NR.26 SILENZIO

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SommaRio

ITALIA CREATIVA

realizzato da

Incipit d’autore Il dio delle piccole cose di Arundhati Roy Racconto d’autore Il fazzoletto di stoffa Testo di Massimiliano Virgilio

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Chi Siamo

Alla ricerca del silenzio perduto Testo di Alessandro Busi

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Ancora una volta Testo di Francesco Montonati

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Caffè Testo di Nicola Longhi

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La baia delle tigri Testo di Francesco Segoni

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Lo Zen e l’arte di eccellere nel tennis Testo di Alfredo Goffredi

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La cresta Testo di Erika Morgagni

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Rumore di fondo Testo di Fabio Pirola

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LALUNADITRAVERSO 2010 - Anno 10 - Numero 26 Monte Università Parma Editore - Vicolo al Leon d’Oro, 6 43121 Parma

Terzo Squillo Testo di Francesco La Monica

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INFORMAZIONI Per collaborare alla rivista scrivi all'indirizzo redazione@lalunaditraverso.it e lalunaditraverso@gmail. com oppure telefona all’Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia (Via Repubblica, 29 - Palazzo Pigorini 43100 Parma, giovani@comune.parma.it tel. 0521/384469-70).

I silenziosi tempi moderni Testo di Carlotta Fiore

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Il giudizio e il lavoro editoriale della redazione sono insindacabili e accettati implicitamente.

Estremo Oriente. Il silenzio sul mare Testo di Armando Minuz

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Biografie

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DIRETTORE Massimo Carta

RUBRICHE

VICE DIRETTORI Guido Conti, Federica Pasqualetti ORGANIZZAZIONE E COORDINAMENTO Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia REDAZIONE Silvia Bia, Enrico Cantino, Simona De Blasio, Carlotta Fiore, Jacopo Franchi, Roberta Gatti, Armando Minuz, Silvia Pelizzari, Federica Sassi, Andrea Tinterri, Denis Zuliani RELAZIONI ESTERNE Andrea Rabaglia REALIZZAZIONE GRAFICA Simone Pellicelli STAMPA La Stamperia - Parma PROMOZIONE E DISTRIBUZIONE PDE - Promozione Distribuzione Editoriale

Gli autori pubblicati riceveranno due copie in omaggio. La Luna di Traverso è sostenuta dall'Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia e dall'Assessorato al Benessere e alla Creatività Giovanile. Fotografia di copertina di Salvatore Furia, Twin

www.lalunaditraverso.it www.giovaniartisti.comune.parma.it


Fotografia di Marianna Grandi, Grida dal silenzio


Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia Comune di Parma

La vera musica è il silenzio. Tutte le note non fanno che incorniciare il silenzio. Miles Davis Silenzio, lo sanno bene i musicisti, è tutto ciò che intercorre tra un suono e l’altro: la pausa, in musica, ha infatti la stessa dignità e valore di una nota. In ambito letterario, l’assenza di suoni – perché, ovviamente, le parole sono anche suoni – potrebbe essere percepita come assenza di letteratura. Eppure, a ben pensarci, il silenzio, se ben calibrato, è anche qualcosa che riesce a comunicare in modo addirittura più efficace di quanto possano fare mille parole assieme, specialmente in un’epoca, quella attuale, in cui l’assedio verbale parrebbe essere divenuto la norma. Togliere parole implica anche e soprattutto ascoltare. Sapere ascoltare gli altri, certamente, ma anche se stessi, le proprie emozioni, per poi renderle con la massima aderenza possibile. Generalmente, nel momento in cui le parole mancano, ci troviamo dinnanzi a qualcosa di segno opposto. Una scelta voluta o una imposta, sommo sgomento oppure stupore dinnanzi a qualcosa di straordinario. Esempio massimo in letteratura è il tentativo – e la conseguente difficoltà – di Dante, all’interno della Divina Commedia, di raccontare l’ineffabile, ciò che non è esprimibile con le sole, semplici, inadeguate parole umane. Tuttavia, silenzio, come detto, è anche sapere ascoltare. L’Archivio Giovani Artisti, attraverso le pagine de “La Luna di Traverso”, nel corso del tempo ha sicuramente dimostrato di ascoltare le voci dei tanti giovani narratori, fotografi e illustratori che dal 2001 rispondono puntualmente ai suoi appelli. La pubblicazione quadrimestrale di un bando a tema, infatti, rappresenta, oltre ad uno stimolo, una concreta opportunità: una possibilità di confronto, di crescita e di miglioramento delle potenzialità narrative dei giovani artisti. Fin dalla sua nascita, la rivista si è posta come obiettivo quello di creare nelle proprie pagine un luogo d’incontro tra nuovi giovani autori, nel quale essi potessero sperimentarsi e confrontarsi, dando vita ad uno spazio dove vedere finalmente pubblicati i propri scritti. Dato il tema di questo numero, dunque, ci piace considerare la rivista come uno spazio quieto, il cui silenzio è stato riempito da voi, dalle vostre storie, dai vostri racconti, oltre che dalle vostre immagini e illustrazioni. Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia

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Illustrazione di Sara Guarracino, Libera scelta


EditorialE

Il tema del nuovo numero de “La Luna di Traverso” è Silenzio ed è, prima di tutto, un paradosso: per parlarne occorre fare il contrario del suo significato. La grande poetessa Wislawa Szymborska affermava, in un verso emotivamente detonante e rumoroso: Quando pronuncio la parola Silenzio, lo distruggo. Lo è ancor di più se consideriamo che, in natura, il Silenzio non esiste affatto: tutto si muove, per cui tutto genera un suono, percettibile o meno; il silenzio diventa dunque l’intervallo tra un rumore e un altro. Anche in musica, dove l’assenza di suono è una componente fondamentale, il silenzio assoluto non esiste: John Cage, uno dei più grandi studiosi in questo ambito, ci ricorda che anche in una stanza completamente insonorizzata riusciremmo a sentire almeno il battito del nostro cuore. Ma il paradosso, proprio perché in genere è contrario all’opinione comune, ci dà la possibilità di riflettere con attenzione: quanto è importante sentire e quanto è importante il silenzio come condizione dell’ascolto? Ecco cosa abbiamo voluto fare: ascoltare, in silenzio, i vostri silenzi, che voi stessi, scegliendo questo tema fra gli altri presenti sul nostro sito internet, avevate necessità di esprimere. Un bando, forse, difficile, soprattutto pensando ai fotografi e agli illustratori, ma che sicuramente poteva stimolare la vostra interiorità e la vostra mente a tutto tondo. Ma perché “poteva” e non “ha potuto”? Perché anche l’osservazione dei vostri racconti e dei vostri pensieri è stata un piccolo paradosso, forse figlio dell’epoca che stiamo vivendo. I racconti che sono arrivati parlano spesso di silenzi difficili: la ricerca del silenzio nel fragore della malattia; il silenzio della morte; l’incomunicabile silenzio che a volte si crea in un rapporto d’amore; l’obbligo senza scelta della sordità; il silenzio orribile delle guerre; la necessità di silenzio in un mondo assediato dalle parole e dai rumori; il silenzio per concentrarsi e anche il silenzio della natura, di un momento profondo, della pace. Stranamente non viene mai contemplato il silenzio come: comunicazione alternativa, pausa utile per una comprensione profonda, ricchezza, rituale di rispetto collettivo e raccoglimento, protezione legale garantita dalla legge od omertà in risposta alla paura, disciplina spirituale, imposizione religiosa, messaggio o atto linguistico del non dire. Nessun accenno nemmeno alle nuove mode in stile New Age che spesso basano le loro attività proprio sull’assenza di suono e rumore: meditazione in tutte le sue forme e discipline, Silence e Quiet Party, cura del silenzio e quant’altro. Il nostro “paradosso”, dunque, si è formato proprio qui. Siamo partiti da un’aspettativa tematica forse ricca e articolata, ad ampio raggio, pensando a quante cose, parafrasando il concetto stesso, si potessero dire sul silenzio… e siamo arrivati a 8 racconti che rappresentano, invece, un immaginario molto contemporaneo che fotografa perfettamente il “sentire” di oggi: un silenzio rarefatto e molto concentrato sull’individualità personale, un silenzio poco felice e poco positivo e spesso doloroso, non voluto e non cercato, un silenzio che guarda dentro e mai fuori, un silenzio personale. Il “paradosso” ci ha fornito un riscontro molto interessante: la narrativa contemporanea esordiente, nei giovani che sognano e vogliono formarsi scrittori del domani, ha molta difficoltà nel ricercare storie da raccontare, nello scandagliare tematiche e idee, ma ha, forse, la necessità più urgente di individuarsi, di perdersi dentro di sé e lasciare il mondo, intollerante e spesso disumano, fuori. Desolante, se vogliamo, ma è la realtà. Silenziosamente, ci insinuiamo, tra le pause tra un racconto e l’altro, con scatti e disegni che seguono lo stesso percorso, con rubriche che come sempre ci aiutano a spiegare meglio il nostro “sentire” e, a partire da questo numero, con fotografie d’autore che vogliono portare esempi da seguire, tecniche da capire, analisi tematiche su cui riflettere. Marcel Marceau, un grande mimo del Novecento, diceva che «tutte le arti, anche il silenzio, hanno una grammatica, ma prima bisogna sintonizzarsi sull’anima: con il corpo, con il cuore, con lo sguardo». Per cui sedetevi, rilassatevi e… leggete in silenzio.

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Incipit d'autore

Estha era sempre stato un bambino silenzioso, così nessuno fu in grado di stabilire con quale precisione (l’anno, se non il mese o il giorno) quando esattamente avesse smesso di parlare. Smesso del tutto, cioè. Il fatto è che non c’era un “esattamente quando”. Estha aveva chiuso bottega calando a poco a poco la saracinesca. Un acquietarsi quasi inavvertibile. Come se avesse semplicemente esaurito gli argomenti di conversazione e non gli restasse altro da dire. Il suo silenzio non era mai scomodo. Né invadente. Né rumoroso. Non era un silenzio d’accusa o di protesta, quanto piuttosto una specie di estivazione, un letargo, l’equivalente sul piano psicologico di quello che fanno i pesci polmonati, i dipnoi, per sopravvivere alla stagione secca; salvo che nel caso di Estha la stagione secca sembrava destinata a durare per sempre. Col tempo Estha aveva acquisito la capacità di confondersi con qualsiasi sfondo - librerie, giardini, tende, vani delle porte, strade - di apparire inanimato e quasi invisibile a un occhio poco addestrato. Di solito gli estranei ci mettevano un po’ prima di notare la sua presenza, anche quando erano nella stanza assieme a lui. Ci mettevano ancor di più a notare che non parlava mai. Certi non lo notavano affatto. Estha occupava pochissimo spazio nel mondo. Arundhati Roy, Il dio delle piccole cose, Guanda, Parma, 1997

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7 Fotografia di Anna Campanini, Ferrovie Thailandesi


Il fazzoletto di stoffa Racconto e Fotografie d’Autore Testo di Massimiliano Virgilio Fotografie di Alessandro Gandolfi©, scattate in Kirghizistan e India Da bambino l’aspetto peggiore dell’influenza era il fazzoletto di stoffa. «Tieni», diceva mio padre consegnandomi il suo con aria solenne. «Soffia quando ti serve.» Lo tenevo sotto al cuscino. Al momento giusto lo tiravo fuori e facevo una di quelle belle soffiate rumorose. Il problema era che il fazzoletto alla terza sciosciata era già tutto umido e spiegazzato. Solo a guardarlo faceva venire il vomito. Il giorno dopo mio padre entrava in camera per cambiarmelo. «Tieni», diceva. «È pulito.» Io restituivo quello usato, che lui esaminava con perizia, casomai avessi lasciato libero qualche angolo, poi lo arrotolava e se lo infilava in tasca. Una volta mia sorella – che già s’intendeva di medicina – aspettò che mio padre uscisse dalla stanza e mi disse: «Se metti il naso sempre nello stesso posto, i germi non ti lasceranno in pace. Quando ho la febbre non uso mai il suo fazzoletto.» «E come fai?» Scoppiò a ridere. «Uso quelli di carta, no?» Il fatto è che mio padre ha sempre avuto problemi con il concetto di consumo. Per lui l’idea che l’utilizzo di un oggetto portasse anche al suo esaurimento era inaccettabile. Forse era per questo che a casa non circolavano fazzoletti di carta, che non usavamo batterie usa e getta, bicchieri di plastica, né carta argentata. «Lo sai che da neonati portavamo i pannolini di stoffa?», mi rivelò mia sorella. «Perché, esistono?», chiesi. «Si fa tutto sempre negli stessi pannolini. Poi la mamma li lava e te li rimette.» Mio padre non si è adattato ai mutamenti. I tempi, per uno come lui, si sono fatti duri, ma a suo modo ha resistito senza mai scendere a patti con una modernità che non gli piaceva. Mio padre, mentre file di genitori logori sciamavano per negozi accaparrando decori natalizi, tirava fuori gli scatoloni dallo stanzino e si metteva a riparare la serie di pisellini da mettere sull’albero. Quel modo di fare era il suo messaggio alla nazione: che bisogno c’è di comprare una serie nuova, se quella dell’anno precedente si può aggiustare?

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Il giorno del funerale di mia madre ci portarono un sacco di roba, avvolta nella carta regalo dei bar, che mio padre sul tardi staccò dalle confezioni e mise in un cassetto. Entrai in cucina. Lo osservai lisciare e piegare la carta regalo con cura. Sembrava così tranquillo. Lo pregai di non farlo. Lui non mi guardò nemmeno. Cominciai a inveire, lo minacciai di strappare la carta, lo insultati. Mio padre alzò lo sguardo e disse: «Tua madre è morta. Siamo sconvolti. Ma non capisco perché dovremmo gettare via tutta questa carta.» Da allora, fino al giorno della sua morte, non ci siamo più rivisti. Mio padre aveva un’amante. O meglio, aveva un’altra famiglia. L’ha avuta per tutta la vita. L’altra donna che non era mia madre aveva l’età di mia madre, e i due figli che non eravamo noi avevano più o meno la nostra età. Mia sorella era più grande del nostro fratellastro maggiore, mentre io ero più piccolo di quello minore. Questo significa che avevo messo i pannolini di tutti e tre. Mio padre ha dovuto fare molti sacrifici. Per un controllore di bordo che fa un mese in mare e un altro a casa, mantenere due famiglie costa un mucchio di sacrifici. Ecco perché col tempo la sua tirchieria si era aggravata. Mia sorella ed io pensavamo che fosse dovuta alla sua infanzia da povero. Certo, quella era la base. Poi lui ci ha costruito sopra un grattacielo.


Mio padre ha detto balle per tutta la vita e per tenerle vive è diventato tirchio. Ma era un uomo troppo intelligente per accettare di vivere così e per non vivere così ha trasformato la sua tirchieria in un’ideologia. È stato ecologista prima che il mondo si riempisse di ecologisti. Ha fatto il riciclaggio prima del primo che ha deciso di riciclare qualcosa. Ha riutilizzato, ottimizzato, si è fatto prestare. Ha detto no al consumismo, sì alle energie alternative, ai barattoli di vetro, ai fazzoletti di stoffa. Tutto valeva di più, perché ogni cosa gli costava doppio. «Tu lo sapevi che papà ha un’altra famiglia?», disse un giorno mia sorella. Cercai di non sembrare scioccato, così finsi di guardare la tivvù. «Un’altra moglie e due figli», aggiunse. «Forse dovremmo dirlo alla mamma», mi decisi a dire. «No alla mamma no!», rispose. Poi ci pensò su e per un po’ anche lei finse di guardare la tivvù. «Comunque loro sanno di noi. È stato uno di quei due a scriverci.» Mi alzai e corsi dritto in bagno. Mi accasciai sul water e ci guardai dentro. È andata così. Non ho vomitato. Non mi sono tagliato le vene. Non ho fatto niente di niente. «L’ho ricattato», disse qualche giorno dopo mia sorella. «Gli ho detto che so tutto, che se non mi lascia fare medicina lo dico alla mamma. Tu che cosa gli chiederai?» Era raggiante. Aveva trovato il modo per ottenere quello che non eravamo riusciti ad avere in anni di pianti e richieste petulanti. Forse avrei voluto uno scooter e una vacanza in Grecia. E gli altri due? Cosa avrebbero chiesto? Non chiesero nulla. E noi smettemmo di avere loro notizie. Gli scrivemmo, ma non arrivò nessuna risposta. Il segnale che gli extraterrestri ci avevano lanciato era stato chiaro e luminoso, ma dopo quello niente più. Cominciammo a dubitare che ci fosse stato persino un segnale. Comunque lo scooter andava bene, anche se era usato e la marmitta puzzava un inferno. Poi gli extraterrestri tornarono a farsi vivi. Non con noi, con nostra madre. E quello fu l’inizio della fine, come dicono quelli che nelle cose che finiscono devono sempre trovare qualcosa che comincia. Un’altra lettera, un altro segnale chiaro e luminoso. All’inizio non capimmo, ma quando i litigi diventarono sempre più frequenti, allora capimmo che lei sapeva. Gli extraterrestri esistevano e avevano deciso di puntare alla regina del pianeta. L’inizio della fine fu una fine e basta. Rapida, dolorosa, verticale. Mia madre si buttò dal quarto piano dopo qualche mese trascorso tra medicine, psichiatri e il letto vuoto. Forse doveva solo prendere un po’ d’aria. Non le bastava più ascoltare la radio al buio. Non le bastava più alzarsi ogni tanto e buttare giù qualche pillola. Non le bastava aver scelto di vivere senza il controllore di bordo. Non le bastava più niente e per questo aveva deciso di saltare.

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Anni dopo, il telefono squillò. Dall’altra parte della cornetta la voce di una donna mi disse che mio padre stava per morire, forse avrei voluto saperlo. «Tu sei matto», disse mia sorella. «Perché ci vai? Che te ne viene?» Presi la nave, la stessa che lui aveva preso per una vita. Il personale di bordo fu molto gentile. Qualunque cosa chiedevi, te la portavano. Mi sembrò impossibile che mio padre fosse stato uno di loro, uno a cui chiedi una cosa e lui te la porta senza fare mille storie. Quando misi piede a terra mi sentii perso. Non sapevo dove andare. Poi vidi una faccia verde tra la folla. Era l’extraterrestre, il maggiore. Avrà avuto sì e no sui trenta. Per tutto il tragitto non ci dicemmo nulla. Forse avrei dovuto parlargli della lettera a cui non risposero mai, o chiedergli se anche a lui mio padre avesse rivelato che le merendine non scadono, e che la parola “preferibilmente” nella scritta “da consumarsi preferibilmente entro il” significava in modo implicito proprio questo. Il tassì ci scaricò davanti a una cancellata azzurra. Era un appartamento come tanti, al terzo piano di un condominio come il nostro, con vista sul niente. Mio padre morì quello stesso giorno. Prima della partenza, sua moglie mi avvicinò e disse: «Tieni. Ci sono alcune cose sue.» Era una valigia in pelle marrone. Non ricordavo gli appartenesse. Arrivato al porto lasciai la valigia al deposito bagagli. Mio padre aveva scelto loro e loro erano la sua vita. Il suo cadavere e le sue cose sarebbero rimaste lì. Dalla valigia presi solo i fazzoletti di stoffa. A volte, quando disegno, cerco d’immaginarmi la gente che salta. Cerco d’immaginarmi questa palla di gravità correre attraverso le atmosfere e provo a fissare sul foglio la tensione dei muscoli, la piega dei capelli, il ghiaccio negli occhi. Ma un disegno racconta le cose come stanno in quell’istante e il salto istante per istante è una barzelletta. È la complessità del salto che non mi riesce di rappresentare.

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Qualche settimana fa mi è venuta l’influenza. Chiara è rientrata dal lavoro e mi ha messo una mano sulla fronte. Aveva l’aria stanca, una bustina di medicinali nella mano sinistra e una confezione di fazzoletti di carta nella destra. Dopo qualche minuto, mentre ascoltavo i rumori della minestra che si preparava, ho scartato un pacchetto e ho tirato fuori un fazzoletto. L’ho poggiato sul naso e ho soffiato forte. Dopo un paio d’ore il cestino era pieno di fazzoletti accartocciati. La minestra era calda, liquida e insapore. Quando ho il raffreddore non sento i sapori e non mi viene da pensare che Chiara la minestra non la sa fare. Più tardi mi ha toccato di nuovo la fronte, mi ha infilato il termometro sotto l’ascella, cinque minuti e se l’è ripreso. «Meglio chiamare tua sorella», ha detto. Al telefono mia sorella ha detto che i medicinali che stavo prendendo non andavano bene e me ne ha prescritti degli altri. Allora Chiara si è messa la tuta, ha cercato sul giornale la farmacia di turno più vicina ed è uscita. La mattina dopo ha telefonato mia sorella. Mi ha chiesto come me la passassi, se avevo sudato, bene, la medicina ha fatto effetto. Lo sciroppo, mi raccomando, quando finisci il ciclo buttalo. Poi mi ha chiesto cosa ne avessi fatto dei fazzoletti di stoffa di mio padre. «Li ho conservati», ho risposto. Tutte le volte che parlo al telefono steso mi viene voglia di fare la pipì. Quando sono rientrato in camera ho aperto l’armadio. Erano lì, bianchi, consunti, quadrati. Sembravano aver bisogno d’aria. Ne ho preso uno e l’ho lanciato dalla finestra. In volo si è aperto fino a diventare un quadrato grande. Poi è arrivato a terra. Mi sono guardato intorno, non stava succedendo nulla. Era lì e a nessuno interessava che fosse lì. Sono scoppiato a ridere come un cretino. I fazzoletti non prendono aria così.


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Alla ricerca del silenzio perduto Testo di Alessandro Busi Illustrazione di Emanuela Bucci, Il silenzio

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Prima, io ero uno che riusciva a dormire ovunque. Una volta, per esempio, mi racconta spesso mia mamma, mi ero addormentato perfino ad un concerto di Enrico Ruggeri, mentre faceva la canzone Contessa e tutto il palazzetto cantava e saltava al ritmo di tu non sei più la stessa. Sembrava che da bambino fossi come insensibile agli stimoli esterni, mi disse un pomeriggio, mentre bevevamo una tisana antiossidante alla rosa canina, sembrava come che quando arrivavi ad un certo punto, ti chiudevi in una tua stanza silenziosa, immune da ogni rumore. Io le risposi che magari era così, e la vidi sorridere, mentre fissava il vuoto. Anche adesso, non è che mi diano fastidio tutti i rumori, però, le dissi, è come che sono diventato ipersensibile a certi e non ad altri. Quell’orologio, per esempio: togligli le batterie, ti prego. La conversazione, poi, finì con mia madre che prendeva la sveglia dalla mensola della cucina e le toglieva le due stilo e fermava il tempo alle diciassette, trentatre minuti e ventiquattro secondi. Eppure una volta non era così, ma dopo aver scoperto del coso allo stomaco, è cambiato tutto e non me ne sono nemmeno accorto. Un giorno, il mio psicologo, verso fine seduta, mi ha guardato dritto negli occhi e mi ha chiesto se, secondo me, questa nuova sensibilità al ticchettio delle lancette non si potesse collegare al fatto di aver scoperto di avere un tumore allo stomaco, al fatto di essermi trovato a dover affrontare che non sono immortale e che la morte non è solo una lontana idea astratta, ma una realtà vicina. Non le sembra che possano essere legate le due cose?, ha aggiunto nel finale, poggiandosi allo schienale della poltrona. Io ho pensato che aveva proprio ragione e ho annuito senza dire una parola, ma emettendo solo un suono mmm, a labbra serrate. Poi, però, ho anche pensato che non mi andava troppo che quello lì ci azzeccasse così tanto con me; allora ho evitato di dirgli che l’ultima volta che ero andato in ospedale, passando davanti alle stanze chiuse, mi era parso di sentire perfino il rumore delle gocce che cadevano nelle flebo. Non gliel’ho detto questo perché, altrimenti, si montava la testa, ho pensato. Però avrei anche potuto dirglielo, tanto che male c’è anche se sono diventato più sensibile a certi suoni? C’è chi ha l’orecchio assoluto per la musica e accorda gli strumenti come facesse colazione e c’è chi è sensibile ai rumori del passaggio del tempo e delle malattie, allora? Che problema c’è? Che problema c’è?, avrei potuto dirgli, c’è qualche problema? Vuoi che la sistemiamo fuori? Ti aspetto nel parcheggio? Avrei anche potuto fargli assaggiare un bel pugno sui denti a quel frocetto pelato, che poi, io mi dico, ma che si faccia i cazzi suoi, in fin dei conti. Certo, lui dice, sei tu che sei venuto da me, è vero, però non è bello sentirsi come radiografati per quarantacinque minuti. Che poi, in realtà, il problema io lo so qual è e c’entra pure poco con quel tipo, che alla fine fa il suo lavoro. Il problema è che, negli ultimi tempi, da quando è saltata fuori tutta la questione della salute, io sono diventato irascibile. Se potessi, mamma se potessi, spaccherei a testate tutte le vetrine che vedo per strada, e quante risse pure. Sul bus dovrebbero tenere tutti gli occhi bassi e, se li tenessero troppo bassi, farei rissa anche per quello, se potessi. Ma poi lo so che il problema è mio, non degli altri, ma mi sta in culo che quello lì venga a farmelo notare. Come quella là che l’altra sera mi ha chiuso la porta in faccia e mi ha detto vada a farsi curare. Vada a farsi curare, e non ci svegli più nel cuore della notte che dobbiamo dormire, che siamo gente che lavora, mi ha detto, e perché? Solo perché sono andato a suonarle e le ho chiesto di togliere le batterie da quel suo cazzo di orologio. Ma sì, va bene, erano le quattro di mattina, però, allora, cosa dovrei fare, passare tutte le notti insonni perché loro hanno la casa piena di orologi? Che poi, per me, non erano tanti gli orologi; perché io lo so, quando sono tanti orologi assieme non sono mai in sincro e sembra di sentire un batterista epilettico, e il loro rumore non era così. Per me loro hanno un orologio potenziato,


probabile che glielo avranno mandato i loro parenti dall’Arabia, o da dove cazzo viene quella gente lì, perché era come avessi avuto sul timpano uno schiavista che dava il ritmo di remata agli schiavi. Come quello che si vede nei film, che urla con la voce profonda Voga! e poi fa tum, tum, tum, sul tamburo. Era proprio così e io cosa dovevo fare? Dovevo stare tutta notte ad ascoltare il loro concerto dei secondi? Certo, poi potevo evitare di urlargli: arabi di merda tornate nel vostro paese, voi e i vostri orologi. Certo, questo potevo evitare di dirglielo. Potevo anche evitare di gridargli contro: cos’è nei vostri paesi retrogradi non ci sono ancora gli orologi digitali?! Sì, anche questo avrei potuto evitarlo, anche perché, in fin dei conti, non sono cattive persone. Addirittura ho sentito la moglie che diceva al marito di non chiamare la polizia, dato che, così diceva, lo sai che è tanto malato, è il ragazzo del 6. Certo, avrei potuto evitare tutto, però non ce l’ho fatta. Il punto è che, da quando ho saputo della cosa, è come se avessi perso il mio silenzio, e mi sento come nella storpiatura del libro di Proust.

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a r o Anc olta v a un

Testo di Francesco Montonati Illustrazione di Erjon Nazeraj, Silenzio

Stasera viene Marta, dopo cena. Le ho detto che le volevo parlare un’ultima volta. Quelle serate memorabili in cui lei ti riporta la roba e tu cerchi di portartela a letto. Forse per lei non siamo già più insieme, ma per me sì, per me lo siamo ancora. L’ultimo chiarimento, che i chiarimenti non sono mai abbastanza. É la volta che o ci rimettiamo assieme, o non la vedo più. Non è durata tanto con lei, solo qualche mese. La credevo molto affine a me. La credevo sensibile. Pensavo mi completasse. E ci ho investito. Ci ho investito parecchio a livello emotivo. Inutile. Eccoci qui con i «forse abbiamo corso troppo» e i «prendiamoci un po’ di tempo». Come colonna sonora per la serata ho scelto John Cage. Un brano, in particolare, un brano che si chiama 4’33’’. Una provocazione storica. Quattro maledetti minuti di assoluto silenzio. L’orchestra c’è, eccome se c’è. Però non suona. Se ne sta lì, quattro minuti buoni, a guardarsi attorno. É un brano co-modo, è un attimo adattarlo a qualsiasi strumento. E arrogante. Il significato è, più o meno, il silenzio assoluto non esiste perché siamo noi a riempirlo. Con i nostri suoni involontari e fisiologici, come il cuore o il respiro, oppure con quelli esterni, i canarini del vicino o le auto già in strada. E anche con i nostri pensieri, aggiungo io. Ecco, questo è il mio ultimo esperimento con lei. Lei, che è una che parla troppo, che non riesce a star bene in silenzio. Deve riempirlo di parole, altrimenti si sente persa. Voglio provare a me stesso e a lei che se riesce a tacere per un po’, dannazione, c’è la possibilità che riesca ad ascoltarsi e ad ascoltare quello che realmente le scorre dentro. I suoi sentimenti e, perché no, il suo amore. Un esperimento. Una teoria la devi sperimentare prima di chiamarla tesi. O prima di abbandonarla del tutto.

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Tu sei matto. Che idiozia è questa? Non è passato nemmeno un minuto che Marta già si spazientisce. Io sono bloccato davanti al 32 pollici. Non rispondo nulla. Sono in trance, una bambolina afflosciata sulla sedia. Guardo lo schermo. Vedo un direttore d’orchestra immobile. Dovrebbe far ridere? Io sto zitto. Guardo lo schermo. Allora commemorano qualcuno. Alla faccia. Di solito non dura un minuto? Marta cambia posizione sul divano che scricchiola sotto il suo peso. Devi cambiarlo, quando diventi ricco. Ora sullo schermo c’è un timpanista. Tre timpani e lui, immobili. Lo sai che la userò come suoneria del cellulare? Giuro che lo faccio. C’è un movimento del direttore d’orchestra, gira la pagina dello spartito. L’orchestra ripete il gesto. Una pagina vuota, bianca. Il pubblico rumoreggia, tossisce e si sposta sulle poltrone, sospira e ride, poi la bacchetta si alza di nuovo e tutti tacciono. Ma che fa, scusa, prende anche in giro? Marta si riavvia i capelli fruscianti. Si allunga sul divano fino al tavolino di cristallo. Infila la mano in un vuota tasche pieno di monete, rovista con le dita e trova un accendino. Sfrega la rotella metallica e si accende una sigaretta. Sbuffa il fumo verso la tivù, nervosa.


Io fisso ancora lo schermo, dove compare il viso piacevole di una ragazza assorta. Il riccio del violino le sfiora la guancia. Marta butta ancora una folata di fumo. È questo che detesto di te. Il tuo fare da intellettuale. Non mi muovo. Cerco di gustarmi la mano della violinista, la leggerezza del tocco fra pollice e indice attorno alla tastiera. È questo il tuo modo di spiegarti? Di rimettere le cose a posto? È questo il tuo dialogo? Guarda, non posso dire nemmeno di essere delusa, ormai. Ne hai combinate tante. Non rispondo. Mi sforzo di non farlo. Non mi giro nemmeno, ecco. Guardo il direttore d’orchestra che infila una mano sotto il gomito sul petto mentre tiene la bacchetta nell’altra. I suoi occhiali riflettono la luce dei fari. Osservo quella luce. Vorrei rispondere qualcosa. Altroché se vorrei. Vedo in quella luce Marta che sta per allontanarsi da me, per sempre. Ma non posso rispondere. Chiudo gli occhi e ingoio l’aria per calmarmi. L’aria rimbomba in me, giù fino ai polmoni. Non mi giro. No che non mi giro. Ascoltati perdio! Riesci a sentirti? Va bene. Se questo è il tuo modo per salutarmi... Si alza e raccoglie la borsa con stizza. Solo, mi chiedo, perché farmi venire fin qui? Non me lo potevi dire al telefono. Anzi, non dire. Ma, in fondo, questo è il tuo solito modo di affrontare le cose. È sempre stato così e sarà così sempre. Mi volto di scatto verso di lei. Neanche me ne accorgo. Sullo schermo l’orchestra se ne sta con le mani giunte, le braccia conserte sugli ottoni luccicanti. La pagina vuota, i musicisti immobili. Eppure devi sentirlo, le grido sulla porta. Possibile che tu non riesca a sentire niente? Marta punta gli occhi nei miei. Poi li chiude, infilando una mano nella borsa alla ricerca frenetica di qualcosa. Si ferma. Immobile. Come me, come il direttore, come i musicisti e come la musica. Inspira profondamente, strizza gli occhi e si morde forte le labbra. Hai cambiato profumo. Ma cosa c’entra questo con noi?

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CAFFÈ? Testo di Nicola Longhi Fotografia di Marco Borea

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Richiude le porte e preme il pulsante del quarto piano. Il clic risuona nella cabina vuota dell’ascensore. Si volta verso lo specchio sulla parete di fondo. Vede una ragazza di nemmeno trent’anni coi capelli arruffati. Sono così tanti da non riuscire a tenerli in ordine. Gli occhi scuri, profondi, nella pelle bianca. Quattro piani più su, quando le apre la porta, lui la vede mentre gli srotola un sorriso largo. Di una bocca meravigliosamente grande. Non riesce a non notare che, quando le labbra sottili di lei si aprono e lasciano scoperte due file di denti ben allineati, i due incisivi superiori sono leggermente ripiegati verso l’interno. Si salutano con un bacio. Lei ride ancora, anche questa volta, del suo baciarla sulla fronte. Per qualche secondo si guardano negli occhi e il rumore è solo quello dell’espiro caldo del termosifone. Lui la aiuta a sfilarsi la giacca che, nel fruscio dei tessuti, appoggia sullo schienale del divano. Fanno qualche passo, incerti sulla direzione e sul posto da assegnare alle loro mani, poi lui entra in cucina e lei lo segue. Lui toglie una sedia da sotto il tavolo, poi va a mettersi su quella accanto. Appoggiate sulla fòrmica bianca, le braccia possono smettere di sembrare troppo lunghe. Il respiro di lei è corto, si ferma al petto, non scende nella pancia. Tutte le donne respirano così, lui lo sa, ma viene attraversato dalla convinzione di avere un effetto sul muoversi ritmico del petto di lei. È proprio questa convinzione che gli dà sicurezza: fa scivolare la mano sulla superficie lucida del tavolo e sfiora quella di lei. Le due mani si accartocciano come carta da buttare. Ora le teste sono vicine, i corpi protesi e obliqui. La somma dei cateti è maggiore dell’ipotenusa, ma quella strana forma un terzo lato non ce l’ha: sfugge alle regole geometriche, pensa lui. Ed è l’ultimo residuo mentale che gli rimane. Si abbandona, vinto. Quando le unghie di lei graffiano il tessuto dei jeans lungo le sue cosce, non c’è più nulla proiettato sullo schermo della sua mente se non i lampi bianchi della voglia. È lei che si stacca allontanandosi un poco e contraendo le palpebre per stringere gli occhi. «Caffè?», dice.


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Lui si alza dalla sedia, apre l’armadietto sul lavandino e tira fuori la polvere di caffè. Lei va ad appoggiarsi con il sedere sul mobile accanto e lo guarda mentre riempie la caffettiera. Sfrega un cerino e accende il gas. Non ha nemmeno finito di regolarne la potenza quando è lei a farsi vicina. Nella testa un ricordo di quand’era ragazzina e prendeva lezioni di arrampicata: l’istruttore che dal basso le urlava di non rimanere appesa alla roccia ma di starle attaccata, come se volesse abbracciarla. A quel tempo pensava che fosse una cosa assurda: come si fa ad abbracciare una roccia così grande? Anche ora è tutto molto più grande di lei ma comincia a intendere il valore di quelle parole. Così non si appende a lui. Aderisce. Tutta la superficie disponibile del suo corpo adesa a quella di lui. Le dita, il palmo delle mani, i polsi e poi gli avambracci, il petto, il ventre, l’interno delle cosce, le caviglie e i piedi per tutta la loro lunghezza. Girano su loro stessi, stretti in un balletto senza musica. Solo il ronzio della corrente elettrica che tiene accesa la luce e il fiato del gas che esce dal fornello. Urtano il tavolo e poi ancora il mobile di cucina, scossi e senza meta come una barca alla deriva. Dalle labbra morse escono versi più antichi di ogni grammatica. Scompaiono oltre la porta. Dentro la caffettiera l’acqua si scalda. Comincia ad evaporare in superficie. La fiamma continua a battere sul fondo della caffettiera e la tensione di vapore del liquido aumenta. Le molecole di gas si aggregano. Non riescono più a stare al loro posto. Devono salire. Più velocemente. Bolle sempre più grosse arrivano a rompere la superficie come fossero in apnea da troppo tempo. Ma dentro la pancia della caffettiera lo spazio è poco e il fuoco è costante. Così, l’acqua non resiste chiusa là sotto e prende l’unica strada possibile. Sale attraverso un canale sottile, dalle pareti verticali che lascia il posto ad una zona più larga. È qui che incontra una nuova resistenza: la polvere di caffè si bagna, sa che non potrà resistere a lungo ma prova a lasciare traccia di sé in quel liquido senza pace. Il fuoco è così continuo da non sembrare nemmeno uno stimolo ritmico. L’acqua passa, strappa il meglio dalla polvere di caffè ma non riesce a fermarsi, non può, non adesso, non a questo punto. Continua a salire. Un condotto lungo e stretto è quello che ci vuole. Si arrampica sulle pareti. Verso l’alto. Ancora. Ancora. E ancora. Esce in schizzi che ricadono giù. Vengono raccolti tutti insieme sul fondo. Passi che si avvicinano. Piedi nudi sulle piastrelle del pavimento. Lui entra. Per un attimo, l’acciaio cromato della cucina a gas riflette un corpo nudo. L’anta del mobiletto dove tiene la spazzatura cigola nell’aprirsi, lui getta via tutta la carta che tiene in mano insieme al suo contenuto. Guarda il fornello acceso. Qualche goccia è uscita dalla caffettiera e si è seccata lungo i bordi esterni scendendo. Qualche altra è lì ferma sul piano di alluminio vicino al fuoco. Lui lo spegne. Non è adesso il momento di pulire. Il miglior caffè della mia vita e non l’ho nemmeno bevuto, pensa. Sorride scomparendo di nuovo nell’altra stanza.

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La baia delle tigri Testo di Francesco Segoni Fotografia di Valentina Scaletti, Where the birdcage tree grows

Esasperato, indicò per l’ennesima volta il documento sul tavolo di legno. L’altro lo guardò come faceva da un’ora, con il nulla negli occhi. Gallinazzi sospirò, andandosi a sedere sul limitare della colata di cemento in mezzo alla foresta. Aprì la bottiglietta di Coca Cola che aveva nello zaino e ne bevve un sorso. Ingoiò mestamente. Il torrido pomeriggio africano l’aveva talmente scaldata che era quasi bollente. Afferrò il taccuino e rilesse l’unica annotazione fatta fino a quel momento: 3 aprile, ore 20: arrivo all’aeroporto di Windhoek, Namibia. Partenza domattina. Scosse la testa e aggiunse: 4 aprile: frontiera angolana di Ruacana. Problemi. Il motore della jeep riprese a borbottare all’improvviso. Gallinazzi torse il collo per dare un’occhiata alle sue spalle. Il rudere della dogana era sempre lì, senza insegne o infissi, con il tetto sfondato e le crepe nei muri. Il personale ciondolava sull’ampia gettata di cemento che si elevava sul fondo polveroso del bush, alla cui estremità era seduto anche lui. I suoi pacchi erano come per incanto finalmente chiusi e accatastati in un angolo. L’italiano si avvicinò al tavolo, poi cominciò a caricare i pacchi nell’auto, uno dopo l’altro. Salì a sua volta sulla jeep. Stanco e sudato, prese dalla tasca una busta aperta. Ne sfilò una lettera che lesse mentalmente ancora una volta. L’auto filava sulla pista sabbiosa. Procedette per un paio d’ore nella macchia stentata della vale del Kunene, verso la costa. Acacie, sabbia, pietre. Né uomini, né animali. L’autista fissava la strada senza cambiare mai espressione. Quando il sole si fece più basso e l’aria leggermente più respirabile, l’auto si fermò. L’autista salì sul tettuccio, slegò la corda che teneva chiuso un grosso sacco di tela marrone e lo gettò a terra. Montò rapidamente due piccole tende. Divisero senza parlare una zuppa in scatola, scaldata sul fuoco che l’angolano aveva acceso con i rami secchi trovati nei dintorni. Gallinazzi, ignorando la tenda a lui destinata, si sdraiò come riuscì sui sedili della jeep e provò a prendere sonno. Il mattino dopo sentì bussare al finestrino che il sole non era ancora sorto. Fitte di dolore lo colpirono su tutto il corpo. Aveva una gamba e un braccio addormentati. C’era acqua bollente sul fuoco, un barattolo di caffè solubile. Si lavò la faccia a secco, con le salviettine per l’igiene intima. Ripartirono. Ci vollero tre giorni di viaggio per vedere l’oceano. Gallinazzi non credeva quasi più che avrebbe rivisto l’acqua. La polvere secca mi sta uccidendo, ce l’ho in gola, negli occhi, aveva pensato. Finalmente l’aria del mare. Finalmente l’umido. Presero verso nord. L’auto filava sulla sabbia dura della battigia: avevano preso la via più diretta, ma non esistevano strade. Si fermarono solo per guardare un gruppo di foche sdraiate sull’arena fredda. Presto il bagnasciuga si fece stretto. Saliva la marea. La jeep spruzzava in alto l’acqua grigia dell’Atlantico. Sul lato interno le dune salivano ripide. L’autista virò all’improvviso, risalendone una più bassa delle altre e adagiando l’auto al di là della cresta. Avevano fatto una quarantina di chilometri. A questi ritmi, pensò Gallinazzi, ci mettiamo ancora tre giorni. Fece buio. Il vento fischiava rabbiosamente sulla sabbia, frustandoli in viso mentre cercavano di bere il brodo caldo. Nell’oscurità ascoltavano la furia dell’oceano poche decine di metri più in basso. Gal-

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linazzi sentì montare la nausea. Si ritirò nella tenda, avendo rinunciato presto a dormire in auto. Le fitte lo svegliarono all’improvviso. Aprì gli occhi, era buio pesto. Cercò a tastoni la lampo della tenda e riuscì a stento ad aprirla e gettarsi fuori con le spalle, chino sulla sabbia, prima di vomitare con strappi violenti. Quella notte non dormì più. Si svegliò con un’emicrania fulminante e lo stomaco morso dai crampi. Il vento era scomparso, nel cielo immacolato splendeva di nuovo il sole. Io non sono fatto per questo, pensò Gallinazzi avvicinandosi al fuoco per afferrare il pentolino di acqua bollente. Ogni osso del suo corpo era come stretto in una pressa. Si stropicciò gli occhi rossi in cerca dell’autista. Non c’era. La sua tenda, sparita. La jeep, però, era lì. Incespicando verso il margine della duna, Gallinazzi si sporse per guardare verso il mare. Lo vide sulla spiaggia, scrutava l’orizzonte con il binocolo. Gli si affiancò lentamente, ma non trovò l’occasione giusta per parlare. L’altro continuava a fissare il mare aperto. A Gallinazzi parve di vedere dei movimenti sul pelo dell’acqua, ma a occhio nudo non era in grado di distinguere nulla. L’autista si accorse dell’uomo di fianco a sé. Gli offrì il binocolo. Gallinazzi si mise a scandagliare la superficie del mare. Non capiva. Finalmente, attraverso le lenti, vide qualcosa sbucare tra le onde. Era un oggetto dalla forma allungata. Saltava fuori tra gli spruzzi, come sparato da un cannone. Ricadeva pesantemente in acqua. Guardò meglio. Uno, due. Erano diversi. Grossi, scuri, quasi neri. Non si muovevano come i delfini. Uscivano con il muso proiettato verso l’alto, ricadevano scomposti, sollevando getti di qualche metro di altezza. Gallinazzi restò a bocca aperta. Stava osservando, durante la loro battuta di caccia alle foche, gli squali bianchi della Baia delle Tigri.

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Lo Zen e l’arte di eccellere nel tennis Testo di Alfredo Goffredi Illustrazione di Ettore Tomas, Cerco silenzio, disegno con elaborazione digitale, anno 2010

Per quanto sia stato vicino alla fine dei miei giorni, non rividi la mia vita. Niente di quello che avevo detto, fatto, provato o subito negli anni addietro mi passò davanti agli occhi. Questo lo posso affermare con certezza. Questo e poco altro, in effetti. Affaticamento, ansia, affanno e stress. Non c’è nemmeno bisogno che le nomini. Ricordo nitidamente il mormorio della folla, mentre il mio cuore pompava come un dannato, sempre di più, sempre di più, sempre di più, al punto che i timpani sembravano esplodermi fuori dalle orecchie a ogni battito. Poi l’arbitro chiamò il silenzio, ma a quel punto già non sentivo più niente. Perso all’interno dei miei confini biologici, assordato dal silenzio e dalla tensione, l’idea della sua voce aveva lo stesso timbro dell’arbitro di Wimbledon. Silence please. Non era Wimbledon, ovvio. Niente obbligo di completo bianco, niente diretta sui canali satellitari, telecamere o cronaca di Rino Tommasi. Niente regina. Non era Wimbledon, ma anche la finale della fase provinciale sapeva essere impietosa. Ultimo set, ultimo game. Match ball fossi riuscito a smettere di sbagliare, dopo un intero set regalato all’avversario. Dagli sbagli s’impara, ma se diventano tanti allora si impara solo a smettere di rischiare per non sbagliare. Strinsi la palla tra le dita e poi la buttai a terra. Primo rimbalzo. Lo cercai e lo trovai che tentava di divinare la prossima mossa dalle rughe della mia fronte. Vi ritrovai quella stessa tensione muscolare e quella stessa ansia da prestazione tennistica che lui poteva leggere su di me, solo leggermente più accennata dall’esile scarto del mio vantaggio. Secondo rimbalzo. Per un istante i nostri sguardi si incrociarono, comprimendo spazio e tempo nella tensione dei nostri muscoli, tendini e nervi. Come immerso in una luce bianca accecante, iniziai a vagliare l’ultimo scambio. Mi vidi aprire con una palla tesa a metà campo, subito respinta un po’ goffamente da un dritto; uno scatto molto vicino alla rete mi avrebbe permesso di ribattere, ma da lì difendersi sarebbe stato impossibile. Mi vidi battere una palla verso un angolo del settore, troppo lunga. Fuori. Mi vidi battere un’altra palla, leggermente alla sua destra, che si comportò allo stesso modo. Mi vidi eseguire una battuta troppo disinteressata; arrestata dal nastro non avrebbe superato la rete. Mi vidi battere una palla lenta a fondo campo, centrale, intercettata da un rovescio potente e sicuro, preciso; non mi sarei, però, lasciato intimorire e avrei tagliato una palla al lato opposto, smorzandola rasente alla rete e costringendo il mio avversario ad una corsa folle per recuperarla. Certo lui era bravo e ostinato, con buone probabilità di raggiungerla. La sua volée mi avrebbe tuttavia offerto la possibilità di schiacciare, possibilità che non mi sarei lasciato sfuggire, colpendo con forza. Il suo scatto, terminato in tuffo, mi avrebbe mangiato di nuovo la possibilità di vittoria. No. Nessuna di queste era la strategia adatta. In una frazione di secondo reale, vivevo centinaia di volte quell’ultimo scambio, ognuna senza il minimo successo. Un numero smisurato di battute, risposte, pallonetti, rovesci, corse, sconfitte faticate, sconfitte brucianti, umiliazioni nate dall’errore di un novellino, ginocchia sbucciate sul campo sintetico. Rassegnato, decisi di arrendermi. Non è onorevole, certo, ma bisogna capire quando lasciare andare, e forse quello era il mio momento. L’avversario era forte, del resto. Mi misi il cuore in pace, in fondo il

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secondo posto era dignitoso, non era niente di male; non ho mai capito perché si debba a tutti i costi primeggiare, a che serva essere così ostinati. Terzo rimbalzo. Presi la palla, la avvicinai al manico della racchetta. Stavo per lanciarla in alto quando la mia attenzione fu rapita da una piega della manica del mio avversario, una piega in linea con la gamba su cui poggiava il peso, con la racchetta, innestata sulla stessa via di fuga della tribuna, della torre dell’arbitro e del filare di alberi che potevo scorgere alle spalle del campo. Sembrava che tutto vibrasse all’unisono, in risonanza verso un solo unico punto del campo. Una palla tesa in quel punto e la partita sarebbe stata mia. Avevo giocato quell’ultimo scambio centinaia di volte nella mia mente e in ognuna di essi perdevo; tranne che in quello. Lanciai la palla in alto e la guardai mentre i riflettori ne illuminavano l’ascensione, mentre la racchetta ruotava dietro di me, mentre il braccio destro la reggeva solidamente, mentre i muscoli si tendevano, pronti ad esplodere un colpo che contenesse ogni energia rimasta, preciso e implacabile, a mirare quell’unico piccolo punto vincente nel campo. Ruotai il braccio con tutte le mie forze. Lo schiocco dell’impatto mi stappò le orecchie.

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LA CRESTA la cresta Testo di Erika Morgagni Illustrazioni di Rossella Tauro, Il Bambino e la Conchiglia, incisioni calcografiche, 18x24, 2010

I medici dissero: Vestibulopatia monolaterale periferica. Che vuole dire che un orecchio non ti funziona più e non hai riflessi. «Ma almeno ci senti?», mi chiese Freddy a voce bassissima con il suo sorriso snodato come le gambe di una contorsionista. «Sì, ci sento ma non ho equilibrio, sono in piedi per miracolo», gli dissi mentre bevevo il mio quarto angelo azzurro stringendo le palpebre anche se ormai l’alcol non mi faceva più lacrimare gli occhi. Pensai che molto spesso il corpo funziona da solo e decide per conto proprio e siamo tutti schiavi della biologia e delle cellule e dei riflessi e non possiamo nemmeno decidere quando stringere gli occhi o avere le palpitazioni o lacrimare. La cosa mi rese triste. «Cazzo, che storia», disse Freddy scuotendo il poco ghiaccio rimasto nel bicchiere. Anche Freddy mi pareva parecchio triste, forse perché sua madre era scappata con uno del circo che addomestica elefanti lasciando suo padre solo sul divano. «Tuo padre?», gli chiesi urlando perché la musica era cambiata e adesso c’era una disco dance anni ’80 da balli di gruppo e una donna con gli orecchini grandi di plastica era già scesa in pista a muovere le mani con un sorriso malizioso. Che mistero enorme sono i sorrisi. Maliziosi poi. Più delle piramidi d’Egitto, della Vestibulopatia, della madre di Freddy che scompare all’improvviso con uno che addomestica elefanti. Perché sono astuti i sorrisi. Maliziosi poi. È come se l’intelligenza si trasferisse di colpo sulla labbra e le gonfiasse tutte. Altro che silicone, botulino, rossetti, gloss e tutto il resto. «Di merda, sta sempre su quel cazzo di divano a guardare la televisione e a pensare a lei. Sembra morto.» Freddy si asciugò le labbra con il dorso della mano e forse se ne accorse, che stavo ridendo. Perché la parola morte mi fa sempre il solletico al cervello e tutte le volte che la sento sorrido. Sarà perché penso che uno smette di respirare all’improvviso e inizia a stare zitto per sempre e ho come l’impressione che la morte sia solo un grande gioco muto che non vuole finire. Uno scherzo troppo lungo organizzato dal silenzio. «Scusami: deve essere l’effetto di questo», ho detto a Freddy agitando il bicchiere senza convinzione. Ho letto un noproblembaby sulle sue labbra perché la voce del dj copriva tutto, anche i gesti, e c’era qualcosa di così lungo nel suo LA SENTITEEEE??? LA SENTITEEEEE??? QUESTA È L’ONDAAAA RIPETETELO CON ME TUTTI FORZA L’ONDAAAA DEL DIVERTIMENTOOOOOOOO, che per un attimo chiusi gli occhi. Pensai alle onde vere. A quelle del mare, delle spiagge, che sembrano saliva appena uscita dalla bocca di qualcuno. A quelle che fanno andare le barche da tutte le parti. Perché poi ci muoviamo tutti come le onde che si alzano e si abbassano e quando abbiamo pensieri un po’ più silenziosi scopria-

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mo di avere anche la cresta. Perché anche il rumore ha i suoi punti più alti come le onde. È il silenzio, la cresta del rumore. «Usciamo? Troppo casino», ho detto a Freddy guardandolo annuire. ECCOLLLAAAAA L’ONDA DEL DIVERTIMENTOOOOOO... Era dicembre. La neve sul parcheggio la forfora del mondo. Mi avvicinai a Freddy e gli scaldai le labbra con il fiato caldo che ancora avevo in bocca. Lui si schiarì la voce e sorrise. In modo malizioso anche. Mi piacciono i baci. Non solo perché sono la promessa di qualcosa e ti fanno stare zitto per un po’ di tempo. Mi piacciono perché quando bacio la mia è bocca è un acquario e tutte le parole che stavano per uscire diventano pesci o onde o cose silenziose che si infrangono sui denti degli altri e non dirai mai più. Per questo baciai Freddy sotto la forfora del mondo, credo. Perché erano troppe le cose che avevo voglia di non dire e la sua bocca mi sembrava un ascensore di carne pronto a portare la mia saliva da un piano all’altro. Alle tempie, alla testa, alla fantasia. Perché la fantasia è un piano del cervello. «Wow, non me l’aspettavo.» Freddy aveva il naso rosso e il suo alito era dolce anche se sapeva ancora un po’ di alcol. «Perché?», gli chiesi osservando le vene blu sotto quella pelle troppo chiara. Era diverso dagli altri ragazzi che avevo conosciuto. Non era solo più triste ma anche più profumato. Allora pensai che siamo tutti aromatizzati perché ci facciamo marinare ogni giorno dal mondo. Che quando ti piace veramente qualcuno è per come si è fatto bollire dai tram, dalle macchine, dalle case, dalle strade, dai silenzi. Che i silenzi sono le spezie dell’udito e insaporiscono tutti i suoni. Così mi appoggiai alla spalla di Freddy con l’orecchio malato. Quello senza riflessi. «Non credevo di piacerti. Ecco tutto», disse Freddy muovendo appena il braccio. A quella distanza potevo ascoltare il suo corpo come fanno i medici quando sentono i battiti del cuore e mi sembrò che la spalla cigolasse appena come l’anta di un armadio con la molla un po’ arrugginita. Pensai che forse Freddy stava trasformando sua madre in un ricordo per questo cigolava un po’, perché i ricordi sono la ruggine del corpo. «Freddy… mi dispiace che tua madre se ne sia and…» «Shhhh» «… ata» Il shhh diventò fruscio. Quello del vento che sfrutta la fessura della porta ancora aperta e mette lì tutta la sua potenza, in quel misero spazio. Che ogni uomo è una fessura e la vita è tutta l’aria che gli passa in mezzo. E più la fessura è stretta più l’aria fa rumore. «Non ho voglia di parlare. Stiamo un po’ in silenzio. Ti va?» Capii che i pensieri di Freddy adesso erano muti e avevano la cresta come le onde, che il silenzio a volte è proprio strano perché è più rumoroso del rumore. Il momento che seguì suonò più o meno così.


Rumore di fondo Testo di Fabio Pirola Fotografia di Maria Zanchi, originale pellicola a colori elaborata in digitale

Parole sprecate, aveva detto lei. Le parole poco significative erano per lei soltanto un ronzio indistinto, ed era strano che glielo avesse detto proprio mentre cercava di spiegarle lo stesso concetto che aveva implicitamente espresso, ma si rifiutava di accettare… Lasciare l’università quando mancava così poco alla laurea! A detta di tutti era stato un gesto estremamente stupido. Ma solo un cannone può fare più rumore di uno sciame d’api; quando ci si trova in mezzo a una folla l’unico modo per farsi sentire è urlare più degli altri, anche nel caso in cui, paradossalmente, l’unica cosa da urlare fosse il proprio bisogno di silenzio. Paolo l’aveva capito in un giorno di due anni prima, su un autobus affollato: un suo amico che si trovava dall’altro lato del mezzo cercava di dirgli qualcosa che secondo lui doveva essere degna di urgenza, e per fare questo non trovava altro modo che urlare oltre il confuso vociare degli altri. Allora aveva avuto la rivelazione. Era sceso alla prima fermata possibile, lasciando sull’autobus l’amico che lo guardava attonito addossato ad una porta e cercava ancora di dirgli qualcosa. Quel qualcosa non era mai arrivato alle sue orecchie: si era confuso tra le voci come i vecchi ricordi si erano confusi con i nuovi, fino a lasciare solo il presente come punto distinguibile. Non che avesse dimenticato il viso di Barbara, o tutto ciò che aveva imparato nei suoi studi, ma era riuscito a isolarsi dalle opinioni non richieste di cui il mondo era tanto prodigo. Si era ricordato delle parole che una ragazza (del cui successivo destino non aveva alcuna notizia) gli aveva scritto in un biglietto d’auguri per il suo compleanno: Ti auguro di vivere il mondo come tu lo vedi e non come lo descrivono gli altri. Perché in fondo tutti i punti di vista sono ugualmente arbitrari, l’unica consolazione è quella di sbagliare da soli senza coinvolgere nessuno nelle proprie sofferenze. Aveva avuto grande difficoltà nel comunicare la decisione ai suoi genitori. Aveva promesso che nell’arco della sua vita li avrebbe rimborsati di tutto ciò che avevano speso per i suoi studi universitari. Ovviamente non avevano capito il messaggio che cercava di lanciare. Loro vedevano solo un buon studente con una buona media che si ritirava a due passi dalla laurea. Era stato proprio sentendo la parola “media” che Paolo aveva capito di avere ben poche speranze con loro. Nella media dove finivano i contributi individuali? Non era stato facile restituire tutti i soldi. Suo padre all’inizio non avrebbe voluto accettarli, poi di fronte alla sua insistenza aveva rinunciato a discutere, ma si capiva che entrambi lo disprezzavano e lo consideravano solo un fallito. Quando era arrivato da Barbara, era sicuro che almeno con lei non ci sarebbero stati problemi: era dotata di una grande sensibilità. Di fronte alla notizia aveva reagito con una sorta di scomposta

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agitazione. Neanche lei gli aveva dato sostegno, aveva detto che non riusciva proprio ad immaginare un vero motivo per cui fare quella follia, e mentre Paolo cercava di spiegare la sua teoria e di conquistarla alla sua causa lei aveva detto che avrebbe fatto meglio a stare zitto, non aveva voglia di sentire altre assurdità. E anche lei era andata ad ingrossare il fiume dei rumori di fondo. Guardando il cielo, sapeva che il vuoto non esisteva. Ovunque, in tutto l’Universo, dove non c’era materia c’era almeno energia, il che era in fondo la stessa cosa. Era stato proprio isolandosi dal rumore che aveva imparato a interpretarlo, scindendolo in tutte le sue innumerevoli componenti quasi indistinguibili e per lui poco significative, ognuna che raccontava una storia appartenente a chissà quale sagoma nella folla. Capiva tutto, ma niente era rilevante. Sentiva tutte le voci che avevano cercato di fermarlo sulla via della sua liberazione, sentiva tutti coloro che lo deridevano, che gli bisbigliavano dietro tutto il loro altero, vigliacco e ottuso disprezzo; ma niente di tutto ciò lo riguardava. Ormai sapeva che tutto apparteneva soltanto all’inarrestabile ronzio, e finché quello durava sapeva che tutto era a posto, era ancora vivo. Il giorno in cui esso si fosse spento avrebbe voluto dire che era morto, o che era diventato come loro, perché gli unici esseri a non accorgersi del rumore di uno sciame d’api sono proprio le api che ne fanno parte. Ma nel frattempo, pur sentendo il rumore di fondo, ne era ormai libero, perché l’aveva compreso ed analizzato, sottraendo ad esso tutto il potere derivante dal suo mistero. E allora poteva cercare, tentare di rintracciare coi sensi ormai liberi quel suono unico e pulito che avrebbe dato l’avvio alla sinfonia della sua vera vita.


Forse era colpa della Coca Cola. Ma tutte le notti si alzava dal letto all’una, senza più sonno. Era successo anche quella notte. Tanta stanchezza, ma niente sonno. Era una specie di dolore alla pelle, sparso per tutto il corpo, come se la pelle gli tirasse, come se non bastasse più a contenerlo. Non gli riusciva di dormire, e forse non era solo colpa della caffeina. Forse era soprattutto sentire quel dolore accurato, il tempo che passa e graffia, e passa inutilmente. Ne aveva bevuta tanta anche quella sera, ma almeno riservava al suo cervello questa forma di riguardo: non lo fulminava con l’alcol, come fa a volte la gente. Lui lo accendeva e basta, con la Coca Cola. Anche se poi il gas che gli si formava nello stomaco lo rendeva succube di quel seccante meteorismo. Una volta, da ragazzo, aveva seguito un ciclo di autodistruzione: si era somministrato vere e proprie taniche di quella bevanda, per settimane e settimane. Doveva farsi riformare alla visita di leva, quando ancora si partiva per il militare obbligatorio, e qualcuno gli aveva detto che la gastrite e l’aritmia cardiaca potevano aiutarlo nello scopo. E così lui fumava come un pazzo, beveva giare di gas liquido nero e si sentiva l’addome scoppiare. Anche il cuore aveva preso a pulsargli fuori norma, come se saltasse un colpo ogni tre. Lo tennero sotto osservazione per dodici ore: era un sabato, l’ospedale militare era deserto, tutti quanti avevano ottenuto un permesso per il weekend. E lui invece lì, a passeggiare per i viali desolati, sforzandosi d’incrementare l’aritmia col pensiero in vista della rilevazione successiva, che un caporale di turno eseguiva ogni due ore esatte: si agganciava alle orecchie lo sfigmomanometro e palpeggiava con disinteresse l’ovale di gomma nera, una decina di spremute in tutto, e poi girava la rotellina, lasciando che la fascia di tela serrata attorno al bicipite si sgonfiasse rapida. E mentre annotava sulla scheda i nuovi valori della pressione, la massima e la minima, lui lo guardava fisso, gli cercava gli occhi, aspettava che il caporale gli ricambiasse lo sguardo. Ma quello lì non si pronunciava mai; alla fine si limitava appena a strizzargli un occhio, come a dire: «Tutt’a posto.» E cosa diavolo significava, per lui, tutt’a posto? Incredibile come tutt’a posto possa arrivare a significare nello stesso tempo due cose esattamente contrarie. Dodici ore, sette rilevazioni, e tutt’a posto. Alle otto di sera lo rilasciarono, poteva tornare a casa. Ma non gli dissero niente. Né sì, né no. Silenzio! Anche quel tutt’a posto, in fondo, se l’era solo immaginato. E così, dopo tre mesi, decifrando a fatica la scrittura su una cartolina postale gialla vergata a mano, poco più di un silenzio, apprendevi che ti avevano fatto rivedibile. Sì, ti volevano rivedere; o meglio, ti lasciavano sulla graticola per un altro anno. Funzionava così. Poi avresti dovuto bere un’altra cisterna di Coca Cola, fumare altre mille sigarette, passeggiare per dodici ore nei viali deserti di un ospedale militare, un sabato; e forse, dopo un altro anno di attesa, una nuova cartolina gialla ti avrebbe informato del tuo declassamento tra i riservisti. Partenza solo in caso di guerra! La peggiore delle soluzioni. Tu, che provavi orrore per la guerra, e speravi che non ce ne fossero mai più, da nessuna parte, di guerre. In nessuna parte del mondo.

Terzo squillo Testo di Francesco La Monica Illustrazione di Stefano Artibani, Silenzio Naturale, china su carta, 21x29,7 cm

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Da ragazzino, a dieci anni, aveva visto in tivù un soldato israeliano ferito dallo scoppio di una mina: gli mancava un braccio, gli era stato tranciato all’altezza del gomito, ed aveva il volto sfigurato; dalla bocca gli colava giù una specie di bava nera collosa. Sicuramente c’erano in mezzo anche delle lacrime, ma in quell’orrendo sfracello non riuscivano a distinguersi. Gridava come un diavolo – si capiva dall’espressione –, ma non si udiva niente. Solo un orribile grido silenzioso. Doveva avere circa vent’anni. Una scena che forse un bambino non dovrebbe mai vedere, in tivù. Oppure, chissà invece: forse dovrebbero vederla tutti; perché ci sono volte in cui il silenzio è più indecente della verità. Aveva ripreso a bere Coca Cola, da un po’, e beveva senza curarsi del meteorismo. Quella notte, chissà perché, gli era tornata in mente la storia della visita di leva. Aveva anche ripreso a fumare, dopo cinque anni. Era come se sperasse di venire riformato un’altra volta, anche se non aveva più l’età. Anche se la prima volta non era servito, a far finire tutte le guerre. Era di quei giorni la notizia dei sei ragazzini sudanesi di etnia fur, sei bambini-soldato, che rischiavano la condanna a morte per aver partecipato a un attacco contro Omdurman. C’era chi sosteneva che i bambini-soldato in Darfur erano addirittura seimila. Qualcuno ha scritto che, «diventando perenne, la guerra ha cessato di esistere»; che ormai «somiglia a quelle battaglie fra certi ruminanti le cui corna hanno un’angolatura tale che impedisce loro di ferirsi.» Ed era il 1948 quando Orwell l’ha scritto.

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A un tratto squillò il telefono, erano le due. Un telefono che squilla nel cuore della notte è quasi sempre un guaio che si preannuncia. Il cuore gli partì a mille, sembrava saltare un colpo ogni tre. Si sentì la pressione a duecento. Passò in rassegna l’intero campionario di possibili cattive notizie. Rispose trafelato al terzo squillo: «Pronto, pronto, pronto?» Ma non era nessuno. Dall’altra parte silenzio. Finisce sempre così.


I sIlenzIosI tempI modernI Testo di Carlotta Fiore

Il silenzio è un dono universale che pochi sanno apprezzare. Forse perché non può essere comprato. I ricchi comprano rumore. L’animo umano si diletta nel silenzio della natura, che si rivela solo a chi lo cerca. Charlie Chaplin C’è stato un tempo in cui cinema non significava rumore. C’è stato un tempo in cui solo le immagini raccontavano storie e gli attori galleggiavano in una dimensione surreale nella quale non esistevano boati e grida. C’è stato un uomo, su tutti, che ha rappresentato il cinema muto e che ha fatto del silenzio un’arte. Il suo nome era Charlie Chaplin, ma in Italia tutti lo chiamavano Charlot. Buffo: così definiva il proprio personaggio. Chaplin non credeva che la voce potesse aggiungere nulla alle commedie. Piuttosto, era convinto che avrebbe distrutto l’illusione di un’astrazione comica cui aspirava e che realizzò magistralmente. Capace di costruire un personaggio malinconico e divertente al tempo stesso, raffinato e vagabondo, Chaplin ha saputo guardare la vita e la società in evoluzione con gli occhi di un bambino che non capisce – ma che sa di non condividere – la scia di alienazione che il progresso da sempre porta (e sempre porterà) con sé. Con il bagaglio di conoscenze che il teatro e l’esperienza circense gli avevano garantito e l’amore per l’eleganza del balletto, plasmò un essere tanto umano da confondersi con la sua stessa identità, nascondendo le grandi difficoltà che sin dall’infanzia dovette affrontare: il fallimento del matrimonio dei genitori, l’internamento della madre artista, la nascita di un figlio che non superò i tre giorni di vita, i divorzi, le accuse politiche… Nonostante le numerose traversie, la sua carriera sembrava essere una continua ascesa e con Il Monello Chaplin si affermò definitivamente dopo una lunga serie di cortometraggi. Spaventato dal rumore, dal progresso che ancora una volta minava la sua idea di arte e di vita, sposò in un modo gentile le tecniche del sonoro senza venir meno al proprio cinema, a quella dimensione sospesa, alla sua eleganza. Eleganza che la vita tormentata, forse, non gli ha mai concesso. Chaplin non ha mai celato una forte polemica sociale, a partire dalla denuncia della condizione imposta agli emigranti sbarcati a Ellis Island (in Charlot Emigrante), fino ad arrivare alla più conosciuta tra le sue opere. In Tempi Moderni Charlot mostra ancora una volta il grande istinto di solidarietà che paradossalmente sembra destinato a trascinare il vagabondo a una condizione di inevitabile solitudine. Il tentativo di cercare (metaforicamente, ma non solo) una nuova strada per sfuggire dal conformismo dell’era dello sviluppo e dal progresso incalzante, infatti, conduce Charlot ad affrontare il

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Illustrazione di Cosimo “Cheone” Caiffa, Mimo, Matita bianca su cartoncino nero, 21x29,7 cm

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Chaplin non è solamente sinonimo di critica alla società contemporanea, ma anche (e soprattutto) costante attenzione alla poetica che si nasconde nelle più piccole cose, nei dettagli apparentemente insignificanti, negli sguardi e nell’assenza di parole. La Febbre Dell’Oro è sicuramente considerata l’opera che maggiormente ha saputo unire lacrime e risate, in un matrimonio riuscito di sentimenti ed emozioni, impossibile da dimenticare. È una poesia che parla di individui soli-insieme, che si consegnano l’un l’altro una dimensione di leggerezza, in cui sia possibile non percepire il peso della povertà, della tristezza, della mancanza.

Fotografia di Francesca Parenti Brambilla

viaggio senza alcuna compagnia. In questa pellicola, per la prima volta, Chaplin affronta la fuga accanto a una figura femminile e ci lascia sperare che ci sia un’opportunità anche per noi, che sia possibile incontrare qualcuno capace di comprendere il caos e prenderci per mano e allontanarci dall’isolamento per trovare il luogo in cui vengono difesi i valori universali di dignità e orgoglio.

Alla fine, come detto, anche Chaplin dovette arrendersi al suono: superò le sue incertezze e decise di doppiare proprio uno dei suoi lavori più silenziosi. La Febbre Dell’Oro cambiò dunque abito, ma non mutò nella sostanza: la musica divenne voce e riempì i sensi degli spettatori, senza però smettere di comunicare l’impressione di un silenzio che non manca mai, nemmeno quando è rumoroso. È ormai completamente entrato nei tempi moderni quando firma il capolavoro Il Grande Dittatore (celeberrima pellicola in cui viene sbeffeggiata la grande minaccia nazista), senza tradire la comicità, senza snaturarsi, ma raggiungendo un nuovo traguardo e consacrandosi definitivamente nella storia della cinematografia. Charlie Chaplin ha attraversato il passaggio più importante della storia del cinema, accompagnando per mano tutti quelli che lo vollero seguire e parla ancora anche oggi, parla anche a noi, ci ricorda come eravamo e ci lancia un monito per non dimenticare. Ci vuole un minuto per notare una persona speciale, un’ora per apprezzarla, un giorno per volerle bene, ma poi tutta una vita per dimenticarla, diceva e noi non possiamo fare a meno di rispondergli, ovunque sia, che almeno su una cosa sbagliava: non basta una vita per dimenticare il suo lavoro e la sua genialità. Che in qualche modo, discreto e silenzioso, ha raggiunto l’immortalità. Come in un romanzo, Chaplin si spense la notte di Natale del 1977. Noi immaginiamo una notte ammantata di neve. E, naturalmente, priva di ogni rumore.

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Estremo Oriente. Il Silenzio sul mare. Testo di Armando Minuz Fotografia di Marianna Palmari

Finché Atahualpa, o qualche altro dio, non ti dica descansate niño, che continuo io Paolo Conte – Alle prese con una verde milonga

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Il silenzio ha sempre permeato le filosofie orientali, che da millenni lo hanno tradotto in migliaia di immagini, storie, favole atte a far meglio comprendere il senso più profondo di questo concetto a lungo corteggiato. Che poi attraverso la meditazione, paradossalmente, il silenzio si raggiunga ascoltando, ancorandosi al panorama sonoro esteriore o interiore (i rumori, il respiro...) non dovrà stupire eccessivamente. Perché, sia chiaro, il silenzio che si ricerca è quello della grande antagonista di molte forme di meditazione o preghiera, vale a dire la mente pensante. E, infatti, se non vi fossero in mezzo millenni di cultura e di indottrinamento, di raziocinio e di teorizzazioni, dai mistici d’Oriente a quelli d’Occidente il salto sarebbe breve: sono coloro che cercano il silenzio, o magari il vuoto (il corrispettivo spaziale del silenzio) per elevarsi a Dio. Perché si è alla ricerca di un dio indeterminato, di una divinità che sfugge ai paletti che la mente razionale cerca di conficcare su una terra che è in continuo smottamento, in perenne evoluzione, germoglia e fiorisce continuamente. Le maschere, o le catene, con cui il raziocinio, lo studio, la cultura hanno tentato di imbrigliare la divinità si sono rivelate inefficaci, quindi una volta esaurite le parole l’unico modo per accogliere il dio è fargli spazio e sperare che egli sia ben disposto a entrare. Se la parola fallisce, l’unico modo per sperare di sentirlo parlare non è invocarlo, ma fare silenzio. Poi, che la divinità sia il Dio d’Occidente (e guarda caso del Deserto, luogo del silenzio e del vuoto per eccellenza) o del Tao cinese poco importa. Le etichette sono state appiccicate dal raziocinio, ma solo il cuore, il cuore vuoto e silenzioso, sa che esistono un unico Dio e un unico Nome. Si giunge così all’ineffabile e si spera di sentirlo, quel Nome, in quel brevissimo spazio cavo in cui ci siamo rifugiati, in quell’irripetibile, puro attimo privo di pensiero in cui finalmente torniamo ad esistere, resi nuovi e lucidi dal silenzio. Ecco Lao-Tzu, il suo Tao te Ching e uno dei pensieri che, all’occhio di un occidentale, forse sembrerà l’ennesimo paradosso: «Uniamo tra loro i raggi di una ruota, ma è il buco al centro che fa muovere il carro. Diamo forma all’argilla per creare un vaso, ma è il vuoto al suo interno che contiene tutto quello che vogliamo. Fabbrichiamo una casa con il legno, ma è il suo spazio interno che la rende vivibile». Non siamo così lontani da un Meister Eckhart e dalla sua via del distacco, della spoliazione. Non siamo lontani dallo stupore primitivo di San Francesco, o dalla danza dei Sufi. Ma facciamo un passo avanti, tanto per garantirci la definitiva scomunica, e parliamo della mistica suprema americana contemporanea, dunque occidentale, vale a dire il surf (da leggere, in questo senso, tante per citarne uno che è anche “l’ultimo arrivato”, il bravo Don Winslow, o varrà magari la pena ricordare qual’era il soprannome di Patrick Swayze nel bellissimo Point Break della Bigelow). Parliamo di surf e di uno splendido film, iconoclasta e molto coraggioso, che ha preso il simbolo supremo Usa e l’ha importato in Giappone, nel tentativo segreto e nascosto, però riuscito pienamente, di far collimare due filosofie altrimenti in pieno contrasto. Il Silenzio sul mare, 1991, è un film di Takeshi Kitano che pochi conoscono. Eppure, è un film che racconta il silenzio come nessuno ha mai fatto. 101 minuti sostanzialmente senza una parola, se non il rumore del mare e il debole panorama sonoro di una città nipponica. La storia è quello del ragazzo sordomuto Shigeru, spazzino per forza più che per volontà, e della sua ragazza, anche lei

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sordomuta. L’esistenza dei due sembra andarsene alla deriva (con il silenzio e insieme la violenza che solo i microdrammi non ascoltati e non visti fanno) finché il ragazzo trova nell’immondizia una vecchia tavola da surf. Dapprima i due passano lunghe giornate a contemplare il mare (sempre, in Kitano, Dio bifronte della violenza e della dolcezza) poi Shigeru decide di abbracciare quel mare con la sua tavola. Questo basterà a rendere conto della trama. Perché, come spesso accade anche in certa musica (o in certo cinema) per la quale bisogna essere allenati, il segreto si nasconde nelle pieghe fra nota e nota o, in questo caso, nei dettagli e nelle singole scene più che nella trama scarnificata e ridotta all’osso. Come in una meditazione (sufi, taoista, mistica, surfista... lo lasciamo decidere a voi, secondo la religione cui fate parte) in questo film impregnato di silenzio ogni minimo movimento, ogni singolo gesto è spogliato e restituito al suo reale significato, originario, primitivo, umano. D’un tratto ogni sguardo, ogni movimento, ogni emozione pesa più di un macigno e, al tempo stesso, si presenta nuda agli occhi dello spettatore, con una delicata dolcezza che il mondo, con i suoi rumori e la sua involontaria brutalità, sembra aver perso per strada secoli addietro. Il mare sciaborda e romba. Il ragazzo, muto, lo solca silenzioso con la sua tavola da surf. Sembra quasi una splendente, inaudita preghiera.

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BioGRaFiE PENNA Alessandro Busi è nato a Brescia il 27/11/1984, poco prima della grande nevicata dell’inverno ’85, e ha concluso di recente gli studi da psicologo all’Università di Padova, città dove continua a vivere. Ha pubblicato racconti in alcune antologie di Perrone editore (Vite sportive, Matrimoni scoppiati, Hai da accendere?, Rac-corti2) e su riviste quali “Paradiso degli orchi”, “Il foglio clandestino”, “Il primo amore”, “La Luna di Traverso”, “Argo”, “Nazione Indiana”, “Il sottoscritto”, “Teflon”, “Scrittori Precari”. Collabora con le webzine indie-zone e Musicletter. Telematicamente esiste su lagentestamale. wordpress.com Carlotta Fiore è nata a Parma nell’agosto 1983 e finora ha, più che altro, commesso errori. Talvolta ha trovato una soluzione, talvolta no. Ha cambiato strada più volte, conscia di avere un pessimo senso dell’orientamento. Non può rinunciare alla letteratura contemporanea e al cinema americano. A volte finge di fare l’attrice infiltrandosi in piccole compagnie teatrali. Più spesso legge ad alta voce dove c’è qualcuno ad ascoltare. Alfredo Goffredi è nato a Londra il 3 Marzo del 1982. Cresciuto a Piacenza, vive a Parma e un giorno invecchierà da qualche parte e morirà, come tutti – non c’è da stupirsene. Il resto sono dettagli. Francesco La Monica Vivere di parole, credere nelle cose fino all’eccesso, spendere molto tempo a viaggiare – spesso viaggi già fatti – ma molto tempo anche a pensare. A volte gli sembra di averli trascorsi così, i suoi primi trent’anni. Poi ruota di qualche grado il prisma e attraverso ci vede tutto ciò che nel frattempo l’ha incantato, i mille tesori che ha trovato in ogni differenza, la voglia di imbucare sempre un’altra monetina e tirare ancora la leva della slot-machine: alcune volte è uscito l’amore, altre invece era un amico che aveva perso per strada, oppure un piccolo rimpianto. Ma è il racconto della sua vita, una storia semplice: la storia di tutto ciò che poi non ha più smesso di amare. E c’è chi dice che si comincia da qui. Nicola Longhi è nato a Bologna e ha vissuto prevalentemente a Casalecchio di Reno, che considera “il suo paese”, dove lavora come bibliotecario. La musica, il cinema e il teatro sono alcune delle forme sotto cui si è nascosta la voglia di raccontare storie che ha sempre sentito, ma è la scrittura il linguaggio che pratica di più e da maggior tempo. Ha provato diverse volte a smettere, senza mai riuscirci. Armando Minuz è nato a Pieve di Cadore (BL) nel 1975. In quell’anno Frank Zappa sciolse i Mothers of Invention e il buon Dio, nella sua infinita misericordia, decise di bilanciare il Karma negativo del mondo destinando il Nobel a Montale e facendo nascere il piccolo Armando. Per il resto non successero grandi cose. Giunto oltre i 30, vanta oggi una laurea in letteratura italiana sulla retorica e il comico nelle opere di Luigi Malerba (relatore l’immenso e funambolico Marzio Pieri), collaborazioni con alcune case editrici, alcuni amori e amicizie indimenticabili (molti dei quali consistenti in libri, cd, film). È il chitarrista del miglior gruppo della storia del rock mondiale dopo gli Who. Il miglior gruppo del mondo, davvero. Solo che il mondo non vuole proprio rendersene conto. Francesco Montonati ha 33 anni, vive a Milano, è attore e grafico editoriale. Lavorando per vari studi editoriali, nel 2007 ha avuto la possibilità di pubblicare, sull’enciclopedia del ‘900 di Enzo Biagi, distribuita con “Il Corriere della Sera”, alcuni articoli riguardanti l’arte contemporanea. Ha collaborato per anni con un sito musicale per cui scriveva recensioni. Ha scritto tre romanzi, vari racconti e due pièces teatrali, tutto ancora inedito.

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Erika Morgagni è nata a Forlì il 17 agosto 1982. Ha frequentato il Liceo Classico, per poi laurearsi alla facoltà di Scienze Politiche di Bologna, con una tesi sulle fiabe contemporanee. Si è avvicinata alla scrittura creativa partecipando a corsi di teatro sperimentale, durante i quali la sua bocca ha avuto la fortuna di essere attraversata da Shakespeare, Wilde e Ibsen. Dall’età di sette anni scrive poesie in rima con le quali ha partecipato a concorsi locali e interni al circuito scolastico romagnolo. Si è nutrita per anni dei romanzi di fantascienza, sviluppando una vera e propria venerazione nei confronti di Philip K. Dick, fino a quando non ha ripreso in mano una vecchia edizione de I promessi sposi, tuffandovisi dentro. È così che ha imparato a nuotare tra le parole e a considerarle un salvagente. Scrive nei momenti meno opportuni, durante i pasti o quando dovrebbe dormire. Preferibilmente davanti a un film di Lynch o di Kubrick. Attualmente vive a Forlì, in un pericoloso e simbiotico rapporto con il suo portatile e i suoi libri preferiti. Fabio Pirola è nato a Rimini nel 1988, risiede a Cesenatico (FC) e studia Giurisprudenza presso l’Università di Bologna. Ama praticare sport, atletica, nuoto e, soprattutto, lo sci. Appassionato di musica, nel tempo libero porta avanti la sua passione per la chitarra elettrica. Ha collaborato alla realizzazione di alcuni cortometraggi amatoriali. Francesco Segoni è nato in una notte di Natale a Monza da genitori toscani. Cresciuto fra le ciminiere dell’hinterland milanese, le zanzare del pavese e i baby-manager della “Bocconi” di Milano, pochi giorni dopo la laurea in Economia


è sbarcato nell’amata Londra con un biglietto di sola andata. È cominciata così la sua avventura nel mondo delle multinazionali – da quelle del petrolio a quelle dell’informatica – che per dieci anni lo porta a vivere tra Regno Unito, Messico e Francia. Nella primavera del 2006 a Parigi, su una panchina nei giardini di Place des Vosges ha maturato la decisione di dare l’addio al mondo aziendale per iscriversi a un master in giornalismo: una conseguenza tardiva di ciò che ha sempre saputo, ovvero che le parole lo stimolano più dei numeri. Oggi muove i primi passi nella sua nuova vita da giornalista, vive a Milano ed è felicemente sposato con Barbara. Oltre a lavorare per l’agenzia Reuters, collabora occasionalmente con “Vanity Fair”, “Il Secolo XIX”, “Corriere.it” e “Il Foglio”. Scrivere, per lavoro, per diletto o per mettere a fuoco i suoi pensieri, è la sua passione. Massimiliano Virgilio è nato a Napoli nel 1979, dove vive. È autore di romanzi, racconti e sceneggiature per cinema e fumetti. Nel 2008 Rizzoli ha pubblicato il suo primo romanzo, Più male che altro (2008, finalista premio Zocca). Porno ogni giorno. Viaggio nei corpi di Napoli (Laterza, 2009) è il suo ultimo libro. CAMERA Marco Borea vive a Parma, dove lavora per un’importante società di logistica. Appassionato di arte e design, ha da poco iniziato a coltivare l’interesse per la fotografia. Cerca, con le immagini, di congelare attimi passeggeri, provando a cogliere lo spirito assoluto e le assonanze che stanno dietro le combinazioni irripetibili di luoghi, persone, situazioni ed intuizioni. La sua è una fotografia di attesa e ricerca. Anna Campanini è nata a Parma, dove tuttora risiede, da padre italiano e madre romena. Laureata in Lingue e Letterature Straniere all’Università di Parma, si occupa di fotografia a livello amatoriale dal 2004. Fotografa in bianco e nero (talvolta utilizza anche pellicole diapositive) con una Leica M6 e con una Rolleiflex. Ama molto la “street photography” e tutto ciò che, attraverso il cuore e la mente, riesce a ricreare un’immagine figlia della realtà osservata. Ha esposto nel 2007 a Reggio Emilia nell’ambito del “Festival della Fotografia Europea”. Nel 2008 ha esposto a Parma presso la Galleria Archimmagine e nel 2009 al Palazzo della Rosa Prati nell’ambito del Festival Ottobre Africano con una personale dal titolo Creatura di sabbia (lettura di fotografie in b/n del romanzo dello scrittore marocchino di Tahar Ben Jelloun). Nel 2009 si è classificata al terzo posto nel concorso ReggioFotoGrafia Contest 2009. La personale Madre si è inserita nell’ambito dell’iniziativa Corso Garibaldi OFF, all’interno dell’edizione 2010 del “Festival della Fotografia Europea”. Salvatore Furia è sardo, ma vive a Parma da oltre 12 anni. La sua passione per la fotografia inizia quando il padre gli fa provare la sua Praktica. Autodidatta, non ha ancora trovato uno stile fotografico cui fare riferimento. Gli fa da scuola la curiosità di scoprire nuove tecniche artistiche e nuovi approcci con la realtà impressa dalla sua macchina fotografica. Usa la fotografia anche come personale valvola di sfogo, ma l’unico obiettivo è quello di emozionare. Alessandro Gandolfi è nato a Parma, si è laureato in filosofia ed è entrato alla scuola di giornalismo di Urbino, al termine della quale è diventato giornalista professionista. Ha lavorato come cronista per “La Repubblica”, nelle redazioni di Milano e Roma. Nel 2001 ha iniziato a dedicarsi al reportage fotogiornalistico da freelance, collaborando con le maggiori testate italiane. Ha pubblicato, fra l’altro, A est di Hamilton Road (EDT, 2000), New England (White Star, 2004) e Irlanda (De Agostini, 2005). Le sue foto sono state esposte in mostre personali e collettive, fra le quali le ultime due organizzate dal “National Geographic Italia” a Roma (Madre Terra nel 2009 e Il Nostro Mondo nel 2010). Nel febbraio del 2010 al suo reportage sul sito archeologico di Hierapolis, in Turchia, è stato assegnato il “Best Edit Award”, riconoscimento che la redazione centrale del “National Geographic” assegna al miglior servizio uscito sulle edizioni locali della rivista americana. È socio-fondatore dell’agenzia fotogiornalistica Parallelozero, con sede a Milano: www.parallelozero. com e www.alessandrogandolfi.com Marianna Grandi è nata a Carpi nel 1980; dopo aver conseguito la maturità scientifica si è diplomata in pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna nel 2005. Dopo essersi dedicata alla pittura e all’incisione con la realizzazione di diverse mostre collettive e personali, è approdata alla fotografia, comparendo nel 2008 tra i vincitori del bando Incontro promosso dalla rivista letteraria “La Luna di Traverso” e tra i vincitori del Concorso Artefatto 2009 – LuminESSENZE – Trieste. Quando fotografa, cerca di restituire lo stato d’animo e l’emozione provati nel momento dello scatto, a volte con immagini che possono o sembrano diventare pittoriche, rendendo così un senso anche “altro” della realtà. In sintesi, è la curiosità dello sguardo che deve riuscire a cogliere ciò che poi diventa rappresentazione… Ascanio Kurkumelis di origini greche, è nato a Parma il 16 maggio 1985. Finito il liceo, si iscrive al corso di laurea in Beni Artistici (curriculum contemporaneo) all’Università di Parma dove, nel marzo 2009, si laurea con una tesi sul periodo informale del fotografo Nino Migliori, ormai un caro amico da cui assorbire preziosi consigli. Nell’agosto 2008 tiene la sua prima personale in una galleria nell’isola di Cefalonia (la sua seconda casa), Valente Voltera, sotto il castello veneziano di S. Giorgio, esponendo disegni e fotografie. Nel dicembre 2009 inaugura a Parma la personale “Nuove forme” nella galleria “Atelier Trentaquattro”. Nel marzo 2010 uno dei suoi lavori viene scelto, premiato ed esposto in occasione della Biennale d’arte di Roncaglia a S. Felice. Grazie alla premiazione conseguita, il prossimo anno gli verrà data la possibilità di allestire una personale in una delle stanze del castello estense di S. Felice. Iscritto al corso di laurea magistrale in Storia, critica e organizzazione delle arti e dello spettacolo, vive e studia a Parma.

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Elisa Palmari è nata a Parma il 19 ottobre 1976. Terminato il liceo linguistico, si è iscritta all’Università senza troppa convinzione: un anno e mezzo dopo ha abbandonato tutto e si è trasferita a Londra, dove ha vissuto due anni. In questa città ha concretizzato la sua passione per la fotografia: grazie all’incoraggiamento di un amico, si è iscritta ad un corso per principianti prima a quello intermedio poi, al City and Islington College. I casi della vita l’hanno riportata a Parma proprio nel mezzo dei suoi studi. Una volta in Italia ha deciso di proseguire, iscrivendosi al corso triennale presso l’Istituto Europeo di Design di Roma. Uno degli scopi dei suoi lavori è quello di raggiungere uno stile essenziale: sintetizzare, sfrondare, eliminare. Francesca Parenti Brambilla nasce a Parma nel 1982. Nel 2005 si laurea in Scienze della Comunicazione in questa stessa città. Nel 2009 consegue invece la laurea specialistica in Giornalismo e cultura editoriale con una tesi in fotogiornalismo dedicata all’opera di Alex Majoli, reporter di Magnum Photos. Segue il corso di Storia della fotografia presso l’Università di Parma tenuto dal fotografo Giovanni Chiaramonte e nel frattempo frequenta a Milano l’Istituto Italiano di Fotografia, in cui si diploma nel 2006. In quello stesso anno partecipa all’esposizione fotografica collettiva Vigevanessitudini presso l’Unione del Commercio di Milano. L’anno successivo realizza un vasto progetto fotografico dedicato alla rappresentazione teatrale, seguendo la Compagnia del Teatro di Gualtieri durante la preparazione di uno spettacolo. Attualmente collabora come fotografa e giornalista per diverse testate (“L’informazione” di Parma, “DeGusto”, ilgiò.net) e continua ad approfondire la riflessione pratica e teorica sulla fotografia. Nel mese di dicembre 2009 tiene la prima esposizione personale presso l’auditorium di OF Orsoline Fidenza con un reportage sul Centro Cure Palliative e la pubblicazione presso Mattioli 1885 del volume fotografico Stanze di Luce: Immagini di Vita in Hospice (con una prefazione di Paolo Barbaro). Indissolubilmente legata alla pellicola e al mondo analogico rappresentato dalla sua Canon A1, predilige il bianco e nero, i contrasti forti e tutto ciò che le permette di trovare «un momento di condivisione autentica» con i luoghi e le persone. Valentina Scaletti è nata nel 1983 a Parma, dove vive e lavora. Nel 2008 si diploma in scultura (110/110) all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Durante gli anni trascorsi all’Accademia, oltre che alla modellazione della creta, si è avvicinata alla fotografia e alla tecniche di incisione e fonderia, ottenendo ottimi risultati. Nel 2001 partecipa alla collettiva di scultura, grafica e pittura “Omaggio a Marzaroli Scultore” presso le Serre Comunali di Salsomaggiore Terme (Parma). Nel 2001 e 2002 espone a due edizioni della Mostra Nazionale di Ceramica presso il centro Allende dell’Associazione Culturale Dante Alighieri (La Spezia). Dal 2004 collabora con la Galleria d’Arte Babele di Firenze. Sempre nel 2004 partecipa alla collettiva di scultura Visioni Plastiche al castello di Felino (Parma). Nel 2006 partecipa ad un’esposizione di terrecotte e ceramiche nel parco di Villa Malenchini, a Carignano (Parma) e nel 2007 partecipa all’evento culturale Arte e Portici a Bologna e alla collettiva di fotografia, scultura, grafica, pittura con l’Associazione Culturale Veda-Visioni a Medesano (Parma). Sempre nello stesso anno partecipa anche alla collettiva di scultura e fotografia presso il convento dei Cappuccini di Fontevivo (Parma), alla terza edizione della collettiva di scultura Terrecotte del Po a Mezzano Inferiore (Parma) e alla collettiva di scultura e pittura presso la Scuola di Arti e Mestieri F. Bertazzoni di Suzzara (Mantova). Nel 2008 partecipa alla collettiva di scultura Eventi scultorei cinque, presso le sale del Comune di Crespellano (Bologna), alla quarta edizione della collettiva di scultura Terrecotte del Po a Mezzano Inferiore (Parma). Nel 2009 partecipa alla collettiva di scultura, fotografia e pittura Alla ricerca del filo bianco presso Palazzo Giordani a Parma, espone una personale Alice e My secret garden al Ground’s Art Gallery dell’Associazione Culturale 360° (Parma) e presenta con Vetrina Flash, a cura dell’Archivio Giovani Artisti di Parma, l’esposizione Alice presso la vetrina d’arte di piazzale Cesare Battisti. Maria Zanchi è nata a Bergamo nel 1981. Nel 2008 consegue la laurea specialistica in Produzione e Progettazione delle Arti Visive nella facoltà di Art and Design allo IUAV di Venezia e nel 2005 ottiene il diploma di laurea all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Dal 2004 lavora attivamente nel campo dell’arte pubblica con progetti di team. La sua ricerca si sviluppa attraverso una pratica del territorio che stimola una continua messa in discussione dei confini identificanti spazio pubblico-privato e comunità-individuo. La fotografia è il primo strumento di indagine di ogni progetto, fino a diventare negli ultimi anni un vero e proprio lavoro: è, infatti, dal 2009 che collabora come fotogiornalista con il quotidiano “L’Eco di Bergamo”.

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MATITA Ilaria Arpa dimostra fin da piccolissima una spiccata indole artistica e i genitori, per evitare di farle imbrattare i muri di casa, svaligiano cartolerie e negozi di belle arti per rifornirla di album e blocchi da disegno – si calcola che un quarto delle foreste svedesi siano state abbattute per fare fronte alle esigenze della piccola artista. La strage silenziosa di carta, penne, inchiostri, pastelli e pennini da disegno continua alle superiori, dove frequenta con successo l’Istituto d’Arte cittadino. Alla fine del regolare corso di studi, non sazia e non doma, si iscrive al Corso in Conservazione dei Beni Culturali, riuscendo a terminare anche questa immane missione in un numero ragionevole di anni (molti dei quali trascorsi lavorando come grafica pubblicitaria). Artista per vocazione, come ama definirsi, scrittrice discontinua, grafica da studio, casalinga (spesso) disperata, ha intrapreso oltre alla via tradizionale della pittura, quella della creazione digitale e della grafica 3D. Stefano Artibani è nato a Roma nel 1983. Fin da piccolo s’interessa al mondo dei fumetti leggendo tonnellate di volumi. Ha frequentato l’istituto di grafica pubblicitaria “F. Cesi” e il liceo artistico “M. Mafai”, dove si è diplomato con ottimi voti. Parallelamente ha seguito i corsi della Scuola Internazionale di Fumetti. Attualmente collabora con varie testate indipendenti, legate anche all’ambito musicale, grazie al gruppo in cui suona la batteria.


Emanuela Bucci è nata a Faenza il 25 aprile 1986 in una “famiglia d’arte”, dove è stata cresciuta nell’amore e nella passione per questa. Il risultato è stato una casa piena di disegni e una creatività che si poteva sviluppare su qualunque superficie. Fin da bambina si è appassionata molto ai fumetti, non solo come lettrice: si è anche cimentata nella loro realizzazione. La tecnica del fumetto è una delle sue preferite: è immediata, i personaggi escono dalla penna come fossero già esistenti. Ha ottenuto il diploma di Arte applicata presso l’Istituto d’Arte per la Ceramica “G. Ballardini” nel 2005. La sua scelta universitaria (Scienze della Formazione) si è allontanata dai suoi precedenti studi artistici, ma incontrare materie come “Letteratura per l’infanzia” e “Iconologia e iconografia”, le ha fatto conoscere e immergere nel meraviglioso mondo dell’illustrazione. Oggi lavora come baby-sitter: questo le permette di avere molto tempo per creare storie, illustrazioni, fumetti e quadri. Si sta allenando perché “da grande” farà l’illustratrice di libri per bambini. Cosimo Caiffa, in arte Cheone, nasce a Gallipoli in provincia di Lecce il 26 Maggio 1979; fin da bambino dimostra un particolare interesse e una spiccata predisposizione per il disegno e la pittura. Cresce circondato da artisti e amanti dell’arte, tra cui uno zio e il padre di un amico, noto pittore gallipolino; li guarda spesso all’opera e da loro apprende le tecniche della pittura su tela. All’età di 8-9 anni si trasferisce con la famiglia in Germania, dove vive e studia fino a che un giorno, perdendo per caso un pullman, nota in una stradina un po’ nascosta dei ragazzi più grandi che dipingevano sopra un muro con le bombolette spray; rimane subito affascinato dalla tecnica e dai colori utilizzati e si ferma a osservarli per tutto il pomeriggio. Da quel momento comincia ad avvicinarsi alla cultura del Writing, realizzando i primi lettering, ma subito inizia a dedicarsi al figurativo. Fino a quando, per motivi personali – una donna –, ritorna a vivere in Italia, precisamente a Nerviano (MI). Conosce alcuni b-boys, componenti della Click Quimmoda, una crew di Rho (MI), di cui entra a far parte e, con loro, comincia a farsi conoscere in tutta la zona. Da alcuni anni a questa parte ha cominciato ad avvicinarsi al “fotorealismo”, tecnica che gli permette di realizzare le sue opere in modo ancora più realistico; questa tecnica, però, è in continua evoluzione. Al suo attivo ci sono diverse mostre personali e collettive, nonché la partecipazione a svariati concorsi di pittura. Sara Guarracino ha compiuto studi artistici e umanistici… vabbè, diciamola tutta: a quattordici anni voleva fare la pittrice all’Istituto d’Arte, ma poi ha cambiato idea e ha deciso che l’Accademia non faceva per lei. Così si è iscritta a Lettere all’Università per impegolarsi in una tesi pseudofilosofica sulla percezione sensoriale nell’Arte. E una volta finita, neanche quella vita faceva per lei. Nel 2003 ha fatto una mostra con l’Archivio Giovani Artisti di Parma all’Informagiovani dal titolo Le cose cambiano. Infatti cambiano: si è anche sposata. Dopo anni di ricerca per trovare il lavoro che fa per lei è ancora lì a cercarlo passando dal ruolo ufficiale di insegnante di italiano a laboratori artistici, corsi di pittura e mercatini in cui propone i suoi Animalescamente: animaletti che hanno un occhio grande e uno piccolo, un’espressione stupita verso tutto ciò che li circonda, un po’ come quella che ha lei nel guardare ciò che ha attorno. Per ora, tutto sommato, la vita così com’è le piace: oggi fotografa, domani illustra una favola, dopodomani chi lo sa… Erjon Nazeraj nasce a Fier, Albania, nel 1982. Nel 2001 si diploma in scultura al Liceo Artistico “Jakov Xhoxha” di Fier. Nel 2007 si diploma in scultura all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Nel 2002 partecipa alla collettiva di scultura “Arte e Armonia” presso il Conservatorio di Bologna. Dal 2004 collabora con la Galleria d’Arte Babele di Firenze. Nel 2006 partecipa ad un’esposizione di terrecotte nel parco di Villa Malenchini, a Carignano (PR), all’Arte Fiera di Reggio Emilia. Nel 2007 partecipa all’evento culturale “Arte e Portici”, a Bologna, alla collettiva di fotografia, scultura, grafica, pittura con l’associazione culturale Veda-Visioni a Medesano (PR), alla terza edizione della collettiva di scultura “Terrecotte del Po” a Mezzano Inferiore (PR), al “Festival della Creatività” presso la Fortezza Da Basso a Firenze. Nel 2008 interviene con l’installazione “Upstream” sulla facciata di un palazzo di Bologna e partecipa alla quarta edizione della collettiva di scultura “Terrecotte del Po” a Mezzano Inferiore (PR). Rossella Tauro è nata a Milano. Vive e lavora nel campo dell’Arte praticamente da sempre. Le sue origini sono legate ad una famiglia di artisti e questo ha influito molto sul suo percorso, sia artistico sia vitale. Ha conseguito il Diploma al Liceo Artistico Statale di Pescara. Successivamente si è diplomata in Scultura a Faenza, poi ha studiato al D.A.M.S e, allo stesso tempo, lavorato nel campo della moda; attualmente sta per diplomarsi presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. Ha lavorato come scenografa e come costumista, in teatro e con la poesia, perché ama profondamente tutte le forme di Arte. I luoghi in cui ha vissuto, gli artisti conosciuti e tutta l’Arte che ha avuto la fortuna di poter toccare con mano, sono il bagaglio più prezioso da cui attinge ogni giorno per riuscire ad esprimersi. Ogni giorno si accorge di non poter smettere mai di imparare. Questa è di certo per lei la più grande ricchezza della vita: giocare ed aver voglia di proseguire la scoperta. Ettore Tomas è nato in provincia di Napoli nel 1979 e vive a Sasso Marconi. Dopo una maturità scientifica e una laurea presso l’Accademia di Belle Arti in Decorazione, si è specializzato in Grafica presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Dal 2003 partecipa a mostre, concorsi, progetti, Mail Art: mostra Indicativo Presente a cura dell’Associazione Artincanti, presso Palazzo Albertini a Forlì (2007); mostra personale presso l’ex Convento di San Francesco a Bagnacavallo (2007); partecipazione alla mostra Libri Mai Visti, organizzata dalla Biblioteca comunale di Sasso Marconi (2007); partecipazione alla mostra La Collana bianca si colora in collaborazione con l’agenzia Einaudi di Forlì, presso la Biblioteca Giovanna Righini Ricci a Conselice (2007); selezionato e pubblicato nel catalogo al III Concorso Internazionale Ex Libris “Biblioteca di Bodio Lomnago” Opera e Melodramma (2007); partecipazione e pubblicazione nel libro-catalogo, al progetto The Screamer Company (2007, Austin, Texas); partecipazione alla manifestazione Abstracta, presso Filmstudio 80 Roma. (2007); selezionato al concorso internazionale ex libris Tauragei 500, presso Tauragé. (2007, Lituania); partecipazione al progetto ART=START+ a cura di Ko De Jonge (2007, Middelburg, Olanda). Nell’ambito dei progetti Mail Art, nel 2008 ha partecipato a: The mailartists’ horse a cura del Dott. Lutz Wohlrab (Berlino); Mailartissimo a cura di Karin We-

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ber (Dresda); Energy for you and me a cura di Ebedhard Janke (Edizionui Janus Mail Art Catalogue 4); Mail Sound Art Project “1 minute Auto Hipnosis” a cura di Pedro Bericate (Mute Sound); Mailartissimo 2007, comprensivo di catalogo, a cura di Svetlana Serebryakova presso The A.S. Popov Central Museum of Communications, Saint-Petersburg, I Bienal Internacional del pequino formato, comprensiva di catalogo (Venezuela). Nel 2008 ha partecipato al concorso internazionale Exlibris Exibition “50 years of Siuliai University Humanities Faculty”, Siauliu, Lituania e al relativo catalogo e all’intervento murale a Creativa 2008, a cura di Franco Piri Focardi; selezionato per la manifestazione Quotidiana09, Padova; partecipazione alla mostra Art books, presso la biblioteca di Conselice (RA); partecipazione a Libri d’artista in galleria, a cura di Lamberto Caravita presso Galleria Magma, Bologna (11-18 Giugno). Nel 2009 viene selezionato per la manifestazione Quotidiana09 a Padova; partecipa anche alla mostra Art books, presso la biblioteca di Conselice (RA); partecipa a Libri d’artista in galleria, presso Galleria Magma, Bologna; partecipa a STUPOR MUNDI Metamorfosi di un libro, presso Palazzo Grassi, Aredo (LE) e al Castello angioino di Mola di Bari; partecipa a Lavori in corso d’opera con un intervento pittorico a centro giovani JYL, a cura di Lamberto Caravita. Partecipazione a Fabbricanti di libri edizione internazionale 2009, presso Palazzo Grassi, Aredo (LE); partecipazione a After Berlin 89-09 20 anni dalla caduta del muro, presso Pescherie della Rocca, Lugo (RA); partecipazione a Segni oltre il confine (20 anni dalla caduta del Muro), a cura di Lamberto Caravita, presso la Rocca Sforzesca Bagnara di Romagna (RA); presentazione del corto Micro il circo, con il patrocinio dell’Emilia Romagna Regione Animata Projects Award, all’interno del Futur Film Festival, Palazzo Re Enzo, Bologna (28 gennaio).

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ITALIA CREATIVA

realizzato da

La rivista letteraria «La Luna di Traverso», edita dalla Casa editrice Monte Università Parma, condivisa e supportata dall’Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia, struttura dell’Assessorato al Benessere e alla Creatività Giovanile del Comune di Parma, bandisce un NUOVO CONCORSO PER NARRATORI, FOTOGRAFI e ILLUSTRATORI dal tema FANTASMI, che andrà a costituire l’edizione n°27 quale parte dell’articolato programma di narrativa e poesia “BORN TO WRITE”. “BORN TO WRITE” è un’iniziativa inserita all’interno di ITALIA CREATIVA, progetto per il sostegno e la promozione della giovane creatività italiana a cura del Dipartimento della Gioventù - Presidenza del Consiglio dei Ministri in collaborazione con l’ANCI Associazione Nazionale Comuni Italiani e il GAI Associazione per il Circuito dei Giovani Artisti italiani. Italia Creativa è rivolta a tutti gli artisti italiani attraverso un sistema di attività di network promosse sull’intero territorio nazionale da alcune città capofila. Scopo del progetto è proporre nuove attività in una prospettiva di sviluppo per il sostegno della creatività giovanile attraverso iniziative di formazione, documentazione, promozione e ricerca. Il programma, fondato su linee prioritarie di azione e settori d’intervento primari, affronta a tutto campo temi quali la produzione creativa, il rapporto tra creatività e mercato, la promozione del talento, la conoscenza, la crescita professionale, la creazione di infrastrutture. In questo percorso le azioni concrete già intraprese costituiscono il punto di partenza per indicare le prospettive di sviluppo. “BORN TO WRITE”, realizzato dall’Assessorato al Benessere e alla Creatività Giovanile del Comune di Parma e dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Firenze, in collaborazione con Monte Università Parma Editore, intende proporre delle opportunità di confronto fra giovani autori e affermati esperti nel settore della Letteratura, finalizzate alla crescita professionale delle giovani energie creative. Intende inoltre promuovere il lavoro dei giovani autori attraverso strumenti promozionali capaci di presentare le loro opere ad un vasto pubblico, nonché agli esperti di settore. «La Luna di Traverso» si inserisce in questo programma con l’obiettivo di creare, nelle proprie pagine, un luogo d’incontro tra nuovi giovani scrittori, nel quale essi possano sperimentarsi e confrontarsi, dar vita a uno spazio mirato dove vedere finalmente pubblicati i propri scritti. La rivista vuole porsi, dunque, come territorio d’esercizio letterario, momento di dialogo culturale, aperto alle diverse forme di linguaggio artistico, e come proposta di possibilità di crescita e di miglioramento delle potenzialità narrative dei giovani scrittori.

Per ulteriori informazioni relative all’iniziativa “BORN TO WRITE” www.borntowrite.it


REGOLAMENTO Art. 1 - TEMA DEL CONCORSO Il nuovo tema dell’edizione n°27 de «La Luna di Traverso» è FANTASMI: illusioni, immagini create dalla fantasia, ma anche ombre del passato, spettri del presente, incognite future. Luoghi, ombre e sensazioni che ci inseguono, l’ignoto, le presenze incomprese, un ostacolo o una guida, un’ossessione tangibile. Fantasmi per chi ci crede e fantasmi per chi li ha dentro. Art. 2 – REQUISITI PER LA PARTECIPAZIONE Il bando è rivolto a giovani autori operanti nei settori della narrativa in età compresa tra i 18 e i 35 anni residenti, domiciliati, studenti o lavoratori nel territorio nazionale. Si richiede materiale inedito in lingua italiana, che non sia stato premiato ad altri concorsi o già pubblicato anche parzialmente oppure presente in Internet. La partecipazione al bando è gratuita. Art. 3 – MODALITÀ DI PARTECIPAZIONE e INVIO DEI MATERIALI Opere narrative: si ammettono racconti originali ed inediti per una lunghezza massima di 5400 battute, spazi inclusi. Il materiale dovrà essere inviato via mail a giovani@comune.parma.it o tramite posta su cd rom. Fotografie: si accettano opere originali e non pubblicate. Ogni autore dovrà presentare 5 fotografie in formato 10x15 in bianco e nero facendole pervenire su file, su negativo o su supporto magnetico (cd rom) con risoluzione minima 300 dpi. Illustrazioni: si ammettono da un minimo di 3 a un massimo di 5 tavole in bianco e nero del formato massimo di un foglio A4 (21x29.7 cm). È preferibile scansionare ed inviare il materiale via mail o tramite posta su cd rom, con risoluzione minima 300 dpi. Chi volesse, può comunque inviare le proprie opere per posta tradizionale, facendole pervenire al seguente indirizzo: Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia c/o Palazzo Pigorini, via Repubblica, 29 – 43121 Parma. Per una maggiore valorizzazione, fruizione e aderenza agli intenti artistici e comunicativi di ogni fotografo o illustratore si richiede, ove lo stesso autore lo ritenga utile e necessario, di indicare il titolo della propria opera, le dimensioni e la tecnica utilizzata. Questi dati verranno indicati come didascalia di accompagnamento alle fotografie o illustrazioni che verranno scelte per la pubblicazione. Le opere di tutti i partecipanti dovranno essere accompagnate da una breve biografia dell’autore corredata dai dati personali (nome, cognome, indirizzo, recapiti telefonici, indirizzo e-mail). Farà fede il timbro postale. Eventuali attestati di partecipazione al concorso saranno assegnati agli artisti che ne faranno richiesta solo qualora i loro lavori vengano selezionati. Art. 4 – TRATTAMENTO DEI DATI PERSONALI e RESPONSABILITÀ In relazione alla previsione che il materiale possa essere pubblicato, in esecuzione del Decreto Legislativo n. 196 del 30 giugno 2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali), il partecipante fornisce il proprio consenso al trattamento dei propri dati personali. Ogni autore partecipante sarà responsabile per i contenuti della propria opera. Inoltre i candidati si faranno garanti che l’opera presentata è originale, che non è mai stata premiata né presentata in altri concorsi, né mai pubblicata nemmeno parzialmente né immessa nella rete internet. Art. 5 - CRITERI DI SELEZIONE e PREMIO Per la valutazione delle opere si terrà conto della qualità, dei percorsi di ricerca formale e dell’originalità dei testi e delle immagini. Il premio del concorso consiste nella pubblicazione dell’opera sulla rivista “La Luna di Traverso”. Solo i vincitori saranno contattati dalla redazione e riceveranno al proprio domicilio due copie omaggio. Non si accettano racconti già editi o che hanno partecipato a bandi precedenti. Le decisioni della Commissione saranno inappellabili e il materiale non verrà restituito. Partecipando all’eventuale selezione, si concede il diritto, a titolo gratuito, di prima edizione delle opere inviate senza avere nulla a pretendere come diritto d’Autore. Art. 6 – SCADENZA Le opere devono essere consegnate entro e non oltre le ore 12.00 del 24 maggio 2010. INFORMAZIONI Per ulteriori informazioni, rivolgersi ai seguenti numeri di telefono: 0521.384469-468-467-470, oppure agli indirizzi di posta elettronica: giovani@comune.parma.it - redazione@lunaditraverso.it Orari di ufficio Archivio Giovani Artisti: dal lunedì al venerdì, dalle ore 9.00 alle 13.00; lunedì e giovedì anche dalle ore 15.00 alle 17.00. Siti web: www.giovaniartisti.comune.parma.it - www.lalunaditraverso.it




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