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ESODO E FOIBE

lingua italiana e di origine veneta vivevano, soprattutto lungo le coste, fin dai tempi della Repubblica di Venezia, erano stati annessi all’Italia dopo la Prima guerra mondiale, mentre la Dalmazia era stata annessa a partire dal 1941.

Il 10 febbraio 2023 si commemora il Giorno del Ricordo per "conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”. Si stima che furono entinaia di migliaia le persone che lasciarono l’Istria e gli altri territori, perdendo le loro proprietà e ritrovandosi esuli in Italia nel Dopoguerra.

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La data del 10 febbraio per il Giorno del Ricordo è stata scelta perché proprio in quel giorno del 1947 fu siglato il trattato di Pace di Parigi che assegnava l’Istria, il Quarnaro, Zara e parte del territorio del Friuli Venezia Giulia alla neonata Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. La decisione definitiva sul territorio di confine risale tuttavia al 1954, dopo nove anni di amministrazione internazionale della città di Trieste e di una fascia di territorio conteso. I territori dell’Istria, dove popolazioni di

A partire dalla firma italiana dell’armistizio (8 settembre 1943) in Istria e in Dalmazia i partigiani jugoslavi di Tito iniziarono operazioni di rappresaglia e vendetta nei confronti sia di chi, nella popolazione slava, veniva considerato un oppositore, sia della componente italiana, in particolare dei rappresentanti del regime fascista. Il regime infatti tra le due guerre mondiali aveva promosso una politica di repressione nei confronti di comunisti e antifascisti e aveva costretto all'italianizzazione forzata le popolazioni slave locali. I componenti dell’amministrazione fascista ma anche gli italofoni considerati borghesi e non comunisti furono presi di mira. Si stima che già in queste fase vennero torturate e gettate nelle foibe, insenature naturali formate da grandi caverne verticali tipiche del territorio dell’Istria e del Friuli Venezia Giulia, circa un migliaio di persone.

Con il ritorno dei territori alla Jugoslavia, le rappresaglie colpirono sempre più duramente la popolazione italiana: oltre a coloro che scomparvero nelle foibe ci furono carcerazioni e internamenti in campi di lavoro forzato, con ulteriori vittime indicate dal governo De Gasperi «in almeno 7.500 il numero degli scomparsi».

Le foibe sono insenature naturali formate da grandi caverne verticali presenti in Istria e Friuli Venezia Giulia, nella zona del Carso. Il nome "foiba" deriva da un termine dialettale dell'area giuliana, che deriva a sua volta dal latino fovea (fossa, cava). Nella foiba la cavità si restringe man mano che si scende in profondità per poi riallargarsi in un bacino: la forma rende difficoltosa la risalita e i soccorsi, motivo per cui spesso le vittime venivano gettate vive o ferite nelle cavità e vi morivano. La conformazione delle foibe ha reso in seguito difficile il recupero e l’identificazione delle vittime. Alcune "foibe" erano in realtà cave o miniere: una delle più importanti per la storia degli eccidi, la Foiba di Basovizza, nei pressi di Trieste, è ad esempio il pozzo abbandonato di un'antica miniera, quindi una cavità artificiale. Per esodo giuliano-dalmata s’intende l’abbandono forzato, da parte della quasi totalità del gruppo nazionale italiano, del suo territorio d’insediamento storico in Istria, a Fiume ed a Zara, passate dopo la seconda guerra mondiale dalla sovranità italiana a quella jugoslava. Il termine esodo, scelto all’epoca dei fatti dai profughi stessi per sottolineare la dimensione biblica della loro tragedia, è diventato nel corso dei decenni una formula adottata dagli storici per definire una particolare tipologia di spostamento forzato di popolazione, diverso nella forma ma non nei risultati, dalle deportazioni e dalle espulsioni. Sulle sue dimensioni reali è regnata a lungo l’incertezza;in tempi recenti, fra gli studiosi si registra una certa convergenza sull’ordine di grandezza di circa 300.000 persone che nel corso del dopoguerra avrebbero abbandonato quei territori. In stragrande maggioranza si trattava di italiani, ma erano presenti anche nuclei sloveni e croati. L’esodo è stato un fenomeno lungo, durato oltre 10 anni, attraverso fasi diverse. Le fughe avvennero con continuità, per terra e per mare, lungo tutto il periodo e non sempre ebbero esito positivo: molte infatti furono le vittime per mano dei militari jugoslavi. Gli esodi di massa invece avvennero in genere quando le comunità italiane si convinsero che la dominazione jugoslava era diventata irreversibile. Una volta arrivati, più o meno fortunosamente, in Italia, gli esuli ci si trovarono inizialmente assai male. Alle gare di solidarietà promosse da enti locali e soggetti privati, in particolare cattolici, si accompagnarono forme di rifiuto antropologico nei confronti di italiani così diversi (ma sono austriaci o slavi?) ed anche politico da parte comunista nei confronti di chi fuggiva dalla Jugoslavia socialista e quindi non poteva che essere fascista. Inoltre, il Paese era stremato dalla guerra e senza risorse per far fronte alle esigenze di grandi masse di sinistrati, profughi dalla Venezia Giulia o rientrati dalle colonie. Gli esuli giuliano-dalmati quindi vennero sventagliati in un gran numero di Centri raccolta disseminati in tutta Italia, dove le condizioni abitative e sociali lasciavano molto a desiderare. Per un verso, il governo fu in grado di avviare un massiccio programma di assistenza, comprendente sussidi, collegi per minori, riserve di posti nella pubblica amministrazione ed ampio piano di edilizia popolare, che consentì ad esempio la realizzazione di veri e propri quartieri giuliano-dalmati in 42 città italiane. Per l’altro verso, il boom economico favorì la collocazione degli esuli nel mercato del lavoro, tanto che si arrivò rapidamente ad una piena integrazione sociale. Rimase però la ferita della memoria, ché il prezzo dell’integrazione, in un’Italia che voleva gettarsi alle spalle i brutti ricordi della guerra e del dopoguerra, passò anche attraverso il silenzio e la rimozione dell’esperienza dello sradicamento. Quella ferita sarebbe stata sanata soltanto con il pubblico riconoscimento ottenuto nel 2004 con l’istituzione del Giorno del Ricordo.

Quaresima

Immediatamente dopo il periodo di carnevale, periodo dedicato alla sospensione e al sovvertimento della realtà quotidiana, il nostro calendario, frutto di una curiosa commistione tra tempo laico e tempo religioso, pone l’inizio della Quaresima, che costituisce per le chiese cristiane la preparazione all’evento pasquale, centro dell’organizzazione temporale delle confessioni che si riconoscono nella figura di Gesù Cristo.

Il termine Quaresima identifica infatti il periodo di quaranta giorni (quadraginta in laltino, da cui il nome attuale) nei quali il fedele prepara la celebrazione della Pasqua, nella quale si fa memoria della risurrezione del Cristo.

A partire indicativamente dal IV secolo dopo Cristo nel rito romano si affermò la consuetudine di fissare l’inizio della Quaresima con il rito delle ceneri del mercoledì antecedente la prima domenica, mentre per il rito ambrosiano l’inizio decorre ancora oggi dalla prima domenica.

Paolo VI, con il motu proprio “Misterii paschalis” del 14 febbraio 1969, stabilì che il tempo di Quaresima “decorre dal mercoledì delle ceneri fino alla messa In coena domini esclusa”. Con quest’ultima celebrazione, quella del giovedì santo, inizia invece il Triduo Pasquale, che costituisce in effetti un’unica grande celebrazione culminante nella domenica di Pasqua.

Il periodo di quaranta giorni richiama l’episodio, narrato dai Vangeli, dell’esodo di Gesù nel deserto e delle tentazioni cui lo stesso fu sottoposto dal demonio, tutte rifiutate dal Cristo, al cui termine inizia il periodo pubblico della vita del nazareno. In quanto tempo forte, il tempo quaresimale è contraddistinto dal colore liturgico viola, che richiama il significato dell’attesa.

Come richiama suggestivamente il rito delle ceneri, il tempo di Quaresima è scandito dalla preparazione alla Pasqua, una preparazione vissuta secondo una prospettiva penitenziale, che coinvolge il cristiano nella sua interezza di persona.

Da qui deriva la prescrizione, durante la quaresima, del digiuno nelle due giornate del mercoledì delle ceneri e del venerdì santo, e dell’astensione dalle carni negli altri venerdì di questo tempo.

Il solo digiuno però, non completa l’itinerario di preparazione del cristiano, ma deve essere accompagnato dalla preghiera, intensa come intenzione di conversione a Dio, e dall’esecuzione delle opere di carità verso i fratelli, a testimoniare appunto la dimensione integrale dell’esperienza di penitenza e di preparazione.

In particolare, la pratica del digiuno accomuna il cristianesimo anche agli altri monoteismi, in quanto esercizio di ascesi e rinuncia a sé stessi in favore di Dio.

Particolarmente noto è il mese del digiuno rituale musulmano, cioè il Ramadan, che celebra la prima rivelazione del Corano a Maometto.

Durante il Ramadan, che cade il nono mese del calendario lunare islamico, il credente deve astenersi dall’assumere cibi, bevande, fumare a avere rapporti sessuali dall’alba al tramonto, Anche in questo caso il digiuno deve essere accompagnato dalla lotta contro i cattivi pensieri e la azioni malvage.

Infine, anche l’ebraismo associa la pratica del digiuno ad alcune festività, tra cui la più importante è lo Yom Kippur, il “giorno dell’espiazione”, menzionato quattro volte nella Torah, durante il quale alle prescrizioni tradizionali dello shabbath si aggiungono l’astensione dai cibi e dalle bevande. Yom Kippur completa il periodo di dieci giorni di penitenza iniziato con il capodanno ebraico, Ros hasShana.

Anche nel caso del digiuno, come di altre attività umane, è stato operato da parte delle religioni un interessante processo di rielaborazione che, da abitudine alimentare originata inizialmente dalla scarsità di risorse alimentari, ha integrato questa pratica all’interno di orizzonte di significato più ampio, che ricomprende più in generale la “messa alla prova” dell’uomo in connessione con l’attesa dell’evento salvifico.

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