NR.25 STANZE

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SOMMARIO Incipit d’autore Alice nel paese delle Meraviglie di Lewis Carroll

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524.288 Testo di Emanuele Ravasi

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realizzato da

edizioni

Compagno di scuola Testo di Simone Bulleri

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Sigarette accese Testo di Tommaso Chimenti

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Uggioso variabile Testo di Claudio Ianni Lucio

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VICE DIRETTORI Guido Conti, Federica Pasqualetti

Sto al buio e non mi vedo Testo di Alfredo Goffredi

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ORGANIZZAZIONE E COORDINAMENTO Mariella Toscani - Responsabile Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia

Una cosa muta Testo di Andrea Cirillo

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REDAZIONE Silvia Bia, Enrico Cantino, Simona De Blasio, Carlotta Fiore, Roberta Gatti, Armando Minuz, Federica Sassi, Denis Zuliani

Il casting Testo di Francesco Segoni

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Numero 77 Testo di Stelio Zaganelli

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Hai visto che botto?! Testo di Alessandro Busi

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LALUNADITRAVERSO 2009 - Anno 9 - Numero 25 Monte Università Parma Editore - Vicolo al Leon d’Oro, 6 43121 Parma

Studentato Testo di Emilio Sciarrino

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INFORMAZIONI Per collaborare alla rivista scrivi all'indirizzo redazione@lalunaditraverso.it oppure telefona all’Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia (Via Repubblica, 29 Palazzo Pigorini 43100 Parma, giovani@comune.parma.it tel. 0521/384469-70).

Chi Siamo DIRETTORE Massimo Carta

RELAZIONI ESTERNE Andrea Rabaglia REALIZZAZIONE GRAFICA Simone Pellicelli STAMPA La Stamperia - Parma

RUBRICA La Luna di Traverso intervista: Claudia Tarolo e Marco Zapparoli, Direttori di Marcos y Marcos

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Biografie

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PROMOZIONE E DISTRIBUZIONE PDE - Promozione Distribuzione Editoriale

Il giudizio e il lavoro editoriale della redazione sono insindacabili e accettati implicitamente. Gli autori pubblicati riceveranno due copie in omaggio. La Luna di Traverso è sostenuta dall'Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia e dall'Assessorato al Benessere e alla Creatività Giovanile. Fotografia di copertina: Fragile chiuso dentro una stanza pensa di essere solo... non immagina la presenza al piano di sotto di Viola Mondello

www.lalunaditraverso.it www.giovaniartisti.comune.parma.it


Fotografia di Viola Mondello, Fragile all’interno di una ex cisterna per l’acqua in una ferrovia abbandonata


Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia Comune di Parma

Una stanza senza libri è come un corpo senza anima. Marco Tullio Cicerone «Stanze», in ambito letterario, non può che rimandare all’ottava, il metro utilizzato nei cantari trecenteschi e nei poemetti del Boccaccio, elevato ai massimi livelli dal Pulci, dal Boiardo, dall’Ariosto e, infine, da Torquato Tasso nella Gerusalemme liberata. Tuttavia, «stanze», suggerisce anche un più immediato spazio ben definito, delimitato da pareti che possono fungere tanto da prigione, quanto da rifugio. Il richiamo ad uno spazio metafisico, tuttavia, si rende necessario per non rimanere intrappolati in confini troppo angusti per essere tollerati, almeno per chi sente di volersi estraniare da una realtà percepita come costrittiva e, rifuggendola, cerca riparo in luoghi “altri”, diversi. “Fare stanza”, poeticamente, ci invita a soffermarci su un momento di sosta o permanenza in un determinato luogo: un momento di riflessione, una parte della nostra esistenza, uno dei molteplici anelli che compongono la catena di vita di ognuno. Catena come successione temporale, ma anche − di nuovo − come prigione: uno spazio claustrofobico da cui si vuole fuggire. Fuggire o riparare in qualche luogo: già, ma dove? «Stanza» è l’Archivio Giovani Artisti, realtà che ha tra i propri obiettivi la valorizzazione e la promozione di giovani talenti artistici. La stessa “Luna di Traverso” è un’altra «stanza», luogo d’incontro tra nuovi giovani scrittori, territorio d’esercizio letterario, momento di dialogo culturale, aperto alle diverse forme di linguaggio artistico − ogni bando della rivista è rivolto anche a giovani fotografi e giovani illustratori. Proprio in virtù di questo percorso in continua crescita, la rivista ha potuto entrare a fare parte di “BORN TO WRITE”, complessa iniziativa inserita all’interno di ITALIA CREATIVA, progetto per il sostegno e la promozione della giovane creatività italiana a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Gioventù in collaborazione con l’ANCI Associazione Nazionale Comuni Italiani e il GAI Associazione per il Circuito dei Giovani Artisti italiani. “BORN TO WRITE”, realizzato dall’Assessorato al Benessere e alla Creatività Giovanile del Comune di Parma e dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Firenze, in collaborazione con Monte Università Parma Editore, intende proporre delle opportunità di confronto fra giovani autori e affermati esperti nel settore della Letteratura, finalizzate alla crescita professionale delle giovani energie creative. Ha intenzione, inoltre, di promuovere il lavoro dei giovani autori attraverso strumenti promozionali capaci di presentare le loro opere ad un vasto pubblico, nonché agli esperti di settore. Parlando di «stanze», il luogo dove è possibile trovare tutte le informazioni relative all’iniziativa è: www.borntowrite.it Andrea Rabaglia

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Tema di questo nuovo numero della rivista è Stanze. “La Luna di Traverso” da quasi dieci anni rappresenta una “stanza”, uno spazio aperto al dialogo e al confronto, che offre la possibilità a giovani autori di vedere pubblicati i propri racconti. Una stanza accogliente, costituita da solide pareti di carta, piacevolmente e finemente decorate con inchiostro, fotografie e illustrazioni. Ovvero: le vostre parole, i vostri pensieri, le vostre immagini, le vostre storie. I vostri racconti e le vostre emozioni, dunque, per scaldare questo piccolo, eppure grande, ambiente, in una stagione – l’inverno – fatta di neve e di gelo. Un algore che contraddistingue la società in cui viviamo, piena di ansie, egoismi, arrivismi, frenesie e finzioni, la quale tende per lo più a mascherare le emozioni, rinnegandole, quasi fossero colpe di cui vergognarsi. Una società capace di parlare ininterrottamente – meglio ancora se non ha nulla da dire –, ma non di ascoltare. La nostra “stanza”, invece, vorrebbe porsi come un luogo piacevolmente tiepido, una sorta di rifugio, all’interno del quale trovare ospitalità, qualcuno con cui potere piacevolmente parlare e confrontarsi; in cui, magari, apprendere qualcosa di nuovo. Un luogo nel quale poter crescere. Proprio in virtù di questo, e trovandoci a fine anno, tempo di bilanci, si auspica che il percorso iniziato da pochi mesi con il lancio del nuovo sito www.lalunaditraverso.it – e quindi di nuove “stanze”, spazi virtuali da riempire con persone e pensieri reali, interviste, laboratori e blog che possano arricchirci reciprocamente – sia destinato a portarci lontano. Insieme a voi, naturalmente. Un percorso a staffetta, che si augura estemporaneo per tanti – perché si spera che la crescita possa portarvi verso altri lidi, a pubblicare il vostro primo romanzo –, intrapreso da numerosi volti conosciuti o mai incontrati, che negli anni si sono succeduti sulle pagine della rivista. Con la fine di Ottobre, poi, si è chiuso il bando di concorso “BORN TO WRITE”, grazie alle cui risorse si è reso possibile un ulteriore allargamento del nostro raggio d’azione, promuovendo la rivista e raccogliendo nuovi consensi e iscrizioni da parte di alcune centinaia di giovani autori. Il 2009, insomma, è stato un anno decisamente importante per “La Luna di Traverso”, per la sua crescita e per l’avvio di un nuovo, avventuroso progetto intrapreso sul Web. A proposito, il tema del nuovo bando sarà Silenzio: siete stati proprio voi a sceglierlo, preferendolo tra gli altri presenti sul sito. Tale formula verrà riproposta anche in futuro, sperando di stimolare sempre di più la rete di contatti tra voi e noi. Un’ultima, ma per questo non meno importante, novità: quale tema migliore, se non proprio Stanze, per tenere a battesimo il nuovo “spazio-intervista”, che si inaugura all’interno della rivista? Padrini d’eccezione, Claudia Tarolo e Marco Zapparoli, Direttori della casa editrice Marcos y Marcos, i quali hanno risposto alle nostre domande con il garbo, l’arguzia e la professionalità che da sempre li contraddistingue. Di questo, ovviamente, li ringraziamo molto. Nel 2010, pronti a festeggiare spegnendo dieci candeline, speriamo di poterci dire altrettanto soddisfatti, forti degli appoggi ritenuti ormai consolidati, oltre che attivi e motivati nella stessa misura. Per l’intanto: buona lettura!

Editoriale

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Fotografia di Vera Roveda, I love reading my book in my very perfect living room


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Incipit d'autore

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In quell’atto era entrata in una graziosa cameretta, con un tavolo nel vano della finestra. Sul tavolo c’era, come Alice aveva sperato, un ventaglio e due o tre paia di guanti bianchi e freschi; prese il ventaglio e un paio di guanti, e si preparò ad uscire, quando accanto allo specchio scorse una boccettina. Questa volta non v’era alcuna etichetta con la parola «Bevi». Pur nondimeno la stappò e se la portò alle labbra. «Qualche cosa di straordinario mi accade tutte le volte che bevo o mangio», disse fra sé, «vediamo dunque che mi farà questa bottiglia. Spero che mi farà crescere di nuovo, perché son proprio stanca di essere così piccina!» E così avvenne, prima di quando s’aspettasse: non aveva ancor bevuto metà della boccettina che urtò con la testa contro la volta, di modo che dovette abbassarsi subito, per non rischiare di rompersi l’osso del collo. Subito depose la fiala dicendo: «Basta per ora, spero di non crescere di più; ma intanto come farò ad uscire! Se avessi bevuto un po’ meno!» Ohimè! troppo tardi! Continuò a crescere, a crescere, e presto dovette inginocchiarsi, perché non poteva più star in piedi; e dopo un altro minuto non c’era più spazio neanche per stare inginocchiata. Dovette sdraiarsi con un gomito contro l’uscio, e con un braccio intorno al capo. E cresceva ancora. Con un estremo sforzo, cacciò una mano fuori della finestra, ficcò un piede nel caminetto, e si disse: «Qualunque cosa accada non posso far di più. Che sarà di me?» Fortunatamente, la virtù della boccettina magica aveva prodotto il suo massimo effetto, ed Alice non crebbe più: ma avvertiva un certo malessere, e, giacché non era probabile uscire da quella gabbia, non c’è da stupire se si giudicò infelicissima: «Stavo così bene a casa!», pensò la povera Alice, «senza diventar grande o piccola e sentirmi comandare dai sorci e dai conigli. Ah; se non fossi discesa nella conigliera!... e pure... e pure... questo genere di vita è curioso! Ma che cosa mi è avvenuto? Quando leggevo i racconti delle fate, credevo che queste cose non accadessero mai, ed ora eccomi un perfetto racconto di fate. Si dovrebbe scrivere un libro sulle mie avventure, si dovrebbe! Quando sarò grande lo scriverò io... Ma sono già grande», soggiunse afflitta, «e qui non c’è spazio per crescere di più. Ma come», pensò Alice, «non sarò mai maggiore di quanto sono adesso? Da una parte, sarebbe un bene non diventare mai vecchia; ma da un’altra parte dovrei imparare sempre le lezioni, e mi seccherebbe! Ah sciocca che sei!» rispose Alice a se stessa. «Come potrei imparare le lezioni qui? C’è appena posto per me! I libri non c’entrano!» E continuò così, interrogandosi e rispondendosi, sostenendo una conversazione tra Alice e Alice; ma dopo pochi minuti sentì una voce di fuori, e si fermò per ascoltare. «Marianna! Marianna!» diceva la voce, «portami subito i guanti!» Poi s’udì uno scalpiccio per la scala. Alice pensò che il Coniglio venisse per sollecitarla e tremò da scuotere la casa, dimenticando d’esser diventata mille volte più grande del Coniglio, e che non aveva alcuna ragione di spaventarsi. Il Coniglio giunse alla porta, e cercò di aprirla. Ma la porta si apriva al di dentro e il gomito d’Alice era puntellato di dietro; così che ogni sforzo fu vano. Alice udì che il Coniglio diceva tra sé: «Andrò dalla parte di dietro, ed entrerò dalla finestra.» «Non ci entrerai!», pensò Alice, e aspettò sinché le parve che il Coniglio fosse arrivato sotto la finestra. Allora aprì d’un tratto la mano e fece un gesto in aria. Non afferrò nulla; ma sentì delle piccole strida e il rumore d’una caduta, poi un fracasso di vetri rotti e comprese che il poverino probabilmente era cascato su qualche campana di cocomeri o qualche cosa di simile. Poi s’udì una voce adirata, quella del Coniglio: «Pietro! Pietro! Dove sei?» E una voce ch’essa non aveva mai sentita: «Sono qui! Stavo scavando le patate, eccellenza!» «Scavando le patate!», fece il Coniglio, pieno d’ira. «Vieni qua! Aiutami ad uscire di qui...!» Si sentì un secondo fracasso di vetri infranti «Dimmi, Pietro, che c’è lassù alla finestra?» «Perbacco! è un braccio, eccellenza!» «Un braccio! Zitto, bestia! Esistono braccia così grosse? Riempie tutta la finestra!» «Certo, eccellenza: eppure è un braccio!» «Bene, ma che c’entra con la mia finestra? Va a levarlo!» Lewis Carroll, Alice nel paese delle Meraviglie


Illustrazione di Melania Bianucci, Stanze

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524.288 Testo di Emanuele Ravasi Fotografia di Nina Viviana Cangialosi

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Abito in un box auto di 25 metri quadrati. Si trova accanto a un’acciaieria, nella zona industriale di periferia. Qui le mie giornate cominciano bianche, semplici. La mattina, poco dopo l’alba, resto sulla soglia con una tazza di caffè, e guardo gli operai che si accodano all’entrata della fabbrica. Scorrono piano, in una lunga fila, verso una porta così stretta che sembra una crepa nell’edificio. A volte sollevo la tazza davanti agli occhi e li osservo attraverso il fumo che sale dal caffè. Aspettano il loro turno avanzando e barcollando in quella zona fosca. Li considero un po’ come le mie guardie personali, pronte ad abbandonare gli altiforni per accorrere a proteggermi. Mi piace stare qui. È tutto più neutro e squadrato del quartiere in cui vivevo prima; tutto più preciso. A mia moglie non sarebbe piaciuto. Qualche giorno fa, una delle mie guardie operaie ha rotto l’onda della fila e si è fermata a chiacchierare con me. Mi ha chiesto come riesco a vivere in un garage. Ascoltate attraverso il caffè, le sue domande evaporavano, le parole mi giungevano bagnate. Gli ho sorriso come si fa dall’alto, ai dubbi dei bambini. «È facile: occorre misurare gli spazi con calma e precisione», gli ho spiegato, «e scegliere mobili della giusta dimensione. Per dormire è sufficiente un divano letto. Prenda le sedie, ad esempio: le uso anche come ripiani e comodino Sulle mensole tengo i manuali di matematica, un po’ impolverati da quando ho abbandonato la professione. Li ho sistemati seguendo criteri di spessore, in modo che occupino tutta la lunghezza dei ripiani senza lasciare spazi vuoti. Nella cassapanca, invece, ho riposto tutti i miei vestiti e quelli di mia moglie. Poi c’è l’armadio a vetro: è stata la scelta perfetta per appenderci mia moglie. Vede, le ho messo l’abito leggero che vestiva di solito quando tornavo a casa da scuola, dopo il lavoro. Indossa anche mutande, scarpe e reggiseno, così da risparmiare spazio nella cassapanca. Ho pensato proprio a tutto, ha visto?» Non mi ero accorto che già da qualche minuto la guardia era tornata tra le altre nella fila; non la distinguevo più. La tazza aveva smesso di fumare. Sono rientrato in casa e ho abbassato la serranda. Ormai non insegno più dal febbraio scorso. Non mi manca nulla: nessuno dei miei alunni stava ad ascoltare. Tutte le spiegazioni, le formule e gli esercizi, erano come una lunga catena di montaggio fatta di integrali ed equazioni che gli studenti-operai ingoiavano da un nastro trasportatore. Né mia moglie, né i miei alunni mi guardavano mai in faccia, nemmeno mentre spiegavo a ciascuno la propria lezione. Era come se fossi fumo, fastidioso per chi non lo sopporta, ignorato da chi lo conosce. Ricordo che la sera, arrivando a casa, scorgevo mia moglie già da fuori, semi-trasparente dietro le tendine. Rideva, sempre al telefono con un’amica. Mi fermavo sulla soglia, davanti alla finestra, fino a che non si voltava. Quando si accorgeva di me, riagganciava la cornetta e il sorriso le cadeva via.


Ho dovuto martellare due chiodi agli angoli della bocca per fissare bene il suo sorriso. Verso metà mattina, mentre cercavo una nuova sistemazione a un vecchio libro di algebra, ho sentito un’auto frenare, due portiere sbattere e dei passi avvicinarsi correndo. Qualcuno ha urlato: «Prendi la fiamma ossidrica, si è chiuso dentro.» Ho preso il libro dallo scaffale, ho soffiato via la polvere, e mi sono seduto a cercare tra i capitoli. C’era un indovinello matematico che ponevo spesso ai miei alunni. Ci sono venti porte d’acciaio. Di fronte alla prima c’è un soldato, di fronte alla seconda ce ne sono due, di fronte alla terza porta ci sono quattro soldati. A ogni porta successiva, i soldati raddoppiano. Quanti saranno i soldati a guardia della ventesima porta? Nessuno ha mai risposto. Sono rimasto a sfogliare una pagina alla volta, dietro tutte le porte, aspettando di sentire gli altiforni spegnersi e le guardie correre in aiuto. Ora vivo in una cella di 25 metri quadrati, isolato dal resto del carcere. «Così ti sentirai a casa», ha scherzato il direttore, con un sorriso cadente; non avevo chiodi con me e non ho potuto farci niente. La mattina non esco più e la colazione la devo prendere qui dentro. Non c’è più vapore sopra il caffè attraverso cui filtrare la cella; la nitidezza delle pareti mi schiaccia e i discorsi delle guardie mi assordano. Ieri ho sentito alcune parole sfilare sotto la porta; una delle guardie diceva che ora il mio box è circondato dai nastri gialli della polizia e che tra qualche settimana batteranno all’asta l’armadio, la cassapanca, tutto quanto. Mia moglie… l’hanno portata via. Ogni giorno, col caffè, mi danno delle pasticche bianche come le pareti dell’acciaieria; dicono che servono per tenermi tranquillo di giorno e per farmi riposare meglio la notte. Prima di addormentarmi, ricordo sempre l’indovinello delle venti porte; chiudo gli occhi e comincio a contare. Davanti alla prima cella, c’è una guardia, davanti alla seconda due guardie, davanti alla mia ce ne sono quattro e spesso sputano sul piattino delle pasticche. Non riesco mai a restare sveglio il tempo sufficiente a ricordare l’ultima porta, ma so per certo che ce ne sono almeno venti lungo il braccio della morte. E, ne sono sicuro, dietro le tendine dell’ultima porta, mia moglie aspetta che io torni a casa, ancora al telefono, ridendo.

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Il compagno di scuola Testo di Simone Bulleri Fotografia di Anna Campanini, Dublino

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Maledetto lavoro. Ero giovane, traducevo Tacito all’impronta. Liceo classico, si capisce, poi laurea in lettere. Parlerò del bello, del giusto; poi l’uomo di cultura piace. Quando con la mano fluttuante il mio prof diceva I poeti anime elette, riman laudi e piagnistei / per l’amore di Giuliette di cui mai sono i Romei!, le fanciulle si scioglievano. A cinquant’anni io invece dico: Cristosanto, Giovannelli! È tutto l’anno che siamo su Fòscolo! Professore? Che c’è?! La professoressa Nicolai non riesce a fare lezione se strilla così. Ho capito, torna in classe. Ed eccolo, Giovannelli: Vede professore… io ho studiato, però di questo Foschelo proprio il teorema non lo ricordo. Quale teorema? Quello di Fosco Ma mica era un matematico! Ah no? Giovannelli, oggi finisce male. Bargagli, rispondi tu. Prof, mi ha già interrogato due volte in un mese, lei non può tirarsi su il morale con me solo perché son l’unico che studia! Ah, non posso? Mi ritraggo sulla sedia entrando un po’ in penombra. La disciplina torna a contare? Allora Bargagli si prende un bel 3 per condotta rivoluzionaria. Ma non risolvo niente. Ci vorrebbe aria nuova al posto dell’ odore di gesso e cadavere. Sempre questi occhi patinàti come quelli delle cernie surgelate. Non hanno voglia? Andassero a zappare! In realtà la colpa è nostra: ripetiamo da secoli la stessa nènia ministeriale e questa gioventù, satura di tutto, ci osserva da lontano. Il concetto del dolore in Manzoni e Leopardi? Meglio la morte. Guardo sconsolato il perimetro della classe col cuore di un capitone nel lavandino. Ho sbagliato mestiere. All’uscita della scuola ricevo un sms: SONO A ROMA, UN CAFFE’ AL CAFE’ GRECO? DICIAMO TRA UN’ORA? G. Gargiulo, l’eterno compagno di banco, sempre elegante. Ci siamo persi di vista, qualche e-mail e niente più. Mi affretto per non fare ritardo. Il mio vecchio Swatch si è fermato di nuovo. Gli amici di lunga data non cambiano mai e Gargiulo è sempre lui, con la sua faccetta pulita, nonostante i 50 anni; il corpo morbidamente adagiato in un Ferragamo. Sempre elegante, eh? E a te come va, insegni ancora? Sì, lettere. Gargiulo mi osserva con dolcezza. Chissà perché quando dico che sono un professore di lettere tutti mi guardano teneramente. Cos’è? Compassione? Pietà? E se ti chiedessi su due piedi di parlarmi del XIV canto del Purgatorio? Non rideresti più? Ho visto studenti sfiorare l’ictus per molto meno. Gargiulo si fa serio: Ho chiamato per rivederti dopo così tanto tempo e hai scritto in faccia il disincanto. Si vede tanto? Si, si vede tanto. I ragazzi sono… Del tutto impermeabili a ciò che insegno. Ho da proporti un affare. Che ne diresti di arrotondare? La mano curata di Gargiulo s’eclissa nella giacca, poi avvicinandosi al mio orecchio: Ricordi quando giocavamo all’assassino? Sul tavolo si materializza una lettera bianca sigillata. Curioso che di tutto ciò che posso pensare mi soffermo sull’ètimo della parola assassino. Ricordo vagamente che ha a che fare con la parola hashish. Gargiulo sorride e indica con gli occhi la busta sul tavolo. D’improvviso collego l’hashish alla lettera. Gèlo. Gargiulo ordina del whisky per farmi respirare. Quel tipo elegante seduto di fronte a me non è più lo spensierato compagno di scuola. Ingollo l’Oban d’un fiato. Qui dentro c’è una foto – dice Gargiulo, giocando col bicchiere intonso − e per te ci saranno tre milioni di euro. Mutuo, bollette, rate macchina. Un’altra vita, mi grida qualcosa dentro. Prendo la busta d’istinto. Quanto tempo ho per pensare?, domando come un bambino che vuol fare metafisica. Due giorni. Conquisto Piazza di Spagna e mi accascio sugli scalini eterni improvvisamente invecchiato di vent’anni. Come in trance traggo di tasca la busta, la apro. Paralisi. Gargiulo?! La pazienza esplode in cento cristalli finissimi. Afferro il cellulare. È uno scherzo? Ascoltami, ti dirò tutto. Ho un fiore in bocca, tu capisci, le


cure e tutto il resto, insopportabile. Questa soddisfazione a Dio non gliela do, di umiliarmi fino a farmi ischeletrire impotente, straziato dalle lacrime dei miei cari. Ho già pensato ad un videomessaggio che ti scagionerà totalmente. Un solo colpo. Tre milioni di euro. Pensaci, ti prego. Sordità. Il cuore cerca di liberarsi dalla bocca. Piazza di Spagna non è mai stata così silenziosa. Guardo la fontana di fronte a me senza pensare a niente. Nessun riferimento storico, nessun giudizio estetico. Sordità. Torno a casa, butto giù un ansiolitico cercando il buio. Lo trovo finalmente. Professore… professore, si sente bene? Guardo Giovannelli, giovane, incolpevole. Una vita davanti. Gli sorrido. Mi guarda come se fossi un ebete. Osservo il perimetro della classe. Chiudo gli occhi e dico: Per Pirandello importante era non fidarsi mai delle apparenze. Il mio Rolex Daytona Gold segna le ore 8 e 15. Precise.

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Sigarette accese

Testo di Tommaso Chimenti Fotografia di Valentina Scaletti

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Hanno aperto la porta. Si sentiva soltanto il ciondolare delle loro chiavi attaccate alla cintura. Sembrava tenessero un cane al guinzaglio. Nessuno ha parlato. Uno da dietro mi ha dato un colpetto su una spalla, come a dire Entra. È una stanza rettangolare. L’avrei preferita quadrata. C’è un tavolo al centro. È rettangolare pure quello. È messo proprio al centro così da lasciare lo stesso spazio davanti e dietro. C’è una sedia. Ha il telaio in acciaio. La seduta e il poggiaschiena sono di un verde acqua marina spento. Tipo le seggiole scolastiche. Quelle che solo a guardarle senti lo stridere sul pavimento, quel rumore che fa digrignare i denti e raschia il nervo del molare cariato. In fondo, una finestra con il vetro leggermente oscurato. Come in un bagno dove è rimasta accesa per troppo tempo l’acqua bollente e la nube di fumo ha formato una cappa densa, come panna montata, e lo specchio non è altro che un oggetto che non fa il proprio dovere. Mi sono messo a contare la grandezza della stanza. Ho cominciato dalla porta. Mi sono messo con la schiena appoggiata al freddo del portone e ho iniziato il mio cammino lento e cadenzato. Sembravo un soldato che fa il passo dell’oca in una parata militare. Ne avevo visti di soldatini al servizio di leva al momento del giuramento svenire sotto il sole. Li fanno stare impalati per ore con il fucile in mano, il cappello di tre quarti. Li fanno correre con gli anfibi che vengono le croste sotto ai piedi soltanto a guardare la para di plastica indurita. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei. Sono arrivato nell’angolo. All’angolo ci sto bene, sono al sicuro, controllo il resto del mondo. Due lati su quattro sono coperti. Ho contato anche i passi della larghezza. Ho avuto ragione: è un rettangolo. Si vedeva anche a prima vista. Mi sono messo a contare gli angoli della stanza. Quattro in basso sul pavimento e quattro in alto sul soffitto. Ho contato le pareti e come in tutti i cubi sono sei. Ho astratto la stanza dall’edificio. Me la sono immaginata come una scatola che fluttua nell’aria, sospesa nel vuoto, galleggiante nell’atmosfera, che ruota in una slide in tridimensionale. Anche i lati esterni sono sei. Anche gli angoli esterni sono otto. Ho contato le piastrelle grigie. Ne ho contato i lati. Ogni mattonella ha quattro lati, ma quando due mattonelle sono vicine un lato si sovrappone all’altro. Ad esempio, tre mattonelle vicine hanno in tutto dieci lati e non dodici. Ho numerato i lati e gli angoli del tavolo. Della sedia. Della finestra. Ho fatto i miei calcoli. Un oggetto è formato da più oggetti, da infiniti oggetti, diceva il professore di Tecnica alle medie. Scomponete, dividete, sezionate, continuava. Le cose grandi sono sempre un insieme di cose piccole: se le dividete, anche quelle più grandi vi sembreranno facili. Lo ha detto per tre anni.


Ho contato le gambe del tavolo con i piedini con il feltro, ho contato le viti e di ogni vite le quattro linee che si incontrano e s’incrociano nei dadi a stella. Mi è apparsa nella mente una vite gigantesca che ruotava lenta su se stessa. Girava nell’aria. Volevo contare le spirali. Mi sono messo a sedere cercando di non spostare la sedia. Ho tirato dentro la pancia e ci sono entrato al millimetro. Non voglio cambiare l’ordine delle cose qui dentro. Tutto deve rimanere com’è. Come me lo hanno lasciato. Ho acceso una sigaretta e ho dato una bella boccata. Ho aspirato e ho soffiato il fumo. Nessun rumore. Ho atteso dei passi che non sono arrivati. Ho guardato dritto davanti a me. C’è un muro che un tempo doveva essere bianco. Il neon in alto fa questa luce bianca. Guardo consumarsi la sigaretta. Il fumo fa una fila verso l’alto, una coda di lucertola che scappa dentro la fessura di un muro fatto con le pietre a secco in campagna d’estate. S’aggroviglia, va via fluido, senza pena né fatica, s’arriccia come scarpe arabe. Si consuma da sola, si fuma da sola, si brucia da sola. Ha soltanto bisogno di essere accesa, poi è indipendente. Non ha bisogno di labbra, di bocche, di lingue, di palato, di denti da far diventare neri, di aliti da ingrigire. E allora la guardo che finisce, che si sgretola, che si spande in cenere sul tavolo. E ne accendo un’altra e un’altra ancora. Le metto in linea. Sembrano una formazione che ascolta la banda che suona l’inno prima di una partita ufficiale. Corrono in aria come cavalli all’ippodromo, si contorcono come scale a chiocciola, roteano su se stesse come punti interrogativi. Sono canne d’organo di una chiesa durante l’ingresso trionfale della sposa. Ho preso un filtro tra le dita e mi sono sporcato un’unghia. L’ho messa in bocca: sapeva di carbone, di serate al camino con i vestiti impregnati di fumo e gratella, di brace e castagne. Ho scostato leggermente la sedia all’indietro e mi sono voltato verso il muro. Ho cominciato a scrivere con il mozzicone nero che avevo in mano. Ho scritto quanto misurava la stanza. Ho scritto del tavolo e della sedia. Ho scritto delle sigarette. Ho scritto della finestra opaca e delle mura lisce sulle quali stavo scrivendo. Ho scritto la mia data di nascita e poi la somma della mia data di nascita. Ho sommato i miei anni e il giorno, il mese e l’anno di quel giorno. È uscita fuori una cifra. Se il numero è tra sei e nove, è un buon segno. È uscito sette. L’ho scritto. I numeri non mi fanno paura. Perché i numeri, nella realtà, non esistono.

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Uggioso variabile

Testo di Claudio Ianni Lucio Illustrazione di Martina Masotti, Stanze


Un’ora qualsiasi di un giorno qualunque. Un giorno come tanti, forse come tutti, o forse come nessuno. Non ha importanza. Carlo se ne sta in quella stanza. È sempre in quella maledetta stanza. Non esce mai: non ne ha voglia e non ne ha il benché minimo interesse. La luce è spenta. Solo un paio di candele danno luce alla stanza. Candele bianche, come se ne vedono dappertutto. Anonime e senza valore. Non profumano, non puzzano, non colano in modo pittoresco, durano poco, illuminano così debolmente da essere quasi fastidiose. Pezzi di cera eburnea lisci, lunghi e con un segmento di spago nel mezzo, senza arte né parte. Però non sono solo candele: sono l’idea della candela. L’arredamento non è un granché, essenziale sia qualitativamente, sia quantitativamente. Un tavolo di legno da quattro soldi con due paia di sedie intorno. Sul tavolo ci sono solo un portacenere di vetro − uno di quelli che danno l’impressione di pesare più di un chilo, pieno di mozziconi − un bicchiere e una bottiglia di vino rosso la cui etichetta è illeggibile. Uno stereo occupa una mensola vicino al divano, insieme a qualche libro e a svariati album musicali. La musica che risuona tra le quattro mura è monotona e ripetitiva. Colpi bassi e rimbombanti con cadenza ritmica, misti a fruscii e frasi sussurrate appena comprensibili. Tre rintocchi sordi. Tre araldi. Tre esploratori dell’ignoto. «È aperto.» «Ciao, Carlo.» «Ciao. Accomodati.» «Disturbo?» «Forse un po’, ma non è un problema.» «Se vuoi, me ne vado.» «Come ti pare.» «Allora resto. Giusto un po’.» «Siediti dove vuoi. Vino?» «C’è parecchio buio, qui.» «Lo so… Vino?» «Rosso o bianco?» «Rosso.» «Allora no, grazie.» «Vuoi qualche altra cosa?» «Birra ne hai?» «Sì. Apri il frigorifero e serviti. Prendine quanta ne vuoi.» «Comincerò con una, credo.» «Come logica impone.» «E il buon senso.» «Non è lo stesso?» «Che stai ascoltando?» «Non ne ho idea.» «Vorresti farmi credere che non sai che musica stai ascoltando?» «No. Te lo dico, semplicemente.» «Non ti annoia?» «Che cosa?» «Questa musica inascoltabile. Sembra una messa satanica. Senti? Ci sono sussurri in sottofondo. Che accidenti dicono quelle voci?» «Ci sei mai stato ad una messa satanica?» «No, perché?» «E allora che ne sai di com’è una messa satanica?» «Era per dire.» «Tutto è per dire. Comunque non mi annoia. Nemmeno l’ascolto.» «Non vedo che senso abbia tenere lo stereo acceso.» «Non ne ha. Non deve averlo per forza.» «Sarebbe meglio se ne avesse uno. Questo vale per ogni cosa. Ogni cosa deve avere un senso.» «Ti piace, quella birra?» «Certamente, ma che c’entra?»

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«Perché? Cos’ha di speciale?» «Che ne so? Ha un buon gusto. Non è troppo gassata, è chiara, non troppo alcolica. Come piace a me.» «Capisco. E allora spiegami perché ti piacciono le birre chiare, poco gassate e poco alcoliche.» «Bella domanda da idiota.» «Concordo.» «Allora, Carlo: come va?» «Non saprei. A te come va?» «Come, non lo sai? Saprai come va la tua vita, non mi sembra una domanda da un milione di dollari. Io tutto bene, comunque.» «Hai ragione, volevo solo evitare di rispondere. Sai come funziona.» «Fin troppo bene. Cambiando discorso, Charles: ho finito la birra.» «Beh, prendine un’altra.» «Sì, aspetta.» «Dove vuoi che vada?» «Certo che sei un bel tipo.» «Grazie.» «Non era un complimento.» «Mi sarei stupito del contrario.» «Alla nostra, Charles.» «Alla nostra.» «Certo che potresti metterci una TV, in questo posto.» «Ne ho una nel ripostiglio.» «Che te ne fai di una TV nel ripostiglio?» «Nulla, ma tutti ne hanno una. Sai com’è.» «Potresti anche metterla in soggiorno. Sempre meglio che tenerla nello sgabuzzino.» «Io non guardo la TV e, di solito, non sto nel soggiorno.» «Prima o poi avrai degli ospiti. Se li ospitassi nel soggiorno, potrebbe farti comodo la TV: non si sa mai.» «Perché qualcuno dovrebbe venire a casa mia per guardare la TV, quando può benissimo farlo nella sua, di casa?» «Non dico questo. Andiamo, Carlo non minimizzare sempre. Poniamo che l’interazione con gli ospiti giunga a un punto morto. Onde evitare fastidiose scene di mutismo o sequenze di affermazioni casuali, potresti sempre accenderla e lasciare che sia lei ad occuparsi di tutto, magari dando nuovi spunti alla conversazione.» «Detta così, non mi dà l’impressione di poter essere realmente d’aiuto.» «Fai come preferisci, era solo un’opinione.» «Ti va di guardarla adesso, per caso?» «Hai ancora la capacità di sorprendermi. Ordino due pizze, visto che è ora di cena, ma spegni lo stereo, per favore.» «… ma certo che mi va di cenare con te, Stefano. Restiamo a casa mia e prendiamoci due pizze. In effetti, inizio a sopportarla a fatica anch’io, questa musica.» 16


Sto al buio e non mi vedo

Testo di Alfredo Goffredi Fotografia di Francesca Parenti Brambilla, Stanze

Sto al buio e non mi vedo. Dalla tapparella, quando è tutta giù come ora, non filtra luce dal Giugno del 2006, quando l’abbiamo fatta riparare. Potrei addirittura sforzarmi di ricordare il giorno, ma al momento mi fa veramente troppa fatica. Me ne sto qui, immerso nel buio, e non vedo il mio corpo, non ne percepisco i limiti Si può dire che io abbia una forma, che io esista, anche senza un corpo? Non so dire da quanto tempo sono qui. Ricordo di aver chiuso quella porta dietro di me un’ora fa, o un giorno fa o cinque anni fa. Oddio, ricordo una porta ma in effetti potrebbe non esserci mai stata. Ma comunque ricordo che prima c’era qualcosa, anche se questo non mi porta necessariamente a sapere se esisto o meno. Voglio dire, potrei semplicemente aver smesso di esistere. O potrebbe essere una di quelle robe metafisiche come se un albero cade e non c’è nessuno che lo sente cadere, fa rumore? Che poi senza la luce il colore non esiste. Se non ci fosse la luce a rendere visibile, che so, una maglietta, come faremmo a dire che questa è verde o azzurra? Diremmo che è nera, o al massimo che è grigia. Ok, ammetto che forse la questione sia un po’ più complessa; consideriamo tutto questo come una variante divulgativa del problema. Credo che la situazione sia un po’ la medesima. Ad esempio, che giorno è fuori? Forse la domanda è suscettibile di interpretazione ambigua. Stronza, in alternativa. Ma se non lo fosse? «Che giorno è fuori?» implica che dentro sia un giorno differente? A dir la verità non so nemmeno se esistano un dentro e un fuori. La spiegazione è semplice, ed è parte di quanto ho detto prima. Vale a dire: se ho dubbi sulla mia esistenza, impantanato nel buio al punto da non capire dove inizio e dove finisco… no, aspetta, troppo lunga. I muri. Dove cazzo sono i muri? Da qui, sinceramente, non vedo nulla, non vedo cos’ho a una spanna dalla testa, ho persino dei dubbi su cosa la sto appoggiando ora, figuriamoci i muri. Di conseguenza se non vedo i muri mi viene da chiedermi: «I muri esistono?» 1. Sì; allora dentro e fuori dai muri il tempo scorre allo stesso modo? 2. No; in tal caso ha senso parlare di dentro e fuori? E, per estremo, se non ci sono muri a contenere questo buio significa che il buio è ovunque? E siccome non vedo nulla, e siccome il mio corpo annullato dal buio, come pure la mia coscienza galleggiante in esso, potrebbe non esistere allora esiste tutto il resto? Che poi io una coscienza non l’ho mai vista, quindi potrebbe non esistere nemmeno quella. Ma se non c’è spazio, allora, ha senso interrogarsi sul tempo? Se il tempo è dato dalla successione di istanti che descrivono uno spazio, se viene meno lo spazio non dovrebbe cessare di esistere anche il tempo?

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Porca merda, mi è venuta l’ansia. Un attimo, dovrebbe essere qui… ammettendo che esista. Un attimo solo. Ecco. CLICK Ecco… ecco… son passati pochi secondi ma mi sembra di ricordare. C’è tutto, è tutto come lo ricordo. È stata un po’ come l’esperimento del gatto di Schrödinger1. Che poi è buffo, ne senti parlare da tutti; è diventato di dominio pubblico grazie alla tv e alla cultura di massa che l’ha usato per le sue storielle. Poi oh, il fatto che circa metà della gente che ne è a conoscenza pensa che l’esperimento abbia realmente avuto luogo è un altro paio di maniche. Quello che mi stupisce ancora di più è che nessuno abbia pensato alla risoluzione più probabile: dopo un po’ che lo scienziato di turno si interroga sulla vita o sulla morte (o il suo stato di vita-morte, sit venia verbo, o su quale pizza ordinare per pranzo) il gatto, annoiato dalla monotonia dell’ambiente e preoccupato dal dover condividere così poco spazio con un barattolo in grado di dargli la morte, senza pensarci troppo, balzerà fuori dalla scatola e tornerà alla sua vita di gatto. Divagazione, lo so. Però almeno ora è tutto ok, è tutto come… anzi, ricordo tutto così com’è. Ricordo che tutto era così come lo sto vedendo ora, e la cosa un po’ mi tranquillizza. Ricordo il mio aspetto, che vedo riflesso nello specchio davanti al letto, sporgendomi un minimo verso destra, e mi pare di ricordarlo così, né più in carne né meno barbuto. Il che probabilmente significa che non sono qui da più di un giorno. Bene, direi che così può andare. CLICK Quanto ci vorrà prima che mi perda come prima? CLICK Ma cosa?

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«Cosa fai?», dice la voce di Giulia. Giulia è mia sorella «Rifletto.» «Al buio?» «… come?» «Dico… come fai a riflettere se stai al buio? Il processo di riflessione avviene…» «Nel senso», la interrompo o rischio che continui per ore, «che sto pensando.» «Ah», sembra quasi delusa, «A che pensi?» «Non so, aspetto un’illuminazione.» «Buono che io sia arrivata, allora. Ma non hai un interruttore lì vicino?» «Eh… ?» A volte non capisce a tal punto da sembrare idiota, ma non ho la forza di ribattere. «Beh, comunque intanto che pensi scendi di sotto, che è pronta la cena.»

Nota «Un gatto sia chiuso in una camera d’acciaio assieme alla seguente macchina infernale (che dev’essere protetta dall’accesso diretto del gatto): in un contatore di Geiger si trova una minuscola quantità di materiale radioattivo, così poco che nel passare di un’ora forse uno degli atomi decade, con probabilità pari a quella che non ne decada alcuno; se accade, il contatore risponde e aziona su un relais un martellino che frantuma una fialetta con acido prussico. Se si è lasciato a sé questo intero sistema per un’ora, si dirà che il gatto è ancora vivo, se nel frattempo nessun atomo è decaduto. Il primo decadimento atomico l’avrebbe avvelenato. La funzione ψ del sistema intero esprimerebbe ciò col fatto che in essa il gatto vivo e il gatto morto (sit venia verbo) sono mescolati o pasticciati in parti uguali». E. Schrödinger, La situazione attuale della meccanica quantistica. [Die gegenwärtige Situation in der Quantenmechanik] in “Naturwissenschaften” 23 (pp. 807-812, 823-828, 844-849), 1935, Berlin/Heidelberg, Springer. 1


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Testo di Andrea Cirillo Illustrazione di Sonia Cattaneo, Silenziosa attesa

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Erano anni che Armando Belacqua non si prendeva un giorno di malattia e iniziava ad avere parecchie ferie arretrate, ma quando si svegliò quella mattina per prima cosa telefonò per avvisare che sarebbe rimasto a casa. Aveva passato una notte da incubo. Non tanto per i brividi di freddo, quanto per un sogno che lo aveva accompagnato fino al risveglio. Non avrebbe saputo dire cosa esattamente avesse sognato, ma si avvicinava alla descrizione di un iter giudiziario o all’albero genealogico di qualche dinastia longobarda. Quando Sandra rientrò dal turno di notte lo trovò accucciato sul divano, avvolto da una spessa coperta in pile. Era una donna grassa. I capelli che le spuntavano dalla cuffia di lana erano sistemati al millimetro, tanto da ricordare le setole di una spazzola. Posò la borsa di cuoio nero. «Non sei andato al lavoro?», domandò, e scomparve in corridoio dove appese il cappotto. Armando alzò la voce: «Ho la febbre.» Accanto a lui era appoggiato un libro, aperto col dorso rivolto all’insù. Aveva quarantun anni, cinque in più della moglie, e un volto allungato, nel quale spiccavano una mascella squadrata e delle orecchie a sventola. La moglie tornò in salotto e gli prese il polso. «Prendi un antibiotico.» Era uno di quei medici che non si fanno problemi a prescrivere antibiotici. Armando aveva sentito che più ne assumi e più il loro effetto diminuisce, ma si fidava della moglie e non era nel suo stile discutere. «Se leggo mi viene la nausea.» «Due al giorno. A stomaco pieno o vuoto, non fa differenza.» Gli dette un bacio. «Guarda un po’ di tv.» Era stata lei che aveva voluto abbonarsi alla tv satellitare. Lo avevano fatto per il cinema, ora stavano pensando di disdire perché la qualità dei film era diminuita o non avevano più voglia di guardarli. Fu lei ad accendere il televisore e a passargli il telecomando, prima di andarsene a dormire. Armando fece un po’ di zapping, fino a che si imbatté in un documentario sul giorno del giudizio. Non aveva nulla contro la religione. Non credeva in Dio, ma nemmeno bestemmiava. Faceva sempre la stessa battuta quando sentiva parlare della risurrezione della carne: tanto vale farsi seppellire vicino al mare con il costume e le infradito. Prese l’antibiotico e seguì il documentario. Una setta sosteneva che la fine del mondo era vicina. Guardando il calendario si accorse che mancavano tre settimane. A pranzo lasciò il riso in bianco a metà. Guardò Sandra condire l’insalata. Ripeteva sempre la stessa sequenza. Da quando la conosceva l’aveva vista usare sempre quella marca d’aceto. Non le aveva mai domandato se credesse in Dio. Lo fece adesso. La moglie inghiottì la rucola. «È una tradizione di famiglia», rispose. «Mia mamma ci credeva, mia nonna ci credeva, la mia bisnonna ci credeva.» Si pulì la bocca col tovagliolo e continuò a mangiare.


Chiese una settimana di malattia. Dormicchiava sul divano, con la tv accesa sul canale dei documentari. Non riusciva a non pensare al giorno del giudizio. Cerchiò di rosso sul calendario la data della fine del mondo. Finita la malattia decise di approfittare delle ferie arretrate. Non aveva voglia di uscire. Mangiava cibo in scatola e pizza surgelata. La moglie tornava a casa e lo trovava sul divano. «Non hai più la febbre, perché non torni al lavoro?» «Ho bisogno di una Bibbia.» «Cosa?» «Voglio leggere l’Apocalisse, ma non abbiamo la Bibbia». Sandra sbuffò ed andò a letto. La mattina dopo lui attaccò il portatile alla corrente e si risistemò sul divano. Internet è pieno di bibbie on-line. Mentre leggeva lasciava accesa la tv. Almeno una volta al giorno il documentario sulla fine del mondo veniva replicato. Lo conosceva a memoria. Smise di sognare iter giudiziari. Sognò la disposizione della corte celeste, i segnati, i flagelli. Il pomeriggio prima del giorno si fece una doccia e la barba. La moglie aveva il turno di notte. Si mise in sala, spense il computer e la tv e aspettò. Mezzanotte passò e non accadde nulla. Era deluso. Arrivò la mattina e la moglie rincasò. Disse: «Tu hai qualcosa che non va.» Alle ventidue la terra tremò. Si affacciò alla finestra e vide un cielo rosso sangue. Il traffico sotto di lui era intenso. Alzando la testa potevano scorgersi mastodontiche gru illuminate a giorno. In lontananza sfrecciavano le luci dei camion sulla tangenziale. Andò dalla moglie. Era nel suo studio, concentrata nella lettura di un volume di medicina d’urgenza. Glielo strappò di mano turbato. «La fine del mondo è arrivata», le disse. Lei lo guardò sgomenta. «È stata solo una lieve scossa di terremoto. È già passata.» La mattina dopo tornò al lavoro. Sui giornali nemmeno un trafiletto parlava della fine del mondo. Sandra disdisse l’abbonamento alla tv satellitare.

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Il CASTING casting Testo di Francesco Segoni Opera di Letizia Lanzarotti, Gabbiette di spumante - Honey’s Room

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Già il fatto di abbassarmi agli studi low cost di una periferica emittente locale è stato un compromesso. Per un urban cowboy come me, spingermi fin laggiù è stato un po’ come unirsi alla carovana del sale dei Tuareg, da Bamako fino al lago Ciad. Se suona ridicolo, vi prego di capirmi: non ero mai stato in Bovisa. Quindi: passi per la periferia. Ma sono un giornalista, io: anche senza il pallore e i pantaloni di velluto a coste, un intellettuale (di scarso peso, ma solo perché ho il metabolismo accelerato). Ho risposto a un annuncio per la ricerca di giornalisti per una nuova rubrica di approfondimento, non ai provini per il Grande Fratello. Dunque quando squilla il telefono e mi convocano nei loro studi per un “casting”, mi sono detto: «eh?!?» Ma le occasioni, si sa… Per farla breve, entro negli studi della Bovisa alle 14,30 come da accordi. Accolto dalla segretaria di redazione: Marika. Non più freschissima ma sempre avvenente, mèches sfrigolanti, pelle come una bruschetta tranne il pomodoro, Miss Sagra del Riso di Sant’Angelo Lodigiano nel 1991, qualche serata nei dancing tra Lodi e Codogno, l’incontro con un produttore un po’ ingrigito ma sempre arrapato e l’inizio della carriera in tv. Mi schiaffa sulla poltroncina in finta pelle nella sala d’attesa: un tugurio senza finestre, cavi a vista e polvere ovunque. Poi arriva l’Assessore: quello della Fratellanza celtico-valtellinese, costola smoderata della Lega che propone di sparare agli emiliani che attraversano a nuoto il Po verso la Lombardia. Nelle stanze del potere, di lui si ricorda solo una proposta di legge per usare gli immigrati nei crash test automobilistici. Ora incombe su qualunque programma televisivo dove sia accettabile usare la parola teroni. Ha la grinta di sempre e la trasmette all’edificio: i muri bianchi risuonano con i suoi passi tonanti, saluta tutti, è di casa. Allunga il braccio per dare la mano al regista, le maniche della giacca pied-de-poule si ritirano fino al gomito, assesta una pacca sul culo a Marika e la sposta in avanti di un metro buono. In quel momento un altro angolo degli studi prende vita: si apre la porta di un camerino, spunta una ragazza dall’aria svampita e con troppa terra in viso, barcolla sui tacchi. L’Assessore la punta come un setter, si inumidisce le labbra. Viene ragguagliato: è nuova, fa la spalla del conduttore in un programma di astrologia e bricolage. L’Assessore manda a gambe all’aria con una manata distratta lo stagista di produzione che gli stava portando un bicchiere di Bonarda, si avvicina alla svampita, gli si drizzano i radi capelli sul retro-cranio, le pieghe del grasso sulla nuca si moltiplicano per tre. La prende per le spalle e le alita in faccia: «Sei agitata, amore? Rilàssati, tanto non frega a nessuno di quello che dirai.» La poveretta sorride come un talebano a Guantanamo mentre gli spiegano il waterboarding. Lui intanto sfruculia per ventidue secondi fra una tetta e l’altra, lasciandole le impronte digitali addosso. Poi sparisce nello studio di registrazione. L’ultima immagine, prima che si chiuda la porta dello studio, è l’Assessore che si gratta con virulenza il testicolo sinistro, preludio all’esplorazione più soddisfacente che porterà avanti durante la registrazione. Mi scuote Marika: «L’aspettano al trucco.» Il trucco? Mi spiega Marika: le luci dello studio sbattono. E parte furiosa con il correttore sotto gli occhi (vuole forse insinuare che ho le occhiaie?). Quando ha finito, mi volto per concedere allo spec-


chio i due secondi compatibili con la mia dignità professionale. Poi mi fa compilare un modulo, sistemandomi come un Big Jim a una scrivania di truciolato e sottoponendomi all’umiliazione di “altezza, peso, numero di scarpe”. La registrazione con l’Assessore intanto è terminata: spalanca la porta dello studio, scaglia l’auricolare in faccia al conduttore. Per l’atrio si aggira ancora istupidita la ragazza di poco prima, la nuova arrivata. L’Assessore le è subito alle calcagna, negli angusti studi della Bovisa lui pare un licaone del Botswana che punta una gazzella azzoppata. È un attimo: con un balzo la chiude nell’angolo, la afferra per le braccia, le pianta il muso dietro l’orecchio. Lei prova a fare l’Uomo Ragno arrampicandosi sui muri all’indietro. Non si capisce se la baci sul collo o le succhi il sangue. Il regista e Marika osservano rapiti la scena, l’Assessore si agita sempre più freneticamente. Non capisco cosa succede là sotto, ma mi accorgo che la testa è scomparsa dentro la bocca dell’Assessore, da cui spuntano ciocche bionde. Poi vedo il collo di lui ingrossare come quello dei serpenti. Tra grugniti orribili, il bestione butta giù enormi bocconi. Marika e il regista applaudono, il conduttore è scosso dalle risate. Io sono paralizzato. Dalle fauci ora spunta solo la parte inferiore del corpo di lei, dalla vita in giù. Le gambe hanno un sussulto, finiscono dentro anche loro, ginocchio, polpaccio, caviglia… fine. La lingua guizza ancora una volta intorno alla bocca. L’Assessore produce un rutto lungo e profondo. Marika mi si avvicina. «Tocca a lei.» La guardo come un sonnambulo. Il regista si infila un dito nel naso. Incrocio lo sguardo dell’Assessore. Si lecca le labbra, negli occhi arde ancora la fiamma del desiderio. «Grazie, ho un impegno», bofonchio, correndo disperatamente verso l’uscita.

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«Un terno sulla ruota di Venezia: 47, 90, 13», disse l’uomo che, entrato in modo furtivo e veloce, si era presentato alla cassa. «47, morto che parla!». La voce della grassa signora risuonò nella ricevitoria. Nessuno ci fece caso. L’uomo teneva gli occhi bassi. Aveva occhiali scuri dietro i quali sembrava nascondere una grande afflizione. Stretto nel suo cappotto logoro, dopo aver comunicato la giocata allungò la mano per ritirare lo scontrino. «90, la paura!» Ancora la voce della grassa signora che declamava pubblicamente ogni singolo numero; una tradizione secolare. L’uomo ebbe un sussulto, come se avesse risposto istintivamente al suono di quella parola, con una reale paura che lo attanagliava. L’addetta alle giocate lo guardò con aria interrogativa. Quell’uomo la metteva a disagio. Aveva qualcosa di strano. Per di più, emanava uno strano calore simile a quello di un congelatore. Superato il disagio, diventò sospettosa. Cominciò a non perdere di vista neanche per un secondo quell’uomo dall’apparenza disperata. «13, il diavolo!» Il silenzio calò nella piccola ricevitoria. L’uomo restò immobile, in attesa, con la fronte tesa e imperlata di sudore. Si vedeva chiaramente, ormai, che tremava come una foglia rinsecchita da un vento gelido. Aveva i capelli impomatati e uno strano sorriso sulla bocca, come per scusarsi. L’addetta alle giocate lo guardò con aria materna. Si tolse gli occhiali e si diresse verso di lui ancora immobile al di là del vetro. Quando gli fu vicino, gli prese il braccio e disse: «Mi vuole, seguire per favore?» Decisa, serrò la mano sul suo braccio irrigidito. L’uomo tentò timidamente di protestare: «La prego, per favore: io…» Ma come un bravo bambino scoperto con le dita nella marmellata, si lasciò guidare sul retro della stanza, oltre lo sportello delle giocate. Sulla porta campeggiava il numero 33, gli anni di Cristo. Forse la porta per la stanza del Paradiso?, pensò tra sé l’uomo. L’addetta alle giocate lo spinse con vigore oltre la porta, richiudendola subito alle sue spalle. Il numero 33 oscillò in maniera impercettibile, e, dopo pochi secondi, si capovolse. Sulla porta si leggeva chiaramente un altro numero: il 77. Nella smorfia moderna, il diavolo. Un altro che tentava di fregare la morte!» L’addetta alle giocate scoppiò in una fragorosa e soddisfatta risata. «Questi poveri diavoli ancora non hanno capito.» Mentre parlava, guardava negli occhi tutti i presenti: due signore anziane, un bambino e la grassa signora. Continuò: «Il banco vince sempre…». Diede due colpi decisi per terra con il manico della falce che teneva appoggiata dietro al bancone. «Amen», fecero eco i presenti.

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77

numero Testo di Stelio Zaganelli Fotografia di Stefano Okolicsanyi, Prego entrate pure


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Testo di Alessandro Busi

Illustrazione di Ettore Tomas, Stanza stretta, disegno ed elaborazione digitale, 2009

Hai visto che botto?!

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Alla fine è vero. Alla fine, noi siamo fatti di stanze. La nostra vita è un susseguirsi di stanze. No, non la intendo secondo la logica psicoanalitica, quella per cui l’evoluzione delle persone è divisa in fasi, che sono un po’ come delle stanze, dove si entra e si esce. No, quello che voglio dire è che, in fin dei conti, la nostra vita potrebbe essere disegnata a blocchi, a scatole, ognuna rappresentante una specifica stanza. Faccio l’esempio della mia giornata. Io mi sveglio alle otto nella stanza da letto, poi mi sposto in bagno, infine vado in cucina. Ora, anche se bagno e cucina non si chiamano stanza da cesso-doccia e stanza da mangiare-bere, comunque, sempre stanze sono. Poi esco e faccio le scale del condominio, le quali non sono altro che una grande stanza di forma strana e piena di scalini. Vado in garage, stanza cupa e sotterranea, e salgo in macchina. Riguardo alla macchina confesso che avevo dei dubbi; poi però mi sono detto: «Perché non ci dovrebbe essere una stanza con un motore, quattro ruote, i muri di lamiera e un volante?». «Alla fine, anche l’automobile non è altro che una stanza in movimento», ho pensato. Mentre vado al lavoro, poi, trovo sempre la coda. È una costante, quasi come quelli di “Lotta Comunista” che vogliono vendermi il giornale fuori dal bar – stanza – dove pranzo. Sì, ci metto il quasi, perché ad agosto la coda non c’è, loro sì. Comunque, questa coda a me un po’ piace, perché mi permette di guardare nelle macchine degli altri. Un giorno, per esempio, c’era una signora grassa dietro di me, che, penso ascoltando la musica, ballava come una pazza, finché non si è accorta che la stavo guardando dallo specchietto e allora ha smesso. Un altro giorno, invece, mi ricordo che avevo davanti due, un ragazzo e una ragazza: tutte le volte che la coda si fermava, si baciavano come se non si vedessero da anni. E magari era così. Comunque, questa possibilità di vedere nelle macchine degli altri mi ha fatto pensare che la coda della mattina è un po’ come ricreare un quartiere di case con i vicini intercambiabili. Ho pensato anche che la coda è come un agglomerato di stanze tenute assieme dalla lingua d’asfalto, una specie di parete in comune. Poi, prima di arrivare al lavoro, a volte mi fermo dal benzinaio: se al posto dei pali per tenere su la tettoia di cemento ci avessero messo i muri, allora sì che sarebbe una stanza a pieno titolo; ma diciamo pure che il benzinaio è una quasi stanza. Al contrario è proprio una stanza, certo sui generis, quel marchingegno per me fantastico dell’autolavaggio. A questo punto, parcheggio nel garage aziendale, che altro non è che un’immensa stanza divisa per sale – alias stanze –, e lascio le chiavi al custode, il quale passa le sue giornate in uno stanzino piccolissimo, illuminato da una lampadina appesa al filo e con alle pareti un sacco di calendari di soubrette prosperose e svestite. Proseguendo, entro in sede e vado in ufficio, dove ho la mia scrivania divisa da quelle di Mario e di Marina per mezzo di pareti di compensato, che traballano, non arrivano al soffitto, ma delimitano un confine, quindi generano stanze. Da qui in avanti la mia giornata continua stanca, fino alle cinque di pomeriggio, quando, dopo essere risalito in macchina, mi avvio verso casa. In genere faccio la stessa strada dell’andata, solo all’incontrario. Ma l’altra sera no. L’altra sera, arrivato all’imbocco di via Garibaldi, ho trovato la carreggiata transennata e un signore che, con in mano una paletta catarifrangente, faceva segno di svoltare a sinistra e prendere la tangen-


ziale. Procedendo con il finestrino abbassato, ho sentito un altro signore spiegare ad un ciclista che avrebbero fatto crollare la palazzina che indicava con il dito. «Fino a stasera alle venti la zona è evacuata», diceva. Queste sono state le ultime parole che ho sentito, prima di avanzare ed entrare in tangenziale. Appena passato lo svincolo, poi, ho visto che c’erano una decina di auto parcheggiate nella corsia d’emergenza, con i rispettivi proprietari accanto. Dopo l’ultima macchina, una Twingo blu, anch’io ho accostato e sono sceso. Se non avessi smesso di fumare, mi sarei acceso una sigaretta, come nei film. «Chissà che botto», mi ha detto, sorridendo e sfregandosi le mani il mio vicino di auto. Dopo un paio di minuti, si è sentito un boato e la palazzina rosa è venuta giù su se stessa, alzando una gigantesca nuvola di polvere. Sembrava una scena apocalittica. Se ci fossero stati il ralenti e l’inizio di Shine on your crazy diamond dei Pink Floyd, sarebbe stata perfetta. Io, mentre guardavo con gli occhi sbarrati, ho sentito un brivido lungo la schiena, così mi sono chiuso il colletto della camicia; ma è stato inutile. Non era freddo: piuttosto, malinconia. Nei resti di quella palazzina – ex grandissima stanza –, vedevo succedersi le stanze della mia vita: dalla cucina di mia nonna, alla sala giochi del mare; dagli interni della Fiat Tipo del papà di Luisa, la mia ragazza di quando avevo diciotto anni, fino allo studio del dentista dove sono andato due settimane fa a fare la pulizia dei denti. In pochi secondi ho visto scorrermi davanti tutti i miei trent’anni. Ero talmente emozionato da non respirare, fin quando il signore della Twingo mi ha dato una forte pacca sulla spalla, mi ha strizzato l’occhio e mi ha detto: «Hai visto che botto?!»

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o t a t n e d u St

Testo di Emilio Sciarrino Fotografia di Iacopo Vaja, Stanze

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Parigi, 2009. Nel corridoio c’erano secchi per raccogliere l’acqua piovana. Nella mia stanza l’unico arredo era una lampada Ikea sbrecciata. Funzionava ancora. Più tardi comprai una lampada che faceva luci di diversi colori. Così la mia stanza sembrava uno di quei bar milanesi con luci blu, rosse, verdi. E musica techno. Era di pessimo gusto. Piaceva molto al mio vicino. I muri della mia stanza erano di cartapesta. Il mio vicino amava andare in discoteca e cantava tutte le ultime canzoni alla moda facendo da solo le voci, il coro e gli strumenti. Lo sentivo cantare ogni giorno. E fare sesso la notte. Non ci pensavo. Pensavo: siccome in quella stanza avevano vissuto famosi intellettuali, anche a me sarebbero venute grandi idee. Presto avrei frequentato anch’io il Café de Flore e sarei stato preso d’assalto da una banda di fan bionde, profumate ed eleganti che avevano adorato il mio libro anche se non avevano capito tutto. Ma prima dovevo trovare una lavatrice. Le lavatrici erano nascoste in una cantina buia. Due erano rotte, e la terza sempre piena e coperta di vestiti umidi. Mi fu consigliato di non lasciare i miei vestiti incustoditi perché nello studentato si aggiravano misteriosi ladri di mutande. Non ci credevo. Mi sbagliavo. Sparirono le mie mutande. Le più belle. Quelle rosse assortite al mio orientamento (politico). Dal frigorifero comune, invece, sparì la spesa. Idealmente ero favorevole al comunismo. Eppure mentre mi brontolava la pancia capii per la prima volta perché l’U.R.S.S. era fallita. La cucina era davvero un luogo di riflessione politica. E di azione. Era un punto di resistenza contro la burocrazia (fascista per definizione), e in particolare il servizio Sicurezza e Salute dello studentato (SS per gli intimi). Un giorno, non si sa perché, l’SS svuotò un frigorifero pieno di roba, buttando tutto, senza neanche separare il marcio dal non marcio, e provocando l’ira di una mia amica. Ha ragione Foucault: l’igiene è solo l’alibi di un bio-potere oppressivo! Disse lei, che dormiva con sotto il cuscino Sorvegliare e Punire. Stampò una lettera bollata e firmata SS che mise sotto la porta in ogni stanza dello studentato: in questa avvertiva gli studenti dell’imminente pulizia delle loro stanze, «e che tutto sia ordinato: qualunque oggetto fuori posto verrà eliminato.» Provocò un gran scompiglio in tutto il collegio. Fu seguita dall’acerba risposta del servizio SS che invitava gli studenti a «non aprire la porta a sconosciuti travestiti da donne delle pulizie. » In tutta quest’agitazione, scomparve dal frigo il cheese-cake che mi era costato uno sproposito. Provai a mettere il mio nome sulla roba che compravo, anche se mi sembrava un comportamento schifosamente borghese. Ma neanche il mio nome bastava ad intimidire il ladro. Forse avrei dovuto scriverlo in stampatello, e aggiungere : SICILIANO!. Il mio vicino (che quando non cantava l’ultimo successo di Madonna studiava chimica teorica) volle


sintetizzare un veleno letale tipo cianuro. Io ero più mite. Glielo sconsigliai. Bastava un potente lassativo. Ma della bottiglia di latte dove avevamo disciolto dieci bustine di LAXMAX non si ebbero più notizie: scomparve anch’essa come se niente fosse. Intanto a Parigi arrivò l’inverno. Le temperature oscillavano tra i 0 e 3°. Il mio davanzale divenne il mio frigorifero. Pensavo fosse un colpo di genio. Non avevo fatto i conti con un altro tipo di ladri: i piccioni parigini, brutti, grossi e neri e con gli occhietti lucenti di cattiveria. Non piccioni ma mutanti svolazzanti, che appena distoglievo l’attenzione dal mio davanzale, venivano a becchettare le mie provviste. Non avevo detto la mia ultima parola. Ricordandomi della mia infanzia contadina, costruii un minispaventapasseri in cartone e carta d’alluminio, con tanto di occhi bucati e sorriso inquietante. Non fece né caldo né freddo ai piccioni, ma spaventò tutti quelli che entravano nella mia stanza, convinti oramai che io fossi un eccentrico. Era quasi Natale e mi rassegnai a nutrirmi solo di cibo in scatola, biscotti, pasta, e latte disidratato, sognando quanto mi sarei abbuffato al Café de Flore. Faceva un freddo cane. Per fortuna il riscaldamento era acceso al massimo. Ma la notte veniva spento. Lo riaccendevano alle sette di mattina. Prima di quell’ora, il mondo poteva anche crollare: io non mi muovevo dal letto. Lo lasciavo solo alle sette e tre in punto, quando nella camera c’era un bel tepore. Alle sette e quattro, la stanza diventava un forno: i vetri si appannavano e cominciavano a gocciolare. Faceva così caldo che restavo tutto nudo. D’altronde non avevo più mutande. E intanto i vetri gocciolavano… Tutti i miei compiti erano inzuppati. Alla fine, impegnato com’ero nella vita in studentato, non mi venne nessuna grande idea filosofica. E come me lo pagavo, allora, il caffè a quattro euro? Alla fine del corridoio buio e pieno di secchi d’acqua piovana, vedevo la Sala luccicante e dorata del Café de Flore avvolta dalla nebbiolina. Avanzavo inciampando nei secchi. Era solo la cucina comune. Mezzo addormentato, scaldai l’acqua per un caffè solubile. Entrò la mia amica. Bevemmo insieme il caffè disidratato. Era buonissimo.

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Claudia Tarolo e Marco Zapparoli Direttori di Marcos y Marcos Siamo quasi arrivati al decimo compleanno della “Luna di Traverso” e, proprio per questo, per mantenerci in continua evoluzione, abbiamo deciso di introdurre alcune novità e proporre ai lettori alcuni cambiamenti. Stanze ci sembrava il numero più adatto per inaugurare il nostro nuovo “spaziointervista”: vogliamo dedicare alcune pagine della rivista, e un po’ di spazio sul web, a chiacchierate con autori, editori, direttori editoriali, editor, traduttori, agenti letterari ma anche fotografi, professori universitari, illustratori, critici letterari, librai… insomma con tutto quel “popolo” di professionisti che fanno parte del mondo della narrativa, della fotografia e dell’illustrazione. Interviste, dunque, per il lettore ma anche per chi si avvicina al mondo della letteratura come scrittore; domande mirate per la comprensione più approfondita di alcuni meccanismi di un mondo così affascinante, quanto difficile e criptico. I primi a rispondere alle nostre domande sono i Direttori della casa editrice Marcos y Marcos: Marco Zapparoli e Claudia Tarolo. Questa casa editrice, dall’esperienza ormai trentennale, nasce e cresce a Milano, partendo da piccole pubblicazioni fino ad arrivare a oggi con un catalogo ricco e articolato, corsi di editoria, arditi progetti in divenire come “BookJockey Day” e la “Letteratura Rinnovabile”. Grazie alla Marcos y Marcos oggi leggiamo e amiamo Boris Vian, John Fante, John Kennedy Toole e tanti altri, e, sempre grazie ad essa, possiamo inoltre scoprire autori contemporanei italiani, e non solo, di grande qualità come Cristiano Cavina, Davide Longo, Pedro Lemebel, Michael Zadoorian. Una casa editrice, dunque, che non si dimentica ma che si segue, fedelmente e con fiducia. Com’è nata Marcos y Marcos, ma soprattutto: chi sono Marco Zapparoli e Claudia Tarolo e cosa fanno? Marcos y Marcos è nata un po’ alla volta. Per qualche anno è stata piccolissima, poco più che un sogno, poi si è evoluta pian piano, sempre più intenta a mettere radici che a crescere troppo rapidamente in altezza. In principio c’erano due Marco, Zapparoli e Franza, poi il secondo Marco se n’è andato, e undici anni fa, dopo un lungo periodo monomarcos, Claudia Tarolo ha preso il suo posto. Marco Zapparoli e Claudia Tarolo sono animali abbastanza simili, tipi di cui si dice: dio li fa e poi li accoppia. Amano parecchio leggere e giocare, sono un po’ estremisti, in genere non hanno paura. Fanno gli editori anche quando dormono e non sempre sono di buona compagnia; esemplari, in questo senso, due battute di dialogo con una figlia: − Noi: questa non è una cena normale, è una cena di lavoro. − Figlia: allora è una cena normale. È che i due si sentono circondati da parecchie meraviglie, e prendono molto sul serio il compito di farne circolare qualcuna, di innescare incontri che hanno conseguenze.

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Perché pubblicare un libro: ovvero da dove parte la ricerca di autori e nuove proposte? Come valutate il materiale sia dal punto di vista della linea editoriale sia come lavoro pratico di selezione? Dove viene “cercato” l’autore e quanto peso nella scelta riservate alle proposte degli agenti letterari così amati/discussi? Un bravo editore non ha pregiudizi: esce a caccia fischiettando e si lascia guidare dal fiuto. Se ha la fortuna di essere indipendente, può divertirsi parecchio. Mentre arrivano fiumi di proposte, non si deve rinunciare a battere terreni inesplorati. Il criterio è sempre lo stesso: tendere occhi e orecchie per sentir squillare la qualità. Gli agenti a volte sollevano un po’ di polvere, ma un buon libro si può nascondere ovunque. La difficoltà maggiore per noi, in realtà, è trovare il tempo per vagliare con calma tutto ciò su cui, in un modo o nell’altro, mettiamo le mani. Non ci poniamo confini di genere, o territorio. Un buon libro è sopra le parti. Casa editrice/mondo web: qual è il rapporto, sia a livello di scouting ma non solo, tra voi e l’infinita complessità di offerta da parte di chi scrive online? Internet è oceanico, ma esistono piste anche lì; basta saperle individuare e seguire. Le informazioni offerte sono fin troppe, certo, ma hanno spesso il vantaggio di essere imparziali, di esprimere punti di vista liberi e personali. Abbiamo trovato autori importanti tramite il web − è il caso di Michael Zadoorian − e molti lettori hanno scoperto noi, o nostri libri poco conosciuti, grazie all’ampiezza del web. Usata bene, è una risorsa in più da ogni punto di vista. Nel vostro lavoro, ormai trentennale, di scandaglio della narrativa esordiente e non solo quali sono le caratteristiche, sia personali che letterarie, che oggi vi colpiscono maggiormente in uno scrittore per poterlo pubblicare? Vi sono capitati nel corso di questi anni, in tal senso, incontri inizialmente sfortunati che poi si sono rivelati estremamente belli e favorevoli? Spesso i nostri autori ci assomigliano, inutile negarlo: avventurosi e folli, capaci di entusiasmo, e di non mettere il successo, o l’illusione del successo, davanti a tutto. Non ricordiamo incontri partiti male e finiti bene, piuttosto il contrario: ci è spiaciuto perdere per strada un autore indubbiamente dotato come Davide Longo. Scuole e corsi di scrittura: qual è la vostra opinione in merito? Si può “imparare” a scrivere? Si deve imparare a scrivere: come in tutte le arti, è un lungo processo di affinamento e di ricerca, di confronto con i modelli e sviluppo di una cifra propria. Un corso appropriato è di grande stimolo e aiuta a mettersi seriamente di fronte ai propri limiti e alle difficoltà del mestiere. Naturalmente alla base occorre una predisposizione e un talento naturale che nessuna scuola ti può dare. I maestri migliori possono fartelo capire.

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Evoluzione e/o involuzione della scrittura: in tutti questi anni di esperienza maturata in ambito editoriale cosa ne pensate? La scrittura esordiente è in evoluzione o in involuzione? Se è in involuzione, cosa pensate di fare come editori per aiutare le sorti della narrativa? In ogni epoca ci sono autori veri e autori di scuola, maestri ed epigoni. Nell’epoca di internet gli epigoni hanno più spazio, e i veri autori rischiano di restare sommersi. Il nostro compito di editori è tentare di separare il grano dal loglio, anche quando il loglio, per un fatto di conformismo e di abitudine, rischia di piacere di più. Nel rapporto dell’Aie sui primi sei mesi del 2009 si legge di una notevole flessione del mercato editoriale italiano (-2,2% a valore, -4,2% a volume). Tuttavia, il dato che crediamo se non incoraggiante almeno confortante, è che sono i gruppi maggiori ad aver perso quote di mercato, mentre gli editori di piccola e media editoria di qualità hanno “tenuto”, perché puntano a soddisfare una domanda elitaria e più complessa. Voi, da editori appunto “di qualità”, come leggete questo dato? Parrebbe proprio così. Gli editori ben riconoscibili, che si concentrano sulla qualità delle proposte e lavorano sodo alla promozione dei libri, quest’anno tengono meglio degli altri. I veri lettori non rinunciano facilmente a un “vizio” che costa meno del fumo e rende molto di più. Arriviamo freschi dal successo dell’ultima edizione di Più libri più liberi, la fiera degli editori piccoli e medi che si svolge a Roma in dicembre, dove le vendite sono cresciute per tutti. Per noi il 2009 è stato un anno davvero ottimo. Senza aumentare le novità − per la narrativa siamo fermi a 13 l’anno − il fatturato è cresciuto del 18%. Non c’è che da ringraziare i librai e i lettori fedelissimi!


Il mercato delle cosiddette “librerie online” sembra registrare una crescita esponenziale (alcune proiezioni parlando di una crescita di oltre il 25% nel primo semestre 2009). Vi interessa questo dato? Presidiate e monitorate con interesse il canale? Le librerie online per noi rappresentano il 5% del fatturato. Da tre anni, la crescita è del 30%. Ovviamente, per editori piccoli è vincente il fatto che queste librerie forniscano ai lettori tutto il catalogo, e in modo sempre più rapido. Negli ultimi due anni, in Italia, è cresciuta la fiducia − prima scarsa − negli acquisti online. Difficile dire se questa tendenza si manterrà, ma è molto probabile: non escludiamo che in altri tre anni le vendite online rappresentino il 10%. Da rivista letteraria che si occupa anche di fotografia e illustrazione non abbiamo potuto fare a meno di notare l’attenzione e la cura che riservate alla scelta delle copertine, alla scelta dei materiali e della qualità di stampa e allo stile molto personale che da sempre vi caratterizza e contraddistingue. Come nasce questa vostra scelta di campo? Quanto investite, concettualmente e non solo, nell’organico di un libro a questa fase di produzione? I nostri lettori sono molto esigenti, apprezzano moltissimo il fatto che si usi buona carta, che si rileghi a filo, che non ci siano troppi refusi. Basta dare un’occhiata ai pareri su Anobii per capire quanto ci tengono. La grafica per noi dovrebbe trasmettere molto dell’anima di un libro, la pasta di cui è fatta la casa editrice che lo propone. Quindi investiamo parecchio, e investiremo sempre di più in questo senso. Tra il 2010 e il 2012, anche in Italia la lettura degli ebook − complici strumenti molto migliori − inizierà a diffondersi. Questo intaccherà in parte il mercato dei libri tascabili, e in generale di bassa qualità. Il cerchio dei lettori forti si stringerà ancor di più attorno a chi i libri li farà con estrema attenzione alla loro consistenza fisica. Come proporre un libro sul mercato: in che modo lanciate un nuovo autore? Come lo “aiutate” ad affacciarsi nel complesso e ampio mondo delle librerie? Se è un autore “nuovo”, cerchiamo di capire che tipo è. Cerchiamo di immaginarci i librai che potrebbero aiutarlo a farsi conoscere. Poi, se i librai apprezzano il suo libro e si fanno avanti, se sono curiosi anche di come è il “personaggio”, cerchiamo di far sì che si incontrino. In pratica, noi non forziamo mai la mano a chi organizza festival, ai librai, e men che meno ai giornalisti, nel presentare un nuovo autore. Cerchiamo di metterne in luce l’originalità, ma aspettiamo che l’autore venga scoperto. La richiesta deve sempre nascere da chi poi proporrà il nuovo autore al pubblico. Sul piano pratico, questo comporta molto lavoro e anche molta pazienza. ma bisogna saper attendere. Creare occasioni propizie. Altrimenti, è molto più difficile che scattino veri entusiasmi. Un consiglio pratico per chi scrive. Lavorare molto. Non sottovalutare l’importanza dell’umile, a volte ripetitivo esercizio. Specie se si è consapevoli di non essere Kafka, il che sarebbe già un buon punto di partenza, riflettere molto sul senso di ciò che si sta scrivendo. E abituarsi a rifare, riscrivere, mettersi iper-criticamente di fronte a uno specchio. Un consiglio pratico per chi legge. Godere fino in fondo questo splendido privilegio. 33


BIOGRAFIE PENNA Simone Bulleri nasce a Milano nel 1975 da una famiglia di origine toscana e cresce fra i suggestivi vicoli di Pisa. Frequenta il Liceo linguistico, compiendo numerosi soggiorni studio in Inghilterra e Germania. Dal 1990 si forma artisticamente con seminari di cinema e teatro tenuti da Rodolfo Bianchi, Susanna Javicoli, Nicolaj Karpov del Gitis di Mosca, Alfonso Santagata, Roberto Latini. Nel 2004 – per divina intercessione – si laurea definitivamente in Filosofia con una tesi sul pensiero di Niccolò Machiavelli; ancora con i festeggiamenti nelle orecchie, suo padre gli mostra la porta di casa. Attualmente vive, lavora e tribola a Roma, immotivatamente convinto di essere destinato alla gloria. Frase preferita: «gli uomini fanno progetti e gli dei sorridono». Alessandro Busi è nato a Brescia nel 1984, poco prima della grande nevicata dell’inverno ’85, e ha concluso da poco gli studi da psicologo all’Università di Padova, città dove continua a vivere. Ha pubblicato racconti in alcune antologie di Giulio Perrone Editore come Vite sportive, Matrimoni scoppiati, Hai da accendere?, Rac-corti2 e su riviste letterarie come “Paradiso degli orchi”, “Il foglio clandestino”, “Il primo amore”, “La luna di traverso”, “Argo”, “Il sottoscritto”. Collabora con le webzine “Indie-zone” e “Musicletter”. Il suo blog è: lagentestamale.wordpress.com Tommaso Chimenti perde capelli, ma in compenso aggiunge anni. Si è rassegnato a essere forzatamente ottimista. Conta le linee spezzate di vernice bianca che dividono le strade. Perde il conto. Adora la nocciola, in ogni sua forma, la salvia e il basilico. L’origano proprio no. Il curry sì, il cumino no. Non si fida delle donne con il labbro superiore fine. Fa tutte le cose che gli fanno paura. Vuole tutto, ma non subito. Se mai avrà un figlio gli darà tre nomi e due cognomi, così, tanto per metterlo un po’ in difficoltà. Avendo le vertigini, pensa bene di salire continuamente su torri e campanili. Il giorno lo si può trovare in scooter, la sera a teatro. Sport preferito: spuntarsi la barba. Adora la Maremma, la frutta acerba. Fotografa le nuvole e la propria ombra. Odia aspettare. Non ha più l’età per sopportare i rifiuti. Non è assolutamente vegetariano. Andrea Cirillo nasce nel 1982 e vive a Parma, dove si è laureato in Lettere moderne. Suoi racconti sono stati pubblicati su riviste come “La luna di traverso” e “Maltese narrazioni”. È uno degli autori de I Lunatici – 15 nuovi scrittori italiani (Parma, Mup Editore, 2006). Nel 2007 è tra i poeti di Star (ed. Tapirulan). Sempre nel 2007 fonda, assieme a Marco Musso, Il Teatro di Minosse (www.ilteatrodiminosse.it) con il quale scrive, dirige e porta in scena i suoi spettacoli. Nel 2009 crea assieme ad Andrea Tebaldi Adunanze poetiche (www.adunanzepoetiche.it), un modo per riportare la poesia in strada.

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Alfredo Goffredi è nato a Londra il 3 marzo del 1982, cresciuto a Piacenza, vive a Parma e un giorno invecchierà da qualche parte e morirà, come tutti – non c’è da stupirsene. Il resto sono dettagli. Claudio Ianni Lucio è nato a Brescia nel 1986. Nel 2006 ha conseguito il diploma in “Scienze sociali”, dopo aver frequentato il liceo Veronica Gambara. Inizialmente si era iscritto ad un liceo scientifico, ma non riusciva a rispecchiarsi in quel tipo di formazione. Forse perché le materie di studio erano troppo distanti da ciò che crede realmente serva nella vita – almeno per quel che concerne la sua. Ciononostante, alcune di esse, come la fisica ad esempio, suscitano in lui una grande curiosità: per questo ha preferito farsi una sua cultura personale in materia, al di fuori dello schematismo scolastico. Ora studia Scienze Psicologiche, Cognitive e Psicobiologiche presso la facoltà di Psicologia dell’Università di Padova. Oltre alla Letteratura, è molto interessato anche al Cinema e alla Musica. Suona la chitarra da autodidatta e fino a poco tempo fa era impegnato con una band. Emanuele Ravasi è nato nel 1975 e ha frequentato scuole seguendo una sua vocazione informatica che lo ha portato a diventare web designer e programmatore, destreggiandosi tra passione e lavoro. Nonostante i suoi studi siano di carattere scientifico, la scrittura gli è rimasta sempre accanto e,


incoraggiato da un amico, ha scritto alcuni racconti rimanendo invischiato nel fascino delle parole. Ha cominciato a partecipare a concorsi e non ha mai smesso di scrivere. Anni dopo si è iscritto ad un corso di scrittura e narrazione e ha compreso quanto potrebbe essere sia faticosa, sia appagante l’attività di scrittore. Grazie a quell’amico e al corso, ha deciso di continuare a coltivare questa passione sperando, forse un giorno, di trasformarla in qualcosa di più serio. Emilio Sciarrino nasce nel 1988 a Palermo. Si trasferisce nel 1998 a Parigi. Studia al liceo classico. Parte in Giappone da solo con una borsa di viaggio a 17 anni, età in cui inizia a pubblicare scrivendo in Francese e in Italiano. Nel 2008 entra alla Scuola Normale Superiore di Parigi, dove studia Giapponese, Filosofia contemporanea e Cinema. Alla Sorbona studia Letteratura italiana e Letterature comparate. Soggiorna nel 2009 alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Sta scrivendo una tesi sulla poesia trilingue di Amelia Rosselli. Attualmente è a Milano, dove ha lavorato al Centro Culturale Francese alla programmazione culturale. Eclettico e nomade perso tra le biblioteche mondiali, resta comunque figlio degli anni ‘90, dell’11 Settembre, della TV-spazzatura, dei manga, della musica techno ed elettro-rock. Ha pubblicato, sia in lingua italiana, sia in lingua francese all’interno di: Racconti metropolitani, edito da EDUP, Roma, 2006; Prix du jeune écrivain, edito da Buchet-Chastel, 2007. Francesco Segoni è nato in una notte di Natale a Monza, ma il sangue è orgogliosamente toscano. Cresciuto fra le ciminiere dell’hinterland milanese, le zanzare del pavese e i baby-manager della “Bocconi” di Milano, pochi giorni dopo la laurea in Economia è sbarcato nell’amata Londra (proprio mentre sbocciava la rosa del New Labour) con un biglietto di sola andata. È cominciata così la sua avventura nel mondo delle multinazionali, da quelle del petrolio a quelle dell’informatica, passando per cioccolato e mangimi per animali, che per dieci anni lo porta a vivere tra Regno Unito, Messico e Francia. A Parigi, nella primavera del 2006, su una panchina nei giardini di Place des Vosges ha maturato la decisione di dare l’addio al mondo aziendale per iscriversi a un master in giornalismo: una conseguenza tardiva di ciò che ha sempre saputo, ovvero che le parole lo stimolano più dei numeri. Oggi muove i primi passi nella sua nuova vita da reporter, vive a Milano ed è felicemente sposato con Barbara. Oltre a lavorare per l’agenzia Reuters, collabora occasionalmente con “Vanity Fair”, “Il Secolo XIX”, “Corriere.it” e “Il Fatto Quotidiano”. Scrivere, per lavoro, per diletto o per mettere a fuoco i suoi pensieri, è la sua passione. Stelio Zaganelli è nato a Ferrara e vive dall’età di sei mesi nella città di Perugia. Si è diplomato allo Scientifico e laureato a Firenze in Architettura. Dopo un anno di pratica si dedica al design e ricomincia a scrivere. Ha scritto quattro libri, due romanzi e ne sta scrivendo altri due, in attesa di una pubblicazione. Mentre organizza mostre, crea illustrazioni, progetta per aziende e per se stesso, partecipa a concorsi e ristruttura piccole case. Per passione e per mangiare. CAMERA Anna Campanini nasce nel 1973 a Parma, dove tuttora risiede, da padre italiano e madre romena. Si laurea in Lingue e Letterature Straniere all’Università di Parma. Si occupa di fotografia a livello amatoriale dal 2004. Fotografa in bianco e nero (talvolta utilizza anche pellicole diapositive) con una Leica M6 e con una Rolleiflex. Ama molto la “street photography” e tutto ciò con cui, attraverso il cuore e la mente, riesce a ricreare un’immagine figlia della realtà osservata. Ha esposto nel 2007 a Reggio Emilia nell’ambito del Festival della Fotografia Europea. Nel 2008 espone a Parma presso la Galleria Archimmagine e nel 2009 al Palazzo della Rosa Prati nell’ambito del Festival Ottobre Africano con una personale dal titolo Creatura di sabbia (lettura di fotografie in b/n del romanzo dello scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun). Nel 2009 si classifica al terzo posto nel concorso ReggioFotoGrafia Contest. Nina Viviana Cangialosi nasce a Bari. Vive e lavora tra Milano e la Svizzera. Si occupa principalmente di backstage fotografici e foto di scena per il teatro. La sua personale ricerca artistica segue il percorso della fotografia narrativa, attraverso la creazione di diari visivi solitamente accompagnati da testi. Ha pubblicato la sua prima opera scritta sul N°0 della rivista fotografica “RVM” con lo pseudonimo di Nina Kan, introducendo le fotografie di Federico Erra.

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Letizia Lanzarotti ha 18 anni. Dopo un diploma al Liceo Artistico, si è iscritta alla Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Pavia. Ha partecipato a vari concorsi letterari e vinto alcuni premi: secondo posto al Premio giornalistico Uganda Calling (2008, Pavia) e primo posto al Premio Cordone di Vigevano. È stata, inoltre, finalista al Premio letterario Chiara Giovani (Varese) e i suoi racconti sono pubblicati nell’antologia dei finalisti. Ha partecipato ad alcune raccolte di Aletti Editore e pubblicato il suo primo libro, La Maschera, sul sito www.ilmiolibro.it Scrive per due giornali locali (“La Lomellina” e “L’Informatore”) e nel tempo libero si dedica alla pittura, scultura, fotografia e allo studio e sperimentazione dell’arte in ogni sua forma. Viola Mondello, nata a Messina nel 1983, ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Urbino fino al terzo anno, indirizzo Scultura, per poi terminare gli studi all’Accademia di Reggio Calabria. Nel 2003 espone presso il Centro Donna a Urbino in un’installazione collettiva di sculture e poesia: Tra parole e materia. Nel 2004 partecipa ad un simposio su pietra arenaria nella quale produce la prima opera del ciclo Rifugi, traccia portante di tutta la sua idea riguardo le sensazioni che l’uomo moderno trascina con se in ogni attimo della sua esistenza. Nello stesso anno vince il secondo premio ad un concorso internazionale di fotografia a Novara di Sicilia (ME). Nel 2005 partecipa a Open Factory ART 21, installazione collettiva di sculture in ferro presso Costruzioni Sud a Sellia Marina (CZ). Nel 2006 espone Fragile, in ferro e vetro, in alcuni locali notturni della sua città. Durante il 2006 e il 2007 scrive all’interno di una rubrica di arte contemporanea presso www.nokoss.net di cui è anche la direttrice artistica. Nel 2007 realizza diversi cortometraggi e video installazioni che verranno proiettati in diverse rassegne fra cui l’ultima Vertigini creative (Milano). Collabora inoltre con Giuliano Della Rovere nella ricerca di un arte che possa ancora considerarsi pura mediante la sperimentazione. Nel 2007 viene invitata al simposio di scultura del borgo di Novara di Sicilia, in cui collabora assieme a Giuliano della Rovere sotto nome d’arte: “The coniuji Kowalsky”. Nel 2008 viaggia e nel 2009 viene selezionata da GATE 21 per la rassegna video Love Gate, che prevede il gemellaggio di 21 grandi video artisti con 21 giovani artisti siciliani, con il video Rifugi. Vive e lavora a Messina. Stefano Okolicsanyi è nato da madre veneziana e padre ungherese ed è medico specialista. Durante gli studi, da poco terminati, ha avuto la fortuna di viaggiare tra Austria, Inghilterra, Spagna e Stati Uniti. Qualche giorno all’anno si toglie il camice e si traveste da portiere d’albergo a Venezia. Vorrebbe avere la forza di volontà necessaria per praticare più sport di quanto faccia. Spesso pianifica viaggi che è costretto a ridimensionare. Oltre al lavoro in ospedale e qualche hobby artigianale casalingo, si dedica alla sua ragazza e a cercare di sentirsi un giorno cittadino del mondo. Spesso perde le chiavi.

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Francesca Parenti Brambilla nasce a Parma nel 1982. Nel 2005 si laurea in Scienze della Comunicazione in questa stessa città. Nel 2009 consegue invece la laurea specialistica in Giornalismo e cultura editoriale con una tesi in fotogiornalismo dedicata all’opera di Alex Majoli, reporter di Magnum Photos. Segue il corso di Storia della fotografia presso l’Università di Parma tenuto dal fotografo Giovanni Chiaramonte e nel frattempo frequenta a Milano l’Istituto Italiano di Fotografia, in cui si diploma nel 2006. In quello stesso anno partecipa all’esposizione fotografica collettiva Vigevanessitudini presso l’Unione del Commercio di Milano. L’anno successivo realizza un vasto progetto fotografico dedicato alla rappresentazione teatrale, seguendo la Compagnia del Teatro di Gualtieri durante la preparazione di uno spettacolo. Attualmente collabora come fotografa e giornalista per diverse testate (“L’informazione” di Parma, “DeGusto”, ilgiò.net) e continua ad approfondire la riflessione pratica e teorica sulla fotografia. Nel mese di dicembre 2009 tiene la prima esposizione personale presso l’auditorium di OF Orsoline Fidenza con un reportage sul Centro Cure Palliative e la pubblicazione presso Mattioli 1885 del volume fotografico Stanze di Luce: Immagini di Vita in Hospice (con una prefazione di Paolo Barbaro). Indissolubilmente legata alla pellicola e al mondo analogico rappresentato dalla sua Canon A1, predilige il bianco e nero, i contrasti forti e tutto ciò che le permette di trovare «un momento di condivisione autentica» con i luoghi e le persone. Vera Roveda ha 25 anni ed è di Brescia, ma ha frequentato il Corso di laurea triennale di Scienze della Comunicazione a Bologna, città dove sta terminando anche gli studi della Laurea specialistica in Cinema, Televisione e Produzione Multimediale. Si appassiona a letture e viaggi, ma soprattutto ama lavorare con le immagini, fotografiche e in movimento.


Valentina Scaletti è nata nel 1983 a Parma dove vive e lavora. Nel 2008 si diploma in scultura 110/110 all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Durante gli anni trascorsi all’Accademia, oltre alla modellazione della creta, si è avvicinata alla fotografia e alla tecniche di incisione e fonderia, ottenendo ottimi risultati. Nel 2001 partecipa alla collettiva di scultura, grafica e pittura “Omaggio a Marzaroli Scultore” presso le Serre Comunali di Salsomaggiore Terme (Parma). Nel 2001 e 2002 espone a due edizioni della Mostra Nazionale di Ceramica presso il centro Allende dell’Associazione Culturale Dante Alighieri (La Spezia). Dal 2004 collabora con la Galleria d’Arte Babele di Firenze. Sempre nel 2004 partecipa alla collettiva di scultura Visioni Plastiche al castello di Felino (Parma). Nel 2006 partecipa ad un’esposizione di terrecotte e ceramiche nel parco di Villa Malenchini, a Carignano (Parma) e nel 2007 partecipa all’evento culturale Arte e Portici a Bologna e alla collettiva di fotografia, scultura, grafica, pittura con l’Associazione Culturale Veda-Visioni a Medesano (Parma). Sempre nello stesso anno partecipa anche alla collettiva di scultura e fotografia presso il convento dei Cappuccini di Fontevivo (Parma), alla terza edizione della collettiva di scultura Terrecotte del Po a Mezzano Inferiore (Parma) e alla collettiva di scultura e pittura presso la Scuola di Arti e Mestieri F. Bertazzoni di Suzzara (Mantova). Nel 2008 partecipa alla collettiva di scultura Eventi scultorei cinque, presso le sale del Comune di Crespellano (Bologna), alla quarta edizione della collettiva di scultura Terrecotte del Po a Mezzano Inferiore (Parma). Nel 2009 partecipa alla collettiva di scultura, fotografia e pittura Alla ricerca del filo bianco presso Palazzo Giordani a Parma, espone una personale Alice e My secret garden al Ground’s Art Gallery dell’Associazione Culturale 360° (Parma) e presenta con Vetrina Flash, a cura dell’Archivio Giovani Artisti di Parma, l’esposizione Alice presso la vetrina d’arte di piazzale Cesare Battisti. Iacopo Vaja è nato nel 1979 a Parma dove vive e lavora. Laureato in Ingegneria Meccanica ha recentemente conseguito un Dottorato di Ricerca in Ingegneria Industriale presso l’ateneo di Parma. Nei suoi lavori fotografici, che ultimamente si concentrano su architettura industriale, archeologia industriale e contesti produttivi, si fondono elementi mutuati dalle due passioni: fotografia e ingegneria. Ha esposto all’Art Box dell’Archivio giovani artisti del Comune di Parma una serie di immagini su elementi architettonici di edifici della sua città cercando una rappresentazione fortemente grafica e astratta. MATITA Melania Bianucci nasce nel 1983 a Pescia. Nel 2008 consegue il Diploma d’Illustratrice presso la Scuola Comics. Nel 2001 si classifica al secondo posto come progettista grafico a un concorso istituito da Magilla S.r.l. Nel 2005 espone all’interno della manifestazione Bando delle Donne, indetto dal comune di Castelfiorentino e nel 2008 viene pubblicata nel catalogo del Concorso Disegni al sole in concomitanza con la fiera del libro di Celle Ligure Libri al Sole. Nel 2008 espone, inoltre, presso il Bar Roma di Porretta Terme in occasione dell’evento Città dei bambini. Lavora come collaboratrice presso il Museo della Carta di Pietrabuona. Sonia Cattaneo è nata a Cantù nel 1982. Studia al liceo artistico di Giussano per poi diplomarsi all’ISIA di Urbino in Progettazione grafica. Inizia la sua attività come illustratrice nel 2005 collaborando con la Loescher Editore di Torino. Ha ricevuto premi e segnalazioni in diversi concorsi d’illustrazione. Ha collaborato con la rivista italiana “Slowfood” e con la Raffaello Editrice. Martina Masotti è nata nel 1981 a Piombino. Dopo aver conseguito la Laurea in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Carrara inizia a partecipare a numerose collettive: nel 2006 al C.s.o.a. May Day di La Spezia, al C.s.o.a. Boccaccio di Monza e al C.s.o.a. Godzilla di Livorno; nel 2007-2008-2009 partecipa alla manifestazione Crack, fumetti dirompenti al Forte Prenestino di Roma; nel 2009 partecipa alla collettiva Inondarti presso la Facoltà di Lettere di Bologna e alla mostra al C.s.o.a. Vag 61 nell’ambito della manifestazione artistica ArterEgo, Bologna. Ha partecipato anche a numerosi concorsi e festival: Extempore 2004 (Suvereto, LI); V° Concorso internazionale Il corto letterario e l’illustrazione (2008); Premio Via Roma 33 Caffè (2008); Festival Internazionale del Fumetto di Lucerna (2008); Concorso Strisce di jazz (Piacenza, 2008); Concorso Calendario Duemila9 indetto dall’associazione Tapirulan (2008). Martina autoproduce inoltre fumetti (Toystrip 2007, C2H60 2008, Arbeit Macht Frei 2009, R.I.P. 2009), borse, agende, costumi, pupazzi e calendari. Decora camerette per bambini, asili e negozi di vario genere.

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Ettore Tomas è nato in provincia di Napoli nel 1979 e vive a Sasso Marconi. Dopo una maturità scientifica e una laurea presso l’Accademia di Belle Arti in Decorazione, è attualmente iscritto al biennio specialistico presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna nel corso di Grafica. Dal 2003 partecipa a mostre, concorsi, progetti, Mail Art: mostra Indicativo Presente a cura dell’Associazione Artincanti, presso Palazzo Albertini a Forlì (2007); mostra personale presso l’ex Convento di San Francesco a Bagnacavallo (2007); partecipazione alla mostra Libri Mai Visti, organizzata dalla Biblioteca comunale di Sasso Marconi (2007); partecipazione alla mostra La Collana bianca si colora in collaborazione con l’agenzia Einaudi di Forlì, presso la Biblioteca Giovanna Righini Ricci a Conselice (2007); selezionato e pubblicato nel catalogo al III Concorso Internazionale Ex Libris “Biblioteca di Bodio Lomnago” Opera e Melodramma (2007); partecipazione e pubblicazione nel libro-catalogo, al progetto The Screamer Company (2007, Austin, Texas); partecipazione alla manifestazione Abstracta, presso Filmstudio 80 Roma.(2007); selezionato al concorso internazionale ex libris Tauragei 500, presso Tauragé (2007, Lituania); partecipazione al progetto ART=START+ a cura di Ko De Jonge (2007, Middelburg, Olanda). Nell’ambito dei progetti Mail Art, nel 2008 ha partecipato a: The mailartists’ horse a cura del Dott. Lutz Wohlrab (Berlino); Mailartissimo a cura di Karin Weber (Dresda); Energy for you and me a cura di Ebedhard Janke (Edizioni Janus Mail Art Catalogue 4); Mail Sound Art Project “1 minute Auto Hipnosis” a cura di Pedro Bericate (Mute Sound); Mailartissimo 2007, comprensivo di catalogo, a cura di Svetlana Serebryakova presso The A.S. Popov Central Museum of Communications, Saint-Petersburg, I Bienal Internacional del pequino formato, comprensiva di catalogo (Venezuela). Nel 2008 ha partecipato al concorso internazionale Exlibris Exibition “50 years of Siuliai University Humanities Faculty”, Siauliu, Lituania e al relativo catalogo e all’intervento murale a Creativa 2008, a cura di Franco Piri Focardi; selezionato per la manifestazione Quotidiana09, Padova; partecipazione alla mostra Art books, presso la biblioteca di Conselice (RA); partecipazione a Libri d’artista in galleria, a cura di Lamberto Caravita presso Galleria Magma, Bologna (11-18 Giugno). Nel 2009 viene selezionato per la manifestazione Quotidiana09 a Padova; partecipa alla mostra Art books, presso la biblioteca di Conselice (RA); partecipa a Libri d’artista in galleria,presso Galleria Magma, Bologna; partecipa a STUPOR MUNDI Metamorfosi di un Libro, presso Palazzo Grassi, Aredo (LE) e al Castello angioino di Mola di Bari; partecipa a Lavori incorsod’opera con un intervento pittorico a centro giovani JYL, a cura di Lamberto Caravita.

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realizzato da

edizioni

La rivista letteraria «La Luna di Traverso», edita dalla Casa editrice Monte Università Parma, condivisa e supportata dall’Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia, struttura dell’Assessorato al Benessere e alla Creatività Giovanile del Comune di Parma, bandisce un NUOVO CONCORSO PER NARRATORI, FOTOGRAFI e ILLUSTRATORI dal tema SILENZIO, che andrà a costituire l’edizione n°26 quale parte dell’articolato programma di narrativa e poesia “BORN TO WRITE”. “BORN TO WRITE” è un’iniziativa inserita all’interno di ITALIA CREATIVA, progetto per il sostegno e la promozione della giovane creatività italiana a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Gioventù in collaborazione con l’ANCI Associazione Nazionale Comuni Italiani e il GAI Associazione per il Circuito dei Giovani Artisti italiani. Italia Creativa è rivolta a tutti gli artisti italiani attraverso un sistema di attività di network promosse sull’intero territorio nazionale da alcune città capofila. Scopo del progetto è proporre nuove attività in una prospettiva di sviluppo per il sostegno della creatività giovanile attraverso iniziative di formazione, documentazione, promozione e ricerca. Il programma, fondato su linee prioritarie di azione e settori d’intervento primari, affronta a tutto campo temi quali la produzione creativa, il rapporto tra creatività e mercato, la promozione del talento, la conoscenza, la crescita professionale, la creazione di infrastrutture. In questo percorso le azioni concrete già intraprese costituiscono il punto di partenza per indicare le prospettive di sviluppo. “BORN TO WRITE”, realizzato dall’Assessorato al Benessere e alla Creatività Giovanile del Comune di Parma e dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Firenze, in collaborazione con Monte Università Parma Editore, intende proporre delle opportunità di confronto fra giovani autori e affermati esperti nel settore della Letteratura, finalizzate alla crescita professionale delle giovani energie creative. Intende inoltre promuovere il lavoro dei giovani autori attraverso strumenti promozionali capaci di presentare le loro opere ad un vasto pubblico, nonché agli esperti di settore. «La Luna di Traverso» si inserisce in questo programma con l’obiettivo di creare, nelle proprie pagine, un luogo d’incontro tra nuovi giovani scrittori, nel quale essi possano sperimentarsi e confrontarsi, dar vita a uno spazio mirato dove vedere finalmente pubblicati i propri scritti. La rivista vuole porsi, dunque, come territorio d’esercizio letterario, momento di dialogo culturale, aperto alle diverse forme di linguaggio artistico, e come proposta di possibilità di crescita e di miglioramento delle potenzialità narrative dei giovani scrittori.

Per ulteriori informazioni relative all’iniziativa “Born to Write” www.borntowrite.it

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REGOLAMENTO Art. 1 - TEMA DEL CONCORSO Il nuovo tema dell’edizione n°26 de «La Luna di Traverso» è SILENZIO: inteso come assenza di suono, ma anche come scelta voluta o imposta. Necessità di meditazione, ma anche stupore per qualcosa di straordinario. Protesta muta, afonia di fronte a qualcosa che non va. Art. 2 – REQUISITI PER LA PARTECIPAZIONE Il bando è rivolto a giovani autori operanti nei settori della narrativa in età compresa tra i 18 e i 35 anni residenti, domiciliati, studenti o lavoratori nel territorio nazionale. Si richiede materiale inedito in lingua italiana, che non sia stato premiato ad altri concorsi o già pubblicato anche parzialmente oppure presente in Internet. La partecipazione al bando è gratuita. Art. 3 – MODALITÀ DI PARTECIPAZIONE e INVIO DEI MATERIALI Opere narrative: si ammettono racconti originali ed inediti per una lunghezza massima di 5400 battute, spazi inclusi. Il materiale dovrà essere inviato via mail a giovani@comune.parma.it o tramite posta su cd rom. Fotografie: si accettano opere originali e non pubblicate. Ogni autore dovrà presentare 5 fotografie in formato 10x15 in bianco e nero facendole pervenire su file, su negativo o su supporto magnetico (cd rom) con risoluzione minima 300 dpi. Illustrazioni: si ammettono da un minimo di 3 a un massimo di 5 tavole in bianco e nero del formato massimo di un foglio A4 (21x29.7 cm). È preferibile scansionare ed inviare il materiale via mail o tramite posta su cd rom, con risoluzione minima 300 dpi. Chi volesse, può comunque inviare le proprie opere per posta tradizionale, facendole pervenire al seguente indirizzo: Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia c/o Palazzo Pigorini, via Repubblica, 29 – 43121 Parma. Per una maggiore valorizzazione, fruizione e aderenza agli intenti artistici e comunicativi di ogni fotografo o illustratore si richiede, ove lo stesso autore lo ritenga utile e necessario, di indicare il titolo della propria opera, le dimensioni e la tecnica utilizzata. Questi dati verranno indicati come didascalia di accompagnamento alle fotografie o illustrazioni che verranno scelte per la pubblicazione. Le opere di tutti i partecipanti dovranno essere accompagnate da una breve biografia dell’autore corredata dai dati personali (nome, cognome, indirizzo, recapiti telefonici, indirizzo e-mail). Farà fede il timbro postale. Eventuali attestati di partecipazione al concorso saranno assegnati agli artisti che ne faranno richiesta solo qualora i loro lavori vengano selezionati. Art. 4 – TRATTAMENTO DEI DATI PERSONALI e RESPONSABILITÀ In relazione alla previsione che il materiale possa essere pubblicato, in esecuzione del Decreto Legislativo n. 196 del 30 giugno 2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali), il partecipante fornisce il proprio consenso al trattamento dei propri dati personali. Ogni autore partecipante sarà responsabile per i contenuti della propria opera. Inoltre i candidati si faranno garanti che l’opera presentata è originale, che non è mai stata premiata né presentata in altri concorsi, né mai pubblicata nemmeno parzialmente né immessa nella rete internet.

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Art. 5 - CRITERI DI SELEZIONE e PREMIO Per la valutazione delle opere si terrà conto della qualità, dei percorsi di ricerca formale e dell’originalità dei testi e delle immagini. Il premio del concorso consiste nella pubblicazione dell’opera sulla rivista “La Luna di Traverso”. Solo i vincitori saranno contattati dalla redazione e riceveranno al proprio domicilio due copie omaggio. Non si accettano racconti già editi o che hanno partecipato a bandi precedenti. Le decisioni della Commissione saranno inappellabili e il materiale non verrà restituito. Partecipando all’eventuale selezione, si concede il diritto, a titolo gratuito, di prima edizione delle opere inviate senza avere nulla a pretendere come diritto d’Autore. Art. 6 – SCADENZA Le opere devono essere consegnate entro e non oltre le ore 12.00 del 15 marzo 2010. INFORMAZIONI Per ulteriori informazioni, rivolgersi ai seguenti numeri di telefono: 0521.384469-468-467-470, oppure agli indirizzi di posta elettronica: giovani@comune.parma.it - redazione@lunaditraverso.it Orari di ufficio Archivio Giovani Artisti: dal lunedì al venerdì, dalle ore 9.00 alle 13.00; lunedì e giovedì anche dalle ore 15.00 alle 17.00. Siti web: www.giovaniartisti.comune.parma.it - www.lalunaditraverso.it




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