SOMMARIO Incipit d'autore Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde
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Passaggi di stato Testo di Emiliano Racca
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Sangue Blu Testo di Silvia Favaretto
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I will survive Testo di Erika Morgagni
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Catene di seta Testo di Alfredo Goffredi
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L'anima delle cose Testo di Monique Pistolato
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La rosa nera (una leggenda sampolese) Testo di Alberto Calorosi
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ORGANIZZAZIONE E COORDINAMENTO Mariella Toscani - Responsabile Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia
Sexy Doll Testo di Daniela Raimondi
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Il mito della polvere Testo di Pietro Iannibelli
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REDAZIONE Silvia Bia, Enrico Cantino, Simona De Blasio, Lucia Gambetta, Roberta Gatti, Armando Minuz, Federica Pasqualetti, Federica Sassi, Denis Zuliani
Reincosazione Testo di Roberto Stradotti
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Mister Eco Testo di Davide Nonino
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Scatto di copertina Daniele Zoico
CHI SIAMO DIRETTORE Massimo Carta VICE DIRETTORE Guido Conti
RELAZIONI ESTERNE Roberta Gatti IDEAZIONE GRAFICA Alessandro Berti REALIZZAZIONE Simone Pellicelli STAMPA Mattioli 1885 - Fidenza (Parma) PROMOZIONE E DISTRIBUZIONE PDE - Promozione Distribuzione Editoriale
RUBRICHE Quando schiaccia un pulsante magico... Testo di Enrico Cantino
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Quell'oscuro oggetto del desiderio Testo di Armando Minuz
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Biografie
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LALUNADITRAVERSO 2007 - Anno 7 - Numero 18 Monte Università Parma Editore - Vicolo al Leon d’Oro, 6 43100 Parma INFORMAZIONI Per collaborare alla rivista scrivi all'indirizzo redazione@lalunaditraverso.it oppure telefona all’Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia (Via Repubblica, 29 - Palazzo Pigorini 43100 Parma, giovani@comune.parma.it tel. 0521/384469-70).
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Il giudizio e il lavoro editoriale della redazione sono insindacabili e accettati implicitamente. Gli autori pubblicati riceveranno due copie in omaggio. La Luna di Traverso è sostenuta dall'Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia e dall'Assessorato alle Politiche Culturali e alla Creatività Giovanile.
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Monte Università Parma E D I T O R E
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Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia Assessorato alle Politiche Culturali e alla Creatività Giovanile Comune di Parma
L'uomo energico, l'uomo di successo, è colui che riesce, a forza di lavoro, a trasformare in realtà le sue fantasie di desiderio. Sigmund Freud
Illustrazione di Sonia Possentini
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Nelle Metamorfosi, il poema delle trasformazioni di Ovidio, la natura tutta, animata e inanimata, è concepita come un insieme di creature calate in una realtà inaccettabile, soggette a passioni impossibili, per le quali la trasformazione diviene l’unica forma di salvezza realizzabile. Le stesse tematiche riappaiono ancora nell’Otto e Novecento: da Lo strano caso del Dr Jekyll e Mr Hyde di Stevenson alle Metamorfosi di Kafka, dove la società moderna porta alla spersonalizzazione dell’individuo, che perde la propria identità e, suo malgrado, si trova trasformato in qualcos’altro da sé. Così, nel mondo del fumetto ritroviamo una serie infinita di personaggi che si trasformano, in questo caso in supereroi, che fantasticano sulla possibilità di abbandonare una forma di vita comune e banale per una dimensione eccezionale e speciale… da impacciato e remissivo Clark Kent a sfolgorante e onnipotente Superman. Nella nuova cultura mediatica è lo stesso sistema letterario a subire una radicale trasformazione. Oggi la struttura della narrazione si trasforma nei modelli e generi del serial televisivo, dello spot pubblicitario, del racconto sul web. Gli stessi canali di distribuzione sono trasformati: i libri si comprano sempre più in Internet, ma anche al supermercato, in edicola, in Autogrill. Anche il tema individuato a livello internazionale per la XIII Edizione della Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo, che avrà luogo in Puglia dal 22 al 31 maggio del 2008, è incentrato sulla trasformazione: “kairos”, ovvero il tempo propizio al cambiamento, in cui è necessario cercare nuovi modelli e nuove strade anche per l’arte, rivolto a quei giovani creatori che vogliono trascendere i limiti espressivi e proporre nuovi percorsi. Il Comune di Parma - Assessorato alle Politiche Culturali e alla Creatività Giovanile - aderirà a questo evento inviando propri artisti alla manifestazione, per fornire alla nuova generazione di giovani artisti l’opportunità di raffigurare e interpretare diversamente i modelli culturali, sollevare problemi, proporre trasformazioni, incidere sull’evoluzione di tutte le discipline artistiche. Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia
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Illustrazione di Alessio Maggioni Se ogni numero fosse un anno potremmo dire che, giunti al 18°, la Luna raggiunge la maggiore età. E quale miglior tema di Trasformazioni, quando si taglia un traguardo così importante? Inutile dire che la rivista è in continua trasformazione, alla ricerca di forme comunicative nuove ed espressivamente originali (aggettivi da trattarsi con cautela e mai troppo frequentemente). Non solo. La domanda che continuamente ci poniamo è «Le forme e gli stili che pubblichiamo oggi, sono adatti alle storie e alle situazioni che la realtà propone? Cosa dovremmo fare per costruire la narrativa di domani? La velocità di cambiamento della narrativa è adeguata alla rapidità di evoluzione del gusto?» Domande difficili dalle risposte mai scontate, che aprono piuttosto dubbi e scenari piuttosto che determinare contorni o chiudere perimetri. Nonostante questo, sono questioni che ci dobbiamo porre per affrontare criticamente il nostro percorso di selezione e pubblicazione della narrativa che preferiamo sopra le altre. È in continua trasformazione ed evoluzione anche la nostra volontà di trovare nuovi strumenti espressivi che travalichino i confini di queste pagine e creino un pubblico ed un circolo virtuoso attorno alla lettura ed alla letteratura. Proprio circa gli strumenti di divulgazione della nostra idea di letteratura, a valle della recente pubblicazione del nuovo sito web, abbiamo instaurato una stretta collaborazione con i quotidiani del gruppo “L’Informazione”, che pubblica ogni domenica a Parma, Reggio Emilia e Modena un racconto selezionato dalla redazione della Luna. In questo modo vorremmo ampliare il pubblico dei lettori interessati a cogliere la nostra idea di letteratura. In questo modo, vorremmo capire se questo tipo di narrativa può funzionare anche coi lettori di un quotidiano, sicuramente più eterogenei, veloci e forse meno usi alla lettura della narrativa. In questo percorso poco rettilineo e spesso tortuoso, ma sempre e comunque proteso verso lo stesso obiettivo, rimangono alcune costanti irrinunciabili legate alla volontà di ricercare una letteratura fresca e nuova. Crediamo che anche l’uscita attuale vada in questa direzione. E allora: buona Trasformazione!
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Era proprio vero che è impossibile cambiare? Provava un desiderio sfrenato per l’immacolata purezza dell’adolescenza: la sua infanzia bianco rosata, come l’aveva chiamata una volta Lord Henry. Sapeva di essersi macchiato, di aver colmato lo spirito di corruzioni,di aver nutrito di orrori la sua fantasia; sapeva di aver avuto un’influenza maligna sugli altri e di aver provato una gioia terribile nel farlo; e sapeva che delle vite che avevano attraversato la sua, proprio le più belle e le più ricche di promesse, erano state da lui condotte all’infamia. Ma era irreparabile, tutto questo? Non aveva nessuna speranza? Ah! in quale mostruoso attimo di orgoglio e di passione aveva invocato che il ritratto portasse il peso dei suoi giorni, lasciando a lui l’immacolato candore dell’eterna giovinezza! A questo era dovuto il suo fallimento. Sarebbe stato meglio, per lui, se ogni peccato avesse portato con sé il suo castigo certo e immediato. Il castigo purifica. Non «perdona i nostri peccati», ma «colpiscici per le nostre iniquità» dovrebbe essere la preghiera dell’uomo nei confronti di un Dio più giusto. Lo specchio stranamente intagliato che Lord Henry gli aveva regalato molti anni prima era sulla tavola e, come un tempo, gli amorini dalle bianche membra ridevano tutto intorno alla cornice. Lo sollevò, come aveva fatto in quella notte tremenda quando per la prima volta aveva notato il cambiamento nel quadro fatale, e guardò la liscia superficie con occhi disperati e colmi di lacrime. Una volta, una persona che lo aveva amato terribilmente gli aveva scritto una lettera folle che terminava con queste parole di adorazione: «Il mondo è cambiato perché tu sei fatto di avorio e d’oro. La curva delle tue labbra riscrive la storia.» La frase gli ritornò alla mente e la ripeté più volte tra sé, poi imprecò contro la propria bellezza e, gettato lo specchio sul pavimento, lo ridusse a schegge d’argento sotto i tacchi. La bellezza lo aveva rovinato, la bellezza e la giovinezza da lui invocata.. Senza queste due cose, la sua vita avrebbe potuto essere senza macchie. La sua bellezza era stata solo una maschera, la gioventù solo una beffa. Che cos’era la gioventù, nel migliore dei casi? Un’età verde, acerba, un’età di amori superficiali e di pensieri morbosi. Perché ne aveva indossato la livrea? La gioventù lo aveva rovinato. Meglio non pensare al passato. Nulla poteva mutarlo. A se stesso, al suo futuro, doveva pensare. Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, Milano, Garzanti, 1988, pp. 299-300.
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Scatto di Chiara Battistini
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Testo di Emiliano Racca Illustrazione di Alessio Maggioni
Il tronco, la testa, e la coda del mostro erano ormai del tutto immobili. I ripetuti affondi miei – sul dorso – e dell’ottimo cavaliere Jean la Croix – al ventre – avevano alfine avuto ragione su di esso. Ma a che prezzo, Signore! Infatti anche per l’anima di Jean l’ora estrema era giunta, benché la sua destinazione fosse agli antipodi di quella del Drago. Stramazzato a terra in un lago di sangue, e rivoltemi poche parole di commiato, spirò tra le mie braccia, addormentandosi in Te. Non so, a quel punto, se più afflitto o spossato, deposi delicatamente la spoglia accanto a quella del Drago. Adieu Jean, mon tres cher ami, furono le uniche parole che mi riuscì di pronunziare, trattenendo a stento le lacrime che, da sotto i bulbi, urgevano per traboccare. Ma il mio pianto fu anticipato da ben altri umori, ossia i fluidi vitali di Jean e del Drago. Gorgogliando, presero a spicciare dai rispettivi corpi violentius quam antea. E fin lì nulla di bislacco, presentando entrambi varie e profonde ferite. Lo strano, semmai, fu assistere, non appena il sangue dell’uno venne in contatto con quello dell’altro, a un fenomeno che definire mirum atque mirabile è dir poco, e il cui artefice non puoi essere stato che tu, mio Signore.
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La pellicola di ghiaccio che aveva incrostato ogni ambiente della nave stava crescendo a vista d’occhio: presto il volume sarebbe stato tale da intasare tutto. All’unico ufficiale ancora in vita accadde allora una cosa strana: più la vista si offuscava, più distingueva il profilo dell’interlocutore di poco prima. Ravvisandovi un grottesco paradosso, intuì tuttavia che mai avrebbe focalizzato quella figura, troppo amorfa, troppo cangiante, troppo simile alle macchie simmetriche d’un caleidoscopio, o a un misto di pasta vetrosa e nebulose in espansione… In definitiva, un’entità camaleontica e poco propensa a farsi identificare da occhi umani. Che ora, dopo una fase instabile di pennellate grigioverdi, appariva biancastra, non più cinerina. Un bianco sporco che gli ricordò la “sua” Via Lattea, e il cui pensiero gli strappò una lacrima o due, destinate a vetrificarsi come qualunque altro fluido corporeo. Quel gorgo policromo sarebbe stata per lui l’ultima apparizione sensibile dell’aldiquà? Chissà. Di certo tutti quegli aggettivi tipo lugubre, inquietante, cupo e affini, che prima gli era venuto spontaneo abbinare alla creatura, non avevano più senso ora che ne scorgeva il rassicurante alone candido, quella sì la sua vera luce. Congedarsi da essa significava al contempo congiungersi, compenetrarla, divenire un’entità sola. L’ennesimo paradosso a miliardi di miglia dalla Terra. Quale spettacolo! quale delizia per gli occhi! I rivoli, rossi, provenienti da Jean si mescolarono a quelli, verdazzurri, del Drago, dando vita a un nuovo cruor partecipante della natura dell’uomo e della bestia, iridato eppur opaco, chiaro eppure scuro, fluido eppur pastoso. Ma il fatto ancor più straordinario era che, a poco a poco, sembrava perdere ogni peculiarità sanguigna e avvicinarsi alla diafanità dell’acqua. Il cruor, infatti, nelle sue cangianti mutazioni, si stemperò dapprima in acqua ferruginosa, poi fangosa, sabbiosa, falba, e infine – prodigium! – acqua sorgiva dai riflessi adamantini. Assunto tale definitivo aspetto, il già di per sé potente ruscelletto si fece torrente, dilimando impetuoso a fondovalle, con una portata apparentemente inesauribile. Inesauribile, dotato di virtù proprie e soprattutto vivo, benché gli organismi da cui era fuoriuscito fossero ormai morti. Fu allora che ebbi la netta sensazione che il corso d’acqua superficiale stesse chiamando simpateti-
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camente a raccolta altri corsi d’acqua sotterranei, così da potersi ingrossare e scavare un letto decoroso entro cui sciaguattare per molto, molto tempo ancora. Era nata la Colla, il nostro amato torrente! Seppe che era finita quando non udì più le proprie parole, pur nella certezza d’averle pronunciate a mezza voce, e non fra sé e sé. Ma quale senso aveva perso? Il gusto? L’udito? Entrambi? E se non fosse affatto deprivazione sensoriale, ma piuttosto uno scherzo della sua mente, magari già preda d’uno strano incubo comatoso? Si sarebbe spiegato la difficoltà di sentirsi parlare, essendo soltanto un’illusione. Tuttavia non trovò risposta: troppi pochi dati a sua disposizione. A consolarlo l’idea che, in fondo, tutto ciò non rappresentava più un prurito filosofico così urgente o fondamentale. Niente lo era più, a quel punto. Sordomuto o schizoide, stava di fatto che quell’irreale assenza di suoni costituiva un preludio infausto, e la risposta a mille congetture sarebbe stata una e una soltanto, stavolta senza margine d’errore. Lo sgorbio, sempre lì e sempre più sfacciato, non ebbe ritegno di stornare quello sguardo crudele dalla propria vittima né negli ultimi secondi d’agonia, né quando questa, esanime, lasciò crollare il capo di traverso, i capelli corvini già bianchi di brina. Una coltre spessa e traslucida si era ormai propagata all’interno della White Amazon, convertita di fatto in una ghiacciaia a motore. A contemplarla occhi non meno gelidi, indifferenti pupille diafane e iridi color computer. L’esatto colore non già di quei classici computer-di-bordo così ambiziosi da voler surclassare i progettisti umani, ma come uno in tilt che, anziché attivare il SELF REPAIRING SYSTEM, per sbaglio riprogrammi al contrario delle serpentine criogene.
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Testo di Silvia Favaretto Scatto di Maria Cecilia Camozzi
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Lei moriva lentamente, impercettibilmente ma incessantemente, come l’erosione del vento e del salso corrodeva l’intonaco del nostro castello. Sul letto di mogano, circondata da cuscini bordati di pizzo, lei moriva. Moriva guardando dolcemente Sara che le passava un panno bagnato sulla fronte. Moriva sorridendomi lievemente quando mi sedevo sul bordo del letto, attento a non tirare troppo, con il mio peso, il lenzuolo su di lei, come se si potesse sbriciolare, come se la sua pelle chiara fosse di vetro soffiato. «Leggimi qualcosa, Rodrigo», con un filo di voce carezzevole, come un sospiro. Amava leggere, ma da qualche settimana il dottore diceva di farle riposare gli occhi che erano affaticati. «D’accordo, ma poi mangerai qualcosa». Annuì con un battito di ciglia e poi sorrise quel tanto da farmi comprendere che non avrebbe mangiato nulla. Scesi in salotto a cercare un libro. Allungai la mano verso la libreria e mi prese uno strano fremito, una sorta di terrore di risalire e trovarla senza vita. Afferrai il primo volume che trovai sullo scaffale e corsi al piano superiore con una disperata frenesia: era come se avessi avvertito la morte nel corridoio e avessi voluto precederla per sbarrarle il cammino. Giunto accanto alla soglia mi fermai un attimo, per calmarmi. Respirai profondamente, poi spinsi leggermente la porta e vidi Lidia sorridermi, candida nel bianco delle lenzuola. Mi sedetti e osservai il libro per la prima volta. Era il volume iniziale de Le mille e una notte. Cominciai a leggere e continuai tutto il pomeriggio, finché non si addormentò. Il libro le era piaciuto molto e quando si svegliò, dopo qualche ora, a sera inoltrata, mi chiese di leggerle ancora qualche pagina. Andai a letto insolitamente più sereno e, il giorno dopo, il sole che entrava dal balcone illuminò i suoi occhi sorridenti mentre pronunciava piano: «Leggi». Lessi. I giorni si susseguivano calmi. Lidia sembrava migliorare. Giunti al terzo tomo, prese a mangiare autonomamente e il dottore le tolse la flebo. Al quinto volume, Sara l’aiutava a fare piccoli passi verso la specchiera, dove si spazzolava i capelli da sola. Era già in grado di leggere per conto suo ma preferiva che io continuassi a farlo e con piacere l’accontentavo. Chiacchierava volentieri, ma preferiva comunque ascoltarmi mentre le leggevo il decimo volume, l’ultimo. A metà gennaio arrivai all’ultima pagina. Si dispiacque molto e io con lei. «Ti leggerò qualcos’altro», promisi. «Anzi, ben presto tu stessa andrai nella libreria del signor Flyn a scegliere il libro che vuoi». Sorrise all’idea, ma la sera si sentì stanca e si ritirò presto. Il giorno dopo, quasi non si alzò dal letto e perse completamente l’appetito. «Non è niente. È solo che non sei ancora del tutto guarita, tesoro». «No, è il libro», sospirò. «Va bene. Ti leggerò qualcos’altro, se pensi che possa farti sentire meglio». Provai con Proust, con Dumas, con Dostojewski, ma nulla sembrava trattenerla dal peggioramento dei giorni seguenti. Anche il dottore, intervenuto per ricorrere nuovamente alla flebo, si stupì. Fu suo il suggerimento: «Perché non le scrive lei delle novelle?». Lidia parve assentire con curiosità e io cominciai a scrivere per lei. La mattina mi rinchiudevo nello studio a imbrattare fogli su fogli. Al pomeriggio leggevo a Lidia il frutto della mattinata passata allo scrittoio e lei ne era estremamente felice. Con il passare del tempo, Lidia migliorava, come la mia scrittura, e io ne ero entusiasta. Dopo mesi in cui avevo dato fondo a tutta la mia fantasia, le idee cominciarono a scarseggiare e, sebbene mia moglie stesse notevolmente meglio, al punto di lavorare all’uncinetto mentre io leggevo, devo confessare che cominciai ad avvertire in me un senso di stanchezza mentale, di spossatezza. L’aridità della mia vena creativa arrivò a quel punto di non ritorno che tutti i veri scrittori temono. Non ricordo il giorno esatto, ma ricordo l’ora: dieci della mattina, con il sole alto che illuminava, di fronte a me, un foglio bianco, tragicamente bianco, ineluttabilmente bianco. La mia mente era vuo-
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ta, nemmeno un’idea, non una singola ispirazione e il foglio bianco continuava a stare lì, silente. Non riuscivo a scrivere e cominciai a sentirmi in preda al panico. Consultai altri libri, tutti diversi tra loro ma nulla mi suggeriva un tema, dei personaggi o delle storie, niente. Lidia restò un po’ male quando le confessai la mia sterilità inventiva, ma comparata alla mia angoscia, la sua reazione mi parve quasi di rassegnazione. «D’accordo. Hai fatto quello che hai potuto. Non ti preoccupare, Rodrigo». La sua risposta mi atterrì, così come mi gettò nello sconforto più totale il pallore sempre più accentuato dei giorni seguenti e la debolezza con cui riponeva i ferri da uncinetto e chiedeva di accostare le tende. Provai persino a pagare delle persone per scrivere novelle e racconti, ma tutto fu vano. Uscii per l’ennesima volta in cerca d’ispirazione, sforzandomi con tutta la rabbia che avevo in corpo, prendendo a calci le begonie nell’aiuola e maledicendo la letteratura e la mia mente, misera e limitata. Poi tornai nella sua stanza, dove mi aspettava la più tragica visione: si era aperta i polsi con la mia stilografica scarica lasciata sul comodino. Giaceva sul letto immacolato con gli occhi chiusi, immersa in pozze d’inchiostro blu.
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Testo di Erika Morgagni Scatto di Matteo Varsi
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«Scusa, sapresti dirmi che ore sono?». Me lo hai chiesto dopo aver lasciato l’impronta dei tuoi denti perfetti su uno spicchio di pizza. «Le cinque e un quarto», ti ho risposto senza nemmeno togliermi gli occhiali da sole. Avrei voluto dirti che quando sei in Autogrill gli orari smettono di avere importanza. Che negli Autogrill il tempo non esiste. Esiste solo il ritmo. Che c’è sempre qualcosa che ti aspetta più avanti. Le riviste di gossip, un dentifricio tedesco, una schiuma da barba, un panino congelato, una cassiera senza monete. «Ti andrebbe di fare un giro?». Me l’hai detto con le labbra ancora unte e un sorriso senza uscita. Uno di quei sorrisi che ti obbligano a tornare sempre indietro. Alla macchina, all’autostrada, all’asfalto ancora fresco, ai camion che viaggiano in terza corsia. A tutto quello che hai lasciato fuori. «Va bene», ti ho risposto con la fronte già congelata dall’aria condizionata. Ho capito che tu lo sapevi battere, il ritmo. Con i denti, con le labbra, con la bocca. Che eri l’unico uomo al mondo a saper tenere il tempo degli autogrill con uno spicchio di pizza troppo fredda. «Dove sei diretta?», mi hai domandato mentre ti pulivi le dita ancora sporche di pomodoro. Ho pensato che i viaggi veri un nome non ce l’hanno, che non finiscono quando arrivi da qualche parte. Che le strade asfaltate e le corsie di emergenza ce le portiamo anche dentro. «Vado a Ferrara per lavoro», ti ho confessato con le spalle appoggiate allo scaffale degli snack al formaggio. «Che lavoro fai?». Mi hai guardata come se fossi anche io un sacchetto di patatine troppo salate ancora da aprire, con la sorpresa di plastica nascosta dentro. «Mi occupo di arte.» Ti ho visto annuire mentre prendevi in mano una scatola di cioccolatini ripieni di liquore. Ti volevo confessare che il ripieno non ce l’hanno solo i cioccolatini, le caramelle, i gelati, i biscotti. Che anche noi siamo imbottiti come i panini nelle vetrine dei bar. Siamo farciti. Di vita, di organi, di cellule, di idee, di memoria. «Sei un’artista?». Ho guardato i tuoi capelli lucidi e ho pensato che assomigliavano a una scultura realizzata con un colpo di phon e un po’ di gel a lunga tenuta. Forse l’artista eri tu. Che trasformavi i capelli in sculture, gli spicchi di pizza in strumenti musicali, le persone in sacchetti di patatine. «Veramente lavoro per una galleria. Porto le opere d’arte a casa dei compratori.» Avrei voluto dirti che quando accompagni un’opera d’arte da qualche parte, dai un passaggio anche ai suoi grumi di colore, a tutti i pennelli che ci sono passati sopra, agli occhi che l’hanno guardata, alle dita che l’hanno toccata. «Vorrei farti un regalo.» Ti ho visto passare tra i pezzi di prosciutto sottovuoto e le confezioni di tortellini tutti uguali, e ho capito che eri uno di quelli cui non piace far scadere i primi incontri. Uno di quelli che vorrebbe conservare i primi sguardi in frigorifero, di fianco al latte parzialmente scremato e alle lattine d’aranciata. «Un regalo?», ti ho chiesto mentre iniziavo a sentire l’odore dei salami appesi da qualche parte. «Scegli quello che vuoi. In cambio mi dai il tuo numero di telefono.» Ti dovevo confessare che non credo negli scambi, ma solo nei baratti. Che gli scambi ti fanno sempre perdere qualcosa di importante. Una figurina doppia, una collezione di fumetti di Dylan Dog, i punti del supermercato. E poi il tuo non doveva essere un regalo, ma un dono. Perché i regali iniziano ad esistere solo quando li incarti e gli metti il fiocco. Sono solo oggetti travestiti con la carta dorata, ma non le trasformano le cose. Le travestono e basta. I doni, invece, non li puoi impacchettare, ma solo sbucciare come un’arancia troppo matura. Perché hanno il succo della vita dentro, i doni. «L’hai mai letto questo?». Ti ho guardato sfogliare le ultime pagine di un libro in edizione economica e ho pensato che i segreti non ti erano mai piaciuti. Che nessun libro ti aveva ancora parlato all’orecchio per dirti qualcosa che non sapevi. «La metamorfosi di Kafka? Sì che l’ho letto», ti ho risposto mentre provavo un cappello di paglia troppo grande. Forse te lo dovevo dire che le persone non possono trasformarsi, ma solo travestirsi. Che siamo noi a trasformare tutto quello che ci passa dentro. I pensieri, i libri, i ricordi, l’acqua, le patatine ipercaloriche, i tortellini
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confezionati degli Autogrill, gli spicchi di pizza. Tutto. Che ci facciamo entrare le cose nella testa e le lasciamo uscire solo quando sono lievitate abbastanza. Come fa un forno con una torta. «È uno dei tuoi preferiti?», mi hai domandato con la bottiglia di acqua minerale quasi appoggiata alle labbra. «Uno dei miei preferiti sicuramente.» Non mi andava di raccontarti che quel libro di segreti ne aveva tanti. Che quando un uomo si traveste da insetto ha perso la speranza di essere riconosciuto. Dal padre, dal datore di lavoro, dal suo letto, dalle sue coperte. «Allora, hai visto qualcosa che ti piace?». Volevo dirti che i doni veri non si scelgono con gli occhi, ma con le mani. Che non si fanno scartare, ma solo sbucciare. Con le dita, con le unghie, con i pollici. «Prendo questo.» Ti ho messo in mano un CD di Gloria Gaynor e ti ho visto sorridere. Ai suoi capelli cotonati, alla sua pelle scura, ai suoi denti bianchi. «Gloria Gaynor? Ti piace la musica anni ottanta?». Forse non sapevi che nemmeno gli anni ci trasformano veramente. Ci svestono e basta. Sbottonano l’abito di carne che indossiamo tutti i giorni, gli anni. «Conosco solo la canzone più famosa, I will survive», ti ho risposto mentre ti passavi la mano tra i capelli scolpiti. «Allora, me lo dai il tuo numero?». Me l’hai chiesto quando ormai eravamo già troppo lontani. Dai prosciutti sottovuoto, dai libri in edizione economica, dai primi sguardi. Ho scritto una serie di numeri a caso su un foglio a quadretti e te l’ho consegnato come se fosse un calcolo di algebra con troppe incognite. «Ci sentiamo. Ascolta I will survive, durante il viaggio», mi hai quasi urlato mentre salivi sulla tua macchina grigio metallizzato. Non te l’ho detto che la sopravvivenza non si può ascoltare su un CD, ma solo indossare. Che è l’abito di pelle più stretto che possediamo. La fodera di carne che non smette mai di ricoprirci. Che per sopravvivere le persone devono trasformare tutto quello che gli entra dentro. Il sonno in sbadigli, i virus in malattie, gli hamburger in colesterolo, gli incontri in primi sguardi, il tempo in ritmo. I pensieri in parole. A volte.
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Testo di Alfredo Goffredi Scatto di Giuseppe Ammannato
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Stava in piedi: il corpo teso, quasi pietrificato, guardandosi negli occhi. Era decisa a non tirarsi indietro. Non poteva. Non questa volta. Il corpo metallico stretto nella sua mano destra rappresentava, al momento, il solo modo per porre fine a una vita da marionetta. Riluceva nella penombra serale, intiepidita dall’esile stiracchiarsi di una candela. Lo sentiva freddo a contatto con la carne. Sotto i suoi piedi, le mattonelle del pavimento si erano ormai intiepidite. Chinò la testa, a guardare il proprio corpo, nudo. Le sembrava non ci fosse niente fuori posto, e lo specchio pareva non volerla smentire, restituendole l’immagine di un corpo armonioso e aggraziato. Tuttavia, da troppo ormai si faceva strada nella sua mente l’idea che in lei qualcosa non andasse, se non in superficie, forse più in profondità. Cercò la conferma negli occhi della ragazza che aveva di fronte e non ci volle molto perché la trovasse. Mentre il sole calava e l’oscurità avanzava, i suoi occhi si adattavano gradualmente alla piccola sorgente di luce che, dalla cassettiera laccata, accanto all’occorrente per la toelette, sembrava stesse per collassare su se stessa, annullando quell’attimo e consegnandolo per sempre all’oblio; ancora una volta. No. Questa volta era decisa. QUESTA VOLTA non si sarebbe limitata ad abbaiare, ma avrebbe morso con la forza e la furia di un randagio in lotta per la sopravvivenza. Perché, in fondo, quello era diventata. La pendola del corridoio annunciò la sesta ora pomeridiana. I rintocchi vibrarono vividi nel silenzio del piano rialzato, penetrarono in ogni stanza con la leggerezza di una brezza sottile, quindi si poggiarono come polvere su ogni cosa e svanirono. Trasse un profondo respiro. Vide il petto gonfiarsi, sentì i polmoni riempirsi d’aria. Espirò, ad occhi chiusi. Poi li riaprì di scatto. Non ebbe nemmeno il tempo di pensare quando, quasi con la stessa rapidità, colpì. Fu un taglio netto; lo si sarebbe detto profondo. Sentì la materia scorrerle sulle braccia, lungo i fianchi e poi giù per le gambe, accumulandosi sul pavimento. Sembrava seta. Seta rossa che le scivolava di dosso depositandosi ai suoi piedi. Ecco. Nel tempo compreso tra l’inizio e la fine di un battito di ciglia, era tutto finito. Fu così che la trovò sua madre, di ritorno dalla preghiera serale; in piedi in quella serica pozza rossa. Gli occhi, piantati nel grande specchio ovale, ammiravano compiaciuti i resti dei vincoli che avevano reso il suo corpo una prigione sterile, sui quali ora sorgeva qualcosa di talmente diverso e vitale che faticava a ricollegarlo al suo passato. «Che cosa hai fatto?!», gridò, in un misto di collera e disgusto. Troppo tardi. Le catene erano ormai spezzate. Le catene, che da sempre aveva dovuto portare controvoglia, giacevano ora ai suoi piedi, completamente inerti. Per la prima volta quella sera staccò gli occhi dallo specchio e, ruotando lentamente la testa verso sinistra, li fissò in quelli della madre. «È finita», disse. «Perché?! PERCHÉ?!» La zittì con lo sguardo, un tempo così remissivo e assolutamente compiacente, ora ben più aspro e selvatico. «Sono finiti i giorni in cui ero la vostra bambola, Madre.» «Che cosa…» «Me ne vado da qui, Madre.»
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La donna era come pietrificata. Lo sguardo, scostatosi da quello della figlia, era fisso nel vuoto della stanza, privo di qualsivoglia scintilla. La mente in preda a un vortice. Sembrava invecchiata di colpo di vent’anni. «Tu…», uscì come un rantolo, «tu non sei mia figlia…» Un sospirare affannato scandì le cinque parole, gettando la stanza nel silenzio più assoluto. «Avete ragione. Non sono vostra figlia. Non la sono più. Lei aveva lunghi capelli rossi.»
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Testo di Monique Pistolato Scatto di Patrick Raimondi
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Nella notte, un via vai di numeri che come spilli avevano bucato i suoi sogni. Sottrazioni. Si era svegliato con una sensazione di perdita. Mauro si fece la barba. Sollevò leggermente il ciuffo spruzzandosi una scia di lacca, quando sua figlia si affacciò. «Signor cotonato, ne hai per molto?». Continuò i suoi lavori mattutini incurante, finché nello specchio gli sembrò di essere pronto. Raggiunse la cucina fischiettando. Bevve d’un fiato il caffè, svicolando i battibecchi mattutini di moglie e figlia. Certi giorni non le sopportava. Le corse in moto, il deserto del Sahara, Cuba in autobus, gli sembrarono lontanissimi. Distanti da quell’uomo in ciabatte che automaticamente baciava sulla fronte una donna in pigiama che sapeva di sonno, facendo raccomandazioni a una cavalletta pustolosa. Guardò l’ora, prese le chiavi e aprì la porta, quando alle spalle lo raggiunse una raffica che lo tormentava da mesi: «Mauro l’annuncio, ricordati l’annuncio…». Si chiuse nell’impermeabile, sospirando. Era una mattina velata di un maggio arrivato all’improvviso, quando i suoi pensieri furono spazzati dal verso di una rondine che planava verso la chioma di un ciliegio. Inspirò il profumo di quei fiori appena nati. Primavera già da un pezzo. Sembrò esserne consapevole solo in quel momento. Giunto al negozio, tirò su con forza la saracinesca. La stessa grattata di ferraglia da vent’anni. Quattro volte le dita delle mani, pensò guardando quelle forme di foglie secche di platano. Un secolo per il suo mestiere. Lo accolse un’aroma di cera, carta e solvente. Si mise sull’attenti dinanzi alle gigantografie che lo guardavano dalle pareti e il suo respiro inciampò. Un profilo slanciato in bianco e nero. Socchiuse gli occhi. Pelle di seta avorio, immobile, con una gonna in sangallo sollevata da un vento dispettoso. Capelli corvini, lunghi, scarmigliati come spade. Mare schiumoso dopo il maltempo e quel corpo da sfinge: un brivido. Si era incantato di fronte a una scultura di adolescente assorta in pensieri che le arricciavano una bocca vermiglio su una sigaretta trattenuta come un ciuccio. L’aveva catturata con un clic, per sempre. Quel frangente gli apparteneva, ne avvertì il sapore. Con gesti automatici accese il computer e il nuovo minilab tutto digitale. Controllò il registratore di cassa, obbligandosi a guardare fuori. I vetri polverosi gli rammentarono i sintomi di un’indolenza malata. Continuava a rimandare: un panno con il Vetril; i conti; quell’annuncio da fare: VENDESI. Passò il piumino sulla vecchia Leika ricordo di suo padre che era stato emigrato in Germania. Le lacrime si affacciarono. Risentì le chiacchierate complici di loro due dentro la camera oscura. Gesti misurati tra liquidi, bacinelle e mollette, in attesa che scarabocchi acquosi diventassero immagini. Pezzi di storie. Accese la radio e lo sguardo scivolò su una polaroid appoggiata sulla mensola: lui e Annalisa a Berlino, un maggiolone celeste neonato, sguardi sorpresi e felici. Rimirò quel quadratino grosso dai colori impastati: che invenzione, a suo tempo! Sentì l’eccitazione dell’inquadrare, premere e stampare… I brividi di avere tra le mani un istante fermato: subito. Certo, niente a confronto della perfezione della sua vecchia Nikon, però l’avvento dell’istantanea era stata una sorpresa. Cresime, battesimi, lauree: c’erano stati anni che i giorni della settimana erano
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inchiodati all’agenda da prenotazioni arrivate con mesi d’anticipo. Sì, una volta la gente investiva per fermare i momenti cari, nessuno improvvisava… Ma oggi l’avvento di quei mostri digitali, che permettono di scaricare nel computer migliaia di scatti inutili e noiosi, a volte mai visti, era un masso sulla Professione. Storse le labbra serrate immaginando le memorie come grandi acquari dimenticati. La porta dell’ingresso si aprì con energia. Rientrò dai suoi pensieri. Si trovò di fronte una pigmea, certo sotto il metro e cinquanta. «Sono la figlia della signora Adele, non so si ricorda di me…». Mauro esitò un istante spingendosi gli occhiali sul naso. La giovane – non avrebbe saputo darle un’età – con due enormi occhi tiroidei rigati di indaco gli aprì davanti un album in cuoio che aveva portato con sé. «Ecco, vede, lei ha fatto questo servizio sul venticinquesimo di matrimonio dei miei genitori, esattamente quindici anni fa!». L’espressione di Mauro si allargò in un sorriso. Ricordava nel dettaglio i protagonisti di quella festa: varietà umana. Il prete con una faccia porcina e capillari sanguigni che dal pulpito tuonava come se si fosse scolato un fiasco di rosso. La signora Adele con un vestito crema a volani da bambolina di carillon e lo sposo – uno stuzzicadenti d’uomo – con un gessato su cui era appuntato un gigantesco garofano rosso. Sfogliò ammirando quei quadri, cercando di individuare la donna bomboniera che ora gli stava davanti. «Vede, quando io e i miei fratelli sfogliamo queste pagine è come se rivivessimo quel giorno felice. La contentezza dei nostri genitori…» «Già: le foto trattengono i ricordi…», sottolineò Mauro. «Sì, però non è un fatto di scatti… Ci sono occhi che sanno individuare e trattenere l’anima delle cose, per questo sono venuta da lei.» Mauro arrossì, abbassando lo sguardo. L’anima delle cose. Quelle parole gli brillarono nella testa. «… La gemella della signora Adele, che viveva in Australia, ora morta. Zitella, nel calvario di una lunga malattia che le aveva guastato la testa, aveva distrutto tutte le immagini di sé. Ora, non avevano neanche una piccola foto formato tessera da mettere sulla lapide…» Così gli stava chiedendo di utilizzare una foto di sua madre, ritoccandola, per dare un volto alla tomba. La cosa gli sembrò poco ortodossa… ma c’era quel prurito. L’anima delle cose. Si mise al lavoro, convinto che neanche per quel giorno avrebbe scritto il cartello VENDESI.
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Testo di Alberto Calorosi Illustrazione di Sonia Possentini
La rosa nera (Una leggenda sampolese) 18
Ai miei ingenui occhi di bambino, Ermete Bolondi appariva vecchissimo. La personificazione del tempo. Dita grosse come salsicce, lunghe braccia penzoloni, schiena ricurva eppure massiccia, irregolare lanugine bianca sulle guance scavate, pelle scura del color dell’autunno. E in fondo alle orbite, due occhi lontani brillavano come azzurre ametiste incastonate in grotte profonde. La bocca era un tumultuoso crepaccio. Le poche parole parevano terremoti. Dentro, tre o quattro enormi denti coi quali Ermete avrebbe un giorno masticato ed ingoiato il mondo intero. Da sempre era il custode del cimitero di San Polo. Situato tra la Gabina e Via Sessanta – l’unica sconnessa stradicciola di accesso –, cinto da un muro di sassi costruito chissà quanti secoli addietro. Tutt’attorno, campi a maggese o, in ottobre, lunari distese di scura terra arata. Si aveva l’impressione che morire fosse difficile, a San Polo. Un reato di cui solo i peggiori potessero avere la sfrontatezza di macchiarsi. Antistante la massiccia cancellata di ferro battuto, un piccolo parcheggio tra i faggi per le poche auto, ed una rugginosa rastrelliera per le biciclette. Di lato, adiacente al muro di cinta, un’aiuola circondata da una bassa ringhiera ad anelli. Al centro, una fontana zampillante con un grande pesce una volta rosso il quale – sostenevano i più impertinenti – aveva la medesima età del vecchio custode. Ermete adempiva al suo compito con dedizione e rigore. S’aggirava pensoso per i viottoli del cimitero. Raccoglieva scrupolosamente i sassolini finiti in mezzo alle tombe, rastrellava la ghiaia, ne aggiungeva di nuova quando il sottile strato si lacerava a scoprire la terra battuta e le erbacce. Oppure lucidava con uno straccio le tombe rese opache dalla bruma e dagli anni, sostituiva i lumini smorzati ed incrostati di cera, disapprovando silenziosamente tanta incuria. Ogni anno riverniciava il cancello. Ai pochi che chiedevano spiegazione di cotanta solerzia, soleva rispondere: «Non rassettate voi ogni mattina il letto in cui riposate nottetempo?» Soprattutto, Ermete amava prendersi cura della piccola aiuola all’ingresso. Metodicamente estirpava le erbacce, tosava l’erba, puliva l’acqua della fontana, nutriva il grosso pesce elargendo ampie manciate di una strana granaglia che conservava gelosamente in un vecchio secchio nero da imbianchino. Era usuale vederlo inginocchiato sull’orlo della fontana, in silenzio, a contemplare la sua immagine riflessa nello specchio d’acqua bruno, o chissà quali personali misteri appena al di là. E poi un piccolo roseto di cui Ermete andava oltremodo orgoglioso. In primavera un arcobaleno puntiforme abbracciava la fontana, quando rose di ogni colore e fattura sbocciavano. D’autunno, simili a
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filo spinato, i rami irti di aculei circondavano la pozza d’acqua, austeri come una minaccia. Non mancavano parole di conforto a coloro che venivano per quietare il proprio malessere. «Il caro Nereo è felice, ora che ha smesso di soffrire», diceva accarezzando la rada chioma azzurrina della vedova Arduini. Oppure, allungando il fazzoletto profumato alla vedova Schianca: «L’amore che Onofrio nutriva per lei è più forte, ora che lui è puro spirito». Talvolta cingeva le anziane donne col braccio ossuto e le accompagnava fino all’uscita senza parlare, empatizzando così, con il suo silenzio, il doloroso silenzio della perdita. La più inconsolabile era la vedova Rossetti. Trascorreva ore ed ore, giorno dopo giorno, china, a bagnare di lacrime l’eterna dimora del marito scomparso. «Tu non sei morto… tu non sei morto…», ripeteva singhiozzando. Dopodiché si segnava, appoggiava fiori freschi sulla tomba e gettava quelli del giorno prima oltre il muro di cinta. «Suo marito si sente certamente triste, nel vederla piangere in questo modo», diceva Ermete porgendole il braccio per aiutarla ad alzarsi. «Lui non è morto», ribatteva lei. Il giorno successivo, la vedova ritornava e piangeva il marito per ore. Dopodiché sostituiva i fiori e gettava i vecchi oltre il muro di cinta. E così per molti giorni. Uno di questi, Ermete si avvicinò all’anziana signora. Disse: «Amelia, la prego di non gettare i fiori secchi oltre il muro perché cadono sull’aiuola. Per favore, usi il cestino all’ingresso.» «Sì, certo… mi scusi, Ermete, mi scusi. È che… sa… io…», e ricominciò a singhiozzare. Ermete la lasciò sola. Un paio d’ore dopo la donna si segnò, sostituì i fiori e gettò quelli vecchi oltre il muro. Così fece per giorni e giorni. Ogni volta, Ermete usciva dal camposanto e raccoglieva dall’aiuola i fiori secchi per gettarli nel cestino. Un giorno di fine ottobre, Ermete era ginocchioni davanti alla fontana. Sobbalzò: nello specchio d’acqua erano caduti i fiori della vedova Rossetti. Per la prima volta nella sua lunga vita, il vecchio perdette la pazienza. Raccolse i fiori e, senza riflettere, li rigettò oltre il muro. I fiori caddero esattamente sulla lapide del vecchio Rossetti, a pochi centimetri dalla donna in preghiera. Un grido strozzato lacerò il silenzio. La donna svenne per lo spavento. La settimana successiva, la vedova Rossetti morì di crepacuore. Ermete assisté alla cerimonia di inumazione restandosene in disparte. Quando tutti se ne furono andati, s’avvicinò. Stringeva in mano un fiore, uno solo: una rosa fulgida, grande, nera come la notte. La più bella del suo roseto. Si chinò sulla tomba della donna, rimase in silenzio alcuni minuti, dopodiché posò il fiore e si allontanò pensoso. Tre giorni più tardi, la rosa avvizzì. Ermete la colse e la gettò oltre il muro di cinta, nella fontana. Era il due di novembre, il Giorno dei Morti. Oggi Via Sessanta è molto più grande di allora. Il parcheggio è stato asfaltato e il muro del cimitero è stato abbattuto e ricostruito. Dentro troneggia un imponente condominio per anime a cinque piani, in cemento, tinteggiato in color ocra pallido. Il custode è un uomo di mezz’età che trascorre il tempo a leggere in guardiola i romanzi di Stephen King. Quando qualcuno passa, alza gli occhi distrattamente, tenendo il segno col dito. I sentieri sono lastricati. Qua e là, del muschio verdognolo s’intrufola tra i lastroni. All’esterno la fontana è asciutta da anni. Da sempre, nella notte di Ognissanti le anime dei morti si destano e si raccolgono nel centro del camposanto. Non immaginavo sarei stato uno di loro tanto presto. Trascorriamo quelle poche ore tutti insieme, danzando e raccontandoci vecchie storie. Tutti, tranne uno. Da quando è tra noi, lo spirito di Ermete si aggira taciturno per i sentieri. Estirpa qualche erbaccia, raccoglie i fiori secchi abbandonati in giro, lustra i pomi d’ottone del cancello, lucida le lapidi più antiche. All’alba ritorna nel suo giaciglio, pervaso da un senso di pace eterna e da una soddisfazione invero molto terrena. Nel Giorno dei Morti sono in molti, specialmente tra i visitatori più anziani, a provare una strana sensazione nel momento in cui varcano la soglia del cimitero di San Polo per porgere omaggio ai cari estinti. Una percezione impalpabile… come se il tempo si fosse fermato a tanti anni addietro, quando il custode era ancora il buon vecchio Ermete Bolondi. Ogni anno, il due di novembre, c’è qualcuno che giura d’aver intravisto una rosa nera come la notte occhieggiare tra le alte erbacce che circondano il rudere diroccato della fontana.
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Testo di Daniela Raimondi Illustrazione di Elisa Pellacani
Lui mi ha adorata dal primo istante in cui mi ha vista. È stato un corteggiamento di sguardi, di teneri messaggi e promesse tanto ardite da farmi arrossire. Il mio uomo mi ama di un amore che va al di là del vile appagamento dei sensi. Quasi mai si abbassa a soddisfare i desideri della carne; però la colpa è mia. Negli ultimi anni avevo trascurato il mio aspetto. Lui, invece, è un uomo bellissimo e molto corteggiato. Ha fama di gran amatore e me lo invidiano tutte. Quando lo conobbi non potevo credere che un maschio così sexy avesse scelto proprio me: una persona piacevole, ma non eccezionale. Mi avevano sempre detto che ero una bella donna, ma adesso so che era una menzogna. Aveva ragione lui, lui che mi amava, ma che ripeteva in continuazione che dovevo rendermi – come dire? – più “appetibile”. «Sei carina, ma devi stuzzicarmi. Devi farti più sexy», mi diceva. Fu così che ogni mese iniziai a spendere mezzo stipendio in lingerie nera, pizzi e merletti, mutandine e reggiseni, calze di seta e giarrettiere francesi. «Ecco, quasi ci siamo amore mio!», mi diceva compiaciuto il mio adorato. Ma il nostro idillio rimaneva a un livello platonico. Non per colpa sua, ci mancherebbe. Perché lui, bello com’è, non aveva che l’imbarazzo della scelta. È che un maschio del genere mica poteva accontentarsi di un essere imperfetto! «Sono i tuoi capelli», mi disse un bel mattino. «Lo sai che ho un debole per le bionde. Così non mi ecciti abbastanza.» Detto fatto. Parrucchiere, tinta… et voilá: mi trasformai di colpo in una biondona da capogiro. Quella notte, tutta platinata, indossando un completo intimo da far sbavare un santo, attesi trepidante la passione che tanto era costata al mio borsellino. Quando mi vide, lui mi guardò pieno di lussuria. Mi abbracciò con entusiasmo. Mi rovesciò sul letto. Giunse finalmente il fatidico momento. Strappò con gesto melodrammatico le mutandine e... «Eh no, Cristo! No. Lì sotto sei ancora mora, e lo sai che a me le donne con il pelo scuro mi fanno ribrezzo. Cazzo, non è che mi aiuti molto!» 20 Quella volta mi ferì. Indubbiamente mi ferì. Però ammisi che sì, in fondo aveva ragione. È che il mio uomo ha fatto dell’estetica un vero culto. Ha un corpo perfetto, frutto di ore di palestra, di una dieta equilibrata, quattordici ore di sonno giornaliero, mancanza totale di vizi e strapazzi, maschere disintossicanti, footing mattutini e vigorose nuotate in piscina. Quando passa per strada se lo mangiano tutte con gli occhi. Come pretendere che si accontentasse di un essere inferiore? Fu così che mi tinsi di biondo platinato anche le parti più intime; mi iscrissi a tre centri sportivi; iniziai ad alzarmi prima dell’alba per ore di esercizi di addominali-fianchi-glutei. E il mio amore apprezzava. Dio, come apprezzava! Mi guardava riconoscente mentre mi toglieva da sotto al naso i piatti di spaghetti e i babà di cui ero tanto golosa. Raggiunsi una dieta di 320 calorie al giorno che, aggiunta alle cinque ore di esercizi giornalieri, mi trasformò in pochi mesi in una pin-up degna di apparire su Playboy. Gli uomini iniziarono a girarsi per strada, ma le donne sposate smisero di invitarmi nelle loro case e quelle non sposate divennero acide e invidiose. Mi ritrovai sola – tremendamente bella, ma
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terribilmente sola. Però avevo lui: questo solo importava. Lui innamorato, lui che finalmente mi guardava con occhi colmi di desiderio. Ma non era ancora abbastanza e arrivò il momento in cui la mia vita prese una svolta irreversibile: «Tesoro, ti amo», mi disse un bel giorno. «In questi mesi hai fatto passi da gigante, però ammettiamolo: il tuo seno è piccolo, e lo sai che mi eccitano solo quelli di almeno due taglie in più.» Fu il primo intervento chirurgico cui mi sottoposi. Ne seguì un altro per rimpicciolire la bocca; poi uno per raddrizzare il naso; poi uno per correggere le orecchie e un altro ancora per perfezionare l’arco sopracciliare. Mi sottoposi ad operazioni per riempire il mento; per diminuire le guance paffutelle; uno per togliere un fastidioso neo; un altro per rialzare i glutei, tendere la pelle del ventre, rinforzare le mascelle, arrotondare i polpacci. Arrivò quindi il turno del dentista. Mi feci limare i canini, sostituire i molari, lucidare e sbiancare tutti gli altri denti. Mi fissarono in bocca un apparecchio infernale che in qualche mese mi avrebbe regalato un sorriso da pubblicità televisiva, ma che per settimane mi impedì di parlare e mi permise di alimentarmi unicamente con succhi di frutta, latte e acqua minerale. Ma non m’importava, perché lui adesso mi desiderava. Glielo scorgevo negli occhi quando mi guardava. Dio, come mi guardava! Finalmente, dopo innominabili sacrifici e indescrivibili agonie, ho raggiunto l’agognato traguardo. Ne è valsa la pena. Ora sono un essere perfetto: una donna di una sensualità esasperante, una pantera erotica. Ogni sera mi preparo con la cura di una geisha. M’immergo per due ore in un bagno emolliente; mi cospargo il corpo con olio profumato; mi asciugo i capelli platinati. Quindi applico un trucco sapiente usando la giusta gradazione di rossetto, un tocco di cipria rosata e cinque gocce di profumo francese. Con lenta voluttà indosso un corsetto di pizzo nero; faccio scivolare le calze di seta lungo le mie gambe marmoree, aggancio il bordo ricamato alla giarrettiera. In ultimo m’infilo le scarpe di vernice nera, (a punta e tacchi a spillo, naturalmente.) Cammino ondeggiando con incedere provocante su e giù per la stanza. Su e giù per la stanza. Di tanto in tanto mi osservo allo specchio; passo soddisfatta le unghie laccate di rosso tra i miei capelli biondi, mi allungo sulle punte dei piedi come una gatta in amore. Lo attendo con trepidazione, sensuale e provocante come la stessa gatta, ma, in calore. Finalmente arriva. Eccolo! Apre la porta di casa, mi sorride e mi abbraccia:
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«Amore mio, sei la donna più desiderabile che io abbia mai conosciuto!», esclama il mio amato con la sua bella voce di velluto. Poi mi prende fra le braccia, mi bacia sul collo, e mi adagia nella grande scatola di cartone che ha fatto costruire per me. Lì rimango, silenziosa, muovendo appena le ciglia, mentre lui mi sistema i riccioli biondi nel cellophane, e intanto mi scruta in tutta la mia radiante bellezza e sorride. Tremando di libidine mi lega i polsi e le caviglie con piccoli fiocchi di raso; poi accende il carillon sul comodino, si adagia comodamente in poltrona dove mi guarda con un desiderio che ormai è senza limiti. E mi guarda, e mi guarda, e mi guarda.
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Testo di Pietro Iannibelli Scatto di Patrizia Ferrari a Frazer e Borges
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Ai tempi dell’immenso Zoser e del dottissimo Imhòtpe, quando i sepolcri erano ancora mastabe e Ra non originava i faraoni, l’aria era limpida, i fasci di luce che penetravano nella penombra delle abitazioni erano puri, e sulle cose immobili non si adagiava il velo dell’opacità. Le entità più piccole, eccettuate le parti della fuliggine, della cenere e del kohl1, erano il punto; poi, i granelli di sabbia dei lidi; poi, un poco più grandi di questi, i granelli di sabbia del deserto. Ma una mattina, in un villaggio non lontano da Medum e dal lago Meride, un giovane di nome Amhet, dopo lunghe notti di afflizione e di malinconia, decise di manifestare il proprio sentimento all’amata Nehem. Segno che la speranza dimorava nella sua anima e che l’avvenire gli mostrava il volto buono dei due che possiede. La giovane usava trascorrere le ore pomeridiane dei giorni oziando nei giardini vicini al Nilo, dove, con espressione quieta, odorava le zagare ai rami degli agrumi, indugiava intorno ai cespi di ginestra, ammirava le magnolie, osservava i voli scomposti delle farfalle, udiva il canto degli uccelli nascosti negli eucalipti e si chinava a contemplare la semplicità dei fili d’erba. Quel giorno, Amhet, che conosceva le abitudini di Nehem, non appena vide che il sole era nel mezzo del suo declino, si recò all’orto frequentato dalla giovane, e avendola scorta vicina ad un ulivo, le si avvicinò. Tremavano così tanto le sue gambe e il suo cuore mentre si accostava alla bella Nehem, che desiderò indietreggiare e tornarsene, ma nell’amore, come nell’avvicendarsi di tutti gli istanti che congiungono il Principio alla Fine, bisogna avere coraggio. Quando si trovò davanti all’amata, il giovane Amhet, a causa della confusione, della timidezza e della paura, non seppe scegliere le parole da pronunciare, e per significare ciò che sentiva colse una rosa da un rovo e con candore la porse a Nehem. Ma gli occhi di Nehem scintillarono di fastidio, sul suo volto comparve il disprezzo e la sua fronte si corrugò. Ella strappò la rosa dalle mani di Amhet e la scagliò violentemente al suolo, poi tornò a considerare l’ulivo cui era prossima, le sue foglie grigie, i suoi frutti ovali, con quietezza. Segno che il cuore degli uomini è anche di ferro, poiché difficilmente vi giunge la tolleranza. Amhet non disse nulla. Raccolse la rosa, chinò il capo e lentamente se ne andò. Per giorni e giorni rimase fermo sulla sommità di una pietra a contemplare un punto lontano, ma la pietra non gli comunicò la sua stabilità e di notte, con la rosa nella mano, si arse. Segno che il cuore degli uomini non è solo di ferro, poiché facilmente vi giunge il dolore. Il Khat bruciò, il Ka bruciò, il Ba bruciò e bruciarono tutte le altre componenti della persona2. Le vampe si levarono sino alla volta celeste e Ra, che nella sua nave percorreva il sottosuolo accompagnato dai pesci gemelli Abtu e Anet, provò invidia. Quando il fuoco si estinse, rimase sulla terra un cumulo opaco di una cosa che non era cenere e che mai nessuno aveva conosciuto, un cumulo fatto di particelle più piccole delle punte delle frecce e più piccole dei granuli dei cosmetici, che prese singolarmente non si potevano vedere e raggruppate a centinaia non si potevano vedere. Nei momenti dell’aurora, il cumulo opaco fu disperso da uno strano vento, che spirò contemporaneamente verso oriente, verso occidente, verso meridione, verso settentrione e nelle innumerevoli direzioni comprese fra queste direzioni. Da allora, il giovane Amhet e la rosa sono dappertutto, veramente minimi, piccolissimi, intorno ad ognuno e ad ogni cosa. La polvere, infatti, si generò sulla nostra luminosa terra, sotto le nostre luminose stelle, ai tempi dell’immenso Zoser e del dottissimo Imhòtpe, quando Alessandria aveva un nome oscuro e il numero degli uomini che la popolavano non era maggiore di trentatré3.
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Note Cosmetico per gli occhi. [n.d.C.] Il corpo (il Khat), la sostanza (il Ba), le qualità singolari positive della sostanza (il Ka), le qualità singolari negative della sostanza (l’ombra, il Khaibit), il cuore (l’Ab o l’Ib, sede delle emozioni), la forza e l’energia vitale (il Sekhem) e la luce divina (l’Akh) bruciarono, fatto unico nella mitologia egizia (soltanto il Ren, il nome proprio, anch’esso parte della sostanza, come si vede, non bruciò). La morte riguardava il Khat, mai le altre componenti personali (l’Ab, il cuore, era l’unico organo che durante le imbalsamazioni non veniva asportato, poiché era impensabile la vita ultraterrena senza di esso). Ma in Amhet l’etereogeneità fra ciò che era corruttibile e ciò che non lo era, non sussisteva, poiché egli era divenuto, in virtù dell’elevatezza della sua passione, solamente Ba e le qualità del Ba solamente essenza, anche se il corpo si manifestava come tale e aveva mantenuto le proprietà organiche. L’anima venne distrutta, dunque, ma non v’era altro. Del resto, in una allegoria (Amhet, l’amore, l’illusione, si scontra con Nehem, la realtà, e perisce) è retto che vampe allegoriche brucino un corpo allegorico. [n.d.C.] 3 In Cina, una leggenda risalente all’epoca della dinastia Shang (seconda metà del secondo millennio a.C.), narra, come quella egizia, che un giovane (Tu Tzu-Fei) si diede fuoco insieme al fiore (di loto) donato alla giovane amata (Liang) e da lei ricusato, e che così nacque la polvere. Ma in questo mito, a differenza del nilotico, il fuoco non bruciò il giovane, il quale era illeso quando cessò e prima che il vento spirasse, come erano intatti i suoi capelli e la veste che indossava (non viene riferita, però, la sorte del fiore). Tuttavia, dove era divampato il fuoco rimase un acervo grigio diverso dalla cenere. I sinologi offrono diverse interpretazioni di questa anomalia. I più ritengono che la leggenda sia stata contaminata, nel corso dei secoli, da leggende ulteriori, e che essa sia sincretica e impura, priva, dunque, di credibilità (affermano che le fiamme che non bruciano nulla, non solo non generano nulla, ma non possono bruciare, essere fiamme). Non prendono posizione, tuttavia, sulla questione riguardante il fiore di loto, anche se, implicitamente, sembrano credere che, come Tu Tzu-Fei, si salvò dalle vampe fasulle. Altri, i quali conoscono il mito egizio e lo adducono come prova di originalità, credono che il cumulo causato dal fuoco sia conseguente ai fatti narrati e non arbitrario. Essi sostengono che le fiamme abbiano distrutto soltanto il fiore che Tu Tzu-Fei offrì a Liang, simbolo del suo amore. Altri ancora, invece, credono che il fuoco distrusse solo la passione del giovane Tu Tzu-Fei, e che non sia rilevante sapere se il fiore di loto bruciò o se non bruciò, come i capelli e le vesti. Secondo il loro avviso dunque, l’origine della polvere è il rogo del sentimento del giovane (come nella leggenda egizia). Quest’ultima interpretazione è la più poetica, la seconda è accettabile (si consideri il fatto che l’immaginazione e l’avvicendarsi delle generazioni umane ingigantiscono e modificano gli avvenimenti: spesso una serpe è un drago, e quando non lo è, lo diviene nel corso dei millenni), la prima è sciocca e pecca di realismo. Si noti la sbalorditiva similarità dei due miti, appartenenti a civiltà estranee e remote (non è impossibile, tuttavia, che la leggenda egizia sia giunta in Cina; a Pai-Teng, nel XVII sec., fu inspiegabilmente rinvenuta una piccola statua-cubo, mentre nella regione un tempo detta di Yi, intorno al 1920, è stata trovata una statuetta calcarea raffigurante Sesostri I). Sia come sia, restano da chiarire le ragioni della leggenda nilotica. Gli egittologi la ascrivono al vasto complesso di credenze generatosi nella città di Menfi all’epoca del Primo Impero tebano, credenze nelle quali il fuoco ha un ruolo cruciale e viene inteso come forza modificatrice, creatrice. Una di queste leggende narra che un pastore, una notte, mentre ravvivava il fuoco con un ramo di cedro, trovò fra i tizzoni e la brace i geroglifici corrispondenti alla parola oro; un’altra, che le faville del primo fuoco formarono il firmamento. Ma è difficile dire quale nesso vi possa essere fra la delusione amorosa e la polvere. Nel corso del tempo sono state elaborate numerose congetture allo scopo di spiegare questa singolare causalità (talune sono più fantasiose della leggenda stessa). Riporto la più verosimile e convincente, formulata a Zurigo nel XIX sec.: «La polvere è, in prima istanza, l’entità durevole rispetto alle altre entità, l’informe che succederà alle forme. Il divenire delle cose reali proviene dalla polvere, avviene fra la polvere e conduce alla polvere, così la mia persona, la penna che ho in mano, questo foglio e tu, lettore. A Menfi, come in tutto l’Egitto antico, sembra che la passione amorosa venisse considerata come una forza inoppugnabile, che, una volta generatasi nell’animo, condizionava la vita dell’individuo sino alla morte, sia che fosse corrisposta, sia che non lo fosse (il suo oggetto poteva comunque mutare). Pare che per quegli uomini remoti, rappresentasse la causa degli atti giornalieri, delle cure quotidiane, e che ne costituisse lo scopo, anche oscuramente. Credevano che qualsiasi pensiero nascesse da essa, se ne liberasse e poi ritornasse in essa (così il delfino sorge dal mare, si leva nell’aria e ricade nel mare). La sua presenza nella mente, latente o meno, cagione di gioia, di pena o di indifferenza, si avvertiva ineliminabile. Nulla di strano dunque, se la popolazione menfitica favoleggiò, tremila anni or sono, che la polvere fosse una modificazione dell’amore. Il simile genera il simile.» Per le origini del mito cinese, si vedano pag. 22.222 e seguenti della presente edizione. [n.d.C.] 1 2
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Testo di Roberto Stradotti Scatto di Matteo Varsi
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È chiaro che la mia anima puntava ad un involucro prossimo alla decenza. Nato povero e morto povero, speravo di tornare su questa terra attraverso una donna benestante, una ricca possidente, una manager rampante. È stato tutto oltre ogni immaginazione. Nel peggiore dei casi, mi sarei accontentato di un corpo di lucertola. Invece eccomi qui, di nuovo al mondo, perfetto nelle forme, ma preso a pedate da tutti. Sono una palla, una rosea palla di pelle. Non chiedetemi com’è successo: la sola cosa certa è l’imbarazzo. Ci dev’essere un errore, dico io. Non crediate che l’anima dimentichi così facilmente, quando torna al mondo. Nella fattispecie, io ho una memoria di ferro e mai – dico mai – mi è capitata una buona sorte. Mi chiedo dove abbia sbagliato, di quali peccati – completamente dimenticati, questi – sia gravato il mio fardello. Se io sono una palla, a occhio e croce gli altri dovrebbero essere angurie, o ramarri. In più ho un aspetto davvero curioso, e questo è certo un dispetto degli dei. Uno penserebbe a una sfera di cuoio, di pezza, di plastica. Io ho conservato la mia pelle umana, bella chiara, un poco grassa, villosa quel tanto che basta per poter affermare che ero un maschio. Con il caldo sudo, con il sole prendo un bel colore ambrato, quando mi graffio faccio le croste. E nonostante non faccia ormai più parte della privilegiata specie umana, quando mi prendono a pedate sono in grado di adirarmi, ma nulla più. Mi rotolo nella polvere e aspetto i colpi con rassegnazione, talvolta con un curioso moto masochistico. Il destino riserva qualcosa di bello anche a me – che non ne vengano gli dei a conoscenza – quando le mani di un bambino mi afferrano e mi lanciano verso il cielo. Solo allora mi sento un uccello che fugge via e i bambini guardano tutti verso di me e sorridono. Ecco le punte degli alberi, ecco le grondaie. Forse riuscirò a superare i comignoli, ma le ali che non ho non mi possono portare lontano. Allora inverto la direzione e piombo giù con l’emozione di un rapace che si avventa su qualsiasi cosa viva. I bambini sembrano percepire la furia e i loro volti si adombrano, ma deve essere la tensione verso la conquista della sfera. Digrignano i denti, spalancano gli occhi ed io sento l’inconfondibile contatto con il terreno, un colpo neutro e pesante, e sono di nuovo palla e attendo di essere presa a calci e di nuovo mi adiro e mi rassegno. Quando mi ripristinano la pressione è come essere proiettati indietro nel tempo del mondo. È una sensazione terribile. Mi sembra di avere i polmoni, mi gonfio ed entra l’aria che io percepisco solo in superficie: riassaporo il polline, l’odore di periferia, l’umido di muffe nascoste in angoli dimenticati, ma anche la cattiveria, la solitudine, la stessa rassegnazione che io provo, e che è il peggiore veleno. Sono capace di sentire tutte le voci che nemmeno da uomo mi giungevano, pie e lamentose nel contempo, rosicchiate dalla malattia, prossime a una sillaba, a un debole fiato. Ci si abitua anche a questo. Ma la nostalgia si fa più intensa quando mi accade come poco fa. Calciata con violenza, precipitata in un roseto, ho atteso i bambini. «Signore, signore: è caduta la nostra palla dentro il tuo giardino», diceva ciascuno, senza portavoce, e io davanti a quel chiasso da ricreazione scolastica sanguinavo in ogni parte che un giorno si chiamava gamba, o dito, o cuore, ma non provavo dolore, se non quello del rimpianto. L’uomo si è fatto sulla porta, si è prodotto in un sorriso di bonario rimprovero e prima di consegnarmi mi ha portato sotto il rubinetto per lavarmi ed io, schiaffato dall’acqua corrente dentro il tunnel dei ricordi, ho rivisto il mare, meraviglioso abisso che avevo solcato in lungo e in largo in un tempo troppo lontano, allora sì senza rimpianti, privo della consapevolezza del peccato, del male che arrecavo, ebbro di onde e di schiume sotto la carena. Io ero quel sangue che lo scarico portava via. A mio modo, ero ancora qualcosa. «Dovrete gonfiarla, ora», ha suggerito l’uomo, facendomi volare oltre il suo steccato. Di nuovo ero uccello, poi rapace, e una volta a terra solamente palla. I bambini hanno proseguito il gioco con un trofeo molle, impolverato fin dentro le fresche ferite, svuotato e stanco, come mi accadeva davvero quando ero un uomo e mi pareva di non dovere più chiedere alcunché alla vita.
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Testo di Davide Nonino Scatto di Giuseppe Ammannato
A me questo mondo non piace. Sia ben chiaro, non per quello che c’è dentro: è una questione di funzionamento. Lo abbiamo attrezzato con un mucchio di macchine sparse e spogliato di colori profumi animali. E non sono un ambientalista: mai salito su un gommone con bandiera alla mano o incatenato a cancellate per protesta. Vivo di giorni normali, scanditi dal ritmo casa-lavoro. Mi piace fare qualcosa, quello sì. Sono un puntino piccolo, ma se lancio uno sguardo oltre il terrazzo c’è una bella fetta di terra oltre la città, da vedersi le montagne quando il cielo è azzurro e profondo. Così mi sono seccato di sentire le notizie dal telegiornale, dalle riviste e dai colleghi appiccicati di sudore. Ho deciso di provare qualcosa, per far sentire quello che non si dice, per chiudere rubinetti inutili, per spegnere luci e macchine troppo grandi per passare su una stessa strada. Qua si tratta di aggiustare il mondo, non una cosa da tutti i giorni. Così ho preso carta e penna e ho steso una lista delle cose che potrei fare: lanciarmi in politica, scrivere sui giornali, diventare personaggio TV, posare per un calendario, pilotare un aereo con scritta sulla coda, diventare il primo terrorista-ambientalista, sposare un’ereditiera, fare il supereroe. Ci ho riflettuto doverosamente per una notte e poi ho puntato senza esitazione sull’ultima. Il supereroe che esce all’oscuro per risparmiare energia. Mi piace. Anche perché è l’unica della lista che, dettagli a parte, posso iniziare da subito (volendo, comprende anche tutte le altre). PRIMA PAGINA - Furti in villa, è l’ora dei vandali. Problema uno: i superpoteri. Faccio un lavoro ordinario e non posso essere soggetto a radiazioni. Difficilmente verrò a contatto con forme di vita aliene nei prossimi due mesi. Non mi risveglierò al mattino trasformato in qualcosa e, visto che porto gli occhiali, nessuno mi offrirà missioni pericolose nello spazio. Dovrò arrangiarmi con quello che c’è a disposizione: il resto dipende dalla mia fede, una questione di volontà. L’importante è lasciare un’idea, un significato. I mezzi non sono così fondamentali. Problema due: nome e costume. Tra fumetti e cinema mi resta ben poco. Numeri e lettere se li sono mangiati tutti. Qualsiasi combinazione mi ronzi per la testa, mi suona di canzone già sentita. Facciamo che siano le persone a decidere. Per il costume, quello deve avere qualche effetto speciale. Prima di tutto, lenti a contatto verdi. Da un giro in cantina tra scatoloni e scaffali ho trovato il resto: tuta da ciclista rigorosamente nera e attillata con tessuto tecnico adatto ad ogni superficie. Non si sporca. E poi cuffia sintetica super aderente e scarpe da mezza montagna. Sono grigie a strisce arancio ma con qualche tocco d’indelebile le girerò sul verde. Manca la scritta sul petto. Scontata. Ne farò una sulla schiena, senza lettere, con qualche disegno pseudo spaziale. Andrà benissimo. 26 ULTIME NOTIZIE – Solo danni, niente refurtiva. Nessuna traccia dei colpevoli. Problema tre: la forma. Non sono un atleta. Diciamo un tipo da pedalata ogni tanto. E poi, ovviamente, non so cucire e non sarei in grado di imbottirmi i pettorali e tutto il resto. Punterò sull’agilità e su qualche aiutino. No, niente di strano. Mi fornirò di vitamine, ricostituenti, pillole di caffeina, fermenti lattici e tutto quello che potrà darmi una mano. Sarà una specie di cocktail segreto. E alla fine comprerò qualche sonnifero e una sveglia potente. La mattina devo essere fresco al lavoro, non voglio destare sospetti. Problema quattro: cosa fare. Punto sicuro al risparmio energetico. C’è tanta gente che spreca, che ha soldi e non se ne rende conto. Certo, non posso entrare in casa e spegnere la luce. Non voglio scatenare il terrore. È un lavoro delicato. Colpirò i giardini dotati di impianti di irrigazione inutili, le piscine e le luci puntate sul vuoto. I miei nemici saranno cani e telecamere esterne. Ma le persone devono capire che si possono risparmiare risorse, che la crisi energetica siamo noi e il mondo non è così lontano. Non potrò fare molto: sono solo, ma cocciuto e organizzato. Ho ricoperto di rettangoli
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una mappa della città che tenevo in macchina. Contando che non potrò uscire ogni sera per questioni di identità segreta, dovrei riuscire a coprire il territorio in un paio di mesi. Se poi alcune ore dovrò dedicarle a donne e giornalisti, allungherò il programma di un paio di settimane.
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L’INTERVISTA – I danni continuano e il capo della polizia chiarisce: è solo, lo prenderemo. Problema cinque: la logistica. Non è da sottovalutarsi. Il supereroe tiene sempre un rifugio in cui nascondere se stesso e le armi segrete. Escludendo per praticità la cabina del telefono, l’armadio senza fondo, la grotta che non ho, direi che il garage di casa è banale ma già fornito e insospettabile. Dovrò solo verniciare la mia moto di nero e così tutti gli attrezzi. Ho avuto sin da piccolo il debole di preferire le cose gialle. E poi mi farò un cancello automatico, che non trovo mai il tempo di installare (non esiste che debba sempre prendermi quattro secchiate di pioggia per entrare in casa!). NOTIZIA STRAORDINARIA – Arrestato il colpevole degli episodi di vandalismo. L’uomo, sulla quarantina, imprenditore, è a capo di un’impresa d’idraulica e giardinaggio. Le sue dichiarazioni sono confuse: «L’ho fatto per salvare il mondo, dovreste ringraziarmi.»
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Testo di Enrico Cantino Illustrazione di Irene Fornari E in aria si trasforma in un robot che ha un’arma ha l’energia solare che è invincibile I Micronauti Extraterrestre via da questa terra mia, togli le zampe o ce le lascerai, ti spacca in quattro lui, ci fa una croce su, e tu non ci sei più! I Superobots Si avvitano in cielo le braccia sue Si saldano in cielo le gambe sue In cielo si forma il suo corpo ed ecco Gackeen I Minirobot
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Sede della MUP. Riunione di redazione. Oggetto della discussione: le rubriche da elaborare per questo numero della Luna. Me ne propongono una sui cartoni animati giapponesi. Che seguo – a fasi alterne – da quando sono sbarcati sugli schermi televisivi italiani. Sembrerebbe una cosa gettata lì. Una provocazione. Sanno che quella roba lì la guardo (e che ci sto scrivendo su un libro). Accetto. Perché l’animazione nipponica è piena così di Trasformazioni. Ce n’è per tutti i gusti. Di tutti i tipi. Panta rei. D’accordo, il contesto non è proprio quello, ma serve a rendere l’idea. Con i dovuti distinguo. Con inevitabile approssimazione. In fondo ci muoviamo sempre sul filo dell’avvicinamento illimitato. Lambire senza potere mai raggiungere. Il cambiamento. Fisico. Esteriore. Ma anche e soprattutto spirituale. La mente prevale sulla materia. Perfezionare il corpo è soltanto il primo passo. Prepara alla maturazione interiore attraverso la sofferenza, che tempra il carattere e fornisce gli strumenti per affrontare questa valle di lacrime. Gli esseri viventi evolvono. Possono e devono farlo. Altrimenti rimangono uguali a se stessi. Non imparano. Per questo si mettono continuamente alla prova. L’obiettivo è superare i propri limiti, andare oltre. Vuoi sconfiggere il tuo nemico? Bene. Allora devi prima battere te stesso. La chiave è la conoscenza. Indaga, scruta, scava. Impara tutto quello che puoi su te stesso. In questo modo, conoscerai l’avversario. E lo batterai. Perché sarai preparato. Ti troverai in condizioni di adeguarti alla fluidità delle situazioni. Nessuno scarto tra pensiero e azione. Tutto ti verrà naturale, automatico. Sia ben chiaro: cambiare non è indolore. Costa fatica. Richiede una robusta dose di tribolazione. Comporta scelte difficili. Impone l’accettazione – spesso a denti stretti – di responsabilità il cui peso ti piega le spalle e di cui, forse, avresti fatto a meno. Non puoi scappare. Quando sei il solo – o la sola – a poter fare una cosa, a offrire la vita per il bene comune, c’è poco da fare. Rispondi alla chiamata. Ti sacrifichi. Vai. Il destino ha un sapore asprigno che ti lega la bocca. Ma tu lo mandi giù. Sei il Prescelto. E i privilegi si pagano. In contanti. Si cambia a tutto tondo. Prendete i robottoni. Alcuni – come Trider G7, Daitarn 3, Danguard e Daikengo – partono come astronave. Altri aggiornano il proprio arsenale, aggiungendovi nuove armi. È necessario per stare al passo con il nemico. Quelli che hanno l’attacco finale possono essere costretti a modificarlo, perché magari non funziona più tanto bene. Ecco che Daltanious aggiunge il Nucleo avvolgente alla sua Spada infuocata, mentre Vultus 5, prima di tagliuzzare l’avversario con la sua Excalibur gridando In nome della terra, lancia una pallina luminosa che si chiama Saetta globulare. E «batte forte il cuore dentro al petto».
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Rimaniamo in tema. Il mutamento coinvolge anche i piloti. Alcuni diventano parte integrante del robottone. Hiroshi, colpendosi i pugni, si trasforma nella testa di Jeeg. Takeru e Mai, unendosi, costituiscono la fibbia – o quel che sia – del magnetico Gackeen. Takeshi, in tenuta da giocatore di football americano, ingrandisce il proprio corpo, in maniera che il robot Diapolon diventa la sua armatura. Passiamo ai supereroi con gli occhi a mandorla. Si distinguono da quelli americani perché la metamorfosi non è causata da alcun incidente. È frutto di una scelta forzata. Perché i lavori sporchi devono pur essere affibbiati a qualcuno… Prendete George Minami. Deve fermare gli alieni di Waldaster che, per inciso, hanno ucciso suo padre. Per fare questo, veste i panni di Tekkaman, il cavaliere dello spazio. Soffrendo parecchio, visto che il suo corpo si ricopre interamente di filo spinato. Con una clausola di quelle che non ti lasciano tanto tranquillo: dopo mezz’ora deve tornare normale, se non vuole lasciarci le penne. Stesso discorso per Takeshi. Il casco che gli permette di combattere come Hurricane Polymar, dopo mezz’ora lo molla a piedi. A Tetsuya, invece, va molto peggio. Per contrastare gli androidi impazziti del padre, gli tocca farsi convertire nel guerriero di nome Kyashan. Il che significa rinunciare alla propria umanità. Può ancora provare sentimenti, ma cose come tatto olfatto e gusto se le scorda. Ha un’arma potentissima: un raggio giallo che parte dalla sua visiera. Il problema è che se lo usa, rimane a secco d’energia per un po’. In tutti e tre i casi, scatta un fenomeno di compensazione presente in parecchie serie giapponesi. Ne sanno qualcosa anche Hunter di City Hunter, Bunny di Sailor Moon, Rubber di One Piece. Tutti
personaggi che quando c’è da menare le mani sono a dir poco invincibili. Ma le loro straordinarie capacità hanno delle restrizioni. Il limite può essere la durata temporale dei loro poteri. Oppure il carattere. Nella vita di tutti i giorni, Hunter, Bunny e Rubber sono dei perfetti idioti. Persone immature e inaffidabili, che pensano solo a divertirsi, ad abbuffarsi, o a soddisfare certi pruriti. Ma ogni volta che c’è bisogno di loro, si trasformano. Estraggono dal cilindro una determinazione, un coraggio e uno spirito di sacrificio di cui mai li avresti detti capaci. In fondo, non è giusto lasciare troppa potenza nelle mani di una sola persona. Occorre controbilanciarla. Senza dimenticare che la vera forza degli eroi sta nel gioco di squadra. I giapponesi non accettano l’individualismo di stampo occidentale. Il Buddismo ha insegnato loro che ognuno di noi fa parte integrante di un tutto fondato sull’equilibrio. Le situazioni di squilibrio – indispensabili per raccontare una storia – vanno evitate, o, comunque, ricondotte all’ordine. Agire di testa propria rifiutando la logica del gruppo, è deleterio. Ne è ben consapevole Actarus, il pilota di Goldrake (le cui gesta, peraltro, si sono decisi a meteter su DVD, eliminando le scorie depositate dal precedente adattamento). Quando l’indisciplinata sorella Maria gli dice Sei imbattibile, lui risponde con umiltà No, non credo. Ho bisogno degli altri. E Alcor rincara la dose: Siamo imbattibili solo quando siamo insieme. Ha ragione. Questi non li ferma nessuno. Lottano per la realizzazione di un progetto. Di un sogno. Tenendo i piedi belli piantati per terra. E, come cantavano i Cavalieri del Re, un sogno può diventar realtà / non è facile / né difficile / forse semplice sarà.
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Testo di Armando Minuz Scatto di Patrizia Ferrari
Don’t open your eyes you won’t like what you see the devils of truth steal the souls of the free don’t open your eyes take it from me i have found you can find happiness in slavery Trent REZNOR
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Parliamo ancora di Daniela Raimondi. Quando la redazione mi ha chiesto di scrivere la rubrica laboratorio del numero dedicato a Trasformazioni, in fondo sapevo sarebbe finita così. Leggendo i vari racconti selezionati, ne avevo trovati molti “carini”, alcuni curiosi, altri francamente contrari al mio gusto estetico e, a volte, anche etico. Poi c’era questa vecchia conoscenza della Luna di Traverso, da me amata e ammirata. Questo amore e questa ammirazione, di norma, basterebbero a scoraggiarmi dallo scrivere una recensione o una rubrica, per paura di risultare smaccatamente partigiano. Ma Sexy Doll di Daniela Raimondi ha un qualcosa che mi ha ulteriormente attratto. Perché la Raimondi è una scrittrice tutta particolare, sia chiaro, una bestia (da stile) difficilmente inquadrabile, che sfugge un po’ a tutte le trappole che le stendi lungo il sentiero: se la paragoni ad altri scrittori, di primo acchito ti capita di rimanere quasi deluso. Gli altri ti stupiscono (o cercano di farlo) con invenzioni stilistiche o linguistiche, danno fuoco a tutte le loro polveri pur di lasciarti senza fiato, pur di convincerti che loro sono i migliori. Troppo spesso ti resta invece l’amaro in bocca. Tanto per parafrasare un mio mitico professore, sembra di vedere i nani del circo che fanno le capriole. Quasi sempre c’è troppa carne al fuoco e un cuoco troppo giovane o inesperto per mettere mano alla griglia. Con questo non me ne vogliano i virtuosi dello stile, i cultori di avanguardie e neoavanguardie, gli scrittori convinti che per scrivere un racconto sia necessario per forza essere, o apparire, “geniali”. Personalmente, più passa il tempo più credo che per scrivere un ottimo racconto sia necessario essere come gli artigiani: appassionati e umili. Sopratutto, affidabili e dediti. Infatti, poi arriva lei. La Raimondi ha la classe, come dicevo prima, della bestia da stile, dello scrittore che sa già di essere tale, e che quindi non ha niente da dimostrare se non a se stessa. Chi è ricco di famiglia non si comporta nel modo chiassoso (e involontariamente, tragicamente comico) di certi arricchiti che una volta raggiunto il benessere te lo sbattono continuamente in faccia, in cerca di continue conferme. Il privilegio, quando non è un trucco ma una caratteristica autentica, radicata e solida, pesa meno di una piuma, oscilla educato e discreto. Salvo poi sorprenderti con grandi esplosioni di verità e splendore, calibrate e precise. Così arriviamo al racconto Sexy Doll, magari sottotono e più discretamente sommesso rispetto ad altri della Raimondi, quasi banale nella tematica del contrasto fra essere e apparire. Eppure, proprio questo racconto dimostra una grande verità della letteratura, che riuscirà scandalosa a molti: spesso non è importante cosa si dice, ma come lo si dice. Pensiamo a tutte le storie d’amore che la letteratura racconta da millenni. Se ridotte all’osso, se scarnificate fino a lasciarne solo lo scheletro della trama, esse appaiono banalmente, ridicolmente simili. Perché la letteratura è (anche) una questione di topoi, di luoghi che sono davvero “comuni”, di archetipi. E spesso lo scrittore che convince non è quello che esegue il salto mortale bendato e senza mani, ma quello che sa raccontare un vecchio archetipo in modo nuovo, perché lo fa suo. Ed ecco che qui gli archetipi ci sono. C’è una donna profondamente infelice ma che non sa di esserlo, una donna innamorata. E c’è un uomo, altrettanto inconsapevole e altrettanto infelice, che in un modo oscuro e subdolo si vendica delle propria infelicità sfruttando la donna, che è innamorata e dunque inerme. C’è il tema millenario, classico e perciò intramontabile
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del “duello” fra vittima e carnefice. Inoltre, aleggia sinistro per tutto il racconto il leitmotiv secondo cui in amore nessuna vittima è dissenziente ma, in modo quasi masochista e magari inconscio, porge di buon grado i polsi alle manette del proprio torturatore. Soprattutto se la vittima è divenuta talmente succube da adorare il suo carceriere. Nel fondo della mediocre, modesta vicenda raccontata in Sexy Doll, solo a scavare un poco emerge una grande, totalitaria, atroce certezza, che forse la maggior parte di noi non vuole – o non può – vedere. Come urla Trent Reznor in Happiness in slavery (uno che di catene e libertà se ne intende parecchio) c’è un’insana felicità nella schiavitù. Perché nella danza con i demoni della verità, se non stai attento succede che ti ritrovi perduto, e dunque è meglio starsene ben fermi, magari con qualcuno che ci dica cosa fare e come comportarci. La porta della gabbia è aperta, ma quasi nessuno decide di uscire nel mondo sconfinato, bello e pericoloso. Ci vuole il coraggio di un poeta o di un guerriero per lasciare la sicurezza della gabbia e perdersi nella selva oscura, con nel cuore solo una magra speranza di (ri)trovare il paradiso. Ci vogliono un eroe o un’eroina per accogliere quella speranza, nutrirla con cura e dedizione e rinforzarla anche nell’inferno dei giorni vuoti, nel deserto dei sentimenti. Allora per gli uomini e le donne comuni, piuttosto che rischiare, è molto meglio scegliere di trasformarsi in vittime, in incubatoi della scemenza umana, magari in bambolone sexy, scegliendo di non vivere una vita propria ma di vivere in funzione della libido altrui. Oppure, se si ha la (s)fortuna di essere un “bellissimo e molto corteggiato”, come il protagonista maschile di Sexy Doll, meglio ancora trasformarsi non in vittime bensì in carnefici. Ma una volta giunti al colmo del desiderio, invece di usare il rasoio, il coltello, magari il proprio membro eretto, insomma, invece di assolvere in toto la propria impegnativa, onerosa parte di “cattivi”, si compie l’ennesima retromarcia e ci si limita a guardare, guardare, guardare. Per sempre. Del resto, sempre meglio che andare fino in fondo (con il pericolo di affondare). Sempre meglio che mettersi in gioco e magari rischiare di scalfire accidentalmente la patina d’oro che ci separa da noi stessi, tanto dalle nostre grandezze quanto dalle nostre miserie. Sempre meglio che perdersi nella selva oscura e iniziare una danza con i demoni della verità. Perché allora sì che potrebbe finire male davvero. Alla fine della storia ci si potrebbe trovare non più insoddisfatti e scontenti, bensì in Paradiso. E allora, quale uomo (o donna) potrebbe sopportare tanta felicità?
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PENNA Alberto Calorosi è nato a Genova nel 1972. Vive e lavora a Parma. Quando non lavora e non tracanna birra trascorre il proprio tempo a leggere vecchie storie di fantascienza, ascoltare Neil Young e De André, guardare film di Russ Meyer e John Carpenter. Scrive per passione e per necessità. Per il resto, è un personaggio assolutamente noioso. Enrico Cantino ha 41 anni e una laurea in Materie Letterarie. Vive a Parma, dove lavora part-time come impiegato per un periodico tecnico. Le sue passioni: i gatti, i cartoni animati e la letteratura. Scrive racconti dal 1984 e ogni tanto riesce a pubblicarne qualcuno. Nel 2006 ne sono stati pubblicati alcuni nell’antologia letteraria I Lunatici edita da MUP Editore. Silvia Favaretto nasce a Venezia nel 1977. Ha ottenuto alcuni premi letterari a fine anni Novanta (Avis La Torre, Inves, Valle Senio) e ha partecipato a festival di letteratura internazionali come il festival di Poesia di Medellín (Colombia) e quelli di Guatemala, El Salvador e Argentina. Ha pubblicato il libro di poesie bilingue La carne del tiempo (Artificios, Bogotá, 2002), la favola La Farfalla Rossella (Pordenone, 2003), il libro di poesie Parole d’acqua - Palabras de agua (Empoli, 2007), vincitore del Premio Ibiskos di Antonietta Risolo. Con Christian Panebianco ha pubblicato La tetra santità e il variopinto orrore (2004). Ha inoltre curato per Ca’ Foscari il volume Narrative femminili cubane tra mito e realtà (Venezia, 2003). Lavora come insegnante e traduttrice e dirige la rivista elettronica “La fontana delle 7 vergini”. Alfredo Goffredi nasce a Londra nel 1982, la respira per qualche mese e subito viene trapiantato a Piacenza, dove vive tuttora. A un passo dalla fine degli studi, scrive soprattutto per diletto. Ama i gatti e il tè, l’Irlanda e il Giappone, i film di Takeshi Kitano e un po’ di altre cose. Venera Neil Gaiman, Alan Moore e Grant Morrison, Jonathan Coe, Irvine Welsh e Douglas Coupland; contrariamente a quanto si possa pensare, non ha mai letto Edgard Allan Poe. Pietro Iannibelli ha 29 anni e vive a Parma. Predilige Andrea De Carlo, Dan Brown e gli Harmony, la letteratura quindi. Armando Minuz è nato a Pieve di Cadore, in provincia di Belluno, il 26 gennaio 1975. Attualmente abita a Parma. È laureato in Letteratura italiana, con una tesi sul comico e la retorica nelle opere di Luigi Malerba.
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Erika Morgagni nasce a Forlì il 17 agosto 1982. Frequenta il liceo classico per poi laurearsi alla facoltà di scienze politiche di Bologna con una tesi sulle fiabe contemporanee. Si avvicina alla scrittura creativa partecipando a corsi di teatro sperimentale durante i quali ha la fortuna di essere attraversata da Sheakespeare, Wilde e Ibsen. Dall’età di sette anni scrive poesie, in rima prima, “ermetiche” poi, con le quali partecipa a concorsi locali e interni al circuito scolastico romagnolo. Si nutre per anni dei romanzi di fantascienza sviluppando una vera e propria venerazione nei confronti di Philip K. Dick fino a quando non riprende in mano una vecchia edizione dei Promessi Sposi e ci si tuffa dentro. Ė così che impara a nuotare tra le parole e a considerarle un salvagente.
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Davide Nonino dopo un brutto voto in italiano e un libro troppo noioso per essere finito, a 15 anni ha iniziato a scriverne uno sulle cose che ruotavano attorno alla sua vita e su quell’Ottocento fatto di grandi classici che lo aveva così tanto stregato. Ha preso parte a un corso di scrittura creativa e frequentato un’università che non c’entra proprio nulla con lui. Ha partecipato a concorsi letterari e alcuni suoi lavori sono stati pubblicati antologie. Monique Pistolato è nata in un cantiere alla periferia di Parigi tra francesi, italiani, spagnoli, greci e turchi ma le lingue per lei restano un mistero. L’unica che pratica con destrezza è il veneziano, parlata degli affetti. Su una Simca pastello ha affrontato diversi traslochi ascoltando le storie che gli raccontava suo padre: Nino e Ghita, Pierin Pierone e le esperienze di un ragazzino emigrato uscito dalla guerra… Nella pagella di quinta elementare, che allarmò i suoi genitori, viene marchiata con un giudizio premonitore: «la bambina nei temi in classe esprime un eccesso di fantasia». Avrebbe potuto essere una ragazza delle banlieues, o un’incantatrice di monelli adolescenti, invece quell’eccesso - nel tempo - ha trovato una forma: il racconto. Per lei ogni storia inizia da un incontro. Così dal 1997, passando tra premi, riviste e antologie, ha inanellato tre raccolte. BUM BUM (Edizioni La meridiana 2004); Un’altra stanza in laguna (Ibis, 2005); Un tempo necessario (Edizioni La meridiana, 2007). Emiliano Racca nasce a Torino nel 1975. Nel 2000 viene pubblicato il suo primo racconto sulla rivista letteraria “Inchiostro” (I penultimi dinosauri). È l’inizio di una lunga serie di racconti pubblicati, o su rivista o in antologia, e sempre grazie a lusinghieri piazzamenti in vari concorsi letterari. Nel frattempo insegna lettere italiane e latine, sia pur come precario. Daniela Raimondi è nata in provincia di Mantova. Vive a Londra dal 1980 dove insegna italiano come lingua straniera. Ha pubblicato su varie a riviste letterarie e ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti a concorsi nazionali, sia per la narrativa che per la poesia e teatro. Fra i principali: Premio Montale Europa 2004 per l’inedito, Caput Gauri, Città di Salò, Città di Tremestieri Etneo, Antica Badia di San Savino, Campagnola, Sartoli Salis per Opera Prima, Renata Canepa. È presente in varie riviste letterarie e collabora con la rivista "Zeta", Campanotto Editore. Ha dato alle stampe la raccolta di racconti Nove Donne e una Zebra Metropolitana (Ed. Fonopoli, 2004) quale primo premio al Concorso Fonopoli di Roma ed è presente nell’antologia Il prima e il Dopo (Baldini Castoldi & Dalai, 2007). Per la poesia ha pubblicato la raccolta Ellissi (Ed. Raffaelli, Rimini 2005). Nel novembre del 2006 è uscita la raccolta poetica Inanna (Mobydick) ed è in fase di pubblicazione Mitologie Private (Edizioni Clandestine, Massa Carrara), in uscita nell’ottobre 2007. Nel 2006 alcuni suoi racconti sono stati pubblicati nell’antologia letteraria I Lunatici edita da MUP Editore. Roberto Stradotti laureato in filosofia, scrive dall’età di tredici anni per un bisogno insopprimibile di natura tuttora ignota. Impiegato presso una azienda cartotecnica di Cremona per necessità più che per passione. 34
CAMERA Giuseppe Ammannato ha 26 anni. Appassionato di musica e cinema, sta scoprendo il mondo della fotografia, affascinato dagli scatti e dalla macrofotografia. Saccente e arrogante nell’animo, è convinto di avere la verità in tasca e fornisce pedanti ed inutili spiegazioni su qualsiasi cosa gli passi sotto il naso, cogliendo ogni occasione per sottolineare la sua innata superiorità in tutto, anche in ciò che non sa. Cosa che, per definizione, non esiste. Chiara Battistini è laureanda cronica in Sociologia della Letteratura e pur di non finire la tesi si rifugia, felicemente, tra le sue più grandi passioni: i libri, (ha lavorato nella più romantica libreria del centro di Parma), e la fotografia, principalmente per l’editoria. Gira da sempre con la macchina fotografica in borsa accumulando compulsivamente migliaia di immagini, e ha pensato che trasformare
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una nevrosi in lavoro potesse essere una buona idea. Nella vita precedente era sicuramente Diane Arbus o Virginia Woolf , ora come ora non si sa. Forse aprirà un caffè letterario tipo il Library Cafè di New York o se ne andrà in giro, zaino in spalla, a dedicarsi al reportage sociale. Una cosa però è certa: la voce occupazione ad ogni rinnovo documenti le procura un certo imbarazzo. Per non parlare di questa biografia. Maria Cecilia Camozzi è nata a Parma. Dopo collaborazioni con il teatro in qualità di compositore di musiche di scena, e con case editrici e discografiche come grafico e ritrattista, dopo la laurea in filosofia e studi di bioetica e zoosemiotica, negli ultimi anni ha messo da parte il mondo della composizione musicale per approfondire attraverso la fotografia il ruolo della musica nel fenomeno sinestetico. Patrizia Ferrari dopo la maturità artistica, ha conseguito il diploma di Art director junior presso l’Istituto Superiore di Comunicazione di Milano. Attualmente lavora come grafico/creativo in un’agenzia di comunicazione. Nel 2005, ha ricevuto una menzione speciale al Premio nazionale “Ruba un raggio di sole per l’inverno” indetto da Città di Castello (PG). Nel 2006 pubblica sul sito www.clickati.com una sua foto, Les amant, relativa al progetto fotografico “Scattalibro” e nel 2007 ottiene il secondo posto nell’ambito della manifestazione “SilmetARTmovies”, all’interno del Festival Strade del Cinema, per la creazione della locandina relativa alla manifestazione. Patrick Raimondi è nato a Londra nel 1989, città dove vive e studia. Sviluppa giovanissimo la passione per la fotografia grazie al padre, suo primo insegnante, iniziando a scattare viaggiando prima in India e nelle diverse parti del mondo in cui è stato. La sua fonte di ispirazione la trova nella diversità fra le culture e crede che la fotografia sia un modo per catturare un momento, una situazione e per confrontarsi con il mondo che ha attorno Sta studiando fotografia per la maturità, strada che ha intenzione di seguire anche all’università. Matteo Varsi nasce a Levanto nel 1970. Si laurea in Lingue e Letterature Straniere Moderne presso l’Università di Genova. Parallelamente sviluppa la sua passione per la fotografia come forma artistica. Collabora con banche immagine come Photonica e BoomerangMedia. Espone per la prima volta a Levanto, poi a Milano nel 2001 all’interno della kermesse “La Biblioteca in giardino”. Sempre del 2001 propone la personale “Itinera” a Villa Litta (Affori). L’anno successivo, nell’ambito del concorso “Fotoesordio”, gli viene allestita la personale dedicata ai cinque sensi presso lo spazio Contemporaneo-Temporaneo alla stazione di Roma Termini. Nel 2003 seguono altri allestimenti di “Itinera” prima a Madrid poi a Barcellona in occasione dell’evento “Artexpò”. Lo stesso anno gli viene allestita una personale all’interno del Festival Off (“Foto e Photo”) a Cesano Maderno. Sempre nel 2003 vince la borsa di studio per accedere all’ultimo anno dell’ IIF (Istituto Italiano di Fotografia) a Milano, dove si diploma nel 2004. Nell’ultimo anno ha partecipato al Festival Internazionale di Fotografia a Roma. Ha ottenuto il secondo premio al concorso internazionale di “Arti Visive” ad Albissola Marina e ha partecipato all’asta fotografica “Scatti per bene” presso Sotheby’s a Milano. Una sua fotografia appare nell’antologia I Lunatici (MUP editore 2006)
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Daniele Zoico è nato a Venezia nel 1985. Dopo la maturità scientifica, oggi è iscritto all’ultimo anno del claVES, corso di laurea in arti visive e dello spettacolo nella facoltà di design e arti dello IUAV di Venezia. Ha tenuto corsi e laboratori negli atelier e nelle aule universitarie con Stefano Arienti, Alberto Garutti, Lawrence Carroll, Nicolas Bourriaud, Guido Guidi, Massimo Magrì, Frank Bohem, Angela Vettese, Agnes Kohlmeyer, Laura Corti, Roberto Favaro, Tiziana Serena, Antonio Costa. Ha inoltre partecipato a corsi per Ripresa Fotografica Digitale e Analogica ed elaborazione dell’immagine. Musicista appassionato, ha collaborato alla creazione di numerosi documentari e cortometraggi (sulle avventure di Corto Maltese nel 2003 e la descrizione dell’arsenale di Venezia nel 2006) e alla creazione di animazioni, 3D, videoarte per laboratori universitari e ditte.
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MATITA Irene Fornari è nata a Fidenza nel 1987. 02.1989: la mamma appende il suo primo scarabocchio. 07.2001: la prof. di italiano le sconsiglia un indirizzo artistico. 09.2001: non dà retta alla prof. e si iscrive al Liceo Artistico Cassinari a Piacenza, frequenta corsi di fumetto e laboratori artistici. 07.2006: alla faccia della prof. si diploma con 95/100, pienamente soddisfatta della sua scelta. 10.2006: inizia l’Istituto Europeo del Design a Milano, sezione illustrazione e animazione. 10.2007: gli studi proseguono e la mamma continua ad appendere i suoi scarabocchi. Alessio Maggioni nasce a Vittoria nel 1978 e vive da sempre nei pressi di Catania. Si laurea in Matematica, disciplina che insegna nelle Scuole Secondarie. Si avvicina al disegno grazie ad un’artista catanese, Loredana Catania, da cui impara le tecniche basilari. In un secondo tempo si appassiona al disegno a fumetti, di cui è un vorace lettore sin dall’infanzia, e si iscrive ai corsi patrocinati dalla Fondazione Marco Montalbano, che frequenta ormai da vari anni. Espone più volte presso la Galleria Progetti d’Arte a Catania. La rivista “BOX” ha pubblicato una sua intervista arricchita da alcune foto dei suoi disegni. Ha realizzato una copertina per una pubblicazione della Villaggio Maori Edizioni e si classifica nella mostra-concorso “Segninquieti” di Oderzo (Treviso). Elisa Pellacani ha 28 anni e vive a Reggio Emilia. Laureata a Parma, in Conservazione dei Beni Culturali, con una tesi sulle possibilità espressive della fotografia dagli anni Settanta ad oggi, ha partecipato ai corsi della Scuola Internazionale di Grafica di Venezia. Attualmente frequenta l’ISIA (Istituto Superiore per le Industrie Artistiche) di Urbino e collabora con quotidiani e riviste come giornalista pubblicista.
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Sonia Maria Luce Possentini vive e lavora a Canossa (Reggio Emilia). Laureata in Storia dell’Arte, ha frequentato la scuola di illustrazione di Sarmede con Stephan Zavrel e il corso di illustrazione di Kveta Pakovská, all’Associazione Teatrio di Chioggia (Venezia). Ha tenuto numerose mostre personali di pittura con relativa stampa del catalogo a: Palazzo Pretorio di Certaldo (Siena), Studio D’Ars a Milano a cura di Pierre Restany, Musei Civici a Reggio Emilia. Ha partecipato inoltre a numerose collettive: Osservatorio Vesuviano a Napoli, Montserrat Gallery a New York, Teatro Il Piccolo a Milano, Galleria Ottagono a Reggio Emilia. Ha ottenuto anche numerosi premi e pubblicazioni: nel 2006 il primo premio al concorso nazionale di illustrazione “B.C.Andersen”, indetto dal Comune di Perugina, il premio di Sperimentazione Iconica al 6° Concorso Internazionale di illustrazione S. Zavrel di Cassano Jonico, il primo premio al Concorso Internazionale di illustrazione di Swanesnstadt (Austria), una selezione al Concorso Internazionale di illustrazione indetto dall’Accademia Pictor (Torino) “Pierino e il lupo” e una selezione per la mostra e il catalogo al Concorso Internazionale di Illustrazione “Scarpetta d’ Oro” di Stra (Venezia). Nel 2007 ha illustrato e pubblicato per la casa editrice Barbieri (Taranto) un testo di poesie da Sofocle a Montale dedicate all’ulivo. Prossimamente vedranno la stampa Il colore del mare, Falzea Editore come primo premio alla cultura globale di Alfredo Stoppa e L’amico diverso di Alfredo Stoppa, Il Cortile editore.
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IN LIBRERIA
I LUNATICI 15 NUOVI SCRITTORI ITALIANI con una introduzione di Fulvio Panzeri
€ 15,00 A tutti coloro che con racconti, fotografie ed illustrazioni hanno partecipato alla realizzazione della rivista “La Luna di Traverso”, siamo lieti di proporre l’antologia al prezzo speciale di
€ 10,00
Più che un’antologia di autori esordienti, il luogo in cui incontrare gli autori da bestseller di domani. Dopo sei anni di attività della rivista di narrativa “La Luna di Traverso”, esce il libro che racchiude i suoi pezzi migliori. Da Gianluca Morozzi a Monica Pistolato, una quindicina di autori che oggi escono con libri di successo, propongono i loro primi testi che già mostravano quel talento esploso proprio sulle pagine della rivista. La Luna, nata nel 2001, celebra con questa uscita i suoi autori migliori, proponendone i racconti più piacevoli e succulenti alla scoperta del fare narrativa oggi in Italia. Risultato del fermento creativo che pervade la penisola dei giovani autori, il libro è soprattutto una lettura piacevole, pervasa da invenzioni originali e punti di vista mai scontati, alla riscoperta di una realtà di tutti i giorni in veloce evoluzione. «“La Luna di Traverso” in questi anni è stata uno degli esempi più felici di uno spazio dedicato alla “nuova scrittura”, spazio gestito all’insegna dell’apertura e del confronto tra narrazioni diverse come segno stilistico e come autenticità delle storie. Con una novità sorprendente: la capacità dei giovani di autogestire un progetto, di sentirlo proprio e, in questo senso, vivo e vitale, come dimostrano I Lunatici». Fulvio Panzeri
FULVIO PANZERI ha collaborato con Vittorio Tondelli alla realizzazione di “Un weekend postmoderno” e ha curato la pubblicazione di tutte le sue opere postume, edite da Bompiani e l’opera completa in due volumi nei “Classici Bompiani”. Con Generoso Picone ha pubblicato il libro-intervista, Tondelli. Il mestiere di scrittore. Si è occupato attivamente della nuova narrativa italiana, con vari volumi di saggi, da I nuovi selvaggi (Guaraldi, 1995) a Altre storie (Marcos y Marcos, 1996) fino a Senza rete (PeQuod, 1999). Sta curando la ripubblicazione delle opere di Giovanni Testori nei Classici Bompiani e negli Oscar Mondadori e ha pubblicato da Longanesi, Vita di Testori (2003). Nel 2000 è uscita da Guanda la sua prima raccolta di poesie, L’occhio della trota.
PER INFORMAZIONI E PRENOTAZIONI MUP EDITORE - VICOLO AL LEON D’ORO, 6 - 43100 PARMA www.mupeditore.it - info@mupeditore.it - tel. 0521 386014 - fax. 0521 506588
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Comune di Parma Assessorato alle Politiche Culturali e alla Creatività Giovanile
La rivista letteraria «LaLunaDiTraverso», edita dalla Casa editrice Monte Università Parma e in collaborazione con l'Archivio Giovani Artisti del Comune di Parma, bandisce un NUOVO CONCORSO PER NARRATORI, FOTOGRAFI e ILLUSTRATORI REGOLAMENTO Art. 1 - TEMA DEL CONCORSO Il prossimo tema della rivista sarà RIVOLUZIONI. Rivoluzioni nel senso più ampio del termine, positivo o negativo. Non solo, dunque, radicale stravolgimento dell’ordine costituito, in senso politico, sociale, economico e scientifico. Ma anche profondo cambiamento, nel bene o nel male, che interviene nell’esistenza dell’individuo, con il turbamento e la confusione che ne derivano. Art. 2 - MODALITA’ DI PARTECIPAZIONE Opere narrative: si ammettono racconti originali ed inediti per una lunghezza massima di 5400 battute, spazi inclusi. Il materiale dovrà essere inviato via mail a giovani@comune.parma.it o per posta su floppy disk. Opere fotografiche: si accettano opere originali e non pubblicate. Ogni autore dovrà presentare 5 fotografie in formato 10x15 in bianco e nero facendole pervenire su negativo o su supporto magnetico (floppy disk o cd rom). Illustrazioni: si ammettono da un minimo di 3 a un massimo di 5 tavole in bianco e nero del formato massimo di un foglio A4 (21x29.7 cm). Il materiale inviato per posta dovrà pervenire al seguente indirizzo: Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia c/o Palazzo Pigorini, via Repubblica, 29 - 43100 Parma. Le opere di tutti i partecipanti dovranno essere accompagnate da una breve biografia dell’autore corredata dai dati personali (nome, cognome, indirizzo, recapiti telefonici, indirizzo e-mail). In relazione alla previsione che il materiale possa essere pubblicato, si richiede inoltre il consenso al trattamento dei dati personali ai sensi della legge 675/96 sulla privacy. Inoltre i candidati si faranno garanti dell'originalità dell'opera da loro presentata. Le decisioni della Commissione saranno inappellabili e il materiale non verrà restituito. Eventuali attestati di partecipazione al concorso saranno assegnati agli artisti che ne faranno richiesta solo qualora i loro lavori vengano selezionati. Art. 3 - CRITERI DI SELEZIONE Per la valutazione delle opere si terrà conto della qualità, dei percorsi di ricerca formale e dell'originalità dei testi e delle immagini. Il premio del concorso consiste nella pubblicazione dell'opera sulla rivista "LaLunaDiTraverso". Solo i vincitori saranno contattati dalla redazione. Non si accettano racconti che hanno partecipato a bandi precedenti. Art. 4 – SCADENZA Le opere devono essere consegnate entro e non oltre le ore 12.00 di giovedì 31 gennaio 2008. Art.5 – INFORMAZIONI Per ulteriori informazioni, rivolgersi ai seguenti numeri di telefono: 0521/384469, oppure agli indirizzi di posta elettronica: giovani@comune.parma.it.; redazione@lunaditraverso.it. Orari di ufficio Archivio Giovani Artisti: dal lunedì al venerdì, dalle ore 8.00 alle 13.00; lunedì e giovedì anche dalle ore 15.00 alle 17.00.
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