SOMMARIO
ITALIA CREATIVA sostegno e promozione della giovane creatività italiana
Incipit d'autore Lettere a un giovane poeta di Rainer Maria Rilke
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Racconto d'autore I pulcini di Diego De Silva
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Nunzia è diventata una sedia Testo di Maria Cerino
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in collaborazione con
e
realizzato da
Baci rubati Testo di Felice Cavalli
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Calma apparente Testo di Walter Serra
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Colloquio Testo di Andrea Tinterri
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Napoli 1840, esecuzione capitale Testo di Giuseppe Costantino Budetta
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Ho scritto sul muro Testo di Roberto Stradiotti
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ORGANIZZAZIONE E COORDINAMENTO Mariella Toscani - Responsabile Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia
Il cammello Testo di Pietro Iannibelli
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REDAZIONE Silvia Bia, Enrico Cantino, Simona De Blasio, Carlotta Fiore, Roberta Gatti, Armando Minuz, Federica Sassi, Denis Zuliani
La gru gialla Testo di Michele Rossini
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QWERTY Testo di Alberto Calorosi
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Segni di un nuovo tempo romano Testo di Maria Claudia Bada
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PROMOZIONE E DISTRIBUZIONE PDE - Promozione Distribuzione Editoriale
Times e china Testo di Ivano Porpora
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LALUNADITRAVERSO 2008 - Anno 8 - Numero 22 Monte Università Parma Editore - Vicolo al Leon d’Oro, 6 43100 Parma
Questione di carattere... Testo di Enrico Cantino
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INFORMAZIONI Per collaborare alla rivista scrivi all'indirizzo redazione@lalunaditraverso.it oppure telefona all’Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia (Via Repubblica, 29 Palazzo Pigorini 43100 Parma, giovani@comune.parma.it tel. 0521/384469-70).
Biografie
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Chi Siamo DIRETTORE Massimo Carta VICE DIRETTORI Guido Conti, Federica Pasqualetti
RELAZIONI ESTERNE Andrea Rabaglia IDEAZIONE GRAFICA Alessandro Berti REALIZZAZIONE Simone Pellicelli STAMPA La Stamperia - Parma
RUBRICHE
Il giudizio e il lavoro editoriale della redazione sono insindacabili e accettati implicitamente. Gli autori pubblicati riceveranno due copie in omaggio. La Luna di Traverso è sostenuta dall'Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia e dall'Assessorato alle Politiche Culturali e alla Creatività Giovanile. Scatto di copertina: Gianfranco De Simone, Lettere in ascesa
www.lalunaditraverso.it www.comune.parma.it/iniziativeculturali
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ERRATA CORRIGE Anno 8 n° 21 – 2008, pag. 1: l’autore del racconto “Non faccio più la lista della spesa” è Davide Nonino.
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ITALIA CREATIVA sostegno e promozione della giovane creatività italiana
in collaborazione con
realizzato da
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Scrivere è fede in una magìa: che un aggettivo possa giungere dove non giunse, cercando la verità, la ragione; o che un avverbio possa recuperare il segreto che si è sottratto a ogni indagine. Elio Vittorini, Diario in Pubblico
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Times New Roman, altro non è che un rimando diretto alla scrittura. Da otto anni “La Luna di Traverso” si occupa di scrittura, ponendosi come territorio d’esercizio letterario, luogo d’incontro tra nuovi giovani scrittori e laboratorio volto alla crescita delle potenzialità narrative dei giovani scrittori. La rivista viene pubblicata dalla Casa editrice Monte Università Parma ed è condivisa e supportata dall’Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia, struttura dell’Assessorato alle Politiche Culturali e alla Creatività Giovanile del Comune di Parma. Alla luce di questo impegno, «La Luna di Traverso» è entrata a far parte di un importante Progetto di scrittura denominato “BORN TO WRITE”, inserito all’interno di ITALIA CREATIVA, progetto per il sostegno e la promozione della giovane creatività italiana a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Gioventù in collaborazione con l’ANCI Associazione Nazionale Comuni Italiani e il GAI Associazione per il Circuito dei Giovani Artisti Italiani. Italia Creativa è rivolta a tutti gli artisti italiani attraverso un sistema di attività di network promosse sull’intero territorio nazionale da alcune città capofila. Scopo del progetto è proporre nuove attività in una prospettiva di sviluppo per il sostegno della creatività giovanile attraverso iniziative di formazione, documentazione, promozione e ricerca. Il programma, fondato su linee prioritarie di azione e settori d’intervento primari, affronta a tutto campo temi quali la produzione creativa, il rapporto tra creatività e mercato, la promozione del talento, la conoscenza, la crescita professionale, la creazione di infrastrutture. In questo percorso le azioni concrete già intraprese costituiscono il punto di partenza per indicare le prospettive di sviluppo. “BORN TO WRITE”, realizzato dagli Archivi Giovani Artisti di Parma e Firenze, strutture degli Assessorati alla Cultura dei Comuni di Parma e di Firenze e da Monte Università Parma Editore, intende proporre delle opportunità di confronto fra giovani autori e affermati esperti nel settore della Letteratura, finalizzate alla crescita professionale delle giovani energie creative. Intende inoltre promuovere il lavoro dei giovani autori attraverso strumenti promozionali capaci di presentare le loro opere a un vasto pubblico, nonché agli esperti di settore. Il progetto si sviluppa nelle seguente fasi: diffusione di un bando nazionale “BORN TO WRITE” (2009) attraverso il quale selezionare i materiali degli autori che parteciperanno al progetto; attivazione di un sito specifico sul progetto “BORN TO WRITE”; stampa dell’antologia di poesia Nodo Sottile 2008, promossa dall’Archivio Giovani Artisti di Firenze; stampa di tre numeri, durante il 2008, de “La Luna di Traverso”, rivista di Narrativa che coinvolge anche altri settori artistici (Fotografia, Illustrazione) promossa dall’Archivio Giovani Artisti di Parma; edizione di Inchiostri d’Autore 2008, rassegna su tematiche letterarie (Letteratura, Storia, Filosofia, Poesia, Laboratori di Scrittura, Incontri con Autori) che si svolge a Parma; stampa di altri tre numeri della rivista “La Luna di Traverso” (2009), promossa dall’Archivio Giovani Artisti di Parma; svolgimento del laboratorio di Poesia Nodo Sottile (2009), organizzato dall’Archivio Giovani Artisti di Firenze; stampa dell’antologia “BORN TO WRITE”, sezione Narrativa (2009); stampa dell’antologia “BORN TO WRITE”, sezione Poesia (2009); edizione di Inchiostri d’Autore 2009, Parma; Conferenza Stampa nazionale di presentazione del Progetto.
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Abbiamo pensato che un carattere tipografico del 1932 facesse al caso nostro. Un caposaldo della stampa, ci siamo detti. Un pretesto per cercare di invogliare giovani scrittori esordienti a concentrarsi su storie dalle più disparate nature, di cucire trame e intrecci di narrazioni credibili, incredibili, reali e irreali. Ecco perché abbiamo scelto Times New Roman per il numero ventidue de “La Luna di Traverso”: per provocarvi. Per vedere con gli occhi nascosti fra le pagine della rivista se siete “nati per scrivere”. Ci siamo riusciti? Forse sì, ma il risultato è sia positivo sia negativo. Ci siamo, infatti, resi conto che è difficile svincolare gli aspiranti scrittori di oggi dai preconcetti, o meglio, dall’abitudine di prendere ogni cosa “alla lettera”. È molto difficile liberare i neofiti dai milioni di modelli, buoni o cattivi che siano, proposti dal mercato. Ed è ancora più difficile aiutarli a cercare le loro storie e le loro parole. Ci aspettavamo un’ondata di racconti pulsanti, fantasiosi, diversissimi fra loro. Invece abbiamo in gran parte ricevuto racconti in cui il protagonista era Times, New Roman, Times New Roman, una lettera, un carattere, la scrittura, la letteratura. Poche storie e tanti oggetti. È vero, però, anche il contrario: gli undici racconti scelti parlano di tante altre cose. C’è il diciassettenne di Felice Cavalli in crisi adolescenziale che ruba una macchina; la guerra e i codici cifrati di Walter Serra; i tic concettuali del personaggio creato da Andrea Tinterri; il povero Ciccio di Giuseppe Costantino Budetta; le parole che parlano al cuore di Roberto Stradiotti; Petr Nicolaevič Fofonov quasi morto di noia se non fosse per il cammello che gli ha dato Pietro Iannibelli; lo sguardo piccolo e claustrofobico di Michele Rossini; l’agonia della verità di Maria Cerino; la tastiera di Alberto Calorosi; i ricordi di Lisa che annota, con precisione, Maria Claudia Bada; infine, un Times New Roman perfetto appiccicato nel centro di Bologna da Ivano Porpora. Niente è perduto, dunque. E per ribadirlo ancora e ancora, come monito e esempio importante, siamo lieti di proporre un meraviglioso racconto d’autore inedito di Diego De Silva: una piccola perla di precisione letteraria, un piccolo scrigno di sentimenti semplici e grandi. Ora vi lasciamo immergere nella lettura con un solo monito, un esercizio più che un consiglio: fate finta di avere davanti a voi il vostro più grande mito; grande, alto e con un vocione forte e sincero. E mentre vi prefigurate nella testa che siete lì ad ascoltarlo, guardatelo intanto che spazia nella sua memoria e vi consiglia, senza dirlo, libri e visioni. E provate a raccontare: scrivete non con un “carattere prestampato”, ma con le vostre parole. Quelle con cui avete immaginato di scrivere da sempre.
Illustrazione di Ilaria Arpa, Grunge Times
Editoriale
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Incipit d'autore Parigi, 17 febbraio 1903 Egregio Signore, La vostra lettera m’ha raggiunto solo qualche giorno fa. Voglio ringraziarvi per la sua grande e cara fiducia. Poco più posso. Non posso entrare e diffondermi sulla natura dei vostri versi; ché ogni intenzione critica è troppo remota da me. Nulla può tanto poco toccare un’opera d’arte quanto un discorso critico: si arriva per quella via sempre a più o meno felici malintesi. Le cose non si possono afferrare o dire tutte come ci si vorrebbe di solito far credere; la maggior parte degli avvenimenti sono indicibili, si compiono in uno spazio che mai parola ha varcato, e più indicibili di tutto sono le opere d’arte, misteriose esistenze, la cui vita, accanto alla nostra che svanisce, perdura. (…)
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Voi domandate se i vostri versi siano buoni. Lo domandate a me. L’avete prima domandato ad altri. Li spedite a riviste. Li paragonate con altre poesie e v’inquietate se talune redazioni rifiutano i vostri tentativi. Ora (poiché voi mi avete permesso di consigliarvi) vi prego di abbandonare tutto questo. Voi guardate fuori, verso l’esterno e questo sopratutto voi non dovreste ora fare. Nessuno vi può consigliare e aiutare, nessuno. C’è una sola via. Penetrate in voi stesso. Ricercate la ragione che vi chiama a scrivere; esaminate s’essa estenda le sue radici nel più profondo luogo del vostro cuore, confessatevi se sareste costretto a morire, quando vi si negasse di scrivere. Questo anzitutto: domandatevi nell’ora più silenziosa della vostra notte: devo io scrivere? Scavate dentro voi stesso per una profonda risposta. E se questa dovesse suonare consenso, se v’è concesso affrontare questa grave domanda con un forte e semplice «debbo», allora edificate la vostra vita secondo questa necessità. La vostra vita fin dentro la sua più indifferente e minima ora deve farsi segno e testimonio di quest’impulso. Poi avvicinatevi alla natura. Tentate come un primo uomo al mondo di dire quello che vedete e vivete e amate e perdete. Non scrivete poesie d’amore; evitate all’inizio le forme troppo correnti e abituali: sono esse le più difficili, ché occorre una grande e già matura forza a dar qualcosa di proprio dove si offrono in gran numero buone tradizioni, anzi splendide in parte. Perciò salvatevi dai motivi generali in quelli che la vostra vita quotidiana vi offre; raffigurate le vostre tristezze, e nostalgie, i pensieri passeggeri e la fede in qualche bellezza, raffigurate tutto questo con intima, tranquilla, umile sincerità e usate, per esprimervi, le cose che vi circondano, l’immagine dei vostri sogni e gli oggetti della vostra memoria. Se la vostra vita quotidiana vi sembra povera, non l’accusate; accusate voi stesso, che non siete assai poeta da evocarne la ricchezza; ché per un creatore non esiste povertà né luoghi poveri e indifferenti. E se anche foste in un carcere, le cui pareti non lasciassero filtrare alcuno dei rumori del mondo fino ai vostri sensi – non avreste ancora sempre la vostra infanzia, questa ricchezza preziosa, regale, questo tesoro dei ricordi? Rivolgete in quella parte la vostra attenzione. Tentate di risollevare le sensazioni sommerse di quel vasto passato; la vostra personalità si confermerà, la vostra solitudine s’amplierà e diverrà una dimora avvolta in un lume di crepuscolo, oltre cui passa lontano il rumore degli altri. E se da questo viaggio all’interno, da quest’immersione nel proprio mondo giungono versi, allora non penserete a interrogare alcuno se siano buoni versi; né tenterete di interessare per questi lavori le riviste: ché in loro vedrete il vostro caro possesso naturale, una parte e una voce della vostra vita. Una opera d’arte è buona, s’è nata da
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necessità. In questa maniera della sua origine risiede il suo giudizio: non ve n’è altro. Perciò, egregio signore, io non vi so dare altro consiglio che questo: penetrare in voi stesso e provare le profondità in cui balza la vostra vita; alla sua fonte troverete voi la risposta alla domanda se dobbiate creare. Accoglietela come suona, senza perdervi in interpretazioni. Forse si dimostrerà che siete chiamato all’arte. Allora assumetevi tale sorte e portatela, col suo peso e la sua grandezza, senza mai chiedere il compenso, che potrebbe venir di fuori. Ché il creatore dev’essere un mondo per sé e in sé trovare tutto, e nella natura, cui s’è alleato. Ma forse anche dopo questa discesa in voi stesso e nella vostra solitudine dovrete rinunciare a divenire poeta; (basta, come ho detto, sentire che si potrebbe vivere senza scrivere, per non averne più il diritto). Ma anche allora questa immersione, di cui vi prego, non sarà stata invano. La vostra vita di lì innanzi troverà senza dubbio vie proprie, e che vogliano essere buone, ricche e vaste, questo io ve lo auguro più che non possa dire. Che vi debbo ancora dire? A me tutto sembra accentuato secondo il suo merito; e infine volevo consigliarvi ancora solo di sostenere lo sviluppo calmo e serio; non lo potete disturbare più violentemente che se guardate fuori e attendete di fuori risposta a domande, cui può forse rispondere solo il vostro più intimo sentimento nella vostra ora più sommessa. (…) Vi rimando insieme i versi che amichevolmente m’avete voluto confidare. E vi ringrazio ancora per la grandezza e cordialità della vostra fiducia, di cui ho tentato di rendermi un po’ più degno di quello che io, come estraneo, realmente non sia, con questa risposta sincera, data secondo la mia miglior coscienza. Con ogni devozione e simpatia Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, Adelphi
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Scatto di Elisabetta Borda, Letture d'autunno
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Racconto d'Autore Testo di Diego De Silva Scatto di Elisabetta Borda, Prime letture
I pulcini a mia figlia
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Quel bambino che cammina da solo fra le bancarelle, lo conosco. So a che ora è uscito di casa, so quanto ha dovuto discutere con sua madre per strapparle quel permesso. Ricordo ognuna delle raccomandazioni che gli ha fatto prima di lasciarlo andare; ricordo i suoi vestiti e l’espressione del suo viso sul balcone mentre lui girava l’angolo alla fine della strada. Porta un occlusore, una ventosa color cerotto, alla lente destra. Non gli sta male, lo rende solo più indifeso all’apparenza. Ha dei soldi, nella mano destra. Li stringe come un segreto. Ho riconosciuto altri occhi come i miei, che incrociandolo lo hanno guardato con l’ansia gonfia dei padri. Ci siamo scambiati quella responsabilità, poi ci siamo persi fra gli altri. L’estraneo coi figli bambini per mano mi ha rovesciato addosso l’incarico e s’è lasciato ingoiare dalla folla. Allora lo seguo io, fingendo con me stesso di non farlo apposta, per nascondere il timore che possa succedergli qualcosa. In una fiera si è più soli, ed è più difficile il ritorno. Mi vergogno della mia apprensione, non è così che si cresce, ma lo proteggerò finché è possibile, anche se lui non lo sa. Non è venuto qui per caso. Lo so che cosa cerca. Ha aspettato un anno intero per tornare. Quando, l’altra volta, aveva visto la bancarella dei pulcini, stringeva la mano di sua madre. Aveva provato a rallentare, quando c’erano passati accanto. Avrebbe voluto chiederle di fermarsi, anche solo per guardare. Erano in una scatola rettangolare, rossi, gialli, azzurri; uno solo verde. Lui avrebbe voluto quello. Non disse niente. Si vergognava, non sa perché. Paura di sentirsi dire di no, o paura di dire, soltanto. Ci sono un sacco di cose che non si dicono ai genitori, non è vero che i bambini si confidano. Forse ce l’ha un po’ con sua madre per non aver capito che desiderava tanto quella cosa. Adesso vuol prendersela, per questo non ha voluto nessuno accanto. Eccolo là. Sa già dove deve andare. Il posto è sempre quello. Anche l’uomo che li vende non è cambiato. Si avvicina, il cuore gli batte. Quale vuoi, dice il venditore sorridendo. Lui indica subito. L’uomo si china sulle ginocchia, tira fuori una scatola piccola e marrone con il coperchio bucherellato, gli prende il pulcino senza delicatezza, lo chiude nella scatola mentre quello pigola disperandosi. Gli dò i soldi contati. Lui li conta con gli occhi, mi dà la scatola. Io gli volto le spalle, sollevo subito il coperchio. Avvicino la punta dell’indice al pulcino. Lui smette subito di pigolare, si rintana in un angolo, trema. Allora richiudo. Tengo la scatola in tutt’e due le mani, come non fosse abbastanza al caldo lì dentro, e mi allontano. La gente mi scansa. Qualcuno sorride. Una donna mi tocca i capelli. Il suo bambino si sporge, incuriosito dal pigolio che riprende. Io mi ritraggo. È stato lui che ti ha spaventato, penso. E sollevo un’altra volta il coperchio, ma poco. Lo vedo lì, buffissimo in quel colore che non è suo. Batte le ali come volesse imparare a volare. Il fondo della scatola è già sporco. Allora gli parlo mentre esco dalla fiera e riprendo la strada di casa. Ti proteggerò io, gli dico con un filo di voce. Ti proteggerò io finché è possibile, anche se tu non lo sai.
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Nunzia è diventata una sedia Testo di Maria Cerino Scatto di Matteo Varsi
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Al quinto giorno di terapia ci si sarebbe aspettati un miglioramento, magari che quel pezzo di carta assorbente attaccato alla lingua – quando ne rimangono scampoli dopo che le hanno pulito la bocca dai resti del pranzo – lo portasse via lei con le sue stesse dita, invece che lasciarlo ad asciugarsi su un po’ di saliva per poi essere strappato via come un cerotto. E la lingua che sanguina. Cinque giorni sono pochi, ha detto la massaggiatrice – che massaggiatrice non è, figurarsi se per Nunzia fa differenza – mentre si allontana dalla cucina, cercandosi nelle tasche le chiavi della macchina. Nunzia non li distingue i volontari che entrano a mani libere ed escono sfregandosi la fronte. A ottantasei anni vorrebbe solo gioire della sua malattia che dell’età non le ricorda nulla e che all’immobilità cui è costretta non suggerisce alternativa. È come se fosse nata paralizzata e, con l’Alzheimer nel corpo, non fosse altro che un corpo di neonata addormentata per tutta la vita. Le dita stanno bene a Nunzia se gliele lasciano poggiate sulle ruote della sedia a rotelle. Spostargliele anche solo per un secondo equivale a imporle un peso che non appartiene al suo fisico. Se le mani le conduci al suo ventre lei rimane fissa ad osservarle come se fosse la prima volta che le vede. Conosce ogni membra solo per via della posizione che occupa: le gambe sul cuscino, i piedi sui poggiapiedi, le braccia verso lo schienale e poi sui braccioli, le mani sulle ruote con le dita che si curvano in semicerchio. Nell’angolo dove arriva bene la luce. È un corpo contratto. Consumato. Come se fosse rimasta una pellicola di pelle su un ammasso di nervi. Le fai male anche solo se cerchi di raddrizzarla. Di tenere in un verticale o un orizzontale perfetto anche solo dieci centimetri delle ossa. Nunzia è diventata una sedia. Una vecchia sedia che scricchiola per un solo grammo di peso in più. Angela per farla divertire – ma che divertimento, ancora? – le mette davanti Ennio mezzo nudo che cammina ad anatra tra una gamba e l’altra cercando di liberarsi dal pannolino. Lei, se le passa accanto, nonostante la faccia rugosa e poco sorridente che al bambino fa un po’ paura – sembra che Nunzia lo noti e per questa ragione vorrebbe dirgli: «Arriva se te lo senti alla mia gonna» – non si sporge. Né si ritrae. Aspetta che Ennio trovi le sue gambe se ne ha bisogno. Nel frattempo, casomai, porta alla bocca il pane che le hanno stretto tra le dita e, se pure la parte non è piccola – da unico boccone – cerca di infilarne quanto più possibile tra le labbra. Quello che non riesce a spingere dentro lo lascia fuori, in attesa. Bagna la pasta che ha tra la lingua e il palato, la lascia a sciogliersi e alla fine ingoia; mentre si porta il rimanente pane in bocca dopo averlo dimenticato per quindici minuti a ciondolare. Tutti pensano che le cadrà in grembo. Chi è libero si intrattiene con il palmo sotto al suo mento. A Ennio piace sostare sul suo letto. Quando Nunzia è pronta per il sonno e i figli tirano su le sbarre di ferro dell’enorme culla. Non dovrebbe starle accanto, si dicono. Ma Ennio accanto a lei lo lasciano sempre. Dal giorno in cui con il piedino faceva forza sul suo polso e si era sentito il rumore delle ossa e Nunzia per cinque secondi era sembrata – nell’urlo affogato solo per metà, Nunzia che più non parla – di materia umana come chiunque. Rimangono fermi e con i sensi di colpa fanno che vorrebbero toglierlo il pericolo del peso vivo del bambino, ma invece aspettano – e aspettano ogni giorno l’ora del sonno – Ennio che si arrampichi sulla sua schiena. Che prenda posto sulla sedia e con lo scricchiolio dica alla neonata addormentata che è vecchia.
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Baci r♥bati Testo di Felice Cavalli Scatto di Gianfranco De Simone, Lettere in libertà
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Dice il maresciallo che lo sapevo che stavo rubando una macchina. Gli ho detto che l’ho vista nel greto e che era lì da un po’ di tempo e allora forse un po’ ho sbagliato ma l’ho presa e ci ho fatto un giro e poi l’ho riportata giù al torrente così poi quando ne ho voglia ci vado a fare un giro. Lo dicevo io che dovevo bruciarla. Tanto ho solo diciassette anni e alla fine non mi fanno un cappero. E il maresciallo pensa che mio padre e mia madre, se riesce a trovarli, poi alla fine si arrabbieranno e non ci si comporta così e viadiseguito. Alla fine ho solo preso un auto e ci ho fatto un giro. Tutto lì. E anche di questo come di tutto il resto non resterà nulla. Ci si dimentica pian piano di tutto perché la vita è davvero vita, vale a dire una porcheria dietro l’altra. L’altro giorno sono uscito con Max e io morivo dalla voglia di farmi una canna e non ci avevo una lira in tasca. E già mi sono arrabbiato che le lire non ci sono più e dire non ho un euro in tasca non suona per niente bene. Anche di quello mi ha incolpato il maresciallo. Della canna dico, non dell’euro. E io gli ho detto che lui porta la pistola e le canne non uccidono ma quella sì. Comunque sia, Max non voleva darmi i soldi. Ha finto di arrabbiarsi, ma poi lo sa anche lui che quella fregola che ci prende quando organizziamo una canna o un giro in macchina o di farci fare delle cose di nascosto dalle ragazze ne vale la pena. Che anche su questo volendo ce ne sarebbe da dire volendo. Sulle donne dico, e su quello che ci si può fare. E non parlo di quelle della tele che sono tutte belle e brave, dalle mamme alle figlie, dalle morose alle mogli e perfino le cognate e le suocere. Parlo di quelle vere che sono sotto casa mia. Il mio prof di italiano dice che l’amore è un canto e allora non si può baciare le ragazze tutto il giorno perché nessuno va in giro cantando dalla mattina alla sera. Quello di religione dice che ci si può baciare solo dopo il matrimonio, ma se si può anche un po’ dopo e solo una volta al mese. Mio papà e mia mamma non dicono niente che tanto non ci sono mai. Max dice che se ne fa una diversa tutti i giorni. Io dico che la vita è un gran casino. Dico che i prof non capiscono niente di donne, che Max le spara grosse, e per quel che mi riguarda dico che faccio quel che capita. Dall’inizio alla fine. Quel che capita, tutto lì. Io dalla vita ho imparato che bisogna rubare tutto. Come al supermercato. Rubi tutto quello che puoi e poi scappi. Coi baci, con le donne e con tutto quello che si portano dentro e con la vita… Amico mio, ho sempre onorato il mio mestiere di ladro, che volendo parlare bene, tutto il resto che si dice sono balle. E che poi qualcuno ha anche avuto il coraggio di dirmi che si può fare all’amore solo dopo il matrimonio per far piacere a Dio. Per favore, dico. Guarda che io a Dio ci credo. L’ho dovuto imparare fin da piccolo che a volte un dio esiste. Ma non per tutti. Ci sono quelli che non fanno in tempo a nascere e sono già belli, che non fanno in tempo ad andare all’asilo che sanno già scrivere, che non fanno in tempo ad andare a scuola che pensano già all’università e poi a fare il medico e l’ingegnere e l’architetto e viadiseguito. E loro hanno sempre una bella ragazza da baciare che guarda caso sembra nata apposta così carina e brava proprio per loro. Allora per tutti questi e un po’ di più Dio esiste. Poi ci sono tanti altri che devono imparare che la bellezza non è tutto nella vita e nemmeno i soldi e nemmeno essere bravi a giocare a calcio e nemmeno prendere un bel voto a scuola. Ci sono tutti quelli che devono imparare la mediocrità. Che è un passo dopo la sfiga e una corsa dietro la felicità. E allora questa canna questi baci rubati questa voglia di non fare un bel niente che tanto poi è lo stesso, dico, allora tutto questo io l’ho imparato, di che cosa m’incolpate.
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Ho fatto il mio dovere di mediocre e ho lasciato lo spazio ai figli di Dio. E il tempo che passa non lascia tracce in queste facce. Intontimento paura mediocrità. Ne avrete viste di queste facce. La mia, per esempio. E allora a scuola nei salotti in tele in parrocchia, che una volta ci sono andato ma anche la sfiga ha la sua dignità e quindi non ci vado più, allora dico, in tutti questi luoghi fatati tutti parlano di pace giustizia impegno amore vero e altre mielate del vattelapesca. Tutte cavolate amico. Tutte cavolate. Raccontatevele pure tra di voi. Mi avete voluto mediocre, ma non chiedetemi di partecipare, vi prego. Mi avete voluto mediocre, abbiate il pudore di non chiedermi di esserne felice. Ascolta quello che ti dico. La gente per bene ha creato grandi cose, ha perfezionato il prodotto anno dopo anno, secolo dopo secolo. Cultura e scienza e scoperte e biblioteche grasse e brulicanti e sovraffollate di libri quadri medicine trapianti bombe atomiche e anche mine antibambino, ambarabaciccicoccò. E senza andare tanto in alto Alfredo farà il dottore Giacomo il giornalista Pietro l’ingegnere navale. E il buon Dio ha fatto nascere tre belle donne proprio fatte apposta per loro. Loro sono adatti. Io quasi adatto. E i loro baci sono sempre giusti. I miei sempre sbagliati. E io alla fine il maresciallo non lo sopporto. E non sopporto nemmeno tutti quelli che mi parlano di giustizia di pace di impegno e di amore vero e altre capperate del genere. Le persone più terribili che ho conosciuto sono proprio quelle che mi parlano di tutte queste cose. Il fatto è che vivono in un perfetto inganno. Sono degli illusi. Per loro il telefono celeste del paradiso squilla incessantemente. Preferisco i matti le canne e le donne che ci stanno senza tirarsela troppo o, come li chiamano loro, i peccatori perché sono tutta gente in grado di vivere senza paranoie oppure, se posso dirlo, quelli come me che non hanno paura di rubare tutto alle ragazze e al supermercato e di fumarsi una canna, tutti soli o al massimo con Max, mentre si sobbarcano l’enorme peso di diciassette anni sulle spalle. Del maresciallo non me ne importa un cavolo. Come di tutto il resto, del resto. Non sono passati che trenta minuti. Trenta minuti di ramanzina e sono di nuovo fuori. Entro al cine. Ho diciassette anni quindi dico: «Mi dia anche i pop corn».
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CALMA APPARENTE
Testo di Walter Serra Scatto di Lara Groppi
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L’argenteo Caproni 123 rollava sbattuto dalla tempesta, tagliando l’aria con le eliche elevate alla massima potenza per contrastare la furia degli elementi. Riggs guardò il cronografo: due ore all’atterraggio. C’era un uomo a bordo che lo inquietava. L’aveva individuato fin dallo scalo di Roma, lo sguardo pungente e acuto, la pelle bruciata dal sole. Forse un italiano o un greco. L’aereo ebbe un sobbalzo per un vuoto d’aria e Riggs deglutì, maledicendosi per non avere preso una nave. Accanto aveva un uomo talmente grasso che lo costringeva a stare schiacciato al finestrino, un occhio all’ala luccicante e l’altro a evitare sorprese. L’impermeabile appena slacciato nascondeva a malapena la sagoma di una Walther PPK, colpo in canna e senza sicura. Non era la prima volta pensava di usarla, durante quella missione e non voleva farsi trovare impreparato. Intanto il polso gli doleva, per via del freddo contatto col braccialetto d’acciaio che gli assicurava la valigetta addosso. Niente chiave, l’unico esemplare lo aspettava sul tavolo del suo capo, a Scotland Yard. L’alternativa era un coltello molto affilato. Rabbrividì, al pensiero. «Bella giornata, vero?» Il gigante paffuto lo osservava con occhi chiari e sorridenti. «Prego?» Riggs non l’aveva quasi udito, per via del frastuono dei motori. «Dicevo che abbiamo scelto una giornata bastarda, per volare!» Rise, solitario. «Già...» Riggs si girò verso il finestrino, poco interessato a socializzare. Un dolore acuto lo fece sobbalzare, seguito da una sensazione di caldo e freddo
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estremi. Tornò a guardare il gigante: una piccola siringa sparì in un lampo nel cappotto. Gli occhi chiari dell’uomo erano diventati di ghiaccio e lo fissavano, come un ragno spia la sua vittima in attesa che il veleno mortale agisca. «Dormi, amico mio. Ti risveglierai monco, ma sempre meglio che con una pallottola in testa!» Riggs cercò di urlare, ma si adagiò invece sul sedile, sopraffatto dal formidabile sedativo. Percepiva tutto come un soffuso brusio in lontananza. Una parte di sé si ribellò all’idea di rilassarsi e lasciare fluire il corso degli eventi, ma gli procurò appena una sorta di coma a occhi socchiusi. Però le urla della hostess le percepì chiaramente, poco dopo, poi braccia poderose gli tolsero il gigante di dosso, ora un’ombra esanime. «Sono un dottore, fate largo!», reclamò una voce, in mezzo alle urla e ai rantoli del motore. Riggs capì che il grassone era fuori gioco. Che accadeva? Un’onda d’urto lo scosse: un nuovo ospite sedette sul sedile accanto. Riconobbe la pelle scura e le labbra sottili e cattive. «Quel dilettante mi ha spianato la strada. Mi senti, Riggs?» Una risata sguaiata ruzzolò dentro la testa dell’uomo narcotizzato, mentre una mano afferrava il suo polso. Riggs pregò che finisse in fretta. L’aereo prese come un colpo alla coda, poi piegò bruscamente a destra, in leggera picchiata. Urla e panico esplosero per diversi secondi, tra la gente che cadeva a terra frammista ai bagagli malamente fissati. Riggs sollevò una palpebra, qualcosa l’aveva sfiorato, poi un colpo sordo. Prima di tornare nel suo limbo, vide l’uomo accanto col capo reclinato in una angolazione molto innaturale. Si perse il momento in cui, tornata una relativa calma, qualcuno si accorse dell’uomo accasciato e lo portò via. Mancava forse una mezz’ora all’arrivo a Londra. Riggs emise un lungo sospiro, appena uno scatto automatico del diaframma semi addormentato. Nell’aria, un feroce odore nauseabondo. Si ribellò all’idea che gli stessero tranciando l’arto e si forzò ad aprire un occhio. Accanto aveva ora un uomo con carnagione e capelli chiari che stava armeggiando con la serratura della valigetta blindata. Tempo sprecato, si sarebbe aperta a fatica anche con dell’esplosivo, lo sconosciuto se ne era reso appena conto. Comparve una piccola lama, mentre col gomito gli premeva addosso. Due affondi e Riggs si sarebbe separato dalla valigetta e dalla sua mano. L’aereo sobbalzò sull’asfalto lucido della pista, una botta aspra che rimbombò all’interno come un forte tuono. Due minuti dopo i passeggeri si accalcarono alle uscite, ansiosi di porre fine a quel viaggio terribile. Riggs fece appello a tutta la sua volontà per mettersi in piedi. A fatica scavalcò l’uomo dagli occhi ormai vitrei, freddato da un colpo fortunato della sua pistola. Il grassone non era riuscito a inoculargli l’intera dose del sonnifero, per cui la sua costituzione di ferro l’aveva smaltita, tutto sommato, in tempi brevi. Si fece aiutare da uno stewart a raggiungere il terminal, poi di lì un taxi e Scotland Yard, incredulo di essere ancora vivo. Si chiese se il contenuto della valigetta valesse il prezzo di tutti quei morti ammazzati.
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«Una missione relativamente facile, no?», lo canzonò Dawson, il capo del suo reparto, sfoggiando un sorriso tirato. Con due mosse veloci aprì il braccialetto e subito dopo la valigetta, traendone una cartella dattiloscritta. «Times New Roman», lesse sulla fustella. «Sai di cosa si tratta?» Riggs scosse il capo, ancora intorpidito. «È il codice segreto in uso fra fascisti e nazisti. Da oggi saremo in grado di decifrare i loro messaggi radio criptati e le chiavi cifrate sugli articoli di giornale. Dal momento che hai rischiato la vita, meriti di sapere la verità: molto presto saremo in guerra, amico mio.» Fuori, il temporale s’era smorzato in uno slargo di calma apparente.
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Mi sedetti alla scrivania, dall’altra parte dove sedeva l’addetto al colloquio per assumere personale. La mia competenza era superiore alle aspettative, superavo i requisiti base e non facevo domande sulla prima settimana di vacanze e sugli straordinari non pagati. Meno retribuito, ma molto più isolato: mi aiutarono a scegliere il settore più adatto a me e io ne fui entusiasta. Ero perfetto ed erano perfetti e aspettavo il discorso del mio collega; iniziò parlandomi dei bagni, delle uscite di sicurezza, della direzione, del parcheggio per i dipendenti. Sono abituato a fare un gioco con la suola della scarpa, a batterla contro la prima cosa che trovo e intromettermi col suono a metà della parola, come un segno a capo; così rompo tutto, scompongo, ritaglio e leggo un rumore cambiato. Attaccò ricordandomi delle firme da porre a fondo pagina sul modulo, due su ogni colonna e l’orario che permetteva tredici minuti di ritardo, uno spazio in cui atterrare in piedi. Iniziai col modulo, a sentirne metà e cercare l’esatto momento in cui inserirmi e il tacco partiva e suonava sbattendo sulla gamba della sedia. Ed eccola nuova, non era più la parola ad essere in riga, ma la sua possibile apertura: la capacità di dilatarsi, di farsi incomprensibile, assecondare il mio taglio, di sverginarsi, godere dell’innesto, aprire la bocca per cambiare vocabolario. Una parola può riservare anche tre minuti, addirittura quattro. Come statistica, che quando ti fermi alla prima a un minuto l’hai già perso ascoltando l’eco dentro la gola, pulito che sembra non avere incrinature, ma dopo i primi quaranta secondi ne esce un sottofondo rauco e inizi a vangare e scopri un buco ricoperto da giornali. Sei invogliato a continuare, sei eccitato dalle domande, passi alla s che ho sempre considerato vigliacca e poco chiara. Ci si arriva con la voglia di capire dove fosse la coda sgraziata della a, se veramente fosse là sotto: da qua non vedo ancora nulla e sono già passati due minuti abbondanti. Ma il tacco si stacca dalla gamba della sedia e la suola della punta impercettibilmente struscia per un istante ed è come se mi desse una spinta nel vuoto, per il crepaccio che devo controllare, quel cratere coperto e ritrovato. Mi si apre la porta arrivati al piano, tre minuti e quattordici secondi, vidi un letto con solo un lenzuolo. Quando in estate bisogna tenere aperte le finestre malgrado la luce, e cerco l’immobilità per non aggravare l’afa; il dorso nudo che sembra sempre attaccato alla federa, sembra strapparsi ad ogni cambio di lato per cercare la frescura, ma agitandoti nella veglia aumenti il fastidio in un letto bagnato e accendo la luce per avere la conferma del sudore della fronte sulla mano che l’asciuga. Ma quel lenzuolo che non riesco a levare dalle spalle, quel lenzuolo tirato fino al collo, il mio separé dalla poca luce fuori dalla finestra: la mia soglia, la mia cura, la mia biancheria. Quel lenzuolo indispensabile, ma che non basta, quel muro bucherellato da cui puoi
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vedere oltre e non puoi pisciare in pace. La coda roca, sporca, sgraziata, azzoppata, barcollante, generosa la ferita, malata, la coda della a sta lì sotto; sotto il lenzuolo che non riusciva a coprirla, sentiva che sopra c’era una città intera e la sentiva tutta; nel caldo che faccio fatica a sopportare. Quattro minuti e avevo perso il filo del discorso. Orario, trovata l’altra parola adatta, non che ci siano parole non adatte alla frazione, ma ce ne sono di più adatte, in cui meglio riesci a inserirti e una volta entrato comincia la sinfonia di carne e ritmo; l’esplorazione e stavolta mi è toccato nuotare e avevo un terribile freddo. La prima o passò inosservata come pure le due r la a e la i, ma la seconda, sulla finale partì il tacco e contro la parte bassa del tavolo, un suono sordo come fosse un tuffo perfetto in cui non sbatti le gambe. Un’immersione ad occhi chiusi perché comunque non si vede nulla. Una sabbia lavica; non riflette, una volta dentro potrebbero esserci tutte le mascelle del mondo, non vedresti niente, potresti solo sbattere e capiresti lo spazio. Potrei forse capire tutto lo spazio intero, quando il circondario rimane senza luce, manca un muro o un poggiapiedi dove stendere le gambe. Nuotavo nell’acqua nera, non mi facevano male le orecchie e non sentivo pressione e non capivo nemmeno se mi trovavo a poca distanza dalla superficie o giù in fondo; sentivo che avevo gli occhi aperti dal prurito alle pupille, due mani sulle palpebre per proteggermi la faccia. La o era lunghissima e la sentivo ancora ritornarmi nell’orecchio. La ripresi con un altro colpo di tacco ancora più deciso. In una stanza da bagno con una luce al soffitto e una sopra lo specchio. In fondo a sinistra i servizi igienici bianchi, nella vasca un piccolo orto per la sopravvivenza vegetariana, l’armadietto a fianco dello specchio con i medicinali che si portano in viaggio e, soprattutto, sotto al lavandino, dietro a due ante una piccola riserva d’oro, di piccolo formato, tascabile: una liquidità di cui non avrei mai potuto usufruire, la voglia di contare e ricontare e chiudere il nascondiglio. Il tacco della scarpa batteva e s’alzava e la suola intera contro la sedia, la gamba in acciaio e il tavolo e la mattonella del pavimento, in mezzo alle giunture. Non ritrovai nessun altro squarcio, nessuna fessura in cui insinuarmi, nemmeno con il piccone sulle parole riuscivi a scalfirle, rimasi seduto nel bagno e se avessi aperto la porta il mare intero mi avrebbe pressato, non ne sarei uscito vivo e non ne sarei uscito soddisfatto soddisfatto. Mi tolsi le scarpe per non rischiare il naufragio; le sette meraviglie del mondo tutte lì dentro e io ne ero il testimone, curavo l’orto per mangiare e spolveravo l’oro prevedendo carestia.
Colloquio
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Testo di Andrea Tinterri Scatto di Matteo Varsi
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Napoli 1840 Esecuzione capitale
Testo di Giuseppe Costantino Budetta Illustrazione di Alessio Maggioni All’alba del 4 febbraio 1840, Napoli fu svegliata dalle lugubri voci di ragazzi: «Accompagniamo questa santa anima con sante messe!»
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Dai bassi, finestre e terrazzi, piovevano i grani e i carlini nelle cassette dei questuanti incaricati di raccogliere offerte per riscattare l’ anima del condannato a morte. Alle sei di quel mattino Ciccio, il pizzaiolo di Borgo Loreto, doveva essere afforcato nella Piazza del Cavalcatoio, sull’imbrecciata di San Francesco, fuori Porta Capuana. Dalle prime luci dell’alba o quando era ancora notte, la gente dei bassi aveva assiepato la piazza intorno alle forche erette la notte tra il tre ed il quattro febbraio. Dalle cinque e mezzo di quel mattino uno squadrone di dragoni a cavallo era stato schierato in piazza di fronte e a 1ato del patibolo in scorta a sua Maestà il re e a sua eccellenza il Governatore. Si temeva che gli assembramenti di popolo potessero essere scintilla di rivolta. Nonostante il freddo, gli spettatori continuavano ad affluire dai quattro vicoli del Cavalcatore, dalla via di San Giovanni a Carbonara, da Porta Capuana, da Santo Eligio, dalla Carriera grande e dalla lunga arteria dei Tribunali. La gran parte dei presenti erano donne discinte e scalze, dai capelli arruffati come Erinni affluite dai vicoli di Santa Maria la Fede. Erano accompagnate da Bravi con un cilindro sghembo in testa, un bastone in mano e un coltello adunco nella manica della giacca. La piazza si gremiva di teste, come spighe di un campo di grano. La fila dei dragoni a cavallo faceva rispettare il limite invalicabile. L’improvviso rullo di tamburi annunziò l’arrivo del condannato. Ci fu un gran vocio e molti allungarono il collo per vedere. Pochi minuti dopo le sei, apparve in piazza il drappello della fanteria a precedere la carretta con il condannato che aveva le mani legate alla schiena. La condanna di terzo grado prevedeva che Ciccio stesse scalzo, indossasse calzoni neri e portasse al
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petto il cartello con la scritta EMPIO. Sul carro c’era un prete ad assistere il condannato. Il carnefice seguiva il carro tenendo una fune che terminava con il cappio intorno al collo di Ciccio. Un secondo drappello di soldati chiudeva il lugubre corteo. La livida faccia del condannato, con la testa rapata a zero, era cadaverica e l’adipe della gorgia e del ventre era sparito. L’espressione era di angoscia e stupore. Un mondo assurdo lo condannava e assisteva muto al suo supplizio. Un canonico lo aveva confessato la sera prima. Nell’ultima confessione aveva ripetuto la sua innocenza ma non importava a tutta quella gente che attendeva lo spettacolo della sua agonia e della sua morte. Il canonico lo accompagnava sul carro con gli occhi velati di lacrime. Diceva a Ciccio in un orecchio: «Coraggio, figliuolo, coraggio!» Il carnefice prese in consegna il condannato a morte. Ciccio disse ad alta voce: «Popolo napoletano, io muoio innocente.» I sentimenti di odio per l’assassinio del ragazzo per il quale Ciccio era stato incolpato stavano facendo posto alla commiserazione. La folla era muta. Si notava che alcuni assistevano con raccapriccio alla scena e qualche vecchia si asciugava le lacrime. Ciccio era caduto in ginocchio come un sacco, recalcitrante ad alzarsi. I più gridarono contro il carnefice che lo stava trascinando con forza e tirava la fune che terminava col cappio intorno al collo. Il boia fu costretto a sollevarlo e a trascinarlo di peso al patibolo. I tamburi tacquero e l’uomo rimase appeso al cappio. Aveva aperto la bocca e dimenato i piedi e subito aveva perso ogni forza. Il magistrato di giustizia fece cenno al boia di mettere giù il cadavere. Un grido si levò tra la folla e molti cominciarono a gioire. Il carnefice accortosi che l’uomo respirava ancora, stava per riappenderlo alla forca ma il canonico che aveva accompagnato Ciccio gridò: «In nome di Dio, ritiratevi. Non avete più diritto di mettere le mani addosso a questo povero uomo agonizzante.» La folla applaudì e tutti gridarono alla grazia. Il magistrato di giustizia, imbarazzato, cedette al clamore del popolo e alle antiche leggi che vietavano una seconda esecuzione capitale se il condannato non moriva. La folla minacciava di fare irruzione per sottrarre il condannato dalle mani del boia. Intervenne lo squadrone dei dragoni a cavallo fiancheggiato dal drappello di fanteria. La folla si ritrasse. Il condannato fu portato in barella nella vicina chiesa di Santa Caterina a Formello, seguito dal canonico. La folla si stava riversando in chiesa con l’irruenza della lava, ma trovò i soldati davanti al portone maggiore che ne impedì l’accesso. Lo spiazzo antistante Santa Caterina a Formello, di lato alle carceri della Vicaria, si riempì di gente. A stento la carrozza del Presidente della Gran Corte Criminale poté raggiungere la chiesa. Intorno alla carrozza tutti gridavano: «Grazia! Grazia!» Scortato dai soldati, il Presidente della Gran Corte entrò in chiesa. Dopo pochi minuti lo videro uscire in stato d’agitazione ed entrare in carrozza che lentamente lasciava la piazza tra le grida della gente. Svincolatasi dalla folla, la carrozza corse per l’angusta Via dei Tribunali, passò per Portalba, raggiunse Via Toledo ed entrò nel cortile della reggia. Dopo un’ora il magistrato uscì dal palazzo reale, salì in carrozza in compagnia dei ministri di Grazia e Giustizia e della Polizia generale. La carrozza tornò a sostare davanti alla Chiesa Santa Caterina a Formello. Si era sparsa la voce che il re aveva graziato il condannato. Molti erano rimasti sul sagrato aspettando che Ciccio uscisse sui suoi piedi per fargli ovazione ma una voce spense gli animi: Ciccio era spirato in chiesa per le conseguenze dovute allo strangolamento del cappio. La folla delusa si diradò. Il canonico che aveva accompagnato lo sventurato andò via. Nessuno poté avvicinarsi alla salma perché un picchetto di soldati e gendarmi impedivano l’accesso in chiesa. Corse voce che la morte del povero Ciccio fosse stata causata dalla polizia contraria alla sopravvivenza al patibolo di un condannato a morte. Dissero che un commissario aveva fatto finta di somministrare all’agonizzante un bicchierino di cordiale e gli avesse messo sotto il naso una boccettina di acido prussico, asfissiante.
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C’era stato un precedente: nel 1799 con la reazione borbonica, un condannato era rimasto per dodici ore appeso al cappio. Quando stavano per seppellirne il corpo, il boia che si era accorto che respirava, aveva chiesto al giudice Speciale cosa si dovesse fare. Gli ebbero risposto: «Un giacobino deve comunque morire.» Lo Speciale, allora, ordinò che l’uomo agonizzante fosse scannato sul posto.
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Ho scritto sul muro Testo di Roberto Stradiotti
Scatto di Iacopo Vaja
Davanti alla pagina bianca cadevo in un vortice senza ricordi simile a un capogiro. Mi sono portato alla finestra per godermi gli ultimi fiori. Se avessi potuto scrivere sui fiori sono sicuro che avrei saputo dirti qualcosa di meglio che «Ci vediamo». Una frase così si dice a tutti: ai colleghi di lavoro, al barista, all’amico che incontri per strada. Non a una donna, non a una donna speciale. Da una pagina bianca non ho saputo cavar fuori nulla. Una distesa di neve, una tabula rasa. Eppure una volta riuscivo a scrivere tutto quello che non ero capace di dire. Rimanevo un giorno intero a vergare i fogli di nero compiacendomi fino al delirio. Poi qualcosa si è rotto dentro di me. Dev’essere stato quando ho cominciato a capire il mondo. Allora la scrittura ha perso il suo peso e il suo posto, gli inchiostri si sono asciugati, il pensiero è calato di intensità fino a un coma vigile. Eppure, quante cose avevo da dirti, idee che non esistono e non esisteranno mai, fumi dell’immaginazione, ideali senza storia. «È tardi», avevi detto tenendo il quadrante dell’orologio fra due dita, gli occhi incollati sulle lancette. Eri balzata in piedi. Quando mi hai guardato, mi sono confuso e ho detto solo: «Ci vediamo». Ma forse non ti aspettavi nulla da uno come me, che in presenza di una donna sgranocchia noccioline e suona il piano solo perché è l’ora degli esercizi. Altri sputi neri su pentagramma, altro delirio. Seguimi, sembravo dirti, nel mio mondo senza strade, nella mia oasi che giorno dopo giorno si ritira. Il mio mondo è un deserto, lo so con certezza e ho paura di ammettere che ci vivo bene. Volevi andare per negozi, ma ho preso tempo: «Ascolta prima questo arpeggio». Dopo tanto desiderio, ti ho trattato come una nota di abbellimento. Quando ti sei alzata stringendo il quadrante fra le dita viola, hai detto che era tardi. Quando sei entrata nella mia vita e nella mia stanza, era già troppo tardi. Ho pensato di spiegarti tutto scrivendo, ma davanti alla carta bianca mi sono chiesto cosa raccontarti. Com’era definitivo quel bianco intonso… diceva tutto di me. Non avevo più bisogno della scrittura, perché rammaricarsi? Eppure, quando ti ho guardato attraversare la strada a passi veloci, avevo già afferrato un foglio. L’avevo infilato sul rullo di gomma pregustando il piacere di riempire la carta di segni convenzionali e la stanza di sferzate metalliche. E invece quel foglio l’ho guardato, guardato, guardato. L’ho sfilato dal rullo, l’ho appallottolato, ci ho giocato un po’ con i piedi, ho fatto la gara di canestri nel cestino. Avevo scritto Ciao, Giulia virgola, a capo. Tutto lì. Mi sembrava di avere scritto tanto. Nel mio nuovo universo non si scrive molto, non si scrive per niente, si aspetta, più che altro, che le cose facciano il loro corso, che il respiro della morte rapisca ad uno ad uno tutti coloro che l’hanno evitata e li riporti nell’ordine delle cose. È davvero un peccato provare ad amare: la sabbia del deserto soffia sulle macerie delle vecchie speranze. Che illusioni, che cecità. L’amore, che pensiero insulso. Ho infilato tuta e scarpe e sono uscito a correre. Non mi piace la corsa, ma ne avevo l’esigenza, per confondere i battiti del cuore. Ansimavo come una vecchia locomotiva e pensavo che sarei morto di lì a poco, senza troppo dolore. Invece ho raggiunto casa tua, pochi isolati più avanti. Era in periferia, aveva l’età dei tuoi genitori, l’intonaco cadeva dal muro di cinta. Non è comparso il tuo cane ringhioso. Forse lo avevi portato fuori, ma sognavo che fosse schiattato. Ho fatto il giro dell’isolato e non pensavo più di morire così presto. Ho raccolto un pezzo di coccio e mi sono fermato davanti al vecchio muretto. Se passavo con il dito sopra l’intonaco, la sabbia si sgretolava con la cadenza di una clessidra. Il coccio sul muro produceva un rantolo che entrava fino nel cervello. Non c’è stato bisogno di verbi e negazioni: con i pittogrammi vedevo le cose chiare come avrei dovuto spiegarle. Sono bastati pochi minuti e poche linee essenziali. Mi sono nascosto dietro il fico, che spogliavo giorno dopo giorno aspettando di vederti uscire, senza il coraggio di fermarti. Ho raccolto uno degli ultimi frutti e ho atteso. Sei arrivata, hai visto il messaggio, l’hai sfiorato con i polpastrelli, in preda a una nuova cecità, poi hai preso a piangere. Non avrei voluto, ma è andata così. Sul muro un omino improbabile era rivolto a un’icona di donna. A prima vista, i due sembravano destinati ad incontrarsi. Invece fra loro c’era una duna alta quanto bastava e quel metro che li separava aveva il colore del mio deserto e la consistenza della follia.
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Il cammello
(o del tedio che n’affoga)
Testo di Pietro Iannibelli Illustrazione di Ettore Tomas
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L’aristocratico Petr Nicolaevič Fofonov, malsopportando il rigido inverno russo e la stucchevole bianchezza in cui questo agguagliava le diversità della pure malsopportata città di San Pietroburgo, sempre identica a se medesima invero, con le sue solite e stucchevoli prospettive sempre identiche a loro medesime, volle, non avendo legami di sorta che potessero intralciare il proponimento, né avendo obblighi comechessia di cui tenere conto, e potendo da ultimo disporre della vita a proprio capriccio, volle trasferirsi in un incantevole borgo del settentrione d’Italia di cui favoleggiavano certi nobili suoi conoscenti, i quali senza meno lo andavano descrivendo come un vivace paradiso di fiori e di bellezze ove vivere risultava essere cosa magnifica e gradita e dove la felicità aveva certo stabilito la sua diafana dimora. Fofonov dunque, una volta presa fermissimamente la decisione di partire e di lasciare a loro medesime sia la propria città che la propria patria, si mise immantinente in contatto con taluni sensali indicatigli da un fidato sodale, i quali, in breve torno di tempo, gli presentarono redatto in quadruplice copia il vantaggioso contratto d’acquisto della maggior e più lussuosa villa sita nel territorio dell’incantevole borgo in questione. Fofonov firmò e, avendo di già predisposta ogni cosa perbenino, l’indomani stesso partì con la resoluta intenzione di principiare là dove si recava una vita nuova e virtuosa ed affatto contraria all’uggiosa e tapina che insino a quel punto aveva tra i ghiacci tristemente condotto. Giunto, dopo tapini ed uggiosi giorni di sferragliamenti attraverso le plaghe indeterminate della medesima Russia, dell’Ucraina, della Mittleuropa e della Svizzera, a destinazio-
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ne, ed occupata dunque la villa lussuosa cinta da ettari ed ettari di terreno solatio che dalle pendici d’un dolce colle digradava mollemente sino alle sponde amene d’un pacifico lago meraviglioso, egli, Fofonov, trascorsa che fu qualche settimana appena dall’arrivo, neppure forse un mese intero, già sentiva vivo allato e ovunque quel vivo tedio che partendo dalla patria aveva voluto rifuggire. Né le donne, né gli amori che queste, civettuole, cominciavano a sentire nei confronti della sua nordica figura, né gli ovattati allarmi della fine vita mondana che là si menava, né gli alti fieri intendimenti viatico dell’anteriore iperborea esistenza, poterono, quando dai corpi delle cose e degli accadimenti discese e cadde il velo pinto della novità, dare un sussulto al suo povero cuore duro e prosciugato e refrattario. Come nella lontana San Pietroburgo, anche là si viveva in uno spazio con i propri pensieri in capo; come a San Pietroburgo, anche là era d’uopo organizzarli sub specie voluntatis ed agire; come a San Pietroburgo, anche là gli intelligibili persistevano nel loro essere… ed anche là scoccavano le ore, ed esisteva il tempo, ed il poi, ed anche là giungeva, in ogni momento, il cavo adesso. Le notti e i dì trascorrevano, per il povero Fofonov, come lunghi luoghi vuoti, ove i suoi sensi, internati d’una forza morta, indagavano la realtà simili al bastone di malacca con cui si tentino gli oggetti prossimi circostanti: ogni cosa era all’altra altrettale, priva di qualità particolari se non la palese della durezza: un mondo di selci, di marmi e d’alabastri palpitava d’un palpito sordo, ignoto, e vi si levava in volo, con un frullo, il tufo. «La noia», scrisse un tale che vivendo ne morì, «è quel sentimento generalissimo che tutti gli altri in sé sussume, ovvero, è quel non-sentimento posto in sulla soglia del sentire che, come un filtro contesto di trame ed orditi di nulla e di niente, vanifica il sentito, ovvero, il non-sentito, e lo muta in un che di cavo dentro, d’insensato.» Il malvivo Fofonov, dopo mesi di languore, decise dunque di farsi recapitare dalla libica Murzuch un cammello. O strana bestia aurata e gibbosa, dai labbri agili, che inopinata espettori e scaracchi restando imperturbabile e remota, tu che sola possiedi il contrario dello stomaco, anzi due, e che sei adusa ad attraversare dinoccolatamente spazi immensi e nudi ove nulla mai scruti se non l’immensità, tu adusa all’infinito, tu così supina nei confronti dell’altro da te, sia esso l’uomo o l’eternità, la quale da cavallo primordiale ti rese cammello appunto, corrugando il tuo bel dorso lineare ecc. ecc., ammaestra il meschino Petr Nicolaevič Fofonov e riportalo sulla via della vita e dell’avvenire che, cosa gialla fra cose egualmente gialle, ha perduta nella giallitudine infatti, nel non saper che passo muovere, e verso dove, e come, e quando, e perché soprattutto, e che perduto immobilmente langue in un deserto. Aiutalo ad avere un senso seppure pusillo, a rinvenire un significato nel fatto che, ad esempio, il pesciolino giallo fugge nell’anfratto fra i massi perché teme la presenza di un uomo giallo sul margine delle gialle acque, anche se nulla significa nulla, forse, a questo mondo. E dunque, ammaestralo ad essere ente in ciò che è, o nobile cammello!
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E difatti, Fofonov, imparò subito a cavalcare il docile cammello che, a sua volta, si accostumò senza traumi nella nuova deserta stalla o scuderia della villa. Petr Nicolaevič si levava di buon’ora ogni mattina e, a cavaliere della bestia, percorreva le vie e le viuzze del borgo incedendo con aria grave e soddisfatta fra le espressioni attonite dei paesani, i quali accorrevano tutti sulle soglie o si affacciavano alle finestre delle loro case al suo incredibile passaggio. Talvolta legava il cammello alla piantana d’un lampione e sostava ai tavolini d’un bar sorseggiandovi una limonata. Ma, con l’andare dei giorni, Fofonov sentì che questo era vano. Pensò bene, allora, che un bel turbante potesse conferire un senso a tali noiose passeggiate. Adornato dunque di un turbante turchino fermato con una spilla di rubino, ogni mattina percorreva a cavaliere della bestia le vie e le viuzze del borgo. Ma sentì che anche questo era vano. Pensò bene, allora, di far adunare qua e là, lungo l’usato tragitto, una duna di sabbia libica. Adornato di turbante, ogni mattina percorreva a cavaliere del cammello, di tra le dune libiche, le vie e le viuzze del borgo. Ma anche questo era vano! Pensò bene, allora, di far adunare tra le dune, nuove dune di sabbia libica. Ornato di turbante, ogni mattina percorreva a cavaliere del cammello, di tra le dune libiche, di tra le dune libiche, le vie e le viuzze del borgo. Ma questo era vano. Pensò bene, allora, di far adunare tra le tante dune, il deserto. Ornato di turbante, ogni mattina percorreva a cavaliere del cammello, di tra le dune libiche, di tra le dune libiche, il deserto. Ma sentì che ciò era vano, e pensò bene, allora, di far piantare, qua e là nel deserto, una palma, sotto cui trovare abento e, di tanto in tanto, sorseggiare una limonata. Ma Fofonov sentì che ciò era vano... La mattina successiva, il cammello e il deserto e le nuvole sovrastanti disparvero nel pacifico lago meraviglioso mentre, a grado a grado, il sole ne appariva.
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La gru gialla Testo di Michele Rossini Scatto di Roberta Abeni, Where is my times
Ultimamente ho l’impressione che casa mia vada restringendosi, che le pareti abbiano preso a strisciare l’una verso l’altra, e che lo stiano facendo a poco a poco, senza fretta, così che io non abbia a preoccuparmene. Credo sia iniziato tutto qualche settimana fa, mentre a tarda notte fumavo sul balcone un’ultima sigaretta prima di andare a dormire. È stato allora che l’ho vista: se ne stava immobile a poche centinaia di metri da me, ne vedevo appena il profilo. Era una piccola gru gialla dall’aspetto alquanto macilento che sembrava abbandonata in mezzo ai vecchi palazzi del centro storico. Mi copriva un poco la vista del campanile, ma devo dire che nel complesso non mi dava alcun fastidio e che, al contrario, arrivava quasi a farmi tenerezza. Ho pensato che dovesse soffrire di solitudine a starsene là in mezzo da sola, forse dimenticata da un proprietario distratto o frettoloso. Confesso quindi che l’indomani mattina, scorgendo a poca distanza da lei un’altra e ben più imponente gru dipinta di fresco di un bel rosso mattone, ho provato qualcosa di simile al sollievo. Sono andato al lavoro rincuorato che quel piccolo simbolo di benessere avesse trovato un po’ di compagnia, ma poi quella stessa sera, affacciandomi al balcone, ho notato che di compagnia ne aveva forse un po’ troppa. Sembravano quasi una scolaresca in gita: in mezzo a un fazzoletto di tetti ce n’erano quasi una decina. E così poco più in là, e anche laggiù in fondo; ovunque guardavo riuscivo a scorgere soltanto delle gru. Non più comignoli o tetti, tegole, grondaie o palazzi: soltanto gru. Ho provato anche a contarle, ma appaiono e scompaiono così d’improvviso che inizio a credere siano simili ad animali migranti. Fanno il nido per qualche tempo attorno a un vecchio palazzo da ristrutturare o a un fazzoletto di terra incolta, e non appena hanno svezzato il nascituro si spostano verso una nuova covata. E per quanto di notte appaiano innocue, sono in realtà voraci come cavallette e operose come formiche: non si riposano mai e non sembrano mai sazie di mangiar terra per farne mattoni. Nel giro di qualche mese tirano su interi quartieri nuovi di zecca, così che mi chiedo che intenzioni abbiano i troppi signorotti del mattone, a chi credano di poter vendere quella figliata d’appartamenti in un paese che di figli non ne fa o ne fa comunque troppo pochi. «Forse metteranno un annuncio sul Corriere della Sera in modo da convincere i milanesi a farsi qua la casa al mare», ho pensato, ma poi un collega mi ha spiegato che la maggior parte degli appartamenti finiranno per comprarli gli stessi muratori meridionali che sono venuti a costruirli. E nel dirlo mi è parso giustamente preoccupato. Avrà pensato, come me, a quanto debbano essere tristi quei palazzi che si vanno lentamente svuotando per permettere ai nostri condomini di riempirsi; e a tutte quelle vie che senza più bambini dalle ginocchia sbucciate intenti a inseguire un pallone si vanno facendo innaturalmente silenziose. Che poi, a dirla tutta, anche se le case si svuotano da una parte e si riempiono dall’altra, il conto non viene mai pari. Perché se qua la terra si va consumando in case, di là le case non torneranno di certo ad esser terra e, peggio ancora, interi quartieri o paesi andranno svuotandosi come sacchi forati in una forma di strana, euforica, eutanasia dolce. Un po’ come vedere qualcuno che non ha da mangiare e per non morir di fame mangia se stesso, consumandosi a poco a poco per campare un giorno di più. Ho quindi pensato che, dopotutto, la mia piccola gru gialla non dovesse essere necessariamente un segnale di benessere, anche perché a quanto mi risulta quando un Paese sta bene attira braccia e cervelli; mentre quando sta male, di cervelli camminar per strada se ne vedono pochini e le braccia tutt’al più si spostano da una parte all’altra sperando a quel modo
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di tenersi impegnate almeno fino alla pensione – e magari qualche anno più in là, visti i tempi che corrono. L’unica cosa che mi ha consolato è stato pensare ai bambini, immaginare che presto la strada sotto casa mia sarebbe finalmente tornata piena di voci. E già assaporavo gli improperi che avrebbe proferito quell’antipatico del mio vicino di casa nel ritrovarsi una mattina la portiera della macchina marchiata da una pallonata forse ancora inesperta. Ma poi mi è venuto in mente che forse non è più il caso che i bambini giochino per strada per via del troppo traffico, e che di prati o di campi in cui piantar due pali per giocare a pallone non ce ne sono più perché qui attorno ormai è pieno di case. E allora, dove giocheranno questi bambini appena arrivati? E come conosceranno i nostri, di bambini? «Forse», mi sono detto, «si ridurranno a giocare sulle scale dei condomini.» Ma giocando a quel modo, penso che finirebbero sempre per vincere quelli che stanno più in alto e calciano il pallone sempre in discesa, e non sono del tutto certo che questa sia una cosa che sia bene insegnare. Per questi motivi sento casa mia farsi ogni giorno più stretta, perché non capisco più quello che mi accade attorno. E mi chiedo per quanto tempo ci sarà ancora posto per me, perché anche se stamattina la mia piccola gru gialla era sparita, sono certo che presto tornerà e sarà ancora più vicina.
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Q W E R T Y Testo di Alberto Calorosi Illustrazione di Agata Ewa Kordecka Così avresti un’idea per un racconto? Hmmm… Vediamo se ho afferrato: le suppellettili che stazionano nella tua borsetta narrano ciascuna la propria storia, delineando così la personalità della protagonista attraverso un originale intreccio di aneddoti. Beh, sì: l’idea è carina. Come dici? Vorresti che la scrivessi io? Nossignore. Scrivila tu. Che significa «non sono capace»? Prima di rinunciare dovresti forse provare, non trovi? Cimentarti. Ma che vuol dire che non sai neanche da dove cominciare? Si comincia dall’inizio. Come in tutte le cose. Piano, non correre. Prendila con calma. Finito di cenare? Lavato i piatti? Rassettato la cucina? Bene. Ora spegni il telefono. Spegni quel maledetto telefono! Brava, così. E ora mettiti comoda: pigiamone, tazzona di tè, penna alla mano, un foglio bianco. Vabbe’, se preferisci… usa pure il PC. Sei pronta? Bene. Ora devi semplicemente metterti a picchiettare sui tasti. No, ti sbagli: non è per niente difficile. Prova, dài. Schiaccia quei tasti. Che vuol dire «quali tasti»? Quelli lì davanti. Ma sì, quelli che vuoi. OK, OK. Non te ne andare. Torna qui. Ti darò un piccolo aiuto. Scrivi Q W E R T Y U I O P è +. Non ti sto prendendo in giro. Fidati. I tasti della seconda riga. Premili tutti, uno in fila all’altro, così: Q W E R T Y U I O P è +. Fatto? Ora rileggi ciò che hai scritto. Che stai pensando? Magari ti stai chiedendo che diamine ci fai in casa da sola, il telefono spento, di fronte a un PC. Tu, una laurea, un esame di stato strappato di dosso come un’odiosa pelle di serpente incapace di mutare. Tu, trentatré anni, una vita davanti, una professione da costruire, la voglia di mordere il mondo nel culo, epperò un lavoro che dopotutto non ti gratifica, una mamma che più le vuoi bene più rompe i coglioni, un fidanzato che dà tutto per scontato, un presunto amico che non si lascia sfuggire l’occasione di prenderti per i fondelli, lo sta facendo anche adesso, già, e ti piace pure, dal momento che stai sorridendo. Dovresti mandarlo a petunie, dammi retta, altro che giocherellare con la tastiera. Dovresti uscire a berti qualcosa con un’amica, andare al cinema, che so, leggerti un libro. E invece no, lo assecondi pure, lì davanti a premere i tasti uno dopo l’altro Q, W, E, R, T, Y e poi U, I, O, P… ma che stupida, stupida! , e, diosanto, questo tè fa davvero schifo. Ti vedo. Metti nella tazza un altro cucchiaino di zucchero e tintintin mescoli. Sluuurp. Ora va meglio. E ora? Che fare ora? La risposta sta nelle tue dita, che sono ripartite da sole. Che diamine sto facendo in casa da sola con il telefono spento qui davanti al PC? Io, una laurea, un esame di stato strappato di dosso… Ticchete tick tic tick ticchete tick. Nuovamente rileggi e rifletti. Accidenti, allora è proprio vero che la prima cosa che mi balena alla mente quando penso a me stessa è la laurea in legge. Che ogni avvocato approfitta di qualunque occasione per puntualizzare di essere un avvocato. Ma chissà poi perché. Ora pensi che ti senti piccola piccola, al sicuro, nascosta dietro quei grossi tomi ricolmi di codici, codicilli, lemmi e noticine a piè pagina. Li indossi come maschere spaventevoli, come Actarus indossa il suo Goldrake, come un Clark Kent che si cela dietro i superpoteri di Superman. Voli alta, tra le parole della gente, ali spiegate, un pappatacio seduto dentro un Boeing. O forse si tratta semplicemente del fatto che l’avvocato è un’entità troppo astratta. Prova a chiedere a uno spazzino che mestiere fa? Spazza. E un cantante? Canta, no? Si sente. Non c’è mica bisogno di domandarglielo. Un idraulico: monta i tubi. E gli avvocati? Avvòcano, àvocano, insomma, che cosa fanno realmente gli avvocati? Uno spazzino, per strada, lo riconosci subito; un idraulico anche. Come si fa a riconoscere un avvocato per strada? Che cosa vede, un avvocato, quando transita davanti a uno specchio? Tick ticchete ticchete tick. Il tè è terminato. Là fuori, la notte ha ingoiato i colori e le voci. Il silenzio cadenzato dal ticchettio della tastiera volteggia inquieto sul soffitto. Nuovamente rileggi.
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E pensi che forse è davvero tutto sbagliato, tutto, a cominciare dallo starsene qui a dialogare con uno stupido schermo, tutto, fin dall’inizio, da quando, bambina, fantasticavi di diventare una cantante famosa, ma quel giorno di Natale scoppiasti a piangere davanti a tutti i parenti mentre cantavi «Astro del ciel» e fuggisti via per la vergogna… o la ballerina, ma eri impacciata già allora, ah, quanti ricordi, e c’era soltanto il sole quel pomeriggio, e la sabbia, lo sciabordio ritmico delle onde, e tuo padre sotto l’ombrellone, giornale alla mano, che inseguiva l’ombra come la lancetta di un orologio, avevi un paio di mutandine blu, da bimba, con un grande fiore giallo nel centro, e neanche portavi il reggiseno perché le tette ancora non ce le avevi, e la cosa più perfetta del mondo era quel pomeriggio di niente trascorso a costruire un castello di sabbia, tu, tua sorella più grande che non la smetteva di farti i dispetti e il suo amichetto timidone che non era neanche riuscito a dirti come si chiamava, ma ogni tanto ti sorrideva, e c’era caldo, così caldo che a cuocerti la schiena sembrava non fossero soltanto il sole e il riverbero delle onde, ma più di tutti lo sguardo del bambino timido senza nome, e ti chiedevi cosa diavolo ti stesse accadendo dentro, ma desideravi che non finisse mai perché era tutto, in una sola parola, magnifico. Ticchete ticchete ticchete tick. Sbadigli, e ancora rileggi. Infine pensi che non si tratta del tè, né di te davanti a un PC ancora qui, a trentatré anni, a costruire castelli di sabbia, non si tratta di tua madre, tuo padre o del tuo fidanzato, né dell’esame di stato, di tutti gli stramaledetti avvocati simili a sopratasse che infestano questo mondo scaduto come una bolletta in lire, ma si tratta del sole, è quello che in fondo ti manca, non tutto beninteso, solo un po’, solo quel timido raggio che scalda la schiena nella forma di un’occhiata innocente lanciata di sguincio. E poi… Poi ti accorgi che ormai è notte fonda, che hai sonno, e che la tua storia ce l’hai lì davanti già bell’e che scritta, e magari non parlerà esattamente delle cose che stanno nella tua borsetta, ma certamente parlerà di te. Ed è questo che fa vibrare una storia. È questo che conta. Soltanto questo.
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o romano Segni di un nuovo tempo romano Segni di Testo di Maria Claudia Bada Scatto di Elisabetta Borda, Bookstreet
Dai segni lasciati il futuro, nei segni raccolti il passato? Di preciso prevedo la persistenza di un blu scuro ligure nel presente doloroso della mia pelle.
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C’era una maschera nera di smog quel giorno di settembre, mentre nel tram cantilenava la solita solfa di sbadigli, sonno interrotto intrecciato a palpebre appesantite dall’ultimo giorno della settimana lavorativa. Come ordinate api operaie gli studenti dormicchiavano sul vetro in attesa di scendere a destinazione. Pescara li circondava come un enorme codice a barre, tutto preordinato, registrato, imprescindibile. Ma cos’è che aveva detto il professore? Al Viola frusciava ancora nel cervello la frase «Nell’era di diverticoli tecnologici, si dà corpo a ciò che scorre sullo schermo per riordinarlo nella propria esperienza quotidiana.» Invece il caos nascosto tra le pieghe dei giardinetti lindi strisciava subdolo nelle urla del mercato cittadino, deliri di merce usata a unoduetremille euri, e gli si spalmava addosso mentre andava verso la marina. Il sogno di una città-giardino si era perso dentro un cubo ipertrofico da 130mila abitanti pigiati in cubi gas-dipendenti che clacsonando si muovevano verso cubi traslucidi di finestre e viakal a guardare in cubi catodici illuminati da storie seriali, ma non è questo che avrebbe detto stasera in manifestazione. «I computer sono ciechi e sordi, sommersi di filosofie aziendali e rispetto del denaro corporativo.» Qualche colf coi bimbi a spasso si fermò un attimo ad ascoltare le prove di questo profeta con la barba che sbraitava senza microfono dal palchetto dello stabilimento destinato alle star del rock locali, per darsi quasi subito ad una precipitosa fuga verso i viali assegnati anche ai vecchietti con il cane d’ordinanza. Nell’aria assolutamente immobile quel pomeriggio si apriva tremando. Lame di luce bianca tagliavano la riva. Dal mare emergeva una serie sgraziata di rocce nere, insensibili alle novità genetiche che gli scarichi industriali regalavano alla cittadinanza. Non faceva ancora caldo pieno, quando un vento terribile si alzò di colpo. Ogni tanto il barista tirava un’occhiata di sbieco al cielo pulitissimo e sussurrava: «È ‘na jurnata da fine del mondo». Tutti lo scansavano ridendo o facendo le corna. «Se’ scimunito Za Ninnì», fu il commento del vecchio giudice Siampa che, finendo d’un fiato il bicchierino di digestivo, si avviò lento verso l’auto. L’onoratissimo giudice sembrava un albatro sul ponte di una nave: ad ogni colpo di vento si piegava sul fianco e pigolava uno “zio porco”. La sabbia lo soffocava e l’imbardatura gli impediva i movimenti. Di fronte al bar dello stabilimento, un drappello di militanti urlò al suo passaggio. Il Viola prese la rincorsa dal palchetto per unirsi alla massa saltellante. Siampa si strinse la palandrana al petto e chiuse gli occhi. Su tutto dominava il caldo e l’urlo del vento. «Giustizia per Genova, giusti…» E il giudice chiuse finalmente la portiera e l’urlo si spezzò, sostituito dalla voce rassicurante del giornale radio. «Si prevedono su tutta la zzzzzzzona fortissime raffiche; domani…» Domani sarebbe stato meglio, li avrebbero rilasciati tutti i pacifisti sotto accusa, ma quel giorno persino le barche vorticavano paurosamente e le biciclette al mulinare del vento cigolavano atterrite nella prigione di pali e catene. Finalmente arrivò Lisa e, turbinando insieme al vento, prese il Viola sottobraccio e lo trascinò al bancone. «Voglio ciò che mi devi!», gli soffiò in faccia.
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«Allora? Mi sto stancando…» «Amore, te li do te li do, sto solo contando!» Il frusciare dei soldi faceva da sottofondo al loro piccolo litigio, ma il bar dello stabilimento era così affollato che le loro frasi rabbiose potevano solo annegare nel chiasso degli ubriachi, soffocate dalle urla dei camerieri e dal vociare dei clienti abituali, tutti asserragliati sul bancone come a difendere delle posizioni in trincea. In quel caos non si respirava che fumo, sudore e tanfo di plastica zuppa di birra, mentre il Viola contava, contava ancora, facendo smorfie se mancava un centesimo all’appello. Lisa si strinse le labbra, improvvisamente disgustata dal guazzabuglio di miasmi. «Ok, ok, vado a fare una nuotata.» «Così ti sgombri il cervello, almeno.» In acqua si sentì spezzare in due da un’ondata maligna che le schiacciò orribilmente il petto. Il ritmo scuro dei ricordi tamburellava e non sfumò in due sole bracciate, oddio, uno stormo di manganelli che plana sulle sue ossa di ragazza facendole scricchiolare, il plexiglass degli scudi che preme, oddio, scomparire, fuggire, un’altra onda violenta sullo sterno, l’urto rabbioso, dire addio, fuggire, scomparire, la folla che si disperde in più punti, schegge di unghie e calotte craniche che si spezzano, fuggire, dire addio, scomparire, bruciarono prima i cassonetti, poi gli abiti pieni di sangue, poi i lacrimogeni fecero il resto. Dopo Genova non dormiva più bene. Dalle orbite cerchiate trapelavano i contorni di un’inquietudine profonda, misti al solito blu incerto degli occhi. Dire addio, scomparire fuggire. «Sta’ ancor in mezz’all’acqua? Esci, o ti vengono le mani da vecchia!», le urlò il Viola. «Signorina, attenta ai pescecani!», sghignazzò una coppia di fessi sulla riva. Dire addio, scomparire fuggire. Ricominciare. «Stronzi!» Ma le parole di Lisa finirono risucchiate dalla risacca.
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Times e china Testo di Ivano Porpora Scatto di Alessandra Carloni, New times
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Ci sono due cose al mondo che possono farti piegare la schiena: il dolore puro o la felicità più dura. La felicità pura e il puro dolore: quello che toglie il respiro contraendoti polmoni e bronchi in uno spasmo involontario. Come se andassi dal dottore pensando alla spesa da fare e a una donna che ti attende nel letto, inarcando le costole in un sonno leggero e quello ti mostrasse una lastra semitrasparente in cui il polmone sinistro appare bello come il Sole e quello destro è invece una macchia scura che si propaghi dal basso. Hai presente? Nel momento in cui pieghi la schiena a C, al mondo sembri un ballerino di jazz, pronto con le sue smorfie a suggerire che, in un letto, la schiena si arcuerebbe ben più di così. Una specie di serpe che si morda la coda. Ma questo lo pensa il mondo: a te, nel momento in cui i capelli fanno pendant col pavimento, viene solo in mente una nota scritta su un post-it giallastro scivolato anch’esso a terra. Che meglio, o peggio di così, non possa andare. E la nota, in certi momenti, suona terribilmente ironica. Io di questi momenti ne ho avuti; di entrambi. Il 12 febbraio del 1998 fu uno di quei momenti. E ricordo distintamente quale dei due. Mi svegliò il suono del telefono. Avevo una calza di spugna nera avvolta attorno ad un orecchio, che nella notte si stava congelando; la borsa dell’acqua calda vicino ai piedi, che di caldo non avevano più nulla. Il gatto si era acciambellato sulla mia pancia. Non che la cosa mi desse fastidio: la caldaia si era rotta e da tre giorni non facevo una doccia decente, né dormivo col riscaldamento acceso. Le lenzuola erano lise, e l’appartamento era tristemente esposto sulla facciata a nord di una palazzina di Bologna, messa in ombra da un’altra palazzina. Non mi ero accorto di questa dislocazione finché avevo lavorato in redazione, intento a ripassare a china i disegni del vignettista oppure a trascrivere i brogliacci che Massimo Forbice mi girava in un asettico Times New Roman. Queste attività mi impegnavano fino alla mattina presto; dormivo larga parte della mattina e mi svegliavo attorno alle tre. Nel momento in cui mi riprendevo, con alcuni caffè, partivo con un’attività che, in una punta di ironia, avevo soprannominato bidonvillismo fernettiano, e che mi accompagnava fino all’ingresso in redazione. Per me era uno spunto poetico coincidente con lo stonarmi di Fernet e scrivere di droga, cazzi, pestilenze e untori. Per le donne che mi circondavano, o Christian, era un ottimo modo per entrare a contatto con la bestia che era in me e il portafoglio: scroccarmi sistematicamente Merit, palline di fumo arrotolate, bicchieri di Fernet Branca. Appunto. Solo che Forbice d’un tratto aveva scoperto la videoscrittura, e il direttore ne aveva approfittato per liberarsi di me. Non aveva nemmeno usato quei discorsi in gergo che si trovano nei manuali della Franco Angeli: Come comunicare ad un lavoratore che è licenziato. Mi aveva liquidato con un «Fuori dai coglioni entro trenta minuti. Facciamo ventinove.» E mi aveva salutato tenendo le mie mani tra le sue, a coppa, e sorridendo pulito. Il telefono continuò a squillare. Mi tolsi con disappunto Lenticchia dallo stomaco e, tirando su col naso, alzai la cornetta. «Sì.» «Michele… Ussignur, ma che voce… Avrai mica il raffreddore!» Penso che a ognuno di noi siano capitati quei momenti. E avrete capito che non sto parlando della felicità pura. Il peggio, però, non sta nel momento in sé, quanto nel chi vi assiste. Se c’è una ragazza
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pazienza, con un amico si sopportano. Il datore di lavoro lo puoi anche insultare, nel caso. Ma le madri… Le madri, no. Le madri, no. «No, mà, che dici. Il raffreddore…» Tirai su col naso camuffando il rumore con lo spostamento di una sedia. «Cos’è successo? Avrai mica il catarro!…» Guardai la cornetta. Pareva avesse una telecamera della Rai piazzata in casa mia. Solo un imbecille, pensai; solo un imbecille potrebbe piazzare una telecamera a casa mia e stare a guardarmi mentre mi gratto. Un imbecille o una madre, sia chiaro. Se poi coincidono è peggio. «Spè, mamma.» Sputai in una pianta. Un filamento bianco tenne incollato il terriccio a me; sembrava la ragnatela di Spiderman. Fico. «No, che catarro… Sto benissimo.» «Il riscaldamento funziona? Avrai mica freddo.» «Macché. Si sta da dio, qui.» Picchiai una mano contro la caldaia. Emise un lamento, simile ad un muggito; la fiammella barcollò un istante, poi si spense. «E mangi?» «Mà, sarò ingrassato due chili in una settimana.» Il mio stomaco emise un lamento, simile a un muggito che sembrava una caldaia. Mi versai in un piatto, preso ancora sporco dal lavello, del cibo di Lenticchia; lo mischiai ad un po’ di latte di due settimane prima. Il croccantino di pesce sembrava una piroga in un mare bianco. Il cucchiaio aveva ancora tracce di tuorlo d’uovo rappreso. «Lo sai che tuo padre è preoccupato.» Me lo immaginavo, perso dietro le colonne sugli affari interni del Carlino. Un orecchio a questa conversazione; un altro ad uno dei suoi dischi di classica. «Con le bollette come fai?», riprese. «Mà, non ho problemi. L’unica storia me l’han fatta quelli dell’Enel, ma ora non ci son problemi di luce.» Guardai l’ultimo sollecito bruciare piano; lasciai le fiamme mangiare avide il bollettino da pagare con urgenza, consumarlo fino all’ultimo lembo. «Ci manchi, piscinin.» «Mi mancate anche voi, mà.» «E con la Teresa va tutto bene?» «Sì, abbastanza.» Recuperai un paio di mutandine dal divano. Non sembravano né quelle di Teresa, né di Rachele. Forse erano di quella ragazza dallo sguardo di sogliola del collettivo, o di quella che avevo conosciuto in Osteria. Ci pensai meglio: no, quella non le portava. «Fatti sentire, va bene?» «Vai, mà. Ti chiamo io. » «Lo sai ch…» e riattaccai. Il bagno era intasato; andai a fare la pipì sui fiori del terrazzo. Che roba, pensai. Che roba, Bologna vista da lì.
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uestione di carattere… Rubrica a cura di Enrico Cantino Scatto di Lara Groppi
Il mistero della scrittura è che in essa non c’è alcun mistero. José Saramago Scrivere, pertanto, è un’attività complessa: è, insieme, preferire l’immaginario e voler comunicare; in queste due scelte si manifestano tendenze assai diverse e a prima vista contrastanti. Simone de Beauvoir
1. Dati di fatto Times New Roman: carattere tipografico; Font, se vogliamo assecondare il gergo informatico. Del tipo True Type, quindi: TTF (True Type Font) e vale per chi lavora in ambiente Windows, l’unico che conosco davvero. Ma non solo. È il font di default di Word, quello che il programma impone di utilizzare, a meno che non gli si dica il contrario. No, questo non mi va. Mettine un altro. Però non lo fa (quasi) nessuno. Per pigrizia, forse. Per consuetudine, magari. È il font della burocrazia, pubblica oppure privata. Andate in un qualsiasi ufficio: comunicazioni, circolari, avvisi, cartello; tutti stampati in Times New Roman. In dimensione 12. Quella classica. Strano, però, che la maggioranza delle case editrici non lo utilizzi. Einaudi, Feltrinelli e Garzanti sembrano preferire il Garamond. La Mondadori, dipende. A volte lo usa, a volte no. L’Adelphi fa storia a parte. Ma non stabiliremo chi adopera cosa. A me non interessa. E nemmeno a voi.
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2. Ci vuole carattere Sopra il pelo dell’acqua c’è il Times New Roman. Potrebbe esserci qualunque altra cosa: Books Antiqua, New Brunswick, Arial. Eccetera. Eccetera. Non importa: immergiamoci. Sotto, c’è una questione di carattere. C’è la necessità del carattere stesso poiché senza non ci sarebbero nemmeno i testi. Quindi, niente libri. Niente giornali. Niente riviste. Niente di niente. La scrittura gioca una partita doppia: fisica – il carattere e il supporto che lo accoglie – e concettuale – ciò che carattere e supporto comunicano. Il pensiero viene reso disponibile. Si può duplicare. Quindi, veicolare. Senza scrittura, non ci sarebbe espressione e non ci sarebbero, dunque, gli scrittori. Tanto meno, lettori. Non potremmo confrontarci con altri esseri umani, crescere, imparare. Dice Thomas Bernhard che «ogni attività del pensiero che non sia diventata scrittura è in fin dei conti assolutamente priva di valore, perché inquieta se mai solo chi se la inventa, non fa storia, mentre lui, come è naturale, aveva l’ambizione di fare storia, il che è da sempre il primo presupposto per uno scritto importante ed epocale.» Il passaggio è cruciale: un uomo vuole esprimere il proprio pensiero, lo organizza in lettere, sillabe, parole, frasi, periodi, capoversi ma gli serve qualcosa che gli permetta materialmente di farlo. Un’opportuna combinazione di caratteri tipografici. Le idee che rimangono nella nostra testa e non si coagulano su un foglio (o uno schermo) bianco, non servono a nulla. Se ne stanno lì, sterili e fini a se stesse e sospese nell’inutile limbo delle decisioni che non si hanno il coraggio di prendere. E non permettono la nascita di altre idee.
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3. Un cielo senza Luna Se ne discute da sempre. La cara – ma ormai vecchia – questione della famigerata Pagina Bianca. Blaise Pascal ha scritto: «L’ultima cosa che si scopre scrivendo un libro è come cominciare.» Sono d’accordo, ma aveva ragione pure Baudelaire, secondo cui «opera lunga è quella che non si sa cominciare. Diventa incubo.» E se il problema non fosse mai stato quello? Va bene, bisogna avere qualcosa da dire (res tene, verba sequentur) e un mezzo espressivo tramite il quale dirlo. Il bianco è solo un pretesto. È vero che scrivere è un po’ come deflorare la purezza di quello spazio bianco che a volte ci spaventa, che esiste una “cosetta” chiamata blocco dello scrittore con la quale prima o poi si fanno i conti (e più spesso di quanto vorremmo). Ma se non ci fossero i caratteri tipografici, cosa faremmo, ad esempio, noi della Luna? Che ne sarebbe dei racconti che selezioniamo numero per numero? Nulla. Rimarrebbero a fermentare in qualche cassetto della scatola cranica. Noi esisteremmo ugualmente. Gli aspiranti scrittori, anche. La rivista, no. Lo vedete, allora? È solo una questione di carattere.
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BIOGRAFIE PENNA Maria Claudia Bada è autrice di poesia, narrativa e saggistica, vincitrice della XI edizione della Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo e di vari concorsi nazionali di poesia. Ricercatrice in linguistica e filologia, specializzata sulle parlate alloglotte croate del Molise, la sua tesi di dottorato ha vinto il terzo premio della X edizione del Concorso Internazionale per gli Studi Scientifici sul Plurilinguismo, organizzato dall’Ufficio Bilinguismo e lingue straniere di Bolzano. Tra le sue pubblicazioni letterarie: Il sepolcro, Luisa Gasbarri Edizioni; Quattordici giorni a domani, Teramo, Demian Edizioni, 2006; Tracce vol. 72-73, Pescara, Tracce, 2006. Giuseppe Costantino Budetta, dopo un diploma classico e una laurea in Veterinaria a Napoli, oggi è professore associato di Anatomia, Fisiologia e Morfologia degli Animali Domestici presso la Facoltà di Agraria di Palermo. Ha pubblicato oltre settanta lavori scientifici su riviste nazionali, e internazionali (americane e francesi) e fa parte di importanti comitati di redazione in giornali scientifici oltre che di narrativa. Ha pubblicato, inoltre, numerosi racconti e romanzi: Venti racconti (Andrighetti, Ferrara, 2005); Vento di terra (Anna K. Valerio, Udine, 2006); Giallo Fiordaliso (La Carmelina, Ferrara, 2006); Doppia Venere di Milo (Fabula, Roma, 2007); La rosa del Grillo (Vincenzo Grasso, Padova, 2007); La vita estrema, una raccolta di poesie (Vitale Edizioni, Imperia); Cinque racconti per un viaggio (Vitale Edizioni, Imperia). Ha tantissimi romanzi già scritti e pronti per essere pubblicati. Alberto Calorosi è nato a Genova, ha 34 anni e vive a Parma. Lavora nel commerciale in un’azienda nel campo automotive. Quando non lavora e non tracanna birra trascorre il proprio tempo a leggere vecchie storie di fantascienza, ascoltare Neil Young e De André, guardare film di Russ Meyer e John Carpenter. Scrive per passione e per necessità. Enrico Cantino è sulla soglia dei 43. Ha conseguito anni luce fa una laurea in Materie Letterarie. Vive e lavora (part-time) a Parma. Venera i gatti e stravede per cartoni animati (specie se giapponesi), letteratura e quelli che lui chiama “filmacci”. Scrive racconti dal 1984 (più o meno) e ogni tanto riesce pure a pubblicarne qualcuno. Nel 2006 ne sono stati inseriti alcuni nell’antologia letteraria I Lunatici edita da MUP Editore. Felice Cavalli è nato a San Secondo Parmense. Arriva a essere amante e padre. Tutto il resto è passato in secondo ordine. Maria Cerino è nata a Salerno nel 1984. È pubblicista e collabora per la rivista europea Cafebabel.com. 34
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Diego De Silva è nato a Napoli nel 1964 ed è uno scrittore, giornalista e sceneggiatore italiano. Presso Einaudi ha pubblicato Certi bambini (2001, premio selezione Campiello), tradotto in sette paesi, da cui è stato tratto nel 2004 un film diretto dai fratelli Frazzi, vincitore di numerosi premi nazionali e internazionali, fra cui l’Oscar europeo e due David di Donatello. Sempre presso Einaudi sono usciti i romanzi: La donna di scorta (2001, finalista premio Montblanc); Voglio guardare (2002, premio Pisa); Da un’altra carne (2004, premio Melfi); e l’ultimo Non avevo capito niente (2007, Premio Napoli, finalista premio Recanati, finalista premio Strega 2008). Alcuni suoi racconti sono apparsi in svariate antologie, fra cui Disertori e Crimini (Einaudi Stile Libero, 2000 e 2005), nel quale ultimo compare Il covo di Teresa, da cui, nel 2006, è stato tratto l’omonimo film per la TV interpretato da Lina Sastri per la regia di Stefano Sollima. Con Antonio Pascale e Valeria Parrella ha scritto lo spettacolo teatrale Tre terzi, interpretato da Marina Confalone per la regia di Giuseppe Bertolucci. Scrive anche per il cinema, la TV e il teatro e collabora al quotidiano “Il Mattino” e al mensile “Giudizio universale”. I suoi libri sono tradotti in Inghilterra, Francia, Spagna, Germania, Olanda, Portogallo e Grecia.
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Pietro Iannibelli ha 31 anni e vive a Parma. Predilige Andrea De Carlo, Dan Brown e gli Harmony. Ivano Porpora è nato nel 1976 a Viadana, in provincia di Mantova. Ha cominciato a disegnare a sei anni, poi di nuovo a 15, e a scrivere a diciassette, senza interrompersi mai. Ha vissuto due alluvioni e diversi periodi di sole, un anno a Siena, quattro a Bologna, tanti nel mantovano. Michele Rossini è nato a Fano nel 1974 e, dopo essersi laureato in Chimica e aver girovagato un po’ di qua e un po’ di là, è tornato a vivere a Fano, dove si occupa di ambiente. Walter Serra è nato a San Marino ed è un bancario. Ha già pubblicato numerosi racconti e romanzi: Il cammino degli Angeli (Il Foglio, Piombino, 2006); partecipa alle antologie Le sette vite di Dalila e Achille (Underground Bool Village, 2008), La contessa del campo dei fiori (Perrone Editore, Roma, 2007), Tutti i colori dei bambini (Montag, 2008). Nel 2007 ha vinto un concorso letterario sull’emigrazione dei sammarinesi negli anni Cinquanta e nel 2008 il concorso Apas. Si è classificato terzo al concorso Luigi Antonelli – Castilenti (2007). È finalista al concorso Le storie del Novecento (2008), con un racconto inserito nella relativa antologia in corso di pubblicazione. Roberto Stradiotti, laureato in filosofia, scrive dall’età di tredici anni per un bisogno insopprimibile di natura tuttora ignota. Impiegato presso una azienda cartotecnica di Cremona, per necessità più che per passione. Andrea Tinterri è nato nel 1985 a Parma. Attualmente vive a Bianconese, piccolo paese della provincia, e frequenta Lettere Moderne all’Università di Parma. Ha pubblicato alcuni racconti sulla rivista letteraria “La Luna di Traverso” e ha collaborato al mensile “Parma Quartieri”. È interessato al mondo dell’arte, spesso cerca una produzione visiva, trovando nella pagina un’immagine da decifrare. CAMERA Roberta Abeni è nata nel 1981 nel bresciano. Dopo la laurea in Architettura al Politecnico di Milano da Ottobre 2006 a Giugno 2007 partecipa ad uno stage collaborando ai progetti DecentraCultura, Città di Città e alla mostra SlowInnovation, promossi dall’ICAlabS – Slow Innovation Strategy per l’Impresa, la Cultura, l’Arte nel Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano. Dall’Aprile 2008 è socio fondatore e membro del Consiglio Scientifico QBICA, collaborando nell’attività di progettazione di BBank – Brainstoming Bank, Banca del Tempo Culturale promosso dallo stesso ufficio dell’ICAlabS al Politecnico. Fotografa e creativa per passione, ha vissuto a Londra, lavora a Milano ed insegue Roma. Elisabetta Borda, è nata a Pinerolo (TO), laureata in materie letterarie a indirizzo artistico. Dal 2000 ha alternato l’insegnamento nelle scuole con brevi esperienze di volontariato in Kenya, Madagascar, Albania e Kosovo. Dal 2000 al 2003 è stata coordinatrice in Albania, a Gramsh, di un centro diurno per donne e minori in difficoltà per una ONG italiana. Successivamente, dal 2003 alla fine del 2005, ha lavorato a Tirana in un progetto volto alla formazione professionale di giovani albanesi, in qualità di insegnante di italiano e inglese. Ha scritto per la rivista albanese “Klan”. Attualmente alterna l’insegnamento della lingua inglese presso una scuola elementare della provincia di Torino con frequenti viaggi in Albania.
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Alessandra Carloni è nata nel 1984 a Roma. È diplomata all’Accademia Di Belle Arti di Roma, sezione decorazioni. Ha partecipato a numerose mostre: Collettiva Il linguaggio della decorazione (2006), I linguaggi della decorazione personale presso il Bastione di Sant’Anna a Moldolfo (2006 PU), Visibile e Invisibile collettiva a San Benedetto Po (2006), Linoelumgrafie collettiva di incisioni presso il comune di Formello (2006). Inoltre ha partecipato a svariati concorsi: Premio delle Arti per il progetto “Obelisco di Axum” (2005), Camera Picta – Dipingere il Cielo (2006), selezione di fotografie per la rivista “La Luna di Traverso” (2007-2008) e il concorso Cartoline d’Italia (2007, Torre Canadese). Gianfranco De Simone vive a Vallo Scalo (SA). Attualmente sta effettuando col mezzo fotografico una ricerca “astratta pura”, ossia senza l’ausilio di tecniche digitali. L’autore sta adottando tecniche
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creative utilizzando materiali di uso comune (carta, plastica, nastro adesivo) e materiali di scarto da “scartocciamento” di confezioni. Questi oggetti, usati e gestiti con luci appropriate, donano un risultato estetico di particolare effetto. Lara Groppi è nata a Piacenza nel 1977 e vive a Savignano sul Panaro in provincia di Modena. Lavora come assistente sociale, ma la sua passione è la fotografia. Ha partecipato ad alcune mostre collettive: Saranno Famosi, esposizione dell’Archivio Giovani Artisti piacentini presso la Chiesa di Santa Maria della Pace a Piacenza (2002); Pulcheria, in Piazza Cavalli a Piacenza (2002); ArteinContemporanea Emilia Romagna 2002 presso lo Studio Fotografico Rolando Paolo Guerzoni a Modena (2002); Arteincontemporanea San Benedetto del Tronto 2003. Iacopo Vaja è nato a Parma nel 1979, dove vive e lavora. Laureato in Ingegneria Meccanica sta ora conseguendo un Dottorato di Ricerca in Ingegneria Industriale presso l’Ateneo di Parma. Recentemente ha esposto al Temporary ArtBox per l’Archivio Giovani Artisti del Comune di Parma. Matteo Varsi nasce a Levanto, in Liguria. Fotografia e letteratura costituiscono la sinergia delle sue prime ricerche. Dal 1998 inizia a collaborare con “Boomerangmedia” e “Photonica”. Pubblica su “La luna di traverso” rivista letterario-fotografica ed è presente nell’antologia I lunatici (MUP, 2006). Su richiesta di Franco Fontana, l’immagine “Vertigo” (tratta da Itinera) viene acquisita presso il Museo di Fotografia Contemporanea di Modena. Nel 2003 vince una borsa di studio per accedere all’ultimo anno dell’IIF (Istituto Italiano di Fotografia) a Milano dove si diploma l’anno successivo. Contemporaneamente approfondisce il suo interesse per la camera oscura e la stampa fine art presso il laboratorio CBS sempre a Milano. La fotografia diventa il mezzo per raccontare, per dire, per affabulare. Predilige un approccio primitivo al mezzo fotografico, rifiutando manipolazioni di tipo digitale. Si avvale di strumenti molto rudimentali quali il foro stenopeico, la camera box e spesso sono gli oggetti di uso comune per agevolare e caratterizzare le sue ricerche visive. Dal 2004 vive e lavora tra Milano e Levanto. www.matteovarsi.com MATITA Ilaria Arpa è nata in un lontano e nevoso Febbraio. Dimostra fin da piccolissima una spiccata indole artistica e i genitori, per evitare di farle imbrattare i muri di casa, svaligiano cartolerie e negozi di belle arti per rifornirla di album e blocchi da disegno (si calcola che un quarto delle foreste svedesi siano state abbattute per fare fronte alle esigenze della piccola artista). La strage silenziosa di carta, penne, inchiostri, pastelli e pennini da disegno continua alle superiori dove frequenta con successo l’Istituto d’Arte cittadino. Alla fine del regolare corso di studi, non sazia e non doma, si iscrive al Corso in Conservazione dei Beni Culturali, riuscendo a terminare anche questa immane missione in un numero ragionevole di anni (molti dei quali trascorsi lavorando come grafica pubblicitaria). Artista per vocazione come ama definirsi, scrittrice discontinua, grafica da studio, casalinga (spesso) disperata, ha intrapreso da poco oltre alla via tradizionale della pittura, quella della creazione digitale.
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Siria Bertorelli è nata a Crema nel 1978. Diplomata in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera, si è specializzata in seguito in Arte Sacra Contemporanea. Lavora nel campo della grafica, dell’illustrazione e dell’installazione artistica contemporanea. Fa parte della redazione della fanzine “Bakelite”. Vive e lavora a Cremona, dove da anni si occupa di laboratori didattico-espressivi multidisciplinari. www.siriab.deviantart.com Agata Ewa Kordecka è nata a Wrocław, in Polonia nel 1976, ma vive in Italia. La sua attività artistica avviene in entrambi i paesi – Polonia e Italia. Si occupa di illustrazione, grafica, pittura e arte video. Alessio Maggioni è nato nel 1978 e vive nei pressi di Catania. È un disegnatore che insegna Matematica, ma in fondo non è cattivo. La sua prima maestra, Loredana Catania, gli infonde la passione per il nero; il suo secondo maestro, Angelo Pavone, gli spiega l’importanza del bianco. Il risultato è un maniaco dell’inchiostro, sparso, diffuso o diluito in qualunque maniera. Attualmente collabora con la Villaggio Maori Edizioni, espone in svariate mostre, anche fuori Catania. Ha pubblicato alcune illustrazioni su “La Luna di Traverso”.
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Ettore Tomas è nato in provincia di Napoli nel 1979 e vive a Sasso Marconi. Dopo una maturità scientifica e una laurea presso l’Accademia di Belle Arti in Decorazione è attualmente iscritto al biennio specialistico nell’indirizzo Grafica all’Accademia di Bologna. Dal 2003 partecipa a mostre, concorsi, progetti Mail art: mostra Indicativo Presente a cura dell’Associazione Artincanti presso Palazzo Albertini a Forlì (2007); mostra personale presso l’ex Convento di San Francesco a Bagnacavallo (2007); partecipazione alla mostra Libri mai mai visti organizzata dalla Biblioteca comunale di Sasso Marconi (2007); partecipazione alla mostra La collana bianca si colora in collaborazione con l’agenzia Einaudi di Forlì presso la Biblioteca Giovanni Ghigini Ricci a Conselice (2007, RA); selezionato e pubblicato nel catalogo al III Concorso Internazionale Ex Libris “Biblioteca di Bodio Lomnago” Opera e Melodramma, (2007, Varese); partecipazione e pubblicazione nel libro-catalogo, al progetto The screamer company (2007, Austin, Texas); partecipazione alla manifestazione Abstracta presso Filmstudio 80 a Roma (2007), selezionato al concorso internazionale ex libris Tauragei 500 presso Tauragé (2007, Lituania), partecipazione al progetto ART=START+ a cura di Ko De Jonge (2007, Middelburg, Olanda). Nell’ambito dei progetti Mail art, nel 2008 ha partecipato a: The mailartists’horse a cura del dr. Lutz Wohlrab (Berlino); MAILARTISSIMO a cura di Karin Weber (Dresda); Energy for You and Me a cura di Ebedhard Janke (Edizioni Janus Mail Art Catalogue 4); Mail Sound Art Project “1 minute Auto Hipnosis” a cura di Pedro Bericat (Mute Sound); MAILARTISSIMO 2007, comprensivo di catalogo, a cura di Svetlana Serebryakova presso The A.S. Popov Central Museum of Communications, Saint-Petersburg, I° Bienal Internacional del pequino formato, comprensiva di catalogo (Venezuela). Stelio Zaganelli è nato a Ferrara e vive dall’età di sei mesi nella città di Perugia. Si è diplomato allo Scientifico e laureato a Firenze in Architettura. Dopo un anno di pratica si dedica al design e ricomincia a scrivere. Ha scritto quattro libri, due romanzi e ne sta scrivendo altri due, in attesa di una pubblicazione. Mentre organizza mostre, crea illustrazioni, progetta per aziende e per se stesso, partecipa a concorsi, e ristruttura piccole case. Per passione e per mangiare.
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ITALIA CREATIVA sostegno e promozione della giovane creatività italiana
in collaborazione con
realizzato da
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La rivista letteraria «La Luna di Traverso», edita dalla Casa editrice Monte Università Parma, condivisa e supportata dall’Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia, struttura dell’Assessorato alle Politiche Culturali e alla Creatività Giovanile - Comune di Parma, bandisce un NUOVO CONCORSO PER NARRATORI, FOTOGRAFI e ILLUSTRATORI, numero facente parte di “BORN TO WRITE”. “BORN TO WRITE” è un programma inserito all’interno di ITALIA CREATIVA, progetto per il sostegno e la promozione della giovane creatività italiana a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Gioventù in collaborazione con l’ANCI Associazione Nazionale Comuni Italiani e il GAI Associazione per il Circuito dei Giovani Artisti italiani. Italia Creativa è rivolta a tutti gli artisti italiani attraverso un sistema di attività di network promosse sull’intero territorio nazionale da alcune città capofila. Scopo del progetto è proporre nuove attività in una prospettiva di sviluppo per il sostegno della creatività giovanile attraverso iniziative di formazione, documentazione, promozione e ricerca. Il programma, fondato su linee prioritarie di azione e settori d’intervento primari, affronta a tutto campo temi quali la produzione creativa, il rapporto tra creatività e mercato, la promozione del talento, la conoscenza, la crescita professionale, la creazione di infrastrutture. In questo percorso le azioni concrete già intraprese costituiscono il punto di partenza per indicare le prospettive di sviluppo. “BORN TO WRITE”, realizzato dagli Archivi Giovani Artisti di Parma e Firenze, strutture degli Assessorati alla Cultura dei Comuni di Parma e di Firenze, e da Monte Università Parma Editore, intende proporre delle opportunità di confronto fra giovani autori e affermati esperti nel settore della Letteratura, finalizzate alla crescita professionale delle giovani energie creative. Intende inoltre promuovere il lavoro dei giovani autori attraverso strumenti promozionali capaci di presentare le loro opere a un vasto pubblico, nonché agli esperti di settore. Il progetto si sviluppa nelle seguente fasi:
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diffusione di un bando nazionale “BORN TO WRITE” attraverso il quale selezionare i materiali degli autori che parteciperanno al progetto (2009); attivazione di un sito specifico sul progetto “BORN TO WRITE”; stampa di tre numeri, durante il 2008, de La Luna di Traverso, rivista di narrativa che coinvolge anche altri settori artistici (Fotografia, Illustrazione) promossa dall’Archivio Giovani Artisti di Parma; edizione di Inchiostri d’Autore 2008, rassegna su tematiche letterarie (Letteratura, Storia, Filosofia, Poesia, Laboratori di Scrittura, Incontri con Autori) che si svolge a Parma; stampa dell’antologia di Poesia Nodo Sottile 2008, promossa dall’Archivio Giovani Artisti di Firenze; stampa di altri tre numeri della rivista La Luna di Traverso nel 2009, promossa dall’Archivio Giovani Artisti di Parma; svolgimento del laboratorio di poesia Nodo Sottile, organizzato dall’Archivio Giovani Artisti di Firenze (2009); stampa dell’antologia “BORN TO WRITE”, sezione Narrativa (2009); stampa dell’antologia “BORN TO WRITE”, sezione Poesia (2009); edizione di Inchiostri d’Autore 2009, Parma; Conferenza Stampa nazionale di presentazione del Progetto “BORN TO WRITE”.
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REGOLAMENTO Art. 1 - TEMA DEL CONCORSO Il nostro nuovo tema è FUGHE: fuga dal presente, dal passato o verso il futuro. Fuga da luoghi o persone. Fuga come ritirata o come evasione. Come perdita, ma anche come crescita: fuga verso se stessi. Fuga da ciò che non ci appartiene, fuga come unico modo per salvarsi o come unica scelta dignitosa per non diventare complici di una situazione o di una realtà irrimediabilmente corrotta e corruttrice. In fuga con le parole, dunque, per chi sente di essere “nato per scrivere”. Art. 2 – REQUISITI PER LA PARTECIPAZIONE Il bando è rivolto a giovani autori operanti nei settori della narrativa in età compresa tra i 18 e i 35 anni residenti, domiciliati, studenti o lavoratori nel territorio nazionale. Si richiede materiale inedito in lingua italiana, che non sia stato premiato ad altri concorsi o già pubblicato anche parzialmente oppure presente in Internet. La partecipazione al bando è gratuita. Art. 3 - MODALITA’ DI PARTECIPAZIONE Opere narrative: si ammettono racconti originali ed inediti per una lunghezza massima di 5400 battute, spazi inclusi. Il materiale dovrà essere inviato via mail a giovani@comune.parma.it o tramite posta su cd rom. Opere fotografiche: si accettano opere originali e non pubblicate. Ogni autore dovrà presentare 5 fotografie in formato 10x15 in bianco e nero facendole pervenire su file, su negativo o su supporto magnetico (cd rom). Illustrazioni: si ammettono da un minimo di 3 a un massimo di 5 tavole in bianco e nero del formato massimo di un foglio A4 (21x29.7 cm). È preferibile scansionare ed inviare il materiale via mail o tramite posta su cd rom. Chi volesse, può comunque inviare le proprie opere per posta tradizionale, facendolo pervenire al seguente indirizzo: Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia c/o Palazzo Pigorini, via Repubblica, 29 – 43100 Parma. Per una maggiore valorizzazione, fruizione e aderenza agli intenti artistici e comunicativi di ogni fotografo o illustratore si richiede, ove lo stesso autore lo ritenga utile e necessario, di indicare il titolo della propria opera, le dimensioni e la tecnica utilizzata. Questi dati verranno indicati come didascalia di accompagnamento alle fotografie o illustrazioni che verranno scelte per la pubblicazione. Le opere di tutti i partecipanti dovranno essere accompagnate da una breve biografia dell’autore corredata dai dati personali (nome, cognome, indirizzo, recapiti telefonici, indirizzo e-mail). Farà fede il timbro postale. In relazione alla previsione che il materiale possa essere pubblicato, si richiede inoltre il consenso al trattamento dei dati personali ai sensi della legge 675/96 sulla privacy. Inoltre i candidati si faranno garanti dell’originalità dell’opera da loro presentata. Le decisioni della Commissione saranno inappellabili e il materiale non verrà restituito. Eventuali attestati di partecipazione al concorso saranno assegnati agli artisti che ne faranno richiesta solo qualora i loro lavori vengano selezionati.
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Art. 4 - CRITERI DI SELEZIONE e PREMIO Per la valutazione delle opere si terrà conto della qualità, dei percorsi di ricerca formale e dell’originalità dei testi e delle immagini. Il premio del concorso consiste nella pubblicazione dell’opera sulla rivista «La Luna di Traverso». Solo i vincitori saranno contattati dalla redazione e riceveranno al proprio domicilio due copie omaggio. Non si accettano racconti già editi o che hanno partecipato a bandi precedenti. Art. 5 – SCADENZA Le opere devono essere consegnate entro e non oltre le ore 12.00 del 30 Marzo 2009. INFORMAZIONI Per ulteriori informazioni, rivolgersi al seguente numero di telefono: 0521/384469, oppure agli indirizzi di posta elettronica: giovani@comune.parma.it.; redazione@lunaditraverso.it. Orari di ufficio Archivio Giovani Artisti: dal lunedì al venerdì, dalle ore 8.00 alle 13.00; lunedì e giovedì anche dalle ore 15.00 alle 17.00. Siti web: www.comune.parma.it/iniziativeculturali ; www.lalunaditraverso.it
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Illustrazione di Siria Bertorelli, Munchen 1972
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