio.» «Quindi cosa suggerisci?» «Restiamo qui. Lo aspettiamo.» «E se non torna?» «Torna, torna. Vedrai che torna.» Appoggiarono il borsone e le chiavi dell’auto sulla panca di legno. Tirarono le tende scure. Lei aprì la dispensa in cerca di provviste. «Vedi questi? Li ha portati lui», disse mostrandogli alcune confezioni di tonno. «Dici il tonno?» «Sì.» «Ma il tonno lo mangia chiunque.» «Non di questa marca. Di questa marca non lo trovi ovunque.» «Ah», fece lui. Poi si mise a fissare le foto alle pareti. Ritraevano gruppi. Gli parve di riconoscerlo, in due di esse. «È questo qui?» le chiese. «Vediamo...» fece lei mettendo gli occhiali. «Questo, dici? Sì, è questo», confermò indicando la figura col dito. «È cambiato molto?» domandò allora lui. «Non te lo ricordi più tanto, vero?» «Non molto.»

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«Capelli ne ha molti meno. Sicuramente un po’ più grasso. Ma cosa ricordi di lui?» «Quasi niente» le rispose. Poi sedette sul divano, appoggiando i piedi sul tavolino. «Dici che verrà già stasera?» «Suppongo di sì, anche se non ne sono certa.» «Ho voglia di vederlo. Però non so bene cosa dirgli. Tu cosa gli dirai?» «Non lo so. Quel che mi verrà al momento. In fondo, non è importante cosa gli si dirà, non credi?» «Forse hai ragione. Qui, però, fa freddo, accidenti. Non c’è neanche una stufa?» «No», disse lei cercando intorno con lo sguardo. «Pare proprio di no.» «Non avrei mai pensato che gli piacesse il tonno.» «De gustibus», fece lei. «A mio padre piace il tonno», si ripeté. «Dormi un po’, hai guidato per tutto il tempo», suggerì lei. «Credo che non riuscirei a dormire, sono troppo teso». «Hai paura?» «Sì, anche.» «Capisco», fece lei. «Allora mangiamo. Ti va almeno di mangiare?» «Sì, di mangiare sì», rispose lui, sorridendole. «Magari un po’ del suo tonno. Lo assaggerei volentieri. Dici che se la prende, se gli apriamo una scatola?» «E chi se ne frega se se la prende», fece lei ridendo. E ne afferrò una. «Stasera si cena col tonno di papà», disse lui, sedendosi già a tavola.

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Testo di Teresa Regna Scatto di Bianca Ammaturo

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Le dune digradano dolcemente verso l’orizzonte, stagliandosi contro il cielo terso. Una vasta gamma di sfumature, dal rosa tenue al rosso cremisi, incendia la sottile striscia dell’atmosfera. È l’alba di una nuova era. Per la prima volta nella storia dell’umanità, due terrestri posano i piedi, inguainati in grossi scarponi grigi, sul suolo di Marte. Il pianeta rosso mostra sabbia color ruggine, ombre nette dai confini bizzarri, e una bandiera, disegnata per l’occasione, infissa nel terreno brullo. In attesa di essere scaraventata chissà dove dalla prima tempesta di sabbia. Forse si disperderà nello spazio, naufraga senza patria né amici, cercando invano un pianeta sul quale approdare. Per il momento, è saldamente piantata al suolo, come fosse parte integrante della geografia marziana. Phobos, palla di roccia vagante nel cielo al di sopra dell’orizzonte rosato, sembra ammiccare in direzione dei visitatori. «Qui Houston, siete in ascolto?» Gli impulsi digitali impiegano alcuni minuti per giungere a destinazione: bisogna armarsi di pazienza, e attendere fiduciosi la risposta. «Tutto ok. Atterraggio perfetto». «Ammartaggio, vorrai dire», lo corregge il compagno. A Houston tutti ridono: tecnici di laboratorio, consulenti esterni, astronauti rimasti a terra a causa del sorteggio sfortunato, amici e parenti degli uomini che calcano il suolo di Marte. Uno scoppio d’ilarità liberatoria che va ben oltre i meriti della battuta. «Se non fosse per i colori, penserei di essere nel Sahara», incalza il comandante. «Prova a svitare il casco e ti accorgerai della differenza». Ora tocca ai tecnici di Houston tentare di stornare la commozione palpabile con una spiritosaggine. «Basta con le battute: mettiamoci al lavoro». «Ok. Cercare l’acqua su un pianeta inaridito da millenni non è facile. Buona fortuna». «Grazie. Passo e chiudo». Che razza di maleducati... definire il nostro pianeta inaridito da millenni! Cosa vuoi che ne sappiano delle calde distese di acqua sulfurea in cui viviamo? Ma se è proprio quello che stanno cercando! Scandagliano il suolo ai poli per scoprire se sotto il permafrost è intrappolata acqua allo stato liquido, ma rimarranno delusi. Già. Dovrebbero fare un giretto all’equatore, invece, e scavare molto in profondità... E chi resisterebbe al gelo dell’atmosfera? Io no di certo. Forse dovremmo provare a metterci in contatto con loro... Buona idea. Concentriamoci e tentiamo. Per un fuggevole istante, il comandante della spedizione sente nascere nella sua mente la stravagante idea che dovrebbe cercare l’acqua in un altro luogo, piuttosto lontano dai poli. La scaccia come se si trattasse di un insetto molesto, e continua a montare il robot-trivella.

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Sono duri di mente, questi terricoli... Credo che non sappiano comunicare telepaticamente. C’è di che essere allegri: goffi, brutti, e pure poco evoluti. In un’atmosfera densa come quella del loro pianeta il suono si propaga con facilità. Avranno imparato a comunicare modulando i suoni: quelli che captiamo potrebbero essere i pensieri formulati per essere espressi. Modulare i suoni, muoversi sul suolo... li trovo davvero ridicoli! Soltanto perché tu non sei in grado di farlo. Proviamo ancora a stabilire un contatto? Se proprio ci tieni... Il comandante tenta di grattarsi la fronte, poi ricorda che attraverso la visiera del casco tale operazione risulta impossibile. È perplesso: sfocate visioni di vermi molto lunghi e sottili si alternano a un brusio insistente e ricorrente che invade le sue orecchie. Prova a sistemare la radio, ma il brusio non accenna a smettere. Gli sembra addirittura che un verme scuota una delle sue estremità in segno di diniego, o di sconfitta. Poi, d’un tratto, il misterioso disturbo radio scompare e le visioni si dileguano. «Allucinazioni... ho dormito troppo poco in questi ultimi giorni», borbotta tra sé. Mi arrendo. Non riesco a comunicare con i terricoli. Ti avevo avvertito. Sono tonti e per di più scortesi. Eminenti scienziati marziani definiti vermi... è inaudito! Non dovresti essere tanto intransigente: sono pur sempre i nostri vicini di casa. I soli che abbiamo. Come siamo fortunati...

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Testo di Simona De Blasio Scatto di Cinzia Gava

Se alzo gli occhi, vedo acqua, interminabili distese d’acqua increspata. Non ne ho mai avuto timore. Stavo seduto nella barca ancorata sulla spiaggia ad aspettare un cenno dal mare. Il suo colore mi parlava di come sarebbe andata la giornata. Il mare lanciava la sua grande rete intorno a me e ai pescherecci, portava con sé una scia ammaliatrice. L’azzurro era la dimostrazione di quanto avanti mi sarei potuto spingere con la barca alla ricerca di nuovi punti pescosi, il blu acceso era quello della pesca abbondante, mentre il grigio era l’unico colore che consigliava di tornarmene a casa a contare il piombo rimasto impigliato nelle reti delle pesche passate. Il ritorno era accompagnato dagli scodinzolii di Ettore. Amava passeggiare in mia compagnia. Improvvisamente in lui spariva il timore delle onde che battevano ad intermittenza sugli scogli e annusava insistentemente i miei piedi e le mani grinzose, come se amasse l’odore di sale, di pesce che avevo addosso: in quei punti la pelle era impregnata di mare, di vita, di forza. Quel sentore era mio, inconfondibile ed intenso, come il colore della pelle e le profonde rughe sulla fronte consumata dal sole.

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La bandiera rossa innalzata sulla spiaggia avvisava degli umori del mare e delle sorti della pesca. Le mogli dei pescatori si preparavano in quei giorni a cucinare senza l’ingrediente principale e ad occuparsi dei mariti che rimanevano con i piedi piantati a terra, ma ricurvi sulle reti da riparare o accucciati accanto alle barche. I lavori che il mare concedeva ai pescatori in quei giorni non erano meno duri di quelli che serbava loro in mezzo all’acqua. Sulla spiaggia il sole cuoceva meno la pelle e il vento non fischiava nelle orecchie come al largo. Mancava qualcosa, però: l’essenza di cui vivevo. L’odore era diverso. In mare respiravo a pieni polmoni, mi riempivo d’aria come se ne avessi fame, la divoravo, e mi sembrava che diventasse un elisir di lunga vita. Tornando, la sera, i pescatori si stupivano di vedermi sorridere mentre dalla loro bocca uscivano solo bestemmie ed imprecazioni per la pesca scarsa. Io non vivevo di pesca: vivevo d’acqua, d’aria, d’istinti e sensazioni che ogni giorno il mare mi regalava. Un mattino, alzandomi, vidi dalla finestra la bandiera che segnalava riposo. Non rimasi in casa, mi diressi sulla spiaggia, curioso. Volevo sentire cos’aveva da dirmi il mio compagno a sua discolpa per aver deciso di lasciarmi lontano da lui, quel giorno. Il vento era carico d’umidità e le nuvole che giravano in un vortice sulla testa dissuadevano dal mettersi in mare. Quella mattina avevo bisogno di respirare, mi sentivo svuotato e privo di forze e cominciai i preparativi allo stesso modo degli altri giorni. Ettore, capita la mia intenzione, sembrava agitarsi per la scelta che pareva bizzarra. Continuava a girare intorno alla barca, ad annusare l’aria e a prendermi per la giacca tirandomi con tutta la forza che aveva. Era sempre stato un grande amico ma quel giorno non voleva capire cosa volesse dire per me stare a terra. La forza d’attrazione del mare non era mai stata così forte e penetrante. Ormai era tutto pronto, dovevo solo infilare la barca nell’acqua e il resto sarebbe successo da sé, in un rituale

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che era lo stesso da anni. Ettore non smetteva d’abbaiare e mi seguì fin quasi in acqua, nonostante la paura. I pescatori mi gridarono qualcosa da dietro le finestre delle loro case ma le voci sembravano un fischio indistinto e lontano. Calai la barca in acqua, salii infilandovi la scarsa attrezzatura e lasciai che il vento mi portasse al largo, per sentirne finalmente l’essenza. Come al solito, a qualche metro dalla riva mi girai per controllare che la spiaggia fosse rimasta la stessa, nel suo muto splendore fatto di ombre e luci, di case e barche colorate. Ettore, come un punto ocra, scodinzolava e mi giungevano i suoi guaiti distanti. Era l’unico che aspettasse il mio ritorno con ansia, l’unico cui potessi trasmettere l’emozione di salpare, provata ogni giorno con lo stesso sentimento di gioia. Ebbero inizio i rituali della navigazione. Non avrei pescato, così mi limitai a cercare un punto meno turbolento per trovare un po’ di pace. In mezzo a quella distesa di creste di sale ed acqua ricominciai ad assaporare la vita, a sentire con insistenza quella forza dentro che mi spingeva a riempire i polmoni. Dal cielo iniziarono a cadere grosse gocce d’acqua fredda che battevano di lato, inzuppandomi in pochi istanti. L’acqua del mare si faceva più scura. L’urto della pioggia sulle onde era assordante. La barca ballava in una danza sempre più incalzante, mentre il vento mi schiaffeggiava la pelle da più direzioni. Una lotta furiosa tra mare, vento, cielo e pioggia era cominciata. Io, al centro, l’unico spettatore inerme. L’energia che sentivo intorno mi caricava della voglia di vivere. Con un secchio cominciai a buttare fuori dalla barca l’acqua che vi entrava, ma quei gesti concitati non riuscivano a competere con la tempesta. Gli occhi non riuscivano a restare aperti, percepivano solo ombre, grossi spettri che danzavano incessanti. Il cuore era un tamburo che batteva al ritmo della pioggia e i muscoli erano tesi, carichi. La barca si girò e caddi in acqua. Durò un attimo e un’infinità. Quel giorno la corrente mi portò lontano dalla spiaggia e distrusse la barca che mi apparteneva da una vita. Sento ancora addosso il freddo che entrò nella pelle e il sale che mi bruciò gli occhi. Quel giorno Ettore, non vedendomi tornare, si gettò in mare per venire a cercarmi, ma dopo pochi metri la sua voglia d’incontrare per la prima volta il mare faccia a faccia annegò con lui.

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Chi mi accompagna sulla spiaggia in questi ultimi anni è un bastone, un pezzo di barca che la mia mano non smise di afferrare in quella lotta contro il mare. Molte schegge mi entrarono nella pelle e ci rimasero. Impugno questo bastone come simbolo di una vita che se n’è andata. Affondata una parte di me in quelle acque profonde, non mi rimane che guardare l’orizzonte e cercare quel punto preciso, là in mezzo, in cui il mio cuore ha cominciato a battere per cercare la vita. La bandiera indica ai pescatori che è giorno di pesca abbondante. Passano in fila davanti a me, battendomi sulla spalla con mani forti. Non sanno che il mare mi parla ancora, mentre non posso più sentire le loro voci. Non sanno che è entrato dentro me e che respira forte ed è mio. È viscere e sangue.

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Simboli E Geometrie Nati A Libera Immaginazione

Testo di Lucia Gambetta Scatto di Ilaria Oppimitti

Segnale s.m. [sec. XIV; latino tardo sign�le, da signum, segno]. Indicazione, segno. Es: lo sparo era il segnale della partenza; attendere il segnale stabilito.

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Attendere il segnale? Anche un segnale. Anche quello stabilito. Anche quello non stabilito. Il segnale di soccorso, quello che ci permette di essere aiutati, di essere visti in situazioni di necessità o di pericolo. Il segnale orario, quello che ci comunica l’ora esatta. Quello che ci vuole pronti al lavoro, con le gambe sotto la scrivania e la testa lontanissima dal weekend appena trascorso. Il segnale d’allarme, quel dispositivo presente nelle carrozze dei treni. Ammettetelo: anche a voi, ogni tanto, è venuta l’idea di usarlo! Magari non proprio per fermare il treno, no: al contrario. Per farlo volare veloce su rotaie bollenti. I segnali stradali, tutti quei cartelli di varie forme e dimensioni, posti lungo le nostre strade, per farci conoscere la velocità massima da percorrere, la direzione di marcia, le limitazioni e i divieti. Quelli di sosta, quelli di parcheggio, quelli di sorpasso, quelli di fermata. E il clacson, che se lo strombazzi alle due di un pomeriggio afoso, rischi una secchiata d’acqua gelida. Quelli che vietano di buttare qualsiasi cosa fuori dal finestrino, anche il tuo compagno quando ti fa perdere le staffe. I cartelli che segnalano la presenza di determinati pericoli: per esempio, le leggiadre mucche e i veloci caprioli che scorrazzano in mezzo ai boschi. Non vorrei mai che un povero capriolo finisse sotto la mia macchina. Pagare il conto del meccanico sarebbe come spiccare un salto nello spazio, senza più ritorno. Rallentare, attraversamento bambini. Sempre lo stesso bambino che cerca di far attraversare la strada alla bambina, con quell’enorme cartella sulle spalle. E poi, chi sarà mai quella bambina? La sorella? E i segnali di fumo? Quelli che facciamo, quando vogliamo essere visti, scoperti, trovati. Quelli che ci fanno trovare casa. Quelli da cui staresti lontano, se solo avessi un’alternativa. I segnali dell’amore, quelli che faresti qualsiasi cosa per stare con lui, o con lei. Le regaleresti distese

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di rose rosse, anelli d’oro dalle dimensioni equiparabili al peso specifico del tuo cuore, la chiave di un appartamento nuovo e appena arredato, comprato per lei. Poi, dopo averla portata a casa “sua” e accompagnata davanti al pianerottolo, apri la porta e... scopri che i ladri ti hanno rubato tutto. All’improvviso, noti un piccolo biglietto giallo attaccato al frigorifero rosso, ultimo modello della Whirpool, pagato 2.560 euro: «Grazie per averci preparato un delizioso spuntino. Era quello che ci voleva, dopo una lunga giornata di lavoro. Abbiamo apprezzato moltissimo. Firmato: I ladri». Poi scopri che non c‘è miglior regalo se non te stesso. E se non dovesse funzionare? Pazienza, ti rimarrebbe la consolazione di aver dato il meglio che avevi, sapendo di puntare al massimo. I segnali della pace, quella bandiera a strisce, esposta per mesi su tutti balconi e finestre delle case di piccole frazioni, città e paesi. La compravi al mercato equo solidale a 2 euro. Una volta terminata, la trovavi in edicola a 5 e al supermercato a 6. Sapevate che esiste la teoria dei segnali? La spiegazione, per me che di matematica ed elettrotecnica non ne mastico, è un po’ complicata. Con “segnali” s’intendono correnti elettriche che fanno parte di un circuito che... e io che conoscevo solo il circuito di Monza! Poi ci sono i segnali del destino, quelli che ti parlano all’orecchio, piano e di continuo; quelli che li senti battere nel cuore, quelli che pulsano nell’anima. Quelli che ti dicono che stai facendo bene una cosa. Ce l’hai nelle tue mani e di meglio non sapresti fare. Mentre la stai facendo, si muove dinanzi a te, si apre, come una danza, e si mette a volare. La lasci andare. E ti sorprendi, perché in quell’esatto momento, ti accorgi che sul volto è dipinto un sorriso. Ed è bello. Ma ci sono segnali che urlano e non ti fanno dormire. Quelli che hanno un odore forte, intenso, di presagio a ciò che vai cercando. E t’impunti perché le cose devono andare come vuoi tu. Ma loro hanno un’altra anima, un’altra vita. Mossa da fili invisibili cui ti trovi aggrappato. Ti fanno pensare che le stai manovrando tu, ma non è così: ti prendono in giro. È tutto nelle loro mani. Ti parlano, ma non hai orecchie in ascolto; ti guardano, ma non hai occhi attenti. E la memoria diventa labile, assente. Ritorna, sì, ma avrai sempre la sensazione che qualcosa manchi. Un tassello, un disegno, un segno. Qualcosa si è staccato, si è spento. Non sai cos’è successo nello spazio infinito tra il buio e la luce. Tra il sogno e la realtà. Come quella volta che, per amore, ho desiderato – e voluto – che fosse la VOLTA giusta. La strada, il sonno, la stanchezza, il finestrino abbassato e la radio a manetta. Il ritorno a casa in macchina, dopo una serata passata con il mio “Amore”. Mi sono lasciata trasportare da quel sentimento, dal suo dolcissimo odore, dal suo cullare. Da quella sua ninnananna, dolce e delicata. La stessa sensazione di quando mia madre mi pren-

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Luciaa? Luciaaa?

deva in braccio. E una voce di donna: «Lucia? Lucia? ». Una luce fortissima, puntata dritta negli occhi, mi ha svegliata. Una sterzata veloce a destra e il rientro nella mia carreggiata. Giuro che ancora non so di chi fosse quella voce. Credo nel caso e nel caos, nella casualità e nella dolcezza delle cose che sanno di buono. Nel vivere appieno il mio tempo. Anche la memoria del mio computer dev’essere labile. Dovrò aggiungerne altra. Start. Spegni computer. Spegni. No segnal

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E se domani (e sottolineo se)...

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Testo di Enrico Cantino Scatto di Giuseppe Ammannato

Che la letteratura faccia lavorare il lettore, lo renda attivo e gli lasci riempire gli spazi vuoti del testo mi sembra una cosa molto positiva. È bene che il lettore debba controllare, tornare indietro, integrare. È una cosa fondamentale. Per me farlo lavorare incessantemente significa che mi fido di lui, che non lo vedo come inferiore. Se non gli do l’imbeccata, è perché lo pongo al mio stesso livello. Abraham B. Yehoshua, Il lettore allo specchio

Non sono un critico, né aspiro a esserlo. Sono un lettore. Leggo per vedere “come va a finire”, per il puro gusto di farlo, senza preoccuparmi di dover scovare “significati reconditi”. Non seguo regole. Non vado dietro a teorie. Mi affido all’istinto, alle associazioni di idee più o meno esplicite, più o meno dichiarate. Mi abbandono ai campanelli che prendono a legnate i nostri padiglioni mentali mentre siamo immersi nella lettura, per farci presente che qui c’è una cosa e là ce n’è un’altra. Allusioni, rimandi, riverberi. Voci. Quelle buone, però. Che non suggeriscono d’imbracciare un’arma per aiutare il prossimo ad allontanarsi anzitempo da questo dirupo del pianto. Sono le sole che coltivo con passione. Senza di esse, probabilmente, affronterei un testo grossomodo come il mezzobusto del più scalcinato fra i notiziari. La partenza del racconto di Pietro Iannibelli è impegnativa. Una citazione dal poeta portoghese Pessoa: «Il fluire dei giorni e l’invecchiare di tutto, soggettivo e oggettivo, non mi duole perché lo sento ma perché lo penso». L’opera è il Faust. Clic. Scattano le associazioni. Goethe. Il patto con il diavolo. Anima persa da un lato... e guadagnata dall’altro. Soprattutto il tempo. Lo scellerato accordo con Satana prevede che Faust ringiovanisca. Per lui il tempo si riduce ad una percezione mentale: gli pesa solo se ci pensa, perché in realtà il suo fluire non gli fa più un baffo. Chissenefrega. Dopo di che, ha inizio lo spettacolo. Nota a piè di pagina. Mi informa che il racconto si apre e si chiude – come un cerchio – con due brani (le frasi in italico) tratti dal romanzo forse più famoso di Gustave Flaubert: Madame Bovary. Altra associazione. Di natura (tele)visiva. Uno sceneggiato a puntate, targato Rai, di quelli trasmessi quand’ero ragazzino. Scalpore per il quarto di seno esibito dall’attrice durante un rilassato amplesso con Ugo Pagliai nei panni dello spasimante giovane, gagliardo e belloccio. La storia, per chi la conosce, è nota. Emma sposa il povero Carlo Bovary, un uomo al cui confronto una micca di pane è pessima. Per un po’ se ne sta buona, poi comincia a combinarne una via l’altra, in perfetto stile da casaling(u)a inquieta di Rovigo. Mette le corna al marito, contrae innumerevoli debiti e fa una brutta fine. Iannibelli s’inserisce in un momento delicato: Carlo decide di andare dal padre di

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Emma per chiedere la mano della figliola. È il fulcro del romanzo di Flaubert. Perché se i due non si mettono insieme e non si sposano, Emma non diventa Madame Bovary (c’est moi!) e va tutto a pallino. Addio classico della letteratura francese... Dopo che il padre prescrive al malcapitato futuro sposo di attendere un segnale (Se è sì, state bene attento... per non farvi rodere l’anima, spalancherò del tutto le persiane della finestra contro il muro, così voi le potrete vedere... sporgendovi sulla siepe), il Carlo di Iannibelli muove le meningi e per prima cosa si riallaccia a Pessoa: «Tutte le cose sono soggette al tempo, il quale le muta». Tempo. Amore. Felicità. Siamo dalle parti dei Massimi Sistemi. Riflettendo, Carlo sembra quasi consapevole d’essere una finzione il cui destino dipende da un evento narrativo, sarebbe a dire, il consenso o il rifiuto da parte della probabile consorte: «che gioia grandissima mi arrecherebbe un suo consenso, sebbene momentanea! Questo tormento verrebbe ad assumere finalmente un verso, avrebbe un ricetto al quale liberato propendere, invece di solo evolvere chiuso in me... da cura mia diverrebbe realtà, aìre ed approdo legittimo di atti, di pensieri, popolerebbe il contesto nel quale vivo, le cose che guardo e che dico, l’aria che respiro...». Convolare a giuste (ma tormentatissime) nozze, comporta un cambiamento di status, che il protagonista stesso considera più effimero dei fiori di ciliegio: «Ma credere duratura una tale condizione, sarebbe presumere dell’avvenire, poiché essere umano è Emma ed essere umano sono io, nostro è il mutare, l’averne coscienza... percepire il divenire del mondo, il divenire di sé, e tentare di venirne come si può a capo». Senza contare che, in un barlume di preveggenza, Monsieur Bovary immagina quello che sicuramente succederà se dichiara a Emma ciò che prova: la possibilità «di consegnarlo alle abitudini, all’uguale ripetersi dei giorni, di assistere al suo contaminarsi di noia e di quotidianità, di vederlo deteriorarsi sino all’ordinarietà, indistinto ed inavvertito, o solo come larva e memoria, nella continua fatica di esistere...». Avete presente quelle che sostengono di non volersi annoiare, in un rapporto? Eccola lì. Si ritorna, insomma, sulla consapevolezza del personaggio in cerca di stabilità, più che “d’autore”. Ma è una condizione difficilotta da raggiungere, un po’ come nel paradosso di Zenone («come Achille inseguire una tartaruga»), che obbliga l’essere umano a seguire una strategia di avvicinamento illimitato, concetto peraltro caro alla matematica. Carlo non ne fa una questione d’amore, definito «[...] parola odiosa! È melliflua, ma riguarda l’aspro e l’amaro![...]». Al contrario: questo sentimento gli «pare la transizione effimera fra due noie consecutive». È proprio per noia e inquietudine che Emma, nel romanzo “originale” metterà le corna al marito testicolo e gliene combinerà di ogni. Alla fine del suo sproloquio interiore, Carlo s’interroga su cosa si stia dicendo e facendo dietro quelle persiane chiuse («Cosa avveniva dietro quelle immobili imposte? Che parole venivano proferite? In quali toni? Con quali espressioni? E, ne venivano proferite?»). Ma è soltanto una posa, un’affettazione. Quello che gli preme davvero è capire quali possibilità verranno attivate da Emma e da suo padre, valutare le probabili «conseguenze di un consenso e di un diniego». Anche se alla fine il loro effetto potrebbe essere indifferente: «mi aspetterebbero lo stesso, uno dopo l’altro, gli istanti, i giorni, i pensieri...». La conclusione non è aperta, ma spalancata: «A un tratto, si udì un rumore secco, ed egli...». Iannibelli smette proprio sul più bello, un po’ come succede nei cartoni animati giapponesi. Con la differenza che qui non c’è un episodio seguente nel quale vedere cosa succede. Qui si prospetta un’altra possibilità. S’insinua, si lascia intravedere un secondo Carlo (quello del titolo), che, in una realtà parallela alla nostra o a quella in cui Flaubert scrisse il romanzo, mette in dubbio lo status di personaggio romanzesco di Emma Bovary. In teoria, non dovremmo mai arrivare a sapere se Carlo se la impalma. Questo, però, vale tutti coloro che non conoscono Madame Bovary. I quali si vedono costretti a diventare lettori attivi, nel tentativo di riempire i vuoti (a rendere) che l’autore ha rifilato loro. La contraffatta incompiutezza del secondo Carlo si avvale di un’arma formidabile: lo strumento espressivo brandito da Iannibelli. Siamo di fronte ad una scrittura il cui aroma non ha molto a che fare con il Terzo Millennio. La struttura della frase è d’altri tempi: l’autore pratica (e con profitto) uno stile “alto”, che gli viene fuori con una naturalezza a dir poco invidiabile. Il lettore ne è come ammaliato. Per poco non perde l’orientamento, ma gli sta bene così. Riuscire a comporre con una tale felicità affabulatoria, a neanche trent’anni, è una cosetta mica da ridere. Significa conoscere bene il mezzo e fargli fare quello che si vuole. Uno così, bisogna costringerlo a scrivere. Se no, il ferro si raffredda. E sarebbe davvero un peccato. Parere personale, s’intende.

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BIOGRAFIE PENNA Silvia Bia è nata nel 1980 e compiendo gli anni una volta ogni quattro, si classifica meravigliosamente tra le cosiddette “eterne bambine”. Cerca sempre cose nuove da fare, da vedere, da ascoltare, soprattutto persone. Tenta di fuggire da tutto e da tutti, ma rimane il più delle volte invischiata in qualsiasi cosa le capiti di imbattersi. Le piace scrivere e piangere, ama i treni e la gente, e si “innamora” almeno venti volte alla settimana. Se mai un giorno crescerà, non sa ancora cosa farà da grande. Enrico Cantino è ormai vicino ai 41, anche se non li dimostra. È laureato in Materie Letterarie. Vive a Parma, dove lavora (part-time) per un giornale edile. Venera i gatti, adora i cartoni animati e la letteratura. Scrive racconti dal 1984 e ogni tanto riesce anche a pubblicarne qualcuno. Tommaso Chimenti è nato a Firenze nel 1973. Giornalista, critico teatrale e letterario. Scrive poesie e racconti. Pubblicato in varie antologie, ha inoltre vinto alcuni concorsi letterari tra cui “Feltrinelli Firenze 2005” e “Subway Milano 2006”. Andrea Cirillo è nato a Reggio Emilia nel 1982 e vive a Parma, dove frequenta la Facoltà di Lettere. Nel 2000 ha vinto il premio speciale della giuria “Ermanno Minardi” con il racconto Finestre. In passato La Luna di Traverso ha già ospitato alcuni suoi racconti. Angelo Collina ha 41 anni e scrive per passione da circa un anno e mezzo. Ha ricevuto alcuni premi e segnalazioni in concorsi letterari, e sta per essere pubblicata una sua raccolta di racconti. Alessandra MR D’Agostino è nata a Sesto S.Giovanni (Mi) nel 1972. Laureata in Lingue e Letterature Straniere presso l’Università di Milano, attualmente lavora nel marketing come copy writer pubblicitario e come traduttrice ed è web editor per alcuni portali. L’anno scorso il suo racconto Tisbe e Belvolo è stato pubblicato nella raccolta Il mio mare (ed. La Mandragora). Sempre nel 2005 è stato pubblicato il suo primo libro Voice Recorder (ed. Untitled). Simona De Blasio ha 24 anni e vive a Fidenza (Pr). Ha cominciato a scrivere all’età di di otto anni. Si è diplomata in ragioneria ed ora lavora come impiegata a Parma. Tutto, ora, è molto concreto nella sua vita, ma l’incanto della fantasia l’accompagna da quando era bambina. Mattia Filippini abita in provincia di Brescia e studia Lettere all’Università di Verona. Scrive sulla fanzine che ha creato insieme a degli amici e suona in un gruppo. Lucia Gambetta ha 33 anni. Ama leggere, ascoltare i cantautori italiani definiti di serie B e andare ai concerti. Ama anche cantare, mangiare e viaggiare, soprattutto con la fantasia.

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Pietro Iannibelli ha 29 anni e vive a Parma. Predilige Wilbur Smith, JK Rowling e Christian Jacq. Erika Morgagni è nata a Forlì nel 1982. Laureata in Scienze Politiche, si è avvicinata alla letteratura e alla scrittura creativa prendendo parte a corsi di teatro sperimentale. Scrive poesie dall’età di sette anni e ha partecipato a concorsi locali o interni al circuito scolastico romagnolo. Gianluca Morozzi è nato nel 1971 a Bologna, dove vive. Ha pubblicato per l’editore Guanda Blackout, L’era del porco, L’Emilia o la dura legge della musica. Con Fernandel ha pubblicato Despero, Luglio, agosto, settembre nero, Dieci cose che ho fatto ma che non posso credere di aver fatto, però le ho fatte, Accecati dalla luce, Le avventure di zio Savoldo (con Paolo Alberti). Teresa Regna è laureata in Lingue e Letterature Straniere e insegna inglese in una scuola media. Ha vinto numerosi premi letterari e vanta venti pubblicazioni, tra cui quattro romanzi.

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Luisa Turchi è nata a Rimini nel 1975, ma trascorre la maggior parte del suo tempo a Venezia, dove si è laureata in Lettere con indirizzo artistico all’Università di Ca’ Foscari. Come autrice di racconti storici, nel 1999 è stata finalista con il racconto Templum al Premio Letterario “Rimini raccontata” e nel 2004 con Caffè Michelangelo al Premio Letterario Nazionale “Caffè Letterario Moak”. Sempre nel 2004 ha pubblicato il romanzo per ragazzi Vacanze a Castlempton e la favola L’albero di Natale di Briciola, entrambi per le edizioni I fiori di campo. La sua ultima pubblicazione è Azzurrina di Montebello (Artemis Edizioni, 2005).

CAMERA Giuseppe Ammannato ha 27 anni. Appassionato di musica e cinema, sta scoprendo il mondo della fotografia, affascinato dagli scatti e dalla macrofotografia. Saccente e arrogante nell’animo, è convinto di avere la verità in tasca e fornisce pedanti ed inutili spiegazioni su qualsiasi cosa gli passi sotto il naso, cogliendo ogni occasione per sottolineare la sua innata superiorità in tutto, anche in ciò che non sa. Cosa che, per definizione, non esiste. Bianca Ammaturo nasce a Napoli nel 1971, ma vive e lavora a Roma, come giornalista free lance e esperta di comunicazione nei corsi di formazione professionale. Fotografia e scrittura sono le sue grandi passioni. Maria Cecilia Camozzi è nata a Parma 40 anni fa. Dopo collaborazioni con il teatro in qualità di compositore di musiche di scena, e con case editrici e discografiche come grafico e ritrattista, dopo la laurea in filosofia e studi di bioetica e zoosemiotica, negli ultimi anni ha messo da parte il mondo della composizione musicale per approfondire attraverso la fotografia il ruolo della musica nel fenomeno sinestetico. Luigi Casa ha 47 anni e lavora come geologo presso una società che svolge ricerca di idrocarburi. La sua vera passione è però la letteratura. Ha visitato vari angoli del mondo sia per lavoro che per diletto, ma i viaggi più emozionanti li ha fatti con i libri. Abituato ad osservare, ha finito per prendere il vizio della fotografia. Emanuele Ferrari è nato a Piacenza nel 1965. Ha svolto reportages fotografici e realizzato copertine per alcuni gruppi musicali. Ha inoltre realizzato nella sua città mostre collettive e personali. Cinzia Gava ha 28 anni, è nata a Sacile (PN). Laureata in Storia con una tesi sull’immagine della donna nelle fotografie di Julia Margaret Cameron passa il tempo tra un clic della macchina fotografica e uno sguish della creta bagnata. Ilaria Ghidini è nata a Parma e ha 27 anni. E’ iscritta alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Parma e ha partecipato ad alcuni laboratori di scrittura e di teatro. Daniela Masi è nata a Rimini nel 1962. Laureata in Scienze politiche all’Università degli Studi di Bologna, lavora a Reggio Emilia per il Servizio Politiche e Sviluppo delle Risorse Umane.

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Ilaria Oppimitti è nata a Parma nel 1978. Dopo l’Istituto d’Arte, ha frequentato l’accademia di Belle Arti di Bologna. Qui ha scoperto la passione per la fotografia, che l’ha spinta ad intraprendere la professione di fotografa. D’altronde, cosa poteva mai fare una persona che quando è nata ha fermato il tempo, ossia l’orologio di sua madre, come in una fotografia? Matteo Varsi è nato a Levanto (Sp) nel 1970. Si è laureato in Lingue e Letterature Straniere Moderne presso l’Università di Genova e parallelamente ha sviluppato la sua passione per la fotografia. Ha allestito diverse mostre in Italia e in alcune capitali europee. Nel 2004 si è diplomato all’Istituto Italiano di Fotografia di Milano, da allora vive e lavora tra Milano e Levanto dedicandosi molto alla camera oscura e alla stampa fine-art. MATITA Sara M. Daolio è nata a Mantova nel 1970. Dopo il liceo, ha frequentato la Facoltà di veterinaria e ora si occupa di problemi comportamentali degli animali. Dal 2000 frequenta corsi di disegno e pittura. A tempo perso studia Scienze naturali.

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Comune di Parma Assessorato Politiche Culturali e Promozione di Iniziative per i Giovani Assessorato ai Servizi Sociali e alle Politiche di Parità

La rivista letteraria «LaLunaDiTraverso», edita dalla Casa editrice Monte Università Parma, in collaborazione con l’Archivio Giovani Artisti del Comune di Parma e con l’Assessorato ai Servizi Sociali, bandisce un NUOVO CONCORSO PER NARRATORI, FOTOGRAFI e ILLUSTRATORI REGOLAMENTO Art. 1 - TEMA DEL CONCORSO Il prossimo tema della rivista sarà CAOS. Caos come disordine interiore e esteriore. Caos quotidiano, caos della città, delle cose, dei sentimenti, dei sensi e dell’adolescenza... Caos come brodo primordiale di elementi incostanti della natura, come imprevedibilità dei sistemi, caos come entropia e origine dell’universo. Caos come Babele tradotta e come... tutto il caos che avete in testa! Art. 2 - MODALITA’ DI PARTECIPAZIONE Opere narrative: si ammettono racconti originali ed inediti per una lunghezza massima di 5400 battute, spazi inclusi. Il materiale dovrà essere inviato via mail a giovani@comune.parma.it o per posta su floppy disk. Opere fotografiche: si accettano opere originali e non pubblicate. Ogni autore dovrà presentare 5 fotografie in formato 10x15 in bianco e nero facendole pervenire su negativo o su supporto magnetico (floppy disk o cd rom). Illustrazioni: si ammettono da un minimo di 3 a un massimo di 5 tavole in bianco e nero del formato massimo di un foglio A4 (21x29.7 cm). Il materiale inviato per posta dovrà pervenire al seguente indirizzo: Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia c/o Palazzo Pigorini, via Repubblica, 29 – 43100 Parma. Le opere di tutti i partecipanti dovranno essere accompagnate da una breve biografia dell’autore corredata dai dati personali (nome, cognome, indirizzo, recapiti telefonici, indirizzo e – mail). In relazione alla previsione che il materiale possa essere pubblicato, si richiede inoltre il consenso al trattamento dei dati personali ai sensi della legge 675/96 sulla privacy. Inoltre i candidati si faranno garanti dell’originalità dell’opera da loro presentata. Le decisioni della Commissione saranno inappellabili e il materiale non verrà restituito. Eventuali attestati di partecipazione al concorso saranno assegnati agli artisti che ne faranno richiesta solo qualora i loro lavori vengano selezionati. Art. 3 - CRITERI DI SELEZIONE Per la valutazione delle opere si terrà conto della qualità, dei percorsi di ricerca formale e dell’originalità dei testi e delle immagini. Il premio del concorso consiste nella pubblicazione dell’opera sulla rivista “LaLunaDiTraverso”. Solo i vincitori saranno contattati dalla redazione. Non si accettano racconti che hanno partecipato a bandi precedenti.

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Art. 4 – SCADENZA Le opere devono essere consegnate entro e non oltre le ore 12.00 di venerdì 27 ottobre 2006. Art.5 – INFORMAZIONI Per ulteriori informazioni, rivolgersi ai seguenti numeri di telefono: 0521/384469, oppure agli indirizzi di posta elettronica: giovani@comune.parma.it.; redazione@lunaditraverso.it. Orari di ufficio Archivio Giovani Artisti: dal lunedì al venerdì, dalle ore 8.00 alle 13.00; lunedì e giovedì anche dalle ore 15.00 alle 17.00.

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IN LIBRERIA DA OTTOBRE 2006

I LUNATICI 15 NUOVI SCRITTORI ITALIANI con una introduzione di Fulvio Panzeri

€ 15,00 A tutti coloro che con racconti, fotografie ed illustrazioni hanno partecipato alla realizzazione della rivista “La Luna di Traverso”, siamo lieti di proporre l’antologia al prezzo speciale di

€ 10,00

Più che un’antologia di autori esordienti, il luogo in cui incontrare gli autori da bestseller di domani. Dopo sei anni di attività della rivista di narrativa “La Luna di Traverso”, esce il libro che racchiude i suoi pezzi migliori. Da Gianluca Morozzi a Monica Pistolato, una quindicina di autori che oggi escono con libri di successo, propongono i loro primi testi che già mostravano quel talento esploso proprio sulle pagine della rivista. La Luna, nata nel 2001, celebra con questa uscita i suoi autori migliori, proponendone i racconti più piacevoli e succulenti alla scoperta del fare narrativa oggi in Italia. Risultato del fermento creativo che pervade la penisola dei giovani autori, il libro è soprattutto una lettura piacevole, pervasa da invenzioni originali e punti di vista mai scontati, alla riscoperta di una realtà di tutti i giorni in veloce evoluzione. «“La Luna di Traverso” in questi anni è stata uno degli esempi più felici di uno spazio dedicato alla “nuova scrittura”, spazio gestito all’insegna dell’apertura e del confronto tra narrazioni diverse come segno stilistico e come autenticità delle storie. Con una novità sorprendente: la capacità dei giovani di autogestire un progetto, di sentirlo proprio e, in questo senso, vivo e vitale, come dimostrano I Lunatici». Fulvio Panzeri

FULVIO PANZERI ha collaborato con Vittorio Tondelli alla realizzazione di “Un weekend postmoderno” e ha curato la pubblicazione di tutte le sue opere postume, edite da Bompiani e l’opera completa in due volumi nei “Classici Bompiani”. Con Generoso Picone ha pubblicato il libro-intervista, Tondelli. Il mestiere di scrittore. Si è occupato attivamente della nuova narrativa italiana, con vari volumi di saggi, da I nuovi selvaggi (Guaraldi, 1995) a Altre storie (Marcos y Marcos, 1996) fino a Senza rete (PeQuod, 1999). Sta curando la ripubblicazione delle opere di Giovanni Testori nei Classici Bompiani e negli Oscar Mondadori e ha pubblicato da Longanesi, Vita di Testori (2003). Nel 2000 è uscita da Guanda la sua prima raccolta di poesie, L’occhio della trota.

PER INFORMAZIONI E PRENOTAZIONI MUP EDITORE - VICOLO AL LEON D’ORO, 6 - 43100 PARMA www.mupeditore.it - info@mupeditore.it - tel. 0521 386014 - fax. 0521 506588

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