C PI
ANNO 3 NUMERO 24
O A G R U AT
A IT
Tecnologia
Fissione nucleare e bombe atomiche
Moda
Il bikini la rivoluzione per sottrazione
Viaggi
Seychelles, il paradiso sulla Terra
Nel Salotto di
ROBERTO CARACCI Intervista esclusiva
GREEN INTERVISTA Roberto Caracci
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VIAGGI Seychelles
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NATURA L’atollo di Aldabra
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ANIMALI La Tartaruga di terra
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TELEFILM Games of spoiler
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LIBRI Giorgio Faletti
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RED
MISTERO 30 Gli extraterrestri e le armi nucleari MUSICA Trent’anni di Steve Mcqueen
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MODA Il bikini
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STORIA La bomba atomica
44
BLUE TECNOLOGIA La fissione nucleare
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SPORT Barcellona
56
SPORT MINORI Horse - Ball
60
SPORT CERTIFICATI 62 Campioni si nasce o si diventa? PSICOLOGIA DELLO SPORT Salute dei ragazzi
YELLOW
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ARTE Paul Gauguin
68
ANNO 3 N. 24 Rivista on-line gratuita
CASA & DESIGN Il Museo della Contrada
70
DIRETTORE RESPONSABILE Pasquale Ragone
CURIOSITA’ Luglio - Agosto
74
PINK GAMES Dead Island 2
78
SPAZIO POSITIVO Rilassiamoci!
80
RICETTA SALATA VINO ABBINATO
82
RICETTA DOLCE VINO ABBINATO
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FOTO DEL LETTORE
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ANTICIPAZIONI
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DIRETTORE EDITORIALE Laura Gipponi GRAFICA E IMPAGINAZIONE Giulia Dester HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO Laura Gipponi, Diana Ghisolfi, Nicola Guarneri, Gaia Badioni, Simone Zerbini, Susanna Tuzza, Raffaele d’Isa, Sylvie Capelli, Gianluca Corbani, Matteo Simone, Gianmarco Soldi, Valentina Viollat, Roberto Carnevali, Carlo Cecotti, Maria Solinas, Sirigh Sakmussen, Luca Romeo. DIREZIONE/REDAZIONE/PUBBLICITA’ AURAOFFICE EDIZIONI S.R.L. a socio unico Via Diaz, 37 / 26013 Crema (CR) Tel 0373 80522 / Fax 0373 254399 www.auraofficeedizioni.com Testi e foto non possono essere riprodotti senza autorizzazione scritta dall’Editore. Le opinioni espresse negli articoli appartengono ai singoli autori dei quali si intende rispettare la piena libertà di espressione. Registrato al ROC n°: 23491 Iscrizione al tribunale N: 1411V.G. dal 29 ottobre 2013
INTERVISTA - ROBERTO CARACCI
ROBERTO CARACCI LA POLIEDRICITÀ DI UN INTELLETTUALE
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Siamo andati a trovare Roberto Caracci nella sua dimora: quella dove da 25 anni si tiene il Salotto Caracci. La stanza che ci accoglie è ricolma di libri, e un grande poster raffigurante un mulino occupa una delle pareti rendendo l’ambiente caldo: qui si respira letteralmente cultura. di Sylvie Capelli sylvieannacapelli@gmail.com
Saggista, narratore, critico, docente. Ma anche fondatore del Salotto Caracci e promotore di svariate iniziative culturali a Milano. Come si può sintetizzare il tuo percorso di formazione? Il mio percorso di formazione parte, più che dall’interesse per la cultura, da quello per l’esistenza e per il senso delle cose, che mi ha portato fin da piccolo ad approfondire le domande fondamentali dell’uomo. Tutto è partito dalla curiosità: non mi sono mai accontentato di “sopravvivere”; per me la coscienza di quello che si fa è stata sempre fondamentale. E soprattutto scrivere, e quindi registrare questa consapevolezza attraverso lo sviluppo del pensiero e delle immagini. Per me la cultura è sempre stata parola declinata in due modi: letterario e narrativo soprattutto, ma anche nel modo filosofico. Il percorso è ancora in atto, e probabilmente non terminerà mai. La tua produzione di narrativa si è sviluppata di più sulla base di precise istanze culturali oppure è dipesa almeno in parte da significative esperienze di vita personale? Confesso di non aver avuto grandi maestri, tranne quelli morti. Ho sempre visto la cultura come “un modo di respirare”: un bisogno quasi fisiologico, come ho scritto nel risvolto di copertina del mio primo libro di racconti, L’ingorgo pubblicato a 24 anni nel 1984 con l’editore Rebellato. Per me la scrittura è libertà, il mio modo di esprimermi e quindi di respirare. La vita senza autoconsapevolezza nella scrittura è una vita imbavagliata, che strangola. La mia narrativa è stata indubbiamente condizionata dal mio nomadismo: io non ho mai avuto una vera patria in quanto la mia infanzia è stata in Friuli, l’adolescenza fra Eboli e Napoli, e poi la mia maturità al nord Italia. Non mi sento, come direb-
be Ungaretti, “accasato in nessuna patria”. Non a caso, parlo tanto di radici e di sradicamento. Importanti sono le radici (come dal titolo del mio libro principale Le radici del silenzio, pubblicato nel 2007 da ATì Editore) che ti puoi portare dietro; non sopporterei mai delle radici immobili. Questa è una delle grandi contraddizioni che cerco di illustrare sia nella mia opera narrativa che in quello che scrivo dal punto di vista filosofico: lo scontro tragico tra il bisogno di radicamento e conservazione, e il bisogno di libertà e sradicamento; in pratica un nomadismo con la nostalgia del contadino e viceversa. Mi lega al nomadismo il fatto di avere viaggiato, mi lega al contadino il fatto di coltivare (la cultura etimologicamente è coltivazione) e mi piace pensare che, quando scrivo, aro la terra con la zappa adatta e soprattutto con la seminagione giusta.
INTERVISTA - ROBERTO CARACCI
Nel mio primo libro (L’ingorgo) ho utilizzato un linguaggio molto sperimentale riferendomi alle neo-avanguardie (attraverso Joyce, Beckett e soprattutto il Gruppo 63). La tecnica era quella del flusso di coscienza. Ad esempio nell’ultimo racconto ho usato solo le virgole come segno di interpunzione: è un unico periodo di 12 pagine. Quello che ho sviluppato in seguito, rispetto allo sperimentalismo, è il rispetto per il lettore. Non soltanto è morta una certa stagione sperimentale, ma secondo me è morto anche il senso di chi diceva “chi mi capisce, mi capisce” e scriveva per non farsi capire. Ho quindi abbandonato la fase sperimentale; però la parola, usata in senso un po’ surreale e psicanalitico, era già allora uno strumento di scavo verso l’inconscio. C’è qualche autore che ti ha ispirato o influenzato? Ci sono autori che mi hanno ispirato (Kafka, Thomas Mann, Joyce), altri che mi hanno devastato (Buzzati e
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Pavese) e altri ancora che in senso buono mi hanno traumatizzato, mutato l’esistenza. Dal punto di vista filosofico Nietsche, e da quello letterario l’opera narrativa di Samuel Beckett. Ma ancora prima gli esistenzialisti che mi hanno formato, sia in filosofia (Jaspers, Kierkegaard, Heidegger, Marcel, Sartre e Camus), che in letteratura (Sartre, Camus e Beckett). Come mai, a partire dagli studi filosofici, approdi poi anche a un notevole interesse nei confronti della psicologia analitica attraverso le sue varie scuole? La prima risposta che mi viene in mente è Italo Svevo: come si fa a non avere voglia di psicanalisi leggendo La coscienza di Zeno? La letteratura stessa del ‘900 mi ha aperto a quella che è una vera e propria passione: la psicanalisi. Mi interessano tutte le correnti: Freud, Jung, Adler, Lacan, Laing. Per me psicanalisi e mondo dell’arte sono sempre stati molto legati. Devo dire che c’è molta introspezione psicanalitica nei miei scritti.
Che “metodo di lavoro” adotti nell’organizzare le serate del Salotto Caracci? Il tuo appartamento a Milano ha in effetti ospitato in circa 25 anni un’eterogenea mole di intellettuali: da personaggi ben noti a livello nazionale fino ad amici e colleghi non privi di creatività artistica. Il mio salotto è in realtà anti-metodico e no-profit. Credo che la cultura debba dirigersi su due binari: quello autoreferenziale (si scrive un romanzo in solitudine e indipendentemente dal prossimo; ogni artista è egoista ed egocentrico mentre produce la sua opera, senza possibilità di essere influenzato o condizionato) e quello della comunità culturale (non per farne parte a forza, ma per coinvolgere quante più persone possibile in un progetto di cultura, in modo che ci sia una vera e propria cultura sociale e non esclusivamente da turris eburnea). Per questo 25 anni fa, da poco arrivato a Milano, ho iniziato il mio salotto che continua ancora. Oggi vedo troppo individualismo nel fare cultura: poeti che ascoltano solo se stessi, organizzatori che promuovono la propria organizzazione. Si sta perdendo lo spirito che c’era fino agli anni ’60 e ’70 della comunità culturale. Ho sempre avuto grande stima dei gruppi che si coagulavano a inizio ‘900 in riviste quali La Voce di Prezzolini o Anima di Papini. Il mio sogno era creare una rivista, un gruppo, una corrente – non ideologica ma di confronto – come allora. Bisogna uscire dall’isolamento, confrontarsi con altre persone. La scrittura è quindi il mio lavoro (non retribuito) e il salotto è il mio hobby (anch’esso non retribuito).
trario: persone i cui scritti mi hanno piacevolmente stupito e detto qualcosa. Io dai salotti esco contento quando ho imparato qualcosa, tante volte non imparo niente, o addirittura disimparo! Ma quando non imparo nulla dal protagonista del salotto, va in porto un’altra cosa: il mio scenario narrativo si arricchisce di un personaggio che posso trattare sociologicamente o satiricamente (ma sempre con rispetto) nei miei scritti futuri. Mi dicono essere troppo buono anche con autori che non lo meriterebbero, ma la gente ha più bisogno di incoraggiamento psicologico che di demolizione critica delle proprie opere.
E veniamo a Roberto Caracci critico Ti è mai capitato di presentare un au- letterario con Epifanie del quotidiano tore che stimavi, ma il cui scritto del edito da Moretti & Vitali nel 2010. È la mia raccolta di saggi critici, questa momento non era di tuo gusto? È capitato poche volte, più spesso il con- volta di poesia, che ha messo insieme
INTERVISTA - ROBERTO CARACCI
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alcuni poeti paradigmatici del mio salotto. Tratto questi poeti come “epifanici”, cioè come quelli che cercano di scrutare all’interno della realtà del quotidiano, trovandovi una piccola epifania. Come ad esempio quando in una crepa nel selciato trovi qualcosa che ti faccia riflettere, meditare, contemplare il mondo. Questo modo un po’ metafisico di manifestarsi della realtà sempre uguale a se stessa e questi poeti (ad esempio Tiziano Rossi, Giampiero Neri, Elena Petrassi) cercano di trovare qualcosa che dischiuda un significato. Il libro si apre con una poesia di Montale, che non ho mai potuto invitare al salotto ma che, nel panorama italiano, è il poeta epifanico per eccellenza. In questo libro c’è anche una critica alla critica letteraria. In Italia ci sono due correnti: una di tipo strutturalistico – che struttura, demolisce, smonta e rimonta la poesia nelle forme linguistiche, retoriche, stilistiche fino ad arrivare al suo scheletro – e una di tipo empatico – che passa al di là della forma, e va incontro a una sorta di simbiosi tra critico e scrittore. Nella critica strutturalistica, molto spesso ci si dimenticava dell’anima che c’è dentro lo scheletro. La mia critica è sicuramente più vicina a quella empatica: abbandonarsi al testo che ti deve dire qualcosa prima ancora che tu lo capisca. Nel mio libro sostengo che parte prima la sensazione estetica: che è la summa di tutta la vita. Quando sei di fronte a un grande quadro, una grande opera d’arte, non sono soltanto le tue competenze, ma tutto il tuo corpo e la tua sensibilità ad essere coinvolti. È come l’innamoramento: tu ti innamori di qualcuno che non conosci e l’innamoramento stesso ti stimola poi il desiderio di conoscere.
Nel tuo ultimo libro Il ruggito del Grillo sembri aver invaso la sfera di competenza del politologo. Come si spiega questo tuo interesse per un personaggio pubblico come Beppe Grillo? Proprio perché Beppe Grillo non era un politico ed è passato alla politica da altri campi: dal teatro e da quel mondo un po’ clownesco del cabaret e dello spettacolo mimico. Il mio libro si ferma proprio quando Grillo si lancia con il Movimento 5 Stelle; parlo delle tappe che ha percorso, brillantemente, da comico a politico. La mia analisi quindi più che da politologo è da entomologo del comportamento: coinvolgendo il linguaggio, la mimica – in realtà Grillo è un mimo che parla, quindi una macchina di comunicazione non verbale – e la retorica. Si tratta di una biografia divertente, leggermente satirica, che ha deluso sia chi si aspettava un detrattore di Grillo, sia chi si aspettava una lode al capo del Movimento 5 Stelle. Stai lavorando a un nuovo libro che uscirà la prossima primavera (2016), vuoi anticipare qualche cosa ai lettori di La Pausa? Certamente. S’intitolerà Le maschere del senso ed è il mio primo libro filosofico. Ho sempre avuto una passione per la filosofia (la mia prima laurea), che ho sempre sviluppato in modo poco accademico. Tengo molto a questo nuovo libro perché raccoglie tutto un mio modo di sentire, di pensare e di riflettere sulla vita, che risale addirittura ai miei 18 anni. Il cuore del libro è il senso dell’esistenza: quello che c’è da fare, da sentire, da pensare, in cui credere, e il nostro destino ultimo. Inoltre il libro risente di tutta la mia preparazione esistenzialistica. Sono molto
contento che l’editore Moretti & Vitali (per cui tra l’altro curo una collana di narrativa che si chiama “Echi dal labirinto”) faccia uscire questo libricino agile che non si rivolge né agli accademici, né a chi non abbia mai aperto un libro di filosofia. Il target dovrebbe essere costituito da chi si pone i problemi dell’esistenza a prescindere dalle speculazioni filosofiche. La mia non è una filosofia del camminare, ma un camminare filosofando: un racconto del pensiero. Dal momento che io sono un narratore, non un filosofo, credo che il linguaggio renderà il libro più agevole al lettore. Il libro potrebbe condensarsi in una sola domanda al lettore: ti sei posto il problema di dove stiamo andando in quest’epoca? Cos’è il tempo per te? Cos’è la morte per te? Dove stai sentendo di andare? Il meccanismo di cui parlo in questo libro è quello della rimozione: decidiamo di non rispondere “seppellendo” la domanda con impegni, preoccupazioni, dolori, pensieri,
lavori, attività e prassi. Prassi e vacanza sono due modi per oscurare le domande di fondo, per non pensare (non è un pensiero originale ma preso in prestito da Pascal). Soltanto in momenti di crisi, di lutto, di svolta nella vita a un certo punto ci risvegliamo e sentiamo di avere dormito: un esempio è il senso di depressione che prende moltissimi dopo i successi (esami superati, laurea, matrimonio, etc.). Io parlo dell’elogio della preoccupazione del mondo moderno: in fondo temiamo di essere preoccupati ma, sotto sotto, lo vogliamo; in quanto significa essere occupati prima dell’occupazione vera e propria. Ci preoccupiamo di quello che non c’è. In sostanza il godimento della preoccupazione è la tendenza a riempire ogni momento di vuoto, dal momento che, se la nostra mente fosse lasciata libera da impegni e preoccupazioni per qualche attimo, potrebbe fare una cosa terribile: pensare!
VIAGGI - SEYCHELLES
SEYCHELLES di Sylvie Capelli sylvieannacapelli@gmail.com
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di Sylvie Capelli sylvieannacapelli@gmail.com
Le Seychelles sono state a ragione definite il giardino dell’Eden: foreste tropicali fitte di piante più o meno note, innumerevoli specie di uccelli che nidificano durante tutto l’anno, spiagge di sabbia bianca orlate di palme che si specchiano nel mare, curiose forme di rocce granitiche modellate dalle onde e dal vento, piccoli atolli protetti dalla barriera corallina con il colore blu cobalto dell’Oceano Indiano in lontananza. Una natura ricca e generosa, che ha fatto innamorare coloro che vi si sono avvicinati. Le isole formano uno scenario estremamente romantico, e non a caso sono meta di moltissimi viaggi di nozze: cosa c’è di più bello per iniziare una vita di coppia di un soggiorno in questi luoghi da sogno, ammirando il sole che tramonta sul mare, cullati dal rumore delle onde… Diversi artisti si sono lasciati “stregare” da questo paradiso terrestre, e sono infatti numerosi gli atelier di pittori e scultori. La vacanza alle Seychelles è all’insegna del mare in tutte le sue manifestazioni: nuoto, windsurf, vela, sci nautico, snorkeling,
immersioni e pesca d’altura sono gli sport più praticati; da non perdere una breve gita al Parco Nazionale Marino a bordo di barche dal fondo di vetro per ammirare il paesaggio acquatico.
Mahé
La più grande delle isole granitiche dell’arcipelago, ospita la capitale Victoria e l’aeroporto internazionale. Sull’isola si trovano foreste tropicali, circa 68 spiagge bianche e scogliere a picco per un paesaggio che non finisce mai di meravigliare. Il noleggio di una mini moke consente di scoprire una spiaggia diversa ogni giorno. Mahé è inoltre il punto di partenza per raggiungere tutte le
VIAGGI - SEYCHELLES
isole minori dell’arcipelago in barca, elicottero o brevi voli.
Praslin
La seconda isola delle Seychelles per dimensioni e importanza turistica, raggiungibile in 15 minuti di volo o circa 3 ore in barca da Mahé. La traversata in barca è più difficoltosa (ma sempre possibile) tra maggio e settembre, quando a causa degli alisei il mare può essere piuttosto mosso. Meno montagnosa di Mahé, la si può percorrere interamente a piedi o in bicicletta per ammirare la famosa palma Coco-de-Mer concentrata soprattutto nella Vallée de Mai, oltre alle altre numerosissime piante tropicali. All’interno della barriera corallina pesci multicolore si aggirano in cerca di cibo, e sembra vogliano farsi ammirare dagli appassionati di snorkeling e immersioni. Blocchi di granito modellati dagli agenti atmosferici sono lo sfondo ideale per le fotografie più belle.
Silhouette
A soli 20 km a nord-ovest di Mahé, sorge dal mare questa piccola isola dalle “grandi montagne”. Il monte Dauban raggiunge infatti 750 metri di altezza. Protetta da una barriera corallina molto fitta, Silhouette è rimasta indisturbata a lungo; e questo ha permesso alla natura di prendere il sopravvento: la più bella e fitta foresta vergine di tutto l’Oceano Indiano si trova qui, e dalle alture sgorgano ruscelli limpidissimi. Per chi non si accontentasse solo di una vacanza balneare, vengono organizzate splendide passeggiate all’interno della foresta in compagnia di guide armate di macete, la cui lama è a volte necessaria per farsi largo tra la vegetazione.
Denis 12
Piccola isola corallina ricoperta da un fitto palmeto a circa 30 minuti di volo da Mahé. Un vecchio villaggio, una fattoria e un centro per la lavorazione della copra fanno compagnia agli ospiti dell’unico hotel presente. L’isola è rinomata soprattutto tra gli amanti della pesca d’altura: vanta infatti 5 record mondiali per il tonno dog tooth.
Desroches
Durante tutto l’anno si pescano bonitos, pesce vela, barracuda e, tra ottobre e di- Isola corallina appartenente all’arcipelacembre, si può prendere all’amo la preda go delle Amirantes, situata a sud-ovest più ambita: il famoso blue marlin. di Mahé e raggiungibile in circa un’ora di volo. Splendida barriera corallina, è l’ideale per gli amanti di immersioni subacquee e snorkeling, per i quali il periodo 90 km a nord di Mahé, raggiungibile in 40 migliore va da settembre a maggio, quanminuti di volo o con un tragitto in barca do l’influenza del monsone crea un clima molto bello che dura circa 8 ore. Situata al più umido e un mare tranquillo. 7 chilolimite estremo della piattaforma continenmetri di spiagge, palme e vegetazione tale, dopo la quale gli abissi prendono il lussureggiante fanno da complemento a sopravvento. Bird è un’isola piccolissima, quest’isola fuori dal mondo. il cui perimetro può essere percorso in circa un’ora di passeggiata sulla spiaggia. Innumerevoli uccelli nidificano in questo spazio ridottissimo soprattutto da maggio Bellissima isola granitica a soli 30 minuti a settembre, e le loro grida accompagna- di barca da Praslin. Spiagge incantante no la giornata che trascorre tranquilla tra con rocce dai colori cangianti. Ogni luogo bagni di sole e di mare in compagnia di può essere raggiunto con i mezzi di loEsmeralda: la tartaruga di terra più vec- comozione disponibili: il tradizionale carro chia del mondo, nata nel 1771. trainato dai buoi, la bicicletta e… le gambe.
Bird
La Digue
VIAGGI - SEYCHELLES
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Notizie utili
La lingua ufficiale è il creolo, derivato da un miscuglio di francese e lingue africane. Vengono comunemente parlati sia francese che inglese. Non esistono malattie endemiche e conseguentemente non c’è obbligo di vaccinazioni. La differenza di orario tra le Seychelles e l’Italia è 3 ore (quando alle Seychelles sono le 12.00 in Italia sono le 09.00), la differenza si riduce a 2 ore durante l’ora legale. Il clima è tropicale, piacevolmente uniforme quasi tutto l’anno con temperature che variano tra 25 e 30°C. Tra novembre e aprile le isole sono interessate dal monsone indiano con venti che soffiano da nord-ovest portando maggiore umidità e mare tranquillo, mentre da maggio a ottobre il clima è più secco grazie agli alisei
che spirano da sud-est increspando il mare. La cucina creola è il risultato del mix tra le varie culture che hanno popolato le isole fin dalla loro scoperta: dai piatti raffinati della cucina francese, alle ricette cinesi, alle spezie indiane e ai cibi africani. Una gioia per gli amanti del pesce, abbondante e cucinato in vari modi. Ottima e varia la frutta tipica dei paesi tropicali.
Aneddoto Notti “agitate” a Praslin
di Sylvie Capelli – sylvieannacapelli@gmail.com
Praslin è un’isola lussureggiante dove, oltre alle bellissime spiagge di fine sabbia bianca, si trova una valle ora Parco Nazionale: la splendida Vallée de Mai, patrimonio dell’umanità dell’UNESCO dal 1983. Si tratta di una foresta che ospita numerose specie animali endemiche: uccelli, mammiferi, crostacei, chiocciole e rettili; oltre a sei specie di palme tra cui il famoso Coco-de-mer (o Coco-d’Amour). Questa particolare palma da cocco ha foglie di oltre 6 metri di larghezza per 14 di lunghezza, ma la sua straordinarietà è data dalla forma di fiore e seme. Il fiore è un’escrescenza lunga e sottile, simile a un fallo, mentre il seme – il più grande del mondo che arriva a pesare anche 20 kg – sembra la fusione tra due noci di cocco che unendosi ricordano… la forma del bacino della donna! Per questo motivo nel medioevo gli venivano conferiti poteri soprannaturali e veniva utilizzato come “Viagra”. Si pensava che avesse origini marine, e solo nel XVIII secolo i francesi scoprirono la valle svelando la vera natura di questo cocco straordinario. Si dice che nelle notti di tempesta le piante femminili si uniscano sessualmente a quelle maschili e, chi assistesse all’atto d’amore, si trasformerebbe nella specie endemica del pappagallo nero, vivendo per sempre nella Vallée de Mai.
NATURA - L’ATOLLO DI ALDABRA
L’atollo di Aldabra Perla rara delle 16
Seychelles di Diana Ghisolfi dianaghiso@gmail.com
L’ATOLLO
L’atollo di Aldabra è costituito da un anello corallino formato da quattro isole principali. È un’importante riserva naturale quasi incontaminata, ed è quindi luogo di altissimo interesse naturalistico. In senso antiorario le isole maggiori sono: l’isola Meridionale (116 km2), l’isola di Malabar (26,8 km2), l’isola di Polymnieli (4,75 km2) e l’isola di Picard (9,4 km2). Inoltre ci sono altre quaranta piccole isole e scogli, perlopiù all’interno della laguna che è poco profonda. Il gruppo di isole è circondato da una barriera corallina che aumenta il fascino indiscusso della zona. L’atollo è in grado di supportare i processi biologici ed ecologici necessari per una continua precisamente l’atollo appartiene al Grupevoluzione del territorio. po di Aldabra, uno degli arcipelaghi delle Isole Esterne delle Seychelles.
DOVE SI TROVA
L’atollo fa parte delle Seychelles, cioè delle isole tra le più belle dell’Oceano Indiano, famose per le loro barriere coralline. L’atollo di Aldabra diventa così protagonista e simbolo delle Seychelles, essendo la scogliera corallina più importante. Più
DIMENSIONI
È lungo 34 km, largo 14,5 km e alto 8 metri sul livello del mare. Copre una superficie di 155,4 km2, mentre la laguna misura complessivamente 224 km2.
NATURA - L’ATOLLO DI ALDABRA
RICONOSCIMENTI
È il secondo atollo più grande del mondo dopo l’isola Christmas, appartenente alla repubblica delle Kiribati, nell’Oceano Pacifico. Nel 1982 viene riconosciuta l’importanza dell’atollo attraverso il titolo di “Patrimonio naturale mondiale” da parte dell’UNESCO.
PERICOLI
Lo sbiancamento dei coralli e il cambiamento climatico sono le minacce più gravi che incombono sul destino dell’atollo. Il WWF e altre associazioni stanno studiando i modelli di strategie di conservazione per proteggere la barriera corallina.
FAUNA
L’atollo, grazie all’habitat unico e incontaminato, vanta la presenza di circa 150.000 testuggini giganti, tra le ultime sopravvissute al mondo, e moltissime tartarughe verdi, le quali utilizzano le coste per deporre le uova. Anche la presenza di uccelli marini non è indiffe-
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rente. Ci sono grosse colonie di fregate, uccelli dal piumaggio nero con il collo rosso nei maschi (che viene gonfiato in modo molto evidente durante il corteggiamento) e bianco nelle femmine. Poi c’è il fetonte codarossa e quello codabianca, due specie di uccelli più piccole della fregata, che misurano in lunghezza circa 70 cm, comprese le lunghe timoniere centrali della coda. Degna di nota è anche la sterna fairy, un uccello che nidifica sugli alberi e il cui aspetto è piuttosto buffo poiché l’intero piumaggio è bianco. Zampe e becco sono di un co-
lor giallo-arancione, ma la parte superiore della testa è nera, come se l’animale indossasse una piccola cuffia scura. L’atollo ha inoltre la fortuna di ospitare il Dryolimnas, l’ultimo degli uccelli dell’Oceano Indiano incapace di volare. Per quanto riguarda i pesci, durante l’alta marea nella laguna arrivano mante, piccoli squali, cernie, barracuda, pesci pagliaccio e tanti altri, mentre fuori dalla laguna si trovano balene, delfini e dugonghi. All’interno delle isole, in piccoli laghetti, è stata poi scoperta la presenza di una rarissima specie di medusa. crociera è possibile effettuare delle escursioni, ma è fondamentale la prenotazione non prima di aver ottenuto dei permessi speciali. Solo pochi individui per volta (e comunque accompagnati da una guida) possono sbarcare sull’atollo. Generalmente i turisti sono per lo più naturalisti interessati alla fauna e alla flora presenti sul territorio. Nell’isola di Picard si trova la Stazione di Ricerca, gestita dal SIF (Fondazione Isole Seychelles), che ha lo scopo di sorvegliare e studiare l’ecosistema dell’atollo.
FLORA
La flora è molto ricca, conta 273 specie di piante, fiori e felci. La maggior parte del territorio è coperta da mangrovia, una formazione vegetale costituita da piante legnose, che viene sommersa dalla marea. Ci sono 25 specie endemiche e altre 22 specie condivise con le isole vicine.
PRESENZA DELL’UOMO
Grazie alla lontananza dell’atollo, il territorio è rimasto in gran parte incontaminato, rendendolo un ecosistema molto protetto. L’atollo è praticamente disabitato e viene visitato raramente. Con le navi da
STORIA
Già conosciuto dagli arabi, che gli diedero il nome, l’atollo di Aldabra è stato scoperto dagli europei nel 1511 grazie ai navigatori portoghesi. Nel Cinquecento l’atollo viene utilizzato dai marinai come punto di riferimento per la caccia alle tartarughe giganti, quindi come fonte di cibo. La prima colonizzazione effettiva di Aldabra viene fatta per mano francese, poi l’atollo passa agli inglesi alla fine delle guerre napoleoniche. In seguito ritorna francese e alla fine del XIX secolo Aldabra è sotto la guida delle isole Seychelles e di Mauritius. Ancora oggi, dal punto di vista politico, l’atollo fa parte delle Seychelles.
ANIMALI - LA TARTARUGA DI TERRA
LA TARTARUGA DI TERRA
20 di Diana Ghisolfi dianaghiso@gmail.com
CHI È
Testudo hermanni è il nome della specie, in onore del naturalista francese Jean Hermann. Comunemente chiamata tartaruga di terra, si tratta di un rettile appartenente all’ordine delle testuggini.
COME È FATTA
La taglia e il guscio cambiano al variare dell’habitat. Umidità, irradiazione solare, acqua e alimentazione sono tra i fattori che maggiormente influiscono su questa varietà morfologica. Ceppo italico, francese e spagnolo sono i tre rami principali che classificano, seppure con ulteriori distinzioni al loro interno, le tartarughe di terra. In linea generale si può dire che le tartarughe di terra possiedono un corpo corto protetto da una corazza. Questa è costituita da piastre ossee e rivestita da scaglie cornee e viene distinta in due parti: quella ventrale (il piastrone) e quella dorsale (lo scudo), le quali lasciano un’apertura
anteriore e una posteriore per la testa, la coda e gli arti, quasi sempre tutti retrattili. Le mascelle sono prive di denti, ma sono ricoperte da un astuccio corneo; e gli arti hanno cinque dita dotate di unghie. Mediamente le dimensioni della tartaruga sono 18 cm di lunghezza per le femmine e 15 cm per i maschi. La grandezza non è l’unica differenza tra maschio e femmina. Per distinguere il sesso si può far attenzione anche al piastrone: piatto nella femmina (per avere più spazio per lo sviluppo delle uova) e concavo nel maschio (per adattarsi meglio alla forma convessa della corazza della femmina). Un’altra differenza sta nella coda: grossa, robusta, lunga e appuntita nel maschio; corta, piccola e senza rilievi nella femmina. E poi le unghie — più lunghe nel maschio —, e il muso — più allungato nel maschio e più tondeggiante nella femmina. Difficile risulta scoprire l’età, ma quello che è sicuro è che le tartarughe di terra sono molto longeve, con alcuni esemplari che hanno raggiungo anche i 100 anni di vita.
a un tubercolo corneo tra le narici e la mascella chiamato “dente dell’uovo”, Sono animali erbivori, ma in casi estre- destinato a sparire dopo pochi giorni. mi gli esemplari selvatici si nutrono anche di erba secca, ragni, chiocciole e piccole carogne.
ANIMALI - LA TARTARUGA DI TERRA
COSA MANGIA
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DOVE SI TROVA
Esclusivamente nell’Europa meridionale, dalla Spagna alla Romania, includendo le isole maggiori del Mediterraneo. L’habitat è quindi caratterizzato da inverni miti con precipitazioni moderate ed estati aride con temperature elevate.
RIPRODUZIONE
Una volta risvegliati dal letargo, in aprile, inizia il corteggiamento: il maschio insegue, morsica e prende a colpi di carapace la femmina. La copula avviene con l’estroflessione del pene contenuto nella coda e con la monta sul dorso della femmina. Questo è l’unico momento in cui si può udire un verso, poiché si tratta di animali muti. La femmina è in grado di conservare lo sperma per quattro anni in un apposito organo all’interno dell’ovidutto. La maturità sessuale viene raggiunta intorno ai 10 anni di età. Le tartarughe di terra sono ovipare, cioè la crescita embrionale viene terminata al di fuori del corpo materno. Le uova vengono deposte anche in quattro momenti diversi in buche scavate dalla femmina. Il tempo di incubazione, 2 o 3 mesi circa, e il sesso dei nascituri varia in funzione della temperatura: con meno di 31,5°C si avranno più maschi, con una temperatura maggiore si avranno più femmine. Al momento della schiusa, il piccolo riesce a rompere l’uovo grazie
CONSIGLI PER L’ALLEVAMENTO 1. L’habitat ideale è un giardino esterno esposto al sole, ma anche con zone d’ombra. 2. Coppi, tegole, vasi tagliati a metà, tutti rigorosamente di cotto, sono un’ottima soluzione per il riparo invernale, durante il periodo del letargo (da ottobre ad aprile). 3. Dal momento che le tartarughe sono molto abili a scappare e più veloci di quanto si creda, è bene che il recinto sia ben serrato. 4. Fare attenzione ai possibili predatori di tartarughe ma anche di uova! Essi sono: cani, gatti, ratti, piccioni e volpi. 5. La dieta da seguire è basata su erbe di campo, insalate di ogni tipo e poca frutta (tarassaco, cicoria e radicchio rosso sono gli alimenti migliori). 6. In estate lasciare sempre a disposizione acqua fresca, che serve sia per abbeverarsi che per rinfrescarsi. 7. Anche le tartarughe hanno bisogno del veterinario!
Approfondimento
La tartaruga embricata
di Diana Ghisolfi – dianaghiso@gmail.com
La tartaruga embricata (Eretmochelys imbricata) è una tartaruga marina diffusa nelle acque tropicali dell’Oceano Atlantico, Pacifico e Indiano. Nei pressi delle isole Seychelles viene individuato uno dei maggiori siti di nidificazione, sebbene la specie sia classificata tra quelle ad alto rischio di estinzione. Appartiene all’ordine delle testuggini e viene riconosciuta come una delle tartarughe marine più piccole della famiglia dei Chelonidi. Una tartaruga adulta ha una lunghezza che varia dai 62 cm ai 115 cm, mentre il peso va dai 45 kg ai 70 kg. Il carapace è a forma di cuore e le sue piastre ossee sono sovrapposte, ricordando gli embrici di un tetto; ecco perché si chiama “embricata”. Le caratteristiche che rendono nota questa specie sono: la testa somigliante al becco di un uccello, la coppia di artigli sulle pinne anteriori e la colorazione del corpo che si presenta marmoreggiato con diverse tonalità brune e gialle. Sono animali onnivori; si nutrono di molluschi, alghe, crostacei, ricci, pesci, meduse e spugne. L’accoppiamento avviene ogni tre anni e la deposizione delle uova ha luogo nelle acque basse vicino alle coste, sotto uno strato di sabbia. I piccoli nascono dopo circa due mesi e fin da subito sono esposti ai pericoli dell’oceano.
TELEFILM - GAME OF SPOILER
SPOILER ALERT!
LEGGI A TUO RISCHIO E PERICOLO!
GAME OF SPOILER Il finale della quinta stagione di Game of Thrones lascia il gelo nel cuore dello spettatore. L’Inverno è ormai arrivato
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di Maria Solinas solinasmaria1989@gmail.com
E anche questa volta eccoci giunti al termine: la quinta stagione di Game of Thrones si è conclusa, lasciandosi dietro una scia di espressioni attonite, congetture infinite, pianti e lutti che caratterizzano l’universo dei fan della serie. Per coloro che non si siano ancora cimentati nella visione di uno degli eventi televisivi più attesi e discussi a livello planetario, è d’obbligo informare che questo articolo non tratterà la materia delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco con le pinze: lo spoiler si cela in ogni virgola; perciò, se non volete rovinarvi la sorpresa, armatevi di coraggio e desistete dall’immergervi nella lettura. Lettore avvisato… Innanzitutto un’infarinatura generale per i profani e per i fan dalla memoria corta. A Song of Ice and Fire è il titolo della saga fantasy più popolare del secondo millennio: George R. R. Martin pubblica il primo volume, Game of Thrones, nel 1996; ma il mondo da lui immaginato e messo su carta diviene popolare nel 2011, quando la prima stagione di GOT appare sugli schermi americani, provocando un interesse senza pari verso una produzione televisiva di stampo fantasy. Il successo dei libri e della serie tv risiede nell’originalità della materia narrata. Quello delle Cronache è senza dubbio un universo
di fantasia ma, ciò che tiene lo sguardo del lettore sulla pagina e lo sguardo dello spettatore sullo schermo, è il realismo delle vicende presentate. Sembra un ossimoro inconcepibile, ma ciò che distingue GOT dal resto delle grandi storie fantasy (Il Signore degli Anelli, Le Cronache di Narnia, eccetera) è proprio il fatto che le passioni, le emozioni e le storie dei suoi personaggi sono, fatte le dovute eccezioni, del tutto verosimili: gli amori, le liti, le morti e gli ideali rispecchiano non solo l’uomo “medievale” (perché di una sorta di Medioevo rivisitato si tratta), ma l’uomo in generale. Sfido chiunque abbia letto o visto Game of Thrones a non essersi emozionato durante il giuramento dei Guardiani della Notte presso l’Albero Diga, a non essersi commosso durante le Nozze Rosse, a non aver digrignato i denti dalla rabbia per la morte della Vipera Rossa, a non aver sorriso alle battute del Folletto. Tutto questo è possibile grazie al talento narrativo di Martin e — cosa non secondaria — a quello degli sceneggiatori della serie, abilissimi nel tratteggiare il volto e l’anima di personaggi complessi e ben definiti, ma allo stesso tempo
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imprevedibili e pieni di segreti, come la penna del loro creatore. Altro punto di forza della saga è il relativismo: tradizionalmente, in ogni narrazione che si rispetti, esiste una lotta tra il Bene e il Male e di certo GOT non è da meno; tuttavia, nel mondo assemblato da Martin, questo conflitto non ha contorni definiti né schieramenti fissi e rigidi. La lotta si svolge all’interno dell’animo e della mente di ogni personaggio in ogni singola situazione, ed è avvolta da un alone di ambiguità e incertezza: il lettore/spettatore, ormai giunto all’ultimo libro pubblicato e/o al finale della quinta stagione, non sa ancora da che parte risieda veramente la ragione, a chi appartenga il cuore più puro. Chi saprebbe dire con certezza chi sia più potente tra lo Sconosciuto, il dio che consegna la morte, e R’hllor, il dio rosso che riporta in vita i defunti meritevoli? Chi sa dire con certezza se l’animo di Varys sia votato alla giustizia o al male? Chi mettereb-
be la mano sul fuoco per sostenere la malvagità del Mastino? Se siete sicuri di saper dare una risposta a queste domande, non avete compreso il vero nucleo delle Cronache: la grande varietà di un universo popolato da esseri che si scontrano, ognuno convinto dei propri ideali, su questioni “piccole” (come scegliere chi amare) o enormi (come il potere assoluto). Riuscite a pensare a qualcosa di più antico e contemporaneamente di più attuale? Terminiamo ora la premessa per parlare della quinta stagione, quella che più di tutte si discosta dalla narrazione letteraria. Chi ha letto tutti i libri delle Cronache sarà certamente rimasto sbigottito davanti a determinate scene, cronologicamente sfasate rispetto ai capitoli dei libri, se non addirittura inesistenti nei volumi, o rielaborate secondo uno schema misterioso. Al termine della quinta stagione, è impossibile non immaginarsi gli scenari futuri, le sorti dei personaggi principali
e di quelli quasi dimenticati. La sorte, ad esempio, di Sansa che, in fuga da Grande Inverno con Theon/Reek, si getta da una scogliera vertiginosa e scompare tra le acque (Sansa nei libri non sposa mai Ramsey, il quale prende invece in moglie una fanciulla del Nord spacciandola per Arya, ma rimane al fianco di Robin Arryn e Ditocorto nella Valle di Arryn). La sorte di Arya: alle prese con l’addestramento nella Casa del Bianco e del Nero, e con una cecità punitiva. Le sorti di Cersei: umiliata al cospetto della capitale intera, e sicuramente pronta a una terribile vendetta. Le sorti di Stannis: raggiunto alle porte di Grande Inverno da Brienne, la quale gli punta un pugnale alla gola (si noti che le vicende che interessano il Nord sono molto diverse dalla narrazione letteraria). Le sorti di Danaerys: volata sul dorso di Drogon attraverso il Continente Orientale, e raggiunta da un’orda dothraki non proprio amichevole. Le sorti dei suoi fedeli Tyrion, Dahario, Jorah, Verme Grigio e Missandei: rimasti a Mereen senza la Regina. Le sorti di Jamie e della nipote/figlia Myrcella, in punto di morte per volere di Ellaria Sand (anche in questo caso le vicende televisive di discostano notevolmente da quelle letterarie). Ma soprattutto ci si interroga sulla sorte di Jon Snow,
Lord Comandante tradito dai suoi uomini, il quale sembra esalare i suoi ultimi respiri in seguito a una serie di pugnalate al ventre. Jon cade nella neve sussurrando “Spettro”, mentre il colore dei suoi occhi si trasforma. Si può dire che la quinta stagione pareggi i conti con i libri della saga, nonostante le enormi differenze tra i due mezzi narrativi. Il lettore delle Cronache è tuttavia più avanti rispetto agli eventi televisivi, dal momento che sullo schermo non sono state presentate vicende e personaggi fondamentali per lo svolgimento della storia (come i Greyjoy, la Fratellanza senza Vessilli, eccetera). Parallelamente, però, i lettori in molti casi si trovano allo stesso punto degli spettatori, anche per quanto riguarda le vicende di personaggi non trattati o trattati solo in parte nella quinta stagione (ad esempio Bran e Rickon Stark). In conclusione, l’ultima stagione di GOT termina con un finale aperto, che eleva le aspettative dei fan e fa scoppiare congetture e ipotesi di ogni tipo. Si consiglia in ogni caso massima fiducia ed estrema pazienza: l’attesa ripagherà le aspettative, parola dello zio George.
LIBRI - GIORGIO FALETTI
IL SUCCESSO POSTUMO DI
GIORGIO FALETTI
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Un “Predestinato all’arte”. Scomparso un anno fa, Giorgio Faletti riscuote ancora successo con il romanzo pubblicato postumo “La piuma”. Una carriera da numero uno per l’attore che ha saputo vendere milioni di libri e si è saputo distinguere anche in campo musicale. di Luca Romeo luca.rom90@yahoo.it
Intanto è un libro, poi — forse entro la fine dell’anno — diventerà un musical. Già, perché La piuma, ultimo romanzo di Giorgio Faletti pubblicato dopo la scomparsa dell’autore astigiano, è stato preparato e “aggiustato” proprio con l’intento di finire sui palcoscenici di tutta Italia, circondato dalle musiche d’eccellenza di Paolo Fresu, trombettista e amico di Faletti, che per la nuova uscita editoriale ha realizzato le illustrazioni. Ma facciamo un passo indietro: luglio 2014, esattamente un anno fa, il buon Giorgio perde la lunga lotta contro un malore che lo tiene prigioniero da tempo. Con lui, l’Olimpo degli scrittori italiani contemporanei perde uno degli dèi più in vista, che sa coinvolgere alla lettura diverse generazioni fin da quell’Io uccido, esordio alla macchina da scrivere del 2002. Un thriller da 4 milioni di copie vendute, davvero niente male per un esordiente — per quanto il “pivello” in questione fosse già un volto arci-noto della tv e del cinema. Giusto per far capire che il successo non è stato un caso, lo scrittore sfodera dal cilindro subito altri due manoscritti — Niente di vero tranne gli occhi, e Fuori da un evidente destino — seguendo la linea del romanzo giallo, e spianando la strada ad un altro must falettiano come Io sono Dio del 2008. Arrivano nel frattempo raccolte di brevi racconti, audiolibri e brani musicali scritti per Milva, Mina e Marco Masini. Niente di più semplice per un “predestinato dell’arte” che, oltre ad aver spopolato all’esordio letterario, aveva lasciato a bocca aperta tutti al festival di Sanremo del 1994 con l’indimenticabile canzone Signor tenente, piazzatasi al secondo posto nella competizione e vincitrice del premio della giuria. Traguardi impensabili se si pensa a lui come a un attore e cabarettista, più che a un cantautore. Poi, dopo il 2011, interventi sempre più
sporadici, con quel male incurabile che lo toglie di prepotenza dai riflettori. Riposo, cure; ancora riposo e ancora cure mediche. Fino alla brutta notizia della scorsa estate. Ma il Faletti scrittore non è finito. La piuma, infatti, era praticamente pronto un anno fa, anche se il suo autore non ha avuto le forze per vederlo pubblicare. Oggi è tra i romanzi più venduti in Italia (e come potrebbe essere diversamente?), e parte da una domanda semplice; quasi infantile quanto interessante dal punto di vista filosofico: “Avete mai visto le piume volteggiare nell’aria, tracciando disegni perfetti e incomprensibili?” Eccolo lì il nostro scrittore: dice e non dice, spiega e tiene per sé, mescola perfezione e incomprensione come fosse naturale, fin dai presupposti della sua nuova opera. La trama vede raccontata un’umanità giunta quasi al capolinea, un mondo fatto di ingiustizie e interessi personali. Ma la speranza è l’ultima a morire tra le righe dell’artista piemontese, il quale invita a non arrendersi di fronte al menefreghismo in cui viviamo e, al contrario, a combatterlo. Un po’ testamento artistico, un po’ romanzo da best seller, La piuma si candida fortemente a volteggiare sulle spiagge italiane per tutta l’estate. Sarà il romanzo più venduto della stagione? I bookmaker non azzarderebbero quote troppo alte.
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MISTERO - GLI EXTRATERRESTRI E LE ARMI NUCLEARI
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LA “STRANA” INTOLLERANZA DEGLI EXTRATERRESTRI PER LE ARMI NUCLEARI Sirigh Sakmussen compagniadelthe@gmail.com
Una delle angolazioni più feconde, nel campo della ricerca ufologica, riguarda l’ormai indiscutibile correlazione — abbondantemente constatata negli ultimi decenni — fra avvistamenti di U.F.O. e incidenti ai siti di stoccaggio delle armi nucleari delle Superpotenze mondiali. Per quanto riguarda lo scacchiere nordamericano, grande importanza relativamente alle fonti di queste vicende va attribuita alla “Freedom of Information Act”, vale a dire la “Legge sulla libertà di informazione” emanata il 4 luglio 1966. Grazie a queste norme, si è infatti potuto accedere a una serie di documenti tecnici e atti amministrativi precedentemente coperti dal segreto militare. Nel campo delle rivelazioni ufologiche, gli Stati Uniti restano tuttavia ancora il Paese più reticente al mondo; e molta documentazione, il cui esame sarebbe stato importante a questi fini, è stata dichiarata spesso “accidentalmente distrutta”. Il quadro è comunque bilanciato da testimonianze e dichiarazioni spontanee rese da personale militare e tecnico di vario grado e competenza; e cioè da persone che in tarda età — raggiunta la pensione o sentendosi prossime alla fine — hanno desiderato sgravarsi la coscienza dal peso di rivelazioni taciute per decenni sotto vincolo gerarchico. È così che oggi sono diventati noti nei circuiti ufologici fatti e circostanze relativi a diversi casi di “Broken arrow” (termine che in gergo militare denota un incidente nucleare) la cui conoscenza suona decisamente allarmante per il diretto coinvolgimento in questi accadimenti di entità non terrestri. Ma allarmante per chi? Veniamo ad alcuni esempi. Nel 1964 il tenente Robert Jacobs lavorava come cineoperatore presso la base aerea californiana di Vanderberg, un’infrastruttura specializzata in test missilistici a medio e lungo raggio. Il 15 settembre di quell’anno Jacobs era impegnato a realizzare
una ripresa del missile balistico intercontinentale SM-65 Atlas, armato con testata nucleare. Subito dopo il decollo, il missile venne a trovarsi a circa 60 miglia al di sopra dell’Oceano Pacifico. Fu a quel punto che Jacobs vide entrare nell’inquadratura un velivolo dalla classica forma discoidale che cominciò ad eseguire delle velocissime oscillazioni intorno alla testata del missile, che volava a una velocità compresa fra le 11.000 e le 14.000 miglia orarie. Il disco colpì la testata per tre volte con un raggio luminoso per poi dileguarsi subito dopo. Contemporaneamente il missile precipitò, con conseguente fallimento del test. Due giorni dopo il Maggiore Mansmann, responsabile del progetto, convocò Jacobs nel suo ufficio alla presenza di due agenti C.I.A. provenienti da Washington; e tutti insieme guardarono il film girato da Jacobs che mostrò la piena evidenza di quanto accaduto. Il film fu immediatamente sequestrato dagli agenti C.I.A., e a Jacobs fu ordinato di non menzionare mai più quanto accaduto. Solo oggi l’ex tenente ha rivelato i fatti, e la sua testimonianza è stata avvalorata dal colonnello dell’Aviazione Ross Dedrickson. Un’altra testimonianza riguarda l’ex capitano (all’epoca dei fatti sottotenente)
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Robert Salas, il quale si trovava il 16 marzo 1967 a 60 metri di profondità nella base dell’Aviazione di Malmstrom, in Montana. Salas era in servizio per un turno di 24 ore di monitoraggio delle procedure di lancio. La base ospitava infatti 10 missili intercontinentali del tipo LGM-30 Minuteman a testata nucleare. I missili erano dislocati lungo un perimetro di diversi chilometri, inseriti in silos interrati di cemento armato; con tutti i cavi di collegamento al centro di comando protetti da strutture corazzate. Durante il turno di servizio, Salas ricevette una chiamata dal posto di guardia all’ingresso della base, che segnalava con allarme la presenza di un oggetto dalla forma ovale — e con una luminescenza rossastra lampeggiante — che stazionava poco sopra i cancelli della base. Attivandosi immediatamente con i protocolli di sicurezza previsti in caso di attacco, Salas fu però immediatamente distolto dagli allarmi relativi al funzionamento dei missili. Tutte le spie lampeggiavano sul rosso, e veniva segnalata un’intrusione nel sistema di controllo degli ordigni. Tutti e
dieci i missili risultarono contemporaneamente disattivati e inabili al lancio. Mentre la guardia all’ingresso segnalava il dileguamento del misterioso oggetto sospeso nell’aria, Salas ordinava un’ispezione a tutti i Silos. Eseguendo gli ordini, i militari tornarono ad avvistare l’oggetto non identificato presso uno dei silos, mentre tutti i missili risultavano definitivamente inabilitati al lancio. Il caso era senza precedenti, perché mai l’intero arsenale di missili di una base strategica si era trovato fuori uso in blocco. Fu necessario resettare il programma di ogni missile, per riuscire poi a rimetterli tutti in modalità di lancio solo dopo un paio di giorni. Anche in questo caso, il sottotenente Salas e tutti i militari della base furono costretti a firmare dichiarazioni di impegno a non rivelare quanto accaduto, con la massima riservatezza estesa anche ai familiari. Non mancano esempi anche in campo avverso. Per quanto riguarda informazioni in ambito ufologico provenienti dall’ex U.R.S.S., bisogna precisare che in quel Paese c’è effettivamente stata una più abbondante declassificazione della documentazione interessata. Il 4 ottobre 1982 accadde qualcosa di molto grave alla base militare sovietica di Byelokoroviche in Ucraina, un altro sito di lancio di missili con testata nucleare. Proprio all’ora di cena, i sistemi di sicurezza rilevarono un grande oggetto di forma ellittica che stazionava in aria nei pressi della base. Poco dopo i sistemi di controllo dei missili risultarono violati. In questo caso, anziché verificarsi un’inabilitazione della procedura di lancio, iniziò — con terrore del personale presente — il conto alla rovescia per il lancio di tutti i missili. Fu un’esperienza agghiacciante ma, a pochi secondi
dalla fine del conteggio, la procedura si arrestò; i sistemi furono ripristinati e l’oggetto ellissoidale si dileguò in un istante. Diversi altri casi potrebbero essere menzionati, ma basta qui affermare il principio di un’azione inibitrice — da parte di quelle che possono essere senz’altro definite come forze extraterrestri — nei confronti dell’attività umana tendente a mettere in esercizio armamenti di tipo nucleare. Le prestazioni dei velivoli avvistati in quelle precise circostanze non potevano (e non possono) infatti corrispondere a nulla di tecnologicamente realizzabile da parte della civiltà terrestre. Il messaggio offerto da queste incursioni in siti missilistici è, per di più, decisamente chiaro: “Possiamo inibire il lancio dei vostri missili con la stessa facilità con la quale potremmo lanciarli contro la vostra volontà. Potremmo distruggervi a nostra discrezione, ma operiamo per farvi desistere dall’uso delle armi nucleari”. Non è d’altra parte un caso, se l’evento fondativo della moderna ufologia — vale a dire l’U.F.O. crash di Roswell del 1947 — si verificò proprio in un’area molto prossima alla base aerea da cui era partito 2 anni prima il bombardiere Enola Gay, che avrebbe poi sganciato la prima bomba atomica su Hiroshima il 6 agosto 1945. E così i misteriosi extraterrestri — sulla cui esistenza e interazione con gli umani non esisterebbero, secondo i più scettici, schiaccianti prove definitive — lungi dall’essere insidiosi, ambigui o allarmanti, sarebbero nientemeno preoccupati per le sorti dell’umanità. Fino al punto da inibire a questa l’uso di un’energia che, adoperata a fini militari, potrebbe determinare la fine della nostra stessa civiltà Di certo una simile intromissione extraterrestre non ha potuto non essere registrata da parte delle gerarchie militari come “un’azione di attacco”: un’intollerabile interferenza nei confronti della sovranità
della Potenza nucleare di turno (ci sono casi che si riferiscono anche alla Gran Bretagna) alla quale è stato a più riprese impedito di effettuare test o esercitazioni su armi nucleari. Non è nemmeno un caso che, in questo ordine di idee, il Generale Douglas MacArthur confidasse nel 1955 all’armatore napoletano Achille Lauro che “tutti i popoli del mondo avrebbero dovuto unirsi per fare fronte comune in vista di un attacco da parte di genti provenienti da altri pianeti”. Per molti ufologi si trattò di un’affermazione indiretta del fatto che al Generale fu inibito l’uso di armi nucleari nella Guerra di Corea del 1950-51 non tanto da parte dell’Amministrazione U.S.A., quanto appunto dall’iniziativa di entità extraterrestri. L’avversità dei cosiddetti alieni all’uso militare dell’energia nucleare è questione di qualche complessità. Analisi condotte con sguardo approfondito — circa le implicazioni derivanti da un contatto fra la nostra umanità e forme di vita intelligenti provenienti da altri pianeti, ad un livello enormemente superiore di sviluppo tecnologico (e non solo) — spingono a concludere che la scoperta dell’energia nucleare è stata per i terrestri una svolta epocale nel percorso evolutivo del nostro pianeta. Questa scoperta è stata purtroppo realizzata nelle ben note circostanze della Seconda Guerra Mondiale, e così la fissione nucleare (assieme al successivo sviluppo della fusione termonucleare) è stata nei fatti, oltre che nell’immaginario collettivo della civiltà terrestre, connessa alle bombe nucleari: nel modello di “bomba a implosione”, perfezionata in Giappone nel 1945, fino all’ancora più temibile bomba H. Secondo accurate osservazioni del moto degli U.F.O., effettuate da fisici e ingegneri, l’energia usata dalle navi extraterrestri sarebbe riconducibile ad una sorta di conversione di flussi elettromagnetici
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in energia antigravitazionale. Secondo alcuni, sarebbe coinvolta la più efficace delle energie nucleari: quella derivante da annichilazione fra materia e antimateria. Si tratta di un campo solo di limitatissima conoscenza e sperimentazione da parte umana, principalmente nei laboratori del CERN in Svizzera. Ma il fatto che anche noi stiamo rudimentalmente cominciando a estrarre energia dai più remoti recessi del mondo subnucleare è visto come il segno del raggiungimento di una tappa molto importante su di una scala evoluzionistica che coinvolgerebbe complessivamente l’intero universo. È qui che tuttavia sorgono i problemi. Il punto al quale siamo arrivati è estremamente delicato proprio a causa dell’utilizzo duale dell’energia nucleare a nostra disposizione: in campo civile e in campo militare. La nostra civiltà presenterebbe — secondo alcuni “contattisti” ben consapevoli anche della dimensione etica e socio-politica delle civiltà extraterrestri — una forte asimmetria fra una notevole accelerazione dello sviluppo scientifico e tecnologico, da un lato; e dall’altro lato un progressivo imbarbarimento che sta minando gravemente la civiltà terrestre, e rischia anzi di farci scivolare verso un destino davvero catastrofico. Le civiltà extraterrestri avrebbero dimostrato — almeno in parte, ai “contattisti” più accreditati in ambito ufologico — che solo uno sviluppo armonico e congiunto della tecnologia e di un adeguato senso etico, possono evitare l’autodistruzione di una civiltà fondata da esseri intelligenti, stanziati su di un pianeta che supporta la vita. Secondo studi di quella branca ufologica che è la paleoastronautica, sembrerebbe anzi che l’umanità terrestre si sia già autodistrutta un certo
numero di volte, da quando è apparsa sul pianeta, prima di trovarci ancora nell’attuale “tentativo” di evoluzione. Gli extraterrestri, considerevolmente più evoluti di noi, ci osserverebbero praticamente da sempre. Secondo alcuni, ci sarebbe perfino in noi almeno “qualcosa” di loro dal punto di vista genetico. Ma ciò che è certo è che, nella sorveglianza da parte di questi “fratelli maggiori”, un campanello di allarme sarebbe drasticamente suonato nel 1945. Con la scoperta dell’energia nucleare e con l’immediato impiego delle bombe atomiche sul Giappone, “i bambini avevano trovato la scatola dei fiammiferi”, e la “supervisione” su questa bizzarra umanità terrestre cominciava quindi a farsi davvero più problematica. Così la più attenta ufologia contemporanea spiega gli avvistamenti di U.F.O. connessi a incidenti in siti militari nucleari. Gli extraterrestri non ci starebbero minacciando, ma cercherebbero solo di proteggerci da… noi stessi. In questo ordine di idee c’è da temere (o da sperare) che questo regime di “tutela” venga esteso al più presto a diversi altri ambiti delle attività umane — credo — facilmente immaginabili da parte di chi ci legge.
MUSICA - TRENT’ANNI DI STEVE MCQUEEN
TRENT’ANNI DI
STEVE MCQUEEN di Gianmarco Soldi gianmarcosoldi@gmail.com
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Il tempo passa, le pietre miliari no. A trent’anni dall’uscita di Steve McQueen (Kitchenware Records, giugno 1985), il lavoro dei Prefab Sprout appare ancora contornato da un magico alone, immutato e indifferente allo scorrere del tempo. Non si sta parlando propriamente di un capolavoro, di un’opera massima; ma di una perla delicata e ancora iridescente, mai del tutto digerita dal pubblico mainstream eppure diventata un’icona cult della corrente brit-pop anni Ottanta. Steve McQueen, dopo il buon esordio di Swoon (1984), rappresenta l’album di svolta per la formazione e per l’intero movimento: non si tratta solamente di
una delle migliori raccolte di pop-songs dell’era post Beatles, ma soprattutto di uno dei tentativi più coraggiosi e meglio riusciti da parte di Patrick McAloon – frontman, songwriter e anima del gruppo – di riuscire nell’impresa quasi utopica di stendere una consecuzione di canzoni praticamente perfette. L’album è scritto come un diario, in cui ad ogni ascolto emergono nuovi particolari, sentimenti e situazioni che si rinnovano, arricchendosi della patina malinconica aggiunta dal trascorrere degli anni. Elegante nella sua semplicità, senza mai troppe preoccupazioni nell’essere cool a ogni costo, l’arte di Patrick
McAloon ha superato indenne la prova del tempo. Mescolando le influenze provenienti da Paul McCartney, Burt Bacharach ed Elvis Costello, il cantautore inglese ha saputo conquistare la critica grazie a liriche colte, intelligenti, riflessive; e spesso con la giusta dose di humour tipicamente british. Non abbastanza alternativo per essere accostato agli Smiths né sufficientemente commerciale per poter comparire sui giornali al fianco di Duran Duran e Depeche Mode, McAloon (insieme agli altri membri della band) è rimasto negli anni un artista di nicchia, un personaggio ideal-tipico rinchiuso nella sua aura di conclamata superiorità, rischiando a volte di apparire persino arrogante; o addirittura sbruffone. Ma Steve McQueen, nonostante gli anni e la figura in chiaroscuro di McAloon, rimane ancora oggi un esempio di labor limae unito a capacità compositive fuori dalla norma. Nel disco si alternano liriche romantiche, riflessioni dolci-amare e una girandola di citazioni letterarie e cinematografiche: una forte influenza è esercitata dalla lettura del classico di Salinger, Il giovane Holden; uno dei libri preferiti di Patrick McAloon. Il brano Bonnie fa riferimento al funerale del fratello del protagonista (“risparmia i tuoi discorsi, i fiori sono per i funerali”), mentre Horsin’ Around
parla di ciò che Holden preferisce fare, al momento giusto e nel contesto più adeguato (“fare lo sciocco è un affare serio, l’ultima cosa che vuoi è qualcuno che testimoni”); la stessa Blueberry Pies riporta a Il giovane Holden, citando la terribile e irrefrenabile passione per le menzogne (“Io quando comincio a dirle posso andare avanti per ore, se mi sento in vena. Senza scherzi. Ore”): il tutto condito da una base musicale di prim’ordine e dai cori eterei di Wendy Smith, unica componente donna del quartetto. Dopo il successo di Steve McQueen e di una manciata di top songs disseminate lungo l’arco degli anni Ottanta, i Prefab Sprout non hanno saputo però replicarsi nella decade successiva, anche a causa dei problemi di salute del frontman e di alcuni cambi di formazione. Eppure, dopo trent’anni, gli undici brani contenuti all’interno di Steve McQueen (pubblicato in USA come Two Wheels Good per problemi di copyright) appaiono ancora incredibilmente freschi e attuali, scorrevoli in un’atmosfera quasi cristallina, destinata a rimanere luminescente come una perla di rara finezza.
MODA - IL BIKINI
LA RIVOLUZIONE PER SOTTRAZIONE
IL BIKINI STORIA DI UN CAPO DI VESTIARIO CHE HA CAMBIATO LA CULTURAE LA MODA SVESTENDO 38 di Valentina Viollat shoppingamoremio@gmail.com
Sessantanove anni fa, il 5 luglio 1946, il primo bikini fece il suo debutto durante una sfilata di moda a bordo piscina, a Parigi. Grazie al suo nome provocatorio e al taglio conturbante che spezzava in due la continuità del tessuto, questo piccolo capo d’abbigliamento esplose nell’immaginario collettivo come la bomba atomica sull’Atollo di Bikini, evento che di fatto ispirò il suo appellativo. Stupisce che un capo di abbigliamento così radicato nella nostra cultura sia in realtà presente nella storia della moda da meno di 70 anni. Dal momento della sua introduzione ufficiale, però, il bikini è riuscito a scuotere più volte il mondo con la sua natura rivelatrice e ha scritto la sua breve storia in maniera decisamente rivoluzionaria. Oggi, in epoca di overdose di nudo femminile, questo costume da bagno rappresenta un casto e rassicurante classico, onnipresente e relativamente pudico, tanto che risulta difficile immaginare come un tempo lo si trovasse scioccante. Eppure, quando il bikini fu mostrato al mondo ufficialmente per la prima volta,
scandalizzò anche le modelle che avrebbero dovuto indossarlo e che si rifiutarono di farlo, costringendo il designer Louis Reard ad arruolare una spogliarellista. Sebbene Louis Reard sia considerato il padre del bikini, poiché in effetti fu lui a presentarlo ufficialmente al mondo in passarella, in realtà il costume a due pezzi è stato inventato e lanciato quasi contemporaneamente anche da un altro stilista. Entrambi francesi, per tradizione avvezzi alle rivoluzioni, i due designer sentirono che in quell’estate del 1946 il mondo era pronto per vedere esplodere la “bomba atomica” che destabilizzerà la storia dell’abbigliamento. Lo stilista parigino — e membro della resistenza francese – Jacques Heim, un decennio prima della sfilata organizzata da Reard, aveva creato, per il suo negozio sulla spiaggia di Cannes, un costume da bagno a due pezzi composto da un reggiseno con ruches e graziosi calzoncini. Tuttavia, le donne non erano ancora pronte a rivelare al mondo il loro addome. Riprovò a lanciarlo proprio nell’estate del 1946,
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battezzandolo Atome e definendolo “il più piccolo costume da bagno al mondo”. Reard lanciò la sua versione del due pezzi dichiarando che era “più piccolo del costume da bagno più piccolo del mondo” e che “poteva passare attraverso una fede matrimoniale”. Lo presentò in pubblico quattro giorni dopo l’inizio dei test nucleari sull’Atollo di Bikini, dandogli il nome con cui il due pezzi è passato alla storia e sottolineando così più del suo collega la portata detonante della creazione. In realtà, quell’esplosiva estate degli anni Quaranta non fu affatto la prima volta in cui le donne indossarono un costume rivelando il loro ventre in pubblico: il due pezzi è quasi vecchio quanto la civiltà stessa. Gli archeologi hanno scoperto pitture murali minoiche del 1600 a.C. in cui l’antenato del bikini è rappresenta-
to; ed esiste una statua di Venere (circa 100 d.C.) che indossa un copriseno e, probabilmente, il primo perizoma della storia. Nel IV secolo d.C. poi, come si evince dagli splendidi mosaici siciliani di Villa romana del Casale a Piazza Armerina, ginnaste romane indossavano top a fascia, slip, e anche cavigliere, sfoggiando un look che appare modernissimo e che potrebbe essere portato oggi sulle spiagge più à la page. Chiaramente la storia del bikini inizia molto prima del 1946. Eppure, è il deflagrante debutto moderno di quell’anno e le successive varianti che lo consacrano realmente come il più popolare costume da bagno della storia. Sebbene la California venga istintivamente in mente quando si pensa al bikini, la Francia — in particolare la Costa Azzurra — ha aperto la strada
al bikini nella moda mare. Nei primi anni Sessanta Brigitte Bardot lo sdogana al Festival di Cannes, dove viene fotografata con indosso un bikini su ogni spiaggia nel sud della Francia. Star di Hollywood, come Marilyn Monroe e Esther Williams, ne seguono l’esempio negli Stati Uniti; ma ancora la rivista Modern Girl scrive: “È appena il caso di sprecare due parole sul cosiddetto bikini, poiché è inconcepibile che qualsiasi ragazza con tatto e decenza vorrà mai utilizzarlo.” Un momento iconico nella storia del cinema è rappresentato, nel 1962, dall’attrice svizzera Ursula Andress, che nel film di James Bond Dr. No esce dalle acque caraibiche tropicali indossando il suo bikini bianco artigianale. Quasi 40 anni dopo, quel pezzo di storia è stato venduto per 60 mila dollari all’asta. In quegli anni i Beach Boys scrivono canzoni come California Girls e Surfin Safari, e il bikini diventa ufficialmente mainstream. Nel 1964 Sports Illustrated pubblica il primo numero dedicato ai costumi da bagno, con un bikini bianco sulla copertina; e Raquel Welch indossa un due pezzi di pelliccia in One Million Years BC.
Il costume lacero indossato sul manifesto finisce per diventare più famoso del film stesso e consacra l’attrice come la Donna Più Desiderata di Playboy del 1970. Da quest’anno, a seguito di una rivoluzione sessuale che sconvolge gli Stati Uniti, gli stilisti rinnovano il bikini che diventa ancora più rivelatore e solleticante: con i laccetti sui fianchi e la parte superiore che lascia poco all’immaginazione, lanciano la figura femminile atletica e magra tipica di quegli anni. Nel 1980 il famoso bikini “tanga” viene introdotto nella moda americana. Gli stilisti sostengono che tragga origine dall’abbigliamento tradizionale dei gruppi tribali dell’Amazzonia in Brasile. Nel 1983 Carrie Fisher porta il bikini fuori dalla spiaggia: In Star Wars Il ritorno dello Jedi, la Principessa Leila indossa un due pezzi dorato che si imprime per sempre nell’immaginario collettivo. Si giunge infine ai giorni nostri in cui difficilmente il bikini sconvolge, avvezzi come siamo a topless e perizomi,
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ma ancora solletica ed affascina. La storia della moda è la storia di tessuti e materiali resi sublimi dal design, che ne travalica la funzione primaria: coprire il corpo, proteggerlo (dagli agenti climatici prima, e dagli sguardi subito dopo). Il paradosso della storia della moda è rappresentato da un capo che, da quando è apparso, si è affermato per sottrazione e assenza di tessuto più che per presenza e visibilità; svestendo anziché vestendo, non essendoci e scomparendo quasi, tanto è stato ridotto. Rivelando il suo taglio, la sua fenditura — che appare abbagliante laddove era prevista continuità di trame — il piccolo costume in due pezzi sottolinea gli oggetti del desiderio che rimangono succintamente velati. Ma ciò che è davvero conturbante — nella natura divisa, recisa, interrotta del bikini — è che, attraverso la frattura che sospende lo scorrere dello sguardo, si rivela al mondo la parte più tenera e vulnerabile del corpo umano: l’addome che, con il suo ombelico significati e immagini archetipiche. in bella vista, rimanda a innumerevoli Uno su tutti, immediato, il rimando al peccato originale di Adamo ed Eva: uniche creature umane prive del loro bottoncino sulla pancia. L’ombelico in vista rimanda non solo all’origine biblica dell’uomo, alla sua umanità e alla perdita del paradiso terrestre, ma rievoca all’inconscio la nascita stessa di ogni individuo e rimanda dunque all’atto stesso del concepimento. Svelando il ventre, il bikini ha sconvolto l’umanità più del topless e del nudo integrale; poiché svela, rivela e sottolinea il luogo anatomico in cui avviene l’inspiegabile miracolo: là dove si compie il mistero del concepimento e della vita. E non esiste niente di più scandaloso, sensuale e conturbante dell’imperscrutabile origine della nostra vita.
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STORIA - LA BOMBA ATOMICA
Appuntamento nell’agosto 1945
fra scienza, tecnologia & geopolitica della
BOMBA ATOMICA 44 di Raffaele d’Isa scrivi@raffaeledisa.it
Nella coscienza collettiva l’idea di bomba atomica è indissolubilmente legata alle tragedie di Hiroshima e Nagasaki dell’agosto 1945, ed è difficile recuperare una corretta prospettiva storica del progetto relativo a questa terribile arma che trova invece le sue intenzioni più urgenti — all’inizio degli anni ’40 — nella competizione fra gli armamenti degli Stati Uniti e quelli della Germania nazista. Fu nel 1938 che il chimico nucleare tedesco Otto Hahn scoprì in via definitiva (precedenti esperienze anche da parte di Enrico Fermi erano state tuttavia fondamentali nell’arrivare a questo risultato) la fissione nucleare, e cioè la capacità di scindere gli atomi di elementi pesanti come l’uranio mediante bombardamento dei relativi nuclei con correnti di neutroni. La successiva messa a punto della reazione a catena (inizialmente ideata dal fisico ungherese Leó Szilárd) dovuta al moltiplicarsi dei neutroni liberi interagenti con nuovi nuclei di uranio, e la constatazione che l’energia liberata da questa crescente scissione di atomi è spaventosamente enorme, portò alla consapevolezza — proprio alla vigilia della Seconda guerra mondiale — che diventava possibile costruire un nuovo tipo di ordigno esplosivo fondato esattamente sulle forze studiate dalla nuova fisica all’interno dell’atomo. Ed era ovvio aspettarsi un simile tipo di innovazione degli armamenti proprio dallo stato più bellicoso, dalla politica estera più aggressiva e dalla tradizione militare più prestigiosa: la Germania, per di più ormai completamente nazificata alla fine degli anni ’30. Fu così che, su suggerimento dello stesso Leó Szilárd, Albert Einstein scrisse il 2 agosto 1939 una lettera al presidente Roosevelt allo scopo di ammonirlo sui potenziali effetti distruttivi di un’esplosione basata sul principio della fissione nucleare, e sull’elevata probabilità che gli scienziati tedeschi ancora a disposizione del
Franklin Delano Roosevelt mentre firma la dichiarazione di guerra al Giappone
regime nazista potessero ottenere questo risultato in tempi non lontani. Oltre a Otto Hahn, che aveva scoperto la fissione nucleare, lavorava infatti ancora in Germania nei primi anni quaranta uno dei padri della meccanica quantistica, ovvero la teoria che aveva rivoluzionato i capisaldi della fisica classica su scala atomica: Werner Karl Heisenberg. È d’altra parte curioso che fosse proprio Albert Einstein — persuadendo con la sua lettera il presidente Roosevelt — a dare inizio a tutta una catena di eventi che avrebbe portato alla fabbricazione della prima bomba atomica della storia. Lo scienziato tedesco, naturalizzatosi ormai in America, era senz’altro una gloria assoluta nel panorama scientifico dell’epoca. Ma Einstein, che pure aveva dato decenni prima importanti contributi alla meccanica quantistica, si era all’epoca alquanto dissociato dalle più recenti direzioni della nuova fisica nucleare (in contrasto con lo
STORIA - LA BOMBA ATOMICA
stesso Heisenberg); e andava sempre più proiettandosi in ambiti di fisica teorica relativamente sganciati dal naturale riscontro su basi sperimentali. Nullo fu infatti il contributo pratico di Einstein alla fabbricazione della bomba atomica. Il trasferimento di Enrico Fermi negli Stati Uniti alla fine del 1938, e il contemporaneo accumularsi su suolo americano della presenza di eminenti scienziati da tutta Europa nello stesso periodo, portarono invece ai primi risultati. Alla fine del 1942, Fermi riuscì a realizzare la prima pila atomica sotto le tribune ovest dello stadio abbandonato Alonzo Stagg Field dell’Università di Chicago. Si trattava di un reattore in cui la fissione nucleare era realizzata con una possibilità di controllo e di reversibilità della reazione a catena. Era adesso possibile concepire lo scatenamento senza li-
miti della stessa reazione in un’esplosione provocata dall’energia liberata dalla fissione nucleare di miliardi di atomi di uranio. Il Governo degli Stati Uniti trasferì uno stuolo di scienziati, ingegneri, tecnici e operai (con le relative famiglie) nella località segreta di Los Alamos (New Mexico), e in quel sito una moltitudine di civili lavorò duramente per circa tre anni alla realizzazione della bomba atomica secondo i programmi del segretissimo “Progetto Manhattan”. In quel contesto militarizzato, e con notevoli restrizioni di libertà a carico di tutto il personale civile coinvolto, si dovette risolvere anche un serio problema di comunicazione fra gerarchie militari e scienziati. I primi volevano a tutti i costi applicare la propria logica al lavoro di ricerca con la pretesa di tenere separati gli scienziati, limitando così le loro possibilità di comunicazione e scambio
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Harry Truman con Joseph Stalin alla Conferenza di Potsdam il 18 luglio 1945
Enrico Fermi
di idee per motivi di sicurezza. I secondi non accettavano simili ingerenze da parte di chi non conosceva nemmeno la vera natura del loro lavoro. Il problema fu in gran parte risolto con la nomina a direttore amministrativo del progetto di un brillante fisico teorico, Robert Oppenheimer, che avrebbe avuto la delicata funzione di cerniera fra militari e scienziati. Un ruolo cruciale fu affidato anche a Enrico Fermi, consulente ad hoc per la risoluzione di qualsiasi tipo di problema, e quindi impiegato di fatto anch’egli in un ruolo sostanzialmente direttivo. Non mancavano scrupoli etici nella coscienza dei diversi scienziati coinvolti nella fabbricazione della bomba. Ma, fino al maggio 1945, l’argomento di battere sul tempo la Germania nazista nella produzione di un esplosivo nucleare fu sufficiente a vincere ogni tentennamento. Le cose si complicarono con la resa incondizionata dei tedeschi l’8 maggio di quell’anno. A quel punto — pensarono in molti a Los
Alamos — la fabbricazione della bomba avrebbe potuto essere ragionevolmente interrotta, visto che la Germania era stata sconfitta. E si era pure nel frattempo scoperto che gli scienziati tedeschi erano ancora piuttosto lontani, alla fine della guerra, dall’obbiettivo di realizzare l’atomica. E invece la nuova Amministrazione Truman non batté ciglio sull’ipotesi di interrompere il Progetto Manhattan. In quel momento le coscienze di molti scienziati furono dilaniate. Un conto era costruire la bomba per battere sul tempo un nemico che stava per fare presumibilmente altrettanto ma, proseguire in quell’intento a Germania sconfitta, significava costruire la bomba per la bomba. Anzi la bomba per colpire il Giappone ancora in guerra contro gli Stati Uniti: quel Giappone dell’attacco proditorio a Pearl Harbor, quel Giappone dallo spietato imperialismo e dai discutibili metodi dittatoriali; ma pur sempre un Paese che non aveva ancora la conoscenza tecnica per costruire un simile ordigno. Venivano meno insomma tutti i presupposti che avevano convinto tanti scienziati a collaborare a un progetto bellico rinunciando ad attività di ricerca sulla fissione nucleare in ambiti civili, come ad esempio la medicina, in forza del timore che il nemico arrivasse in anticipo alla fabbricazione della bomba. E la coscienza dei politici? Più cinicamente la politica badava ai miliardi di dollari già spesi per il Progetto Manhattan, e ai costi umani — ed elettorali — che si sarebbero sostenuti nel continuare con metodi convenzionali una guerra col Giappone che, avvicinandosi alla conclusione, in realtà si inaspriva sempre più. Tecnicamente già sconfitto, il Giappone si rivelava ancora un osso duro a causa dei piloti kamikaze che infliggevano in proporzione gravi danni alla flotta americana, e in vista di uno sbarco su suolo nipponico che si stimava capace di provocare
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incalcolabili perdite di vite umane da ambo le parti, data l’irriducibilità dei giapponesi — fra militari e civili — davanti all’avanzata americana. È questa la giustificazione ufficiale che viene prevalentemente utilizzata per l’uso delle due bombe atomiche a Hiroshima e Nagasaki il 6 e il 9 agosto 1945. Ma altri complessi calcoli politici entrarono in gioco in quella scelta. Che gli Stati Uniti conoscessero gli effetti devastanti della bomba atomica era innegabile, perché la prima bomba non fu quella di Hiroshima, ma quella fatta esplodere come test nucleare (Trinity test) nel deserto di Jornada del Muerto, nel New Mexico, il 16 luglio 1945. I mostruosi effetti scaricati sul territorio e sulla popolazione giapponese dovevano dunque servire anche come monito nei confronti di un altro destinatario del messaggio: l’Unione Sovietica. Non si sottolinea mai abbastanza che durante tutta la durata della seconda guerra mondiale Giappone e Unione Sovietica non furono mai fra loro in guerra. Quel tipo di conflitto non poteva interessare al Giappone, impegnato com’era nella conquista dell’est e del sud-est asiatico e a combattere contro la potenza che più gli era di intralcio in quella direzione: gli Stati Uniti. E non poteva interessare nemmeno a Stalin, ancora memore della batosta nella guerra russo-giapponese del 1905; ma anche nella piena esigenza di fronteggiare con tutte le sue forze la Germania nazista a ovest. Tra il ’44 e il ’45, l’Amministrazione Roosevelt stava tuttavia cercando di convincere Stalin a fornire aiuto nel conflitto contro il Giappone; specialmente in vista dell’imminente capitolazione tedesca. Questa opzione non era però pacificamente accolta in ambito U.S.A.,
Robert Oppenheimer
in quanto gli Stati Uniti si sarebbero trovati a dover gestire il Giappone sconfitto, dopo lunghi anni di dura guerra, insieme a un neo-alleato sovietico che si sarebbe limitato a dare solo la spallata finale al già morente Impero nipponico. L’Amministrazione Truman optò quindi per una soluzione della guerra senza il coinvolgimento dell’Unione Sovietica, grazie appunto all’uso delle bombe atomiche. Si sarebbe trattato di dirottare le intenzioni del Progetto Manhattan dal costruire una bomba contro la Germania verso il fabbricare uno — anzi due — ordigni da sganciare su territorio giapponese. Oltre ad evitare l’ingombrante coinvolgimento dell’Unione Sovietica, si sarebbe pure dato a quel Paese un inequivocabile monito: quello di proclamare gli Stati Uniti come la massima potenza militare al mondo. Questa brusca svolta finale del Progetto
Hiroshima dopo gli effetti dello sgancio della bomba atomica.
Manhattan provocò notevoli disagi fra gli scienziati, e si dibatté a lungo (specialmente lontano dalle orecchie dei militari) sulle delicate implicazioni etiche suscitate dalla prospettiva di infliggere così tanta sofferenza a popolazioni civili. Rimane storica la frase pronunciata pochi giorni prima del Trinity test dal direttore Oppenheimer: “Sono diventato Morte, il distruttore di mondi”. E quanti guai avrebbe avuto negli anni successivi lo scienziato per il suo rifiuto di collaborare al progetto della ancora più devastante bomba H. Ma gli scrupoli di molti scienziati erano anche di tipo geopolitico. Che senso aveva consegnare ad un’unica potenza militare il segreto della bomba atomica? Avrebbe ciò potuto innescare un delirio di onnipotenza capace di distruggere il mondo intero nel
giro di pochi anni, se non mesi? Ecco perché diventare, da parte di alcuni, spie di Stalin in seno al Progetto Manhattan non fu affatto un vile atto di tradimento, ma solo l’assunzione di una precisa responsabilità; quella di assicurarsi che le atomiche non sarebbero state mai più usate, mediante la realizzazione del deterrente nucleare: con la conseguente fuga dei relativi segreti industriali a vantaggio dell’Unione Sovietica. Tra queste spie spiccava il brillante fisico teorico Klaus Emil Jules Fuchs, che riuscì a trasferire informazioni fino al 1950 prima di essere arrestato. Quando gli chiesero perché l’avesse fatto, egli dichiarò sotto interrogatorio: “Avevo fiducia nella politica russa”. Grazie a lui il Programma nucleare militare sovietico ebbe inizio il 29 agosto 1949. E con esso iniziò pure la Guerra Fredda.
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DALLA FISSIONE NUCLEARE ALLA TECNOLOGIA DELLE PRIME BOMBE ATOMICHE
Sirigh Sakmussen compagniadelthe@gmail.com
Non sarà facile farvi appassionare a un argomento tecnologico a partire dal quale si arriva fino a un esito di distruzione e devastazione. Ma è importante che io lo faccia perché, altrove in questo numero, parlo di come l’apparizione dell’energia nucleare nella storia dell’umanità sia stata cruciale nel mobilitare il presumibile intervento di Altri affinché la Terra non arrivasse ad autodistruggersi. Agli inizi dello scorso secolo, Albert Einstein elaborò la teoria della relatività ristretta in seno alla quale trovava posto la celebre equazione: e = mc2. Questa formula trovò successivamente conferma sperimentale sia in ambito astrofisico (i processi stellari di fusione termonucleare) sia nella fisica delle alte energie con riferimento alla dimensione nucleare e sub-nucleare dell’atomo. Einstein capì, in altri termini, che energia (e) e massa (m) erano semplicemente le due facce di una stessa medaglia; e che il fattore di conversione per passare dall’una all’altra era costituito da un numero spaventosamente elevato: il quadrato della velocità della luce (c2). Nei decenni successivi una gran quantità di fisici e chimici fu enormemente impegnata negli studi sulla radioattività natu-
rale e su quella artificiale. Si comprese che gli atomi di alcuni elementi erano naturalmente instabili a causa della perdita di particelle appartenenti alla struttura del nucleo. Queste “radiazioni” potevano produrre effetti analoghi su altri elementi (radioattività artificiale) oppure profonde alterazioni nella struttura molecolare degli organismi vegetali e animali, che richiesero più tempo per essere comprese appieno. Gli esperimenti condotti sull’uranio per ottenere radioattività artificiale portarono via via i ricercatori a scoprire, alla fine degli anni trenta, che l’uranio stesso poteva essere scisso a livello atomico se “bombardato” con determinate particelle fra quelle genericamente annoverabili nella fenomenologia della radioattività: i neutroni liberi. Erano stati Ernest Walton e John Cockcroft i primi due scienziati a scindere un isotopo (atomo dello stesso elemento, ma di massa diversa dall’atomo standard) del litio (litio-7) utilizzando dei protoni accelerati da un generatore di loro invenzione nel 1932. Due anni più tardi l’italiano Enrico Fermi riuscì a scindere atomi di uranio colpiti da neutroni liberi. Fermi però non se ne accorse subito, e l’esperimento fu all’epoca erroneamente
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divulgato come la produzione di due nuovi elementi: l’esperio e l’ausonio. Fu invece la brillante chimica e fisica tedesca Ida Noddack a ipotizzare per prima, sempre nel 1934, che il bombardamento di atomi di elementi pesanti con neutroni potesse provocarne la scissione in nuclei più leggeri. Si dovette tuttavia attendere il dicembre del 1938 perché questa congettura fosse confermata rigorosamente da un esperimento del chimico tedesco Otto Hahn, il quale comprese che il primo ricercatore capace di scindere un atomo pesante con neutroni liberi era stato (senza accorgersene) proprio Enrico Fermi quattro anni prima. Nacque così la fissione nucleare, che costituì una scoperta sensazionale, in quanto consentiva all’uomo di utilizzare un’energia enorme, prodotta scindendo la materia nelle sue componenti più intimamente microscopiche. Ciò in quanto la materia atomica risultante dalla scissione dei nuclei risulta inferiore a quella di partenza, e questa “materia in meno”
è proprio quella che viene convertita in energia (luce, calore, raggi gamma, etc.) coerentemente con l’equazione di Einstein e = mc2. Le cose sono ovviamente un po’ più complicate. Fermi dovette ancora risolvere alcuni problemi per rendere adeguatamente efficiente la fissione nucleare. Un passaggio fondamentale fu costituito dal “rallentamento” dei neutroni, facendoli passare attraverso uno schermo di paraffina (ma era adatta allo scopo anche l’acqua). Bisogna considerare che, fra tutte le emissioni radioattive, i neutroni scaturenti da atomi pesanti e instabili sono le particelle più efficaci a realizzare la fissione nucleare per un motivo ben preciso: l’assenza di carica elettrica. In questo modo i neutroni non sono deviati dai nuclei degli atomi bersaglio (aventi carica positiva per la presenza in essi dei protoni), ma possono impattare su questi nuclei e “spezzarli”. Contrariamente a quanto l’intuizione possa suggerire, il rallentamento dei neutroni attraverso la paraffina rendeva più efficiente questo processo. Per con-
vincersene con un esempio, pensiamo ad un proiettile esploso da una pistola che, proprio per essere troppo veloce, passa senza effetti in mezzo a uno sciame di moscerini. Fermi fu in grado di risolvere anche un altro problema. L’uranio “bombardato” dai neutroni doveva essere in grado di espellere, a livello atomico, nuovi neutroni capaci di replicare in una certa proporzione la fissione nucleare. Questo processo costituiva la celebre “reazione a catena” ottenibile solo al raggiungimento di una certa massa di materiale fissile: la cosiddetta massa critica. Sulla base di questi principi, Fermi (trasferitosi a partire dal 1938 negli Stati Uniti) realizzò nel 1942 il primo reattore nucleare in grado di sostenere una reazione a catena controllata. Configurando con opportuni calcoli la massa critica del materiale fissile — costituito da una particolare versione di uranio noto come “uranio arricchito”, in cui cioè abbonda il suo isotopo 235U — Fermi impiegò in questa “pila atomica” (collocata sotto le tribune ovest dello stadio Alonzo Stagg Field dell’Università di Chicago) delle barre di grafite come “rallentatori di neutroni” (allo stesso modo in cui aveva usato qualche anno prima la paraffina a Roma). In realtà la grafite costituiva, com’è ormai chiaro, un fattore di amplificazione del processo, che poi si sarebbe autoalimentato grazie alla “reazione a catena”. Ma quale misura fu presa per tenere sotto controllo l’energia così liberata? Ogni acceleratore ha accanto a sé il pedale del freno. E il freno era costituito in questo caso da barre di cadmio, elemento dotato di un’elevata capacità di assorbimento dei neutroni. Quando l’energia fosse arrivata a un certo livello di guardia, questa “spugna di neutroni” (le barre di cadmio) li avrebbe tolti dalla circolazione riducendo o interrompendo la “reazione a catena”. Con l’esperimento di Chicago perfetta-
mente riuscito, il governo statunitense decise di finanziare il Progetto Manhattan per applicare lo stesso principio della fissione nucleare alla produzione di un’energia — questa volta — distruttiva. Si trattava cioè di costruire una bomba nucleare (meno correttamente definita “atomica”). Durante le ricerche condotte negli anni della guerra, si comprese anche la possibilità di utilizzare un altro elemento con proprietà fissili: il plutonio. Esistente anche in natura, di questo elemento si utilizza tuttavia un isotopo sintetizzato artificialmente esponendo l’uranio impoverito (238U) a un flusso di neutroni liberi. A differenza del “cugino” 235U (l’uranio arricchito), gli atomi di 238U non si fissionano sotto il “bombardamento” di neutroni. Al contrario l’238U si fertilizza; i suoi atomi inglobano cioè i neutroni scagliati loro contro, accrescendo la propria massa atomica. È così che l’238U si trasforma nell’239U, un nuovo isotopo instabile che decade rapidamente in 239Pu, che è proprio il nostro plutonio.
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Lavorando quindi con questi due elementi fissili, l’uranio ad alta percentuale di 235U (arricchito) e il plutonio sintetizzato 239Pu, il team del Progetto Manhattan giunse alla fabbricazione delle due bombe atomiche (rectius: nucleari) scagliate su Hiroshima e Nagasaki nell’agosto 1945. A differenza di un reattore nucleare, una bomba basata sullo stesso principio ha bisogno di tre fondamentali requisiti: 1) il combustibile, costituito appunto dai materiali fissili (i nostri 235U e 239Pu); 2) un sistema di detonazione convenzionale, idoneo a concentrare la massa critica del materiale fissile, e 3) un’ingegneria dell’ordigno che consenta la fissione della maggior parte degli atomi fissili prima che avvenga l’esplosione, per evitare perdite di efficienza. La maggior parte della letteratura divulgativa sulle bombe atomiche scagliate in Giappone nel 1945 mette soprattutto l’accento sul fatto che “Little boy” (la prima bomba sganciata su Hiroshima) era una bomba all’uranio, mentre “Fat man” (la seconda bomba scagliata tre giorni dopo su Nagasaki) era al plutonio. Considerato che questi due elementi si comportano in modo pressoché identico ai fini della fissione nucleare, non è esattamente questa la differenza più
rilevante fra le due uniche bombe nucleari ad avere mai avuto impiego militare in un bombardamento strategico. Le due bombe differivano prevalentemente per il sistema di detonazione. Osserviamo “Little boy” in figura. Il manufatto finale, compreso quindi anche il suo involucro aerodinamico, misurava 3 metri in lunghezza, con un diametro di 71 centimetri e un peso di poco più di 4 tonnellate. Ma a cosa ci fa pensare la forma di questa bomba, con la lunghezza come dimensione vistosamente prevalente? In realtà “Little boy” doveva essere niente altro che un tubo. Al suo interno era stata collocata una canna di arma antiaerea opportunamente modificata. Questa canna doveva fungere da “fucile atomico”. All’estremità posteriore era infatti collocato un proiettile di uranio, un cilindro cavo di circa 38 chili costituito da 9 rondelle e dal diametro interno pari a 25,4 millimetri. All’altra estremità della canna era situato il bersaglio, e cioè un cilindro di uranio — questa volta pieno — di circa 25 chili, dello stesso diametro interno del proiettile. Entrambe le quantità di uranio erano, singolarmente considerate, di massa subcritica. Al momento della detonazione, un esplosivo di tipo convenzionale avrebbe scagliato il proiettile contro il bersaglio, portando così la quantità di uranio dopo l’impatto ad un livello di massa supercritica idonea a innescare la reazione a catena. Bisogna pensare che la reazione a catena inizia in queste condizioni in poco più di un millesimo di secondo, e già prima dell’impatto delle 2 masse di uranio. Per evitare in ogni caso qualunque rischio di insuccesso, la bomba era anche dotata di alcune sorgenti autonome di neutroni liberi costituite da una lega di berillio-polonio in grado di innescare la reazione esternamente alla massa di uranio. Questo modello di ordigno nucleare era
la cosiddetta “bomba balistica” o bomba con “detonazione a proietto”. Si trattava di una tecnica in realtà assai rudimentale e non priva di rischi. La bomba poteva infatti arrivare anche ad attivarsi da sola, se le due masse di uranio fossero venute incidentalmente in contatto. Per la bomba su Nagasaki, si adottò una tecnica di detonazione senz’altro più raffinata: quella della “bomba a implosione”. Osserviamo adesso “Fat man” in figura. Se la dimensione prevalente di “Little boy” era la lunghezza (ospitando quella bomba un vero e proprio tubo di lancio al suo interno), l’involucro di “Fat man” si presenta invece piuttosto ingrossato al centro. Un po’ più corta di “Little boy”, “Fat man” misurava infatti 2,34 metri; ma con un diametro più grande, di 1,52 metri, e un peso che superava quello di “Little boy” di mezza tonnellata. Il segreto del “Ciccione” (“Fat man”, appunto) stava nella sua sfericità che si intuisce facilmente osservando il modello di questa bomba. In questo caso il materiale fissile (il plutonio 239Pu) era stato assemblato nella forma di una sfera di densità tale da rendere la sua massa subcritica. Intorno a questa sfera era stato collocato dell’esplosivo convenzionale che avrebbe provocato esplodendo una violenta compressione a carico del plutonio, con l’effetto di incrementarne la densità fino a raggiungere il livello di massa supercritica e la conseguente attivazione della fatale reazione a catena. Questa metodologia di detonazione era più sicura e più efficiente (era cioè maggiore la quantità di atomi effettivamente scissi sulla massa totale di materiale fissile) rispetto al metodo “a proietto” adoperato in “Little boy”. E la cosa più curiosa è che — pur essendo stato usato il metodo a implosione nel Trinity test con il prototipo “The gadget” fatto esplodere nel deserto del New Mexico nel luglio del 1945
— il metodo a implosione non fu scelto per la prima bomba, quella di Hiroshima. “Little boy”, realizzata in seno a un progetto basato sull’uranio, fu costruita invece con la “detonazione a proietto”, sviluppando un’energia liberata all’esplosione di “appena” 16 chilotoni contro i 25 chilotoni sprigionati al momento dell’esplosione di “Fat man” su Nagasaki. Il confronto fra i due metodi rivelò in definitiva la maggior efficienza e sicurezza del metodo a implosione di “Fat man”. Il modello “Fat man” fu anche il primo esempio di bomba nucleare a fissione sviluppato nel 1949 dall’Unione Sovietica; e gli stessi Stati Uniti perfezionarono poi la costruzione di questo modello superando il problema della conservabilità dell’ordigno per tempi medio-lunghi negli stock degli arsenali atomici. Ma che fine ha fatto poi tutto quel plutonio stoccato nelle bombe atomiche in tempi di denuclearizzazione? Si tratta dell’odierna questione del “riciclo del plutonio” mediante la creazione di un nuovo combustibile nucleare, il MOX (Mixed OXide fuel). È questa una miscela di ossidi di plutonio e uranio impoverito, oggi molto apprezzata nel funzionamento dei reattori nucleari di più recente generazione. Ma non senza polemiche, visto che la centrale di Fukushima in Giappone era appunto alimentata a MOX.
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SPORT - BARCELLONA
BARCELLONA
IL CLUB DEL TERZO MILLENNIO
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Molto più che campioni d’Europa. Per la quarta volta negli ultimi dieci anni il Barcellona ha impresso il proprio marchio sulla Champions League, consacrandosi come la squadra simbolo dell’odierna epoca calcistica. Il trionfo di Berlino sulla Juventus ha celebrato la netta superiorità sul campo dei blaugrana, ma anche la grandezza di un club all’avanguardia nella gestione tecnica e commerciale. Allineare in attacco Messi, Neymar e Suarez aiuta, tuttavia il Barcellona rappresenta oggi qualcosa di molto più universale: una multinazionale con 270 milioni di tifosi sparsi nel mondo, attratti dall’incontro perfetto tra un’identità socio-culturale e uno stile di gioco. Viaggio in 5 tappe alla scoperta dei segreti che nel tempo hanno reso il Barca “la squadra del Terzo Millennio”. di Gianluca Corbani corba90@hotmail.it
1 – L’IDENTITA’ Ben prima dei proclami politici di Guardiola, il radicamento dell’FC Barcelona nel tessuto della città è sempre stato parallelo allo sviluppo del catalanismo, movimento indipendentista che pretende dallo Stato spagnolo istituzioni autonome e l’ufficialità della propria lingua. Ecco perché, innanzitutto, il Barca è “mes que un club”: non una semplice squadra, ma la nazione catalana che scende in campo per difendere la propria essenza. Risale agli anni Venti la prima sospensione del club per fischi contro l’inno spagnolo durante una partita. Durante la Guerra Civile, mentre il madridista Santiago Bernabéu entrava a Barcellona con le truppe franchiste, il presidente blaugrana Josep Sunyol pagò con la fucilazione la militanza politica tra i repubblicani. Ferite sanguinose, che radicalizzarono il ruolo del Barcellona come mezzo di resistenza civile al regime di Francisco Franco. Un esempio: nel ‘51 di fronte all’aumento delle tariffe dei trasporti, le autorità si arresero al boicottaggio dei tram quando videro i tifosi del Barcellona lasciare lo stadio a piedi dopo una partita contro il Santader nonostante la pioggia battente. Negli stessi anni, Bernabéu seppe sfruttare al massimo la sponda politica per rafforzare la posizio-
ne del Real Madrid, al quale regalò uno stadio monumentale e Alfredo Di Stefano. Così, mentre il Madrid si assicurava un posto fondamentale nell’immaginario della dittatura franchista, il Barcellona si consolidò come veicolo perfetto per portare nel calcio le rivendicazioni sociali e politiche proprie dell’indipendentismo anti-regime. Una missione portata avanti fino ai più recenti anni Duemila, quando il gioco delle parti avrebbe contrapposto il Barcellona “radicale” di Guardiola al Real Madrid guidato dall’autoritario Mourinho in una feroce rivalità non solo calcistica, ma anche dialettica e ideologica. Chi tifa Barca, ancora oggi, sa da che parte stare. 2 – IL FASCINO La cattedrale e i suoi campioni. Costruito nel 1957, il Camp Nou ha superato da tempo la Sagrada Familia e le opere di Gaudì nella classifica dei luoghi più visitati di Barcellona. Il Barcellona deve parte del suo fascino e della sua ricchezza al proprio stadio, invaso ogni giorno da centinaia di turisti di tutto il mondo. L’esperienza del tour, con passaggio nel museo blaugrana e (salatissimo) shopping annesso presso il negozio ufficiale, è un viaggio nella storia del club catalano. Magistrale la narrazione del proprio passato, elaborata per un pubblico “global” ma comun-
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que fedele ai valori identitari che fondano la società. Nella galleria blaugrana scorrono le immagini di Kubala, Suarez, Cruyff, Maradona, Romario, Ronaldo, Messi, Xavi e Iniesta: senza i fuoriclasse che l’hanno popolato, il Camp Nou sarebbe rimasto un immenso contenitore. Sfogliando i propri annali, poche società al mondo possono vantare una simile sfilata di fuoriclasse. Verosimilmente, almeno 5 dei 10 più grandi giocatori di tutti i tempi sono stati blaugrana: una percentuale vertiginosa, che nel corso dei decenni ha moltiplicato il richiamo del grande pubblico verso il Camp Nou. Quando si parla di Barcellona, tuttavia, il vero fattore attrattivo deriva dall’adozione di un preciso stile di gioco e di comportamento, talmente diffuso e globalizzato da aver oscurato la grandezza dei suoi interpreti. 3 – LO STILE DI GIOCO Oggi si parla a sproposito di “tiki taka”, ormai banalizzato a fitta rete di passaggi rasoterra e in orizzontale per stancare gli avversari. Lo stile che ha reso il Barcellona un metro di paragone in tutto il pianeta, però, è un qualcosa di molto più complesso, evolutosi nel tempo fino a diventare il marchio di fabbrica dei successi contemporanei. Dominio del possesso, pressing offensivo, gioco in ampiezza e legame fra prima squadra e vivaio, sono i concetti-base portati da Cruyff a Barcellona nel 1988, quando l’olandese fece ritorno in Catalogna nelle vesti da allenatore. L’arrivo di Johann ha segnato l’inizio di un ciclo culminato con il successo in Coppa dei Campioni nel 1992 (vinta a Wembley contro la Sampdoria), fondamentale perché ha aperto finalmente al mondo una società che ancora non era riuscita a iscriversi alla lista delle grandi internazionali. Più tardi Van Gaal e Rijkaard avrebbero
proseguito nel solco olandese tracciato dal predecessore, fino a consegnare nel 2008 a Guardiola una squadra ormai pronta al salto di qualità finale: nella continuità di un calcio offensivo e di possesso, Pep ha alzato a livelli vertiginosi l’intensità del pressing avanzando il lavoro di recupero a ridosso dell’area avversaria. Nel frattempo, la maturazione di un gruppo irripetibile di canterani – Messi, Xavi, Iniesta, Piqué - , ha provocato un ciclo di successi che ha fatto epoca, anche perché raggiunti seguendo sempre lo stesso stile. Lo stile-Barca, che letto negli anni Duemila vuol dire spettacolo e mentalità offensiva, si traduce anche nella scelta di puntare su calciatori brevilinei e uomini dal basso profilo. Meglio se formati nel settore giovanile del club, dove sin da piccoli i futuri giocatori della prima squadra vengono educati al gioco corto, al fair play e al senso di appartenenza. Una sorta di utopia autarchica, che ha trovato la sua realizzazione in una data storica – 25 novembre 2012 – quando a Valencia il compianto Vilanova schierò una formazione di soli ‘canterani’. Undici su undici, tra i quali 8 nati in Catalogna e cresciuti in un raggio di
meno di 50 km dal capoluogo. 4 – IL BRAND Se l’arrivo di Cruyff nel 1988 segnò l’inizio di una nuova epoca sotto il profilo tecnico, il 2003 è l’anno-spartiacque a livello amministrativo perché ha portato all’elezione di Joan Laporta come presidente del club. L’insediamento di un nuovo gruppo di dirigenti ha avviato una nuova fase nella gestione della società, volta a valorizzare in chiave commerciale gli stessi valori provenienti dalla lunga tradizione blaugrana: l’identità catalana, il fascino internazionale esercitato dal club e lo stile di gioco che lo rappresenta. Promotore di questa linea è stato Ferran Soriano, che raccogliendo una società lacerata dai debiti (e ancora lontana dai ricavi dei top club inglesi) ha saputo calibrare un grandioso piano di rilancio del marchio fondato sul marketing. Così, nel giro di poche stagioni, il Barcellona ha moltiplicato le entrate fino a diventare un modello universale. Un paio di dimostrazioni. La prima: con l’arrivo dei nuovi proprietari arabi la prima mossa del Manchester City nella scalata ai vertici del calcio inglese è stata quella di affidare a Soriano l’amministrazione generale del club, delegando a un altro barcellonista doc – Beguiristan – la direzione tecnica della prima squadra e del settore giovanile. La seconda: il libro Il pallone non entra mai per caso, nel quale Soriano descrive i segreti della sua avventura al Barcellona, è diventato un cult della manualistica sulla gestione d’impresa, letto da manager e proposto dai docenti nelle facoltà di economia. 5 – L’EVOLUZIONE Parole bellissime come identità e continuità, però, sarebbero nulle senza una componente fondamentale per qualsiasi ciclo lungo di successo: l’evoluzione. 137 campionati giocati assorbendo un’idea,
un modulo, una filosofia tattica e sportiva applicata dalla base alla cima sono stati possibili solo perché il club ha saputo ciclicamente adeguarsi ai cambiamenti dei tempi. Il discorso vale anche sotto il profilo calcistico: solo un anno fa, lo stile-Barcellona sembrava giunto a un punto di saturazione e il suo simbolo – Messi – pareva un fuoriclasse destinato a un precoce declino. L’arrivo di un tecnico intransigente, ma culturalmente compatibile, come Luis Enrique (ex blaugrana da giocatore) ha rivitalizzato invece una squadra sfibrata da troppe stagioni su livelli extra-terrestri. A costo di rischiare uno scontro frontale con i senatori dello spogliatoio, “Lucho” ha restituito al gruppo quell’ordine e quella ferocia che parevano smarriti. L’altro capolavoro è stato quello di assemblare un tridente con pochi precedenti nella storia – Messi, Neymar e Suarez – senza sacrificare l’equilibrio e la tradizione tattica del club. Pur mantenendo tutti i principi sacri della filosofia blaugrana, infatti, Luis Enrique ha saputo arretrare di qualche metro il baricentro della squadra per liberare spazi in campo aperto ai tre solisti offensivi. Il risultato? Tanti contropiede fulminanti nelle gare-chiave della stagione e una sensazione di imbattibilità diffusa: anche se meno spettacolare nella proposta di gioco collettivo, l’ultimo Barcellona pare addirittura più efficace e spietato delle versioni precedenti, da Cruyff a Guardiola.
SPORT MINORI - HORSE - BALL
HORSE-BALL
Il fair play va a cavallo di Simone Zerbini simone-z90@hotmail.it
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La disciplina dell’Horse-Ball nasce in Francia negli anni Settanta. L’idea viene al Capitano Clave, olimpionico francese che negli anni Trenta vede nel pato argentino un modo per rilanciare e promuovere gli sport equestri. Con l’arrivo della guerra lo sviluppo di questo sport si interrompe, fino a quando due fratelli della regione di Bordeaux decidono di creare le regole dell’Horse-Ball che usiamo tutt’oggi. Verso la fine degli anni Novanta la commissione francese di Horse-Ball, presieduta dal suo fondatore Jean Paul Depons, decide di esportare questa disciplina all’estero organizzando partite dimostrative in Galles, Portogallo e Belgio: bastano queste esibizioni per far nascere i primi campionati. Così nel dicembre 1992, su iniziativa del Responsabile Federale della disciplina della Federazione Francese Philippe Thiebaut e del Presidente della Commissione di Horse-Ball Depons, viene organizzata la prima “Coupe d’Europe de Horse-Ball” al “Salon du cheval”. Sei Paesi prendono parte a questa prima competizione internazionale: Inghilterra, Francia, Germania, Portogallo, Italia e Belgio. In Italia questo sport arriva alla fine degli anni Novanta grazie al contributo di alcuni centri di dressage e alle consulenze di giovani dressag-
gisti portoghesi. La diffusione dell’Horse-Ball passa anche tramite alcuni cavalieri francesi: uno, un maniscalco di origini siciliane che giocò a Nizza, lavorando in Calabria portò la disciplina anche in questa parte d’Italia. Cosi l’Horse-Ball si diffuse, oltre che in Francia, anche in tutto il mondo: oggi è giocato in tutti e cinque i continenti. Per i ragazzi questo sport è un momento fondamentale, tanto di messa in sella quanto di aggregazione. L’Horse-Ball richiede grande complicità tra l’atleta e il suo cavallo e insegna da subito i valori dello sport ai piccoli atleti. Dopo questa breve cronistoria sulla disciplina, entriamo nello specifico. L’Horse-Ball è uno sport di squadra equestre. Ciascun team è composto da un numero massimo di sei giocatori, mentre sul terreno di gioco ne possono scendere tre o quattro; non vi è alcun limite di sostituzioni. Lo scopo del gioco è fare canestro (entrambi posizionati a metà dei lati corti del campo) con una palla di cuoio, racchiusa in una rete formata da sei maniglie. Questo sport è basato su un profondo senso del fair play, infatti sono previste sanzioni per renderlo il più corretto e sicuro possibile: la penalità uno e la penalità
due vengono fischiate quando si cavalca nel senso contrario alla palla, e prevedono rispettivamente un tiro libero da 10,5 metri o la rimessa in gioco della palla da parte della squadra “contromano”; la penalità tre viene sanzionata se un giocatore porta palla per più di dieci secondi. Il corretto svolgimento della partita è assicurato da due arbitri, uno a cavallo e uno a bordo campo. La palla deve essere recuperata sempre a cavallo in movimento, non importa a che andatura, e senza che il cavaliere metta piede a terra. Vince chi effettua più canestri, ed è contemplata la parità. Oramai l’Horse-Ball raccoglie atleti sempre più giovani e non è raro vedere squadre composte da famiglie: infatti è uno sport accessibile a tutti, indipendentemente dall’età e dal livello equestre dei cavalieri. Esistono la categoria giovanissimi, per i bambini di 5-6 anni, la categoria esordienti 9-12, allievi 12-14, cadetti 14-16 anni e infine la categoria adulti. Quest’estate direi che provare un misto di rugby (per il fair play), equitazione e basket sarà decisamente un must.
SPORT CERTIFICATI: PEC - CAMPIONI SI NASCE O SI DIVENTA?
CAMPIONI SI NASCE... O SI DIVENTA?
62 di Roberto Carnevali robertocarnevali@eutelia.com
Quante volte a ognuno di noi è capitato di pensare: campioni si nasce o si diventa? Potrò mai un giorno essere un “nome” in questo sport, nel tiro a volo nazionale e mondiale? Una domanda senza risposta che va avanti da sempre, un tarlo fisso per chiunque abbia avuto una qualsiasi esperienza di sport. La nostra fantasia naviga in un oceano senza vedere, o meglio, senza sapere quale sarà la risposta giusta. Ragazzi miei!... Il tiro a volo è uno sport o, più esattamente, una vera e propria passione; un binomio di amicizia ed emozioni che ognuno di noi ha nel momento in cui respira l’aria e il profumo di tutto ciò. Campioni si nasce, è vero; ma lo si diventa anche, se si dimostra a noi stessi con umiltà, impegno e dedizione la forza interiore e la determinazione verso questo sport. Deve essere il punto d’arrivo, il tiro a volo, per ognuno di noi; di amicizia con gli altri, di scambio di idee, di emozioni, di conoscenza educativa. E non solo di supremazia e vittoria sugli altri. Cari amici, tiratori e non, sappiate che
questo sport accomuna il vero significato della parola amicizia con la passione emotiva che noi tutti abbiamo; come il più bel sogno nel cassetto. Non fatelo quindi morire. Cercate di esaltarlo sul gradino più alto del podio. Quando entrate in pedana per disputare una gara, ricordatevi questi valori; e vedrete che campioni lo diventerete anche voi. Nello sport e nella vita.
SALUTE DEI RAGAZZI
PSICOLOGIA DELLO SPORT -
COMPORTAMENTI COLLEGATI ALLA SALUTE DEI RAGAZZI IN ETÀ SCOLARE
64 di Matteo Simone matteo.simone@areonautica.difesa.it
Per comprendere appieno la dimensione e la diffusione di comportamenti negli adolescenti, è attivo dal 1982 lo studio internazionale HBSC (Health Behaviour in School-aged Children - Comportamenti collegati alla salute dei ragazzi in età scolare), cui l’Italia partecipa dal 2001. Tale studio è promosso dall’Ufficio Regionale per l’Europa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e coinvolge ogni 4 anni, nei 44 Paesi aderenti, un campione di studenti di 11, 13 e 15 anni. Partecipando all’indagine, i giovani intervistati hanno descritto il proprio contesto sociale (relazioni familiari, con i pari e con la scuola), la propria salute fisica e la soddisfazione della propria vita; gli stili di vita (attività fisica, alimentazione) e i comportamenti a rischio (uso di tabacco, alcol, cannabis, comportamenti sessuali, bullismo). L’indagine in generale, e le singole nazionali, vogliono infatti essere un supporto di informazioni valide e aggiornate sui comportamenti dei ragazzi in modo da orientare nel modo migliore le scelte dei decisori, dei professionisti e degli operatori. Nel 2010 le classi su cui svolgere l’indagine sono state prima, terza media e seconda superiore. A tutti i soggetti delle classi campionate è stato somministrato un questionario anonimo per indagare sui comportamenti correlati alla salute, sul rapporto con la scuola, sui genitori, sui pari e su informazioni generali che ne definissero condizione anagrafica e livello sociale. Tra i risultati più significativi rilevati dai circa 75000 questionari raccolti, si segnala l’elevata percentuale di ragazzi sovrappeso in alcune regioni del Sud Italia (la Campania è la Regione che registra a 11 anni il maggior numero di maschi sovrappeso/obesi, pari al 45%, contro il 9% della P.A. di Bolzano), una frequente sensazione di insoddisfazione rispetto al rapporto con la scuola al crescere dell’età e una forte differenza
di genere, a sfavore delle ragazze, nella dichiarazione del benessere percepito e dei sintomi dichiarati. I dati 2014 mostrano, rispetto alla precedente rilevazione del 2010, una diminuzione della percentuale di ragazzi in sovrappeso in tutte le fasce di età. La diminuzione è particolarmente evidente tra gli 11enni. Anche per quanto riguarda l’obesità, si osserva un lieve calo più evidente nei 13enni. Si evidenzia un gradiente Nord-Sud tra le Regioni con prevalenze più alte nelle Regioni del Sud. Sono stati indagati anche alcuni aspetti delle abitudini alimentari che, se scorrette, possono aumentare il rischio di diverse patologie croniche oltre a favorire l’aumento di peso. Dai dati è emerso che solo una bassa percentuale di studenti consuma frutta e verdura almeno una volta al giorno. Il valore più alto (22,7%) si registra tra le ragazze di 15 anni. La colazione rappresenta un pasto estremamente importante per l’equilibrio fisiologico ma anche psicologico, soprattutto nell’infanzia e nell’adolescenza. Saltare questo pasto influenza le capacità di concentrazione e di apprendimento, e favorisce anche il consumo disordinato di snack e “cibi spazzatura” (junk food). Nel 2014 diminuisce, per entrambi i sessi e in tutte le classi di età, la
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PSICOLOGIA DELLO SPORT -
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percentuale di adolescenti che hanno consumato alcolici almeno una volta a settimana. Nel 2014 si registra un aumento dei 15enni che dichiarano di essersi ubriacati almeno 2 volte nella vita. Rispetto al 2010 cresce il numero dei ragazzi che svolge attività fisica (un’ora di attività più di tre giorni a settimana) in tutte le fasce di età; l’aumento è più sensibile tra gli 11enni, in particolare nei maschi. I dati sulla sedentarietà si evidenziano in tutte le fasce di età, pur essendo in diminuzione il numero di ragazzi che trascorrono tre ore o più al giorno davanti alla TV, in particolare tra i 15enni. Aumenta la percentuale di adolescenti che passano tre ore o più al giorno a giocare con il PC, lo smartphone o il tablet. L’aumento è più sensibile tra le ragazze, in particolare è raddoppiato tra le 11enni. Tra il 2010 e il 2014 è aumentato il numero dei ragazzi che dichiarano di aver subito episodi di bullismo. È aumentato, in particolare, in entrambi i sessi il numero degli 11enni che dichiarano di subire occasionalmente atti di bullismo.
Nell’indagine 2014 sono state aggiunte, nei questionari destinati ai 15enni, alcune domande relative al gioco d’azzardo. Dai risultati si evidenzia che circa il 60% dei 15enni maschi e il 22%, delle femmine ha sperimentato il gioco d’azzardo almeno una volta nella vita. Esiste un netto gradiente Nord-Sud in merito al gioco d’azzardo praticato nel mese prima dell’indagine con picchi che vanno dal 7% della P.A. di Trento a oltre il 44% della Campania. Sono considerati a rischio dipendenza gli studenti che dichiarano di aver sentito il bisogno di scommettere sempre più denaro, oppure che hanno dovuto mentire su quanti soldi avevano scommesso/ giocato. Vengono invece considerati dipendenti gli studenti che hanno sentito il bisogno sia di scommettere sempre più denaro sia di dover mentire sulla somma scommessa. L’indagine evidenzia che quasi l’8% dei maschi è a rischio dipendenza mentre quasi il 2% è da considerarsi dipendente. Non posso che augurare a tutti i ragazzi di praticare un sano esercizio fisico e consultare libri sulla psicologia dello sport e del benessere.
ARTE - PAUL GAUGUIN
Paul Gauguin Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?
di Susanna Tuzza susannatuzza@gmail.com
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Paul Gauguin (1848-1903), pittore francese, incarna l’archetipo di artista che vuole evadere dalla società e dai suoi problemi per ritrovare un mondo più puro ed incontaminato. Al pari di tutti gli altri artisti e poeti francesi di fine secolo, vive sullo stesso piano la sua vita privata e la sua attività artistica. E la vive con quello spirito di continua insoddisfazione e di continua ricerca di qualcosa d’altro che lo porta a girovagare per mezzo mondo, attratto soprattutto dalle isole dei Mari del Sud. Questa grande tela, conservata a Boston e realizzata da Gauguin negli ultimi anni della sua attività, costituisce quasi un testamento spirituale della sua arte. La sua pittura, pur di grande qualità decorativa, non si limita all’apparenza delle cose, ma cerca di scavare nel profondo — soprattutto della dimensione umana — per cercare il confronto (“le risposte” sarebbe un po’ troppo) con i grandi interrogativi esistenziali. La tela si presenta a sviluppo orizzontale con un percorso di lettura che va da destra a sinistra. Lungo questa direzione, Gauguin dispone una serie di figure che ripropongono in sostanza le “Allegorie delle età della vita”: dal neonato nell’angolo a destra, si giunge alla donna scura a sinistra, passando attraverso le varie stagioni della vita. La donna al centro, che quasi divide il quadro in due, simboleggia il momento della vita in cui si raccolgono i frutti: ovvia allegoria del momento della procreazione. La vecchia in fondo a sinistra nella sua posizione fetale e con le mani accanto al volto — già presente in altre composizioni di Gauguin — non simboleggia in realtà solo la vecchiaia, ma soprattutto la paura della morte. Straordinaria in questo quadro è soprattutto l’ambientazione. Il percorso della vita si svolge in un giardino che sa proprio di Eden. Come dire che, secondo Gauguin, in fondo la vita e la realtà non sarebbero poi male, se non fosse per l’angoscia di non sapere con certezza a cosa serva tutto ciò. Con questo quadro il senso di inquietudine e di instabilità, tipico dell’artista e uomo Gauguin, ci appare in conclusione come un percorso senza fine; perché volto a traguardi che non sono di questo mondo. E così il suo fuggire dall’Occidente verso i paradisi dei mari del Sud, altro in fondo non è che la metafora, non figurata ma reale, della ricerca perenne ma inesauribile dell’approdo ultimo della nostra serenità.
CASA & DESIGN - IL MUSEO DELLA CONTRADA
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Il museo della Contrada di Valdimontone STORIA DI PALII, CONTRADE E DI una città nella città di Gaia Badioni gaia.badioni@hotmail.it
Non si può parlare di Siena senza parlare dei suoi sterminati colli dorati che la circondano, del suo vino, del Panforte, del Monte dei Paschi, della piazza a conchiglia con la Torre del Mangia, del Facciatone e naturalmente del Palio. La città ruota attorno a questa antichissima tradizione ed è strutturata, ancora oggi, in contrade in lotta o comunione tra di loro. Pochi sanno, però, che Siena non è solo ricca di chiesette e di affreschi o intarsi marmorei firmati dai più grandi architetti, scultori e pittori del trecento italiano; ma che ospita anche, nel suo labirinto fatto di sali e scendi, un museo firmato Giovanni Michelucci per celebrare la Contrada di Valdimontone. La sede museale, progettata nel 1974 da Giovanni Michelucci e terminata dopo la sua morte nel 1997 da Bruno Sacchi, è adiacente all’Oratorio della SS. Trinità e ingloba nel suo reticolato anche la chiesa di San Leonardo, edificio del XII secolo, ristrutturato più volte nel corso degli anni fino a conservare l’attuale aspetto neoclassico datato 1822. Nei primissimi anni Settanta nasce una più matura consapevolezza dei cambiamenti che si andavano sviluppando nella contrada di Valdimontone — dovuti sia
alla consistenza degli arredi sacri della Santissima Trinità, dei cimeli, dei costumi della contrada, sia al crescente numero di contradaioli. In quel momento l’architetto Giovanni Michelucci (autore della stazione ferroviaria di Santa Maria Novella a Firenze e della Chiesa sull’autostrada), impegnato nell’edificazione della filiale del Monte dei Paschi di Siena a Colle val d’Elsa, viene contattato dal Priore Onorario Giovanni Cresti, nonché Provveditore del Monte dei Paschi di Siena, per progettare uno spazio museale idoneo a raccontare e raccogliere la storia di Valdimontone. I finanziamenti per sviluppare il progetto — donati dalle quote del protettorato, dall’autofinanziamento e dalla cinquina di palii vinti dalla contrada (1974, 1977, 1982, 1986, 1990) — dilatano i lavori che si protrarranno dal 1978 fino al 1997 col risultato, però, di donare alla città di Siena uno splendido esempio di architettura contemporanea. Il museo è formato da due sezioni: l’Oratorio di San Leonardo — di antichissima costruzione, ma alterato da numerosi interventi di restauro e ristrutturato dallo stesso Michelucci — in cui sono esposte le monture e altri oggetti di proprietà della Contrada; e una serie di nuovi volumi ricavati nel vano di un terrapieno pure progettati da Michelucci e inaugurati nel 1997 con l’esposizione dei palii conquistati.
CASA & DESIGN - IL MUSEO DELLA CONTRADA
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Per la progettazione dello spazio, il pistoiese Michelucci decide di trascorrere un periodo di tempo all’interno della Contrada, per assimilarne lo spirito e le esigenze, per capirne il senso di orgoglio e di appartenenza, i ritualismi e i principi di solidarietà alla base del vivere civile e morale che muovono la vita del quartiere. Michelucci pensa che si debba prima organizzare lo spazio interno, intercettando suggerimenti che possano facilitare l’indagine degli ambienti vitali; soltanto dopo ci si potrà soffermare su altre peculiarità come quella estetica. In tutto questo il cittadino, nel nostro caso il contradaiolo, assume un ruolo fondamentale: le persone partecipano alla progettazione e alla costruzione dei propri ambienti, esponendo problemi ed esigenze. Un’architettura corale dove l’architetto funziona da interprete, da mediatore, tra l’uomo e l’architettura. La stessa città senese, con il suo
impianto medievale, sembra suggerire all’architetto la possibilità di riproporre lo stesso borgo in scala più ridotta: una sorta di città nella città. Possiamo intravedere viuzze, piazze e piazzette, scorci, feritoie e mura antiche. Internamente è un susseguirsi di dislivelli, tutti collegati e percorribili, dove il visitatore può tranquillamente perdersi in un circuito spazio-temporale. L’effetto del percorso a più livelli, che affacciano verso l’interno e verso l’esterno, rende l’edificio più aperto e più frequentabile, evitando che il complesso architettonico, scavato e incassato nel terreno, assuma il carattere di bunker. L’ambiente nasce dal libero pensiero, dagli incontri, dal dialogo; da situazioni che maturano di volta in volta e non secondo uno scenario precostituito che, ridotto a modello, favorirebbe il frazionamento e la disgregazione; mentre la contrada è amicizia, solidarietà e condivisione di intenti.
CURIOSITÀ LUGLIO - AGOSTO
CURIOSITÀ
LUGLIO - AGOSTO di Sylvie Capelli sylvieannacapelli@gmail.com
SOS
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Tre lettere in sequenza, semplice anche in codice Morse (3 punti, 3 linee, 3 punti) e quindi comprensibile anche ai non esperti. Fu utilizzato per la prima volta durante la seconda conferenza radiotelegrafica internazionale nel 1906 a Berlino. Ma il 01 luglio 1908 è il giorno in cui diventa il segnale universale di richiesta di soccorso. Non esiste una vera traduzione di questo acronimo e quindi ne sono stati creati alcuni partendo dalla sigla: “Save Our Ship” (salvate la nostra nave), “Save Our Souls” (salvate le nostre anime), “Salvateci O Soccombiamo”, “Soccorso Occorre Subito”.
NASCITA DEL TURISMO ORGANIZZATO Il 5 luglio 1841 Thomas Cook diede inizio al concetto di turismo organizzato. Organizzò una gita utilizzando la ferrovia, per il tragitto di 12 miglia da Leicester a Loughborough, coinvolgendo circa 500 passeggeri al costo di 1 scellino per persona. Da qui partì l’idea di un’azienda votata ad aiutare gli inglesi a scoprire il mondo. Negli anni successivi Thomas Cook organizzò viaggi a Nottingham, Derby e Birmingham, sempre utilizzando le ferrovie, dando così la possibilità a molte persone di utilizzare questo mezzo di trasporto per la prima volta. Ma il primo vero e proprio business fu il viaggio per Liverpool organizzato nell’estate 1845: oltre a procurare i biglietti del treno, studiò l’itinerario e pubblicò un libretto del viaggio di 60 pagine, in pratica il precursore dei moderni cataloghi. Oggi il gruppo è uno dei leader mondiali nel campo dei viaggi con oltre 20 milioni di clienti.
CURIOSITÀ LUGLIO - AGOSTO LA PRIMA DONNA MINISTRO AL MONDO Il 20 luglio 1960 venne nominata la prima donna primo ministro al mondo: Sirimavo Bandaranaike. Leader di Sri Lanka Freedom Party e primo ministro del suo Paese per ben tre legislature: 1960-65, 1970-77 e 1994-2000. Durante il suo secondo mandato partecipò alla creazione della nuova costituzione e al cambio di nome da Ceylon a Repubblica di Sri Lanka. Durante il terzo mandato ebbe poco potere reale, in quanto subordinato a quello della figlia che nel frattempo era diventata Presidente della nazione. Davvero un Paese dove la parità tra i sessi viene applicata, non solo a parole.
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LADY D Luglio e agosto sono due mesi importanti nella storia di Lady Diana: l’inizio e la fine della favola. Nasce il 1 luglio 1961, il 24 luglio 1981 ci sono le nozze, grandiose, con il principe Carlo d’Inghilterra; il divorzio il 28 agosto 1996 e la morte a Parigi il 31 agosto 1997, a causa di un incredibile incidente automobilistico. Nella memoria di tutti rimane il dolce sorriso a volte un po’ triste, la sua dolcezza e la sua semplicità che le hanno valso il titolo di “principessa del popolo”. Quello che abbiamo sempre apprezzato in lei è la sua “normalità”: pur vivendo e facendoci vivere le suggestioni di una favola nel castello incantato, era semplicemente una donna. Aveva sogni e desideri, alcuni realizzati (come la maternità) altri falliti (come il suo matrimonio). Nelle orecchie risuona la canzone che Elton John scrisse originariamente in memoria di Marilyn Monroe, che riadattata magistralmente a ricordare Lady D, è uno dei singoli più venduti di tutti i tempi.
Proverbi Italiani Quando luglio è molto caldo, bevi molto e tienti saldo. Presto la pioggia suol venire a noia, ma in luglio è un ricco dono e apporta gioia. Se piove tra luglio e agosto, piove miele, olio e mosto. Per ferragosto piccioni e anitre arrosto. Il sole d’agosto inganna la massaia nell’orto. Agosto moglie mia non ti conosco. Di settembre e di agosto bevi vino vecchio e lascia stare il mosto.
- DEAD ISLAND 2
GAMES
DEAD ISLAND 2 iniziate a correre di Nicola Guarneri guitartop@libero.it
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Los Angeles, Venice Beach, estate. Un fisicatissimo ragazzotto dai capelli biondi e gli occhi azzurri si allaccia le scarpe da jogging. Il tatuaggio “living the dream” sulla spalla si accoppia con il modernissimo smartphone che inizia a pompare nelle orecchie del giovane The Bomb di Pigeon John. Qualche esercizio di stretching e via di corsa sulla costa più famosa del West. Tutto normale, se non fosse per quella strana ferita sotto il polsino. Inizia così il trailer di Dead Island II, il nuovo capolavoro della Deep Silver e sviluppato dalla Yager Development. Il gioco – la cui data di pubblicazione non è ancora certa, anche se è già possibile prenotarlo al costo di €55.98 – prosegue sul successo di Dead Island (2011) e Escape Dead Island (2013). Gli avvenimenti avvengono qualche mese dopo quelli di Escape e per la prima volta la serie si sposta sulla terraferma, in California, principalmente tra Los Angeles e San Francisco. La base è la solita: tanto horror, tanto sangue e, soprattutto, tanti zombie. Resta ovviamente la modalità “open world”, con la possibilità di esplorare tutta la California, dalle spiagge assolate alle foreste più rigogliose. Il trailer prosegue mostrando un riassunto di cosa ci aspetterà: mentre l’ignaro runner continua la sua corsa con la musica a tutto volume, alle sue spalle succede il finimondo. Un edificio in fiamme, tre zombie che assaltano una giovane donna, un commerciante che munito di fucile a
pompa uccide due morti-viventi prima di venire assalito da un terzo. E ancora, una limousine che sbanda clamorosamente e un elicottero che precipita su una casa; il tutto mentre il runner avverte i primi sintomi della trasformazione. La metamorfosi si compie durante la corsa, che non viene interrotta dal nuovo runner-zombie, alla ricerca ora di vittime sacrificali anziché della forma migliore. Veniamo alle caratteristiche: una grande novità è la giocabilità in multiplayer fino a 8 giocatori, che renderà lo scenario assolutamente interessante (ricordiamo che i “nemici” non saranno solo gli zombie, ma anche le altre fazioni di sopravvissuti). In secondo luogo, e da non sottovalutare, la location: possiamo dire addio ai paesaggi tetri e cupi, mentre domineranno il sole ed il mare per un’atmosfera, se vogliamo, meno “seria”. Sarà ancora fondamentale il crafting, con la possibilità di creare armi bianche sfruttando gli oggetti lasciati indietro dagli abitanti in fuga (piccolo indizio: visitate bene le case con un bel giardino). A differenza dei capitoli precedenti ci saranno anche dei piccoli rompicapo, con la possibilità – in stile The Walking Dead – di indirizzare i walkers verso le fazioni nemiche facendo i giusti rumori. Senza voto, per ora, la grafica: il video-trailer (che potete vedere qui) è stato girato nel 2014 e prima dell’uscita gli sviluppatori avranno sicuramente scoperto come sfruttare al meglio l’Unreal Engine 4. Insomma, non resta che prenotare il gioco ed attendere la prossima uscita. Nel frattempo, potete iniziare a correre.
- RILASSIAMOCI!
SPAZIO POSITIVO
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RILASSIAMOCI! Laura Gipponi info@lauragipponi.com
Si avvicina finalmente il periodo delle vacanze, che ci consente di ricaricare le batterie dopo un anno di lavoro. C’è chi ha già scelto la meta dove trascorrere le ferie e chi invece improvviserà all’ultimo momento; o chi sceglierà di starsene a casa e godersi un po’ di tranquillità, o dedicandosi alle proprie attività preferite: i cosiddetti hobby. Indipendentemente da quella che sarà la vostra scelta, la pratica del rilassamento — che ovviamente è consigliata anche durante tutto l’anno — non guasterà affatto. Per rilassamento intendo quel momento in cui riusciamo a lasciar andare le tensioni fisiche e mentali. Chi è più esperto, ha già adottato le tecniche più impegnative quali yoga, training autogeno, ecc. Esistono però tanti altri modi per fare rilassamento. Desidero suggerirne uno, molto molto facile e piacevole, che chiamo semplicemente “Relax Arcobaleno”. Vogliamo provare? Bene, iniziamo subito! Suggerisco di isolarci da qualsiasi distrazione o rumore. Cerchiamo uno spazio tranquillo, dove niente e nessuno ci disturbi. Iniziamo con l’adottare la posizione adeguata: possiamo scegliere se stare seduti, in posizione eretta, oppure sdraiati. Chiudiamo gli occhi e cerchiamo ora di rilasciare tutti i nostri muscoli il più possibile; e intanto abbandoniamoci al ritmo del nostro respiro. Proseguiamo poi lasciando ogni tensione, partendo dalla punta dei piedi e delle mani; salendo poi man mano fino a coinvolgere tutti i muscoli del corpo, fino ad arrivare alla testa. A questo punto procediamo per rilassare la mente. La mente va liberata da ogni pensiero e lasciata vagare senza meta, come quando stiamo per addormentarci. Concentriamoci nel frattempo sull’inspirazione e l’espirazione. Per facilitarci l’impresa, immaginiamo che l’aria che inspiriamo sia bianca, mentre quella che espiriamo sia grigio-scura, proprio come se l’aria candida che inspiriamo avesse il compito di ripulirci da tutte le negatività che ci hanno affaticato. Per aumentare l’efficacia dell’esercizio, i respiri devono essere ben profondi; partendo dal basso ventre. Appena raggiunto un certo
ritmo, sentiremo che il corpo sarà sempre più sciolto, e percepiremo delle sensazioni leggere provenienti da ogni parte di esso. Adesso possiamo iniziare la visualizzazione dei colori. Visualizzare significa “vedere con la mente” i sette colori dell’arcobaleno. Se non si riescono a vedere perfettamente questi colori, proviamo ad immaginare degli oggetti con i colori dell’arcobaleno: ROSSO ARANCIONE GIALLO VERDE AZZURRO INDACO VIOLETTO Una volta arrivati al violetto, che è il colore del rilassamento, avremo raggiunto il relax totale. Ora il nuovo obiettivo è collegare questo stato ad un gesto molto semplice (in modo da poterlo replicare ogni volta che lo desideriamo). Il gesto che scegliamo è l’unione del dito indice con il pollice e il medio: possiamo farlo ovunque; anche di nascosto in tasca, nel caso in cui ci capitasse di trovarci in un momento di ansia o tensione, o semplicemente se desideriamo un po’ di relax. A questo punto possiamo goderci il momento conseguito lasciando che la mente pensi alle cose più piacevoli. Restiamo in questo stato finché lo desideriamo. Dopodiché, se vogliamo uscire dallo stato di rilassamento, non dovremo fare altro che visualizzare nuovamente i sette colori dell’arcobaleno; ma questa volta al contrario: lasciando per ultimo il rosso. Riapriamo dolcemente gli occhi e — per la ripresa muscolare — alziamo le braccia in alto aprendo e chiudendo alcune volte i pugni, in modo da riattivare la circolazione sanguigna. Saremo subito pronti a ripartire pieni di nuova energia. Questo esercizio dovrebbe durare all’incirca 15-20 minuti. Avremo però l’impressione che ne siano passati solamente cinque. Significa che l’abbiamo svolto nella maniera perfetta. Non mi resta che augurare a tutti voi buone vacanze e buon relax.
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RICETTA SALATA CON VINO ABBINATO
Vitello tonnato (vitel toné)
di Sylvie Capelli - sylvieannacapelli@gmail.com
INGREDIENTI: 3 uova sode, 1 carota, 1 gambo di sedano, 1 cipolla, 2 spicchi d’aglio, 4 chiodi di garofano, 1 rametto di rosmarino, 5 foglie di alloro, pepe, sale, ½ litro di vino bianco, brodo, 600 grammi di carne di vitello (magatello o tondino o girello), 15 capperi, 6 filetti di alici, 100 grammi di tonno sott’olio, 40 grammi di olio extra vergine di oliva
Preparazione: La carne: in un tegame alto mettere carota, aglio, sedano, cipolla, rosmarino, alloro, chiodi di garofano, 2 cucchiai di olio, pepe e un pizzico di sale. Una volta rosolati, aggiungere la carne e girarla da ogni lato per chiudere bene i pori. Aggiungere il vino e lasciarlo evaporare, aggiungere a filo il brodo caldo e cuocere a fuoco dolce per circa 2 ore e lasciar raffreddare.
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La salsa tonnata: mettere in una ciotola il tonno sgocciolato e sbriciolato, le uova sode tritate, i capperi, le acciughe, e diluire con un po’ di olio e un po’ di brodo fino ad ottenere una salsa morbida e cremosa. Presentazione: tagliare la carne ormai fredda in fettine sottili su un piatto da portata, stendere la salsa e guarnire il piatto con qualche cappero.
Offida Pecorino Fiobbio 2012 - Aurora di Carlo Cecotti - carlocecotti@yahoo.it
Bianco Docg Pecorino 100% Un progetto nato per volontà di Silvia Aurora nasce dall’idea di cinque amici con un sogno in comune. Produrre vini dal carattere autentico nel rispetto dell’ambiente e dell’identità territoriale. Dal 1980 tutte le vigne di proprietà sono condotte seguendo i canoni dell’agricoltura biologica e, dopo più di trent’anni di impegno e duro lavoro, i risultati di queste scelte si riflettono in tutta la produzione. Color oro intenso, regala al naso sensazioni di fieno e camomilla per poi evidenziare delicata frutta matura, prugna gialla, mango, ananas e uva spina. Il sorso è appagante, fresco e sapido, sorretto da notevole struttura. Lunghissima la persistenza che mette in risalto la nota minerale, e ottima corrispondenza gusto olfattiva.
RICETTA DOLCE CON VINO ABBINATO
Crostata con crema pasticcera e frutta fresca
di Sylvie Capelli - sylvieannacapelli@gmail.com
INGREDIENTI: Per la pasta frolla: 250 grammi di farina, 125 grammi di burro tagliato a pezzi, 110 grammi di zucchero, 1 uovo intero, 1 tuorlo, zest di limone grattugiata (buccia gialla), un pizzico di sale Per la crema pasticcera: ½ litro di latte, 75 grammi di zucchero, 50 grammi di farina, 1 uovo, 3 tuorli, semi di una bacca di vaniglia (o una bustina di vanillina) Per la guarnizione: frutta di stagione
Preparazione: La pasta frolla: amalgamare tutti gli ingredienti con le
mani fino ad avere un impasto omogeneo. Evitare di lavorare troppo la pasta. Metterla in frigorifero coperta da pellicola per almeno 30 minuti. Scaldare il forno a 180°C. Imburrare e infarinare una teglia, stendere la pasta e far aderire a base e bordi, bucherellarla. Coprire con un foglio di carta forno e, per appesantire, utilizzare dei legumi secchi (fagioli, ceci, ecc.). Cuocere in forno per 20 minuti. Togliere carta forno e legumi e rimettere in forno per 10 minuti. Lasciar raffreddare fuori dal forno.
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La crema pasticcera: scaldare il latte (tranne mezzo bicchiere) con i semi di vaniglia o la vanillina; spegnere al primo bollore. Lavorare a freddo zucchero e uova. Aggiungere lentamente il latte che si sarĂ intiepidito e continuare a mescolare con un frustino. Aggiungere la farina setacciata poco per volta e amalgamare. Versare il composto nella pentola con il resto del latte tiepido e riportare sul fuoco (dolce) mescolando continuamente. Non appena inizia a bollire, abbassare la fiamma al minimo e continuare a cuocere sempre mescolando dolcemente per circa 2 minuti. Aggiungere a filo il mezzo bicchiere di latte freddo continuando a mescolare. Spegnere il fuoco e lasciar raffreddare. Guarnizione: pulire la frutta e tagliarla in piccoli pezzi. Spalmare la crema sulla pasta frolla in modo omogeneo. Disporre la frutta in base al proprio gusto.
Piemonte Bracchetto 2013
Piero Gatti
di Carlo Cecotti - carlocecotti@yahoo.it
Rosso Doc Dolce Brachetto 100% Siamo a Santo Stefano Belbo dove, nel 1988, Piero Gatti fonda questa piccola azienda che produce vini dolci aromatici di notevole interesse. Dal 2000 la moglie Rita e la figlia Barbara continuano l’opera di Piero con la stessa dedizione e attenzione verso i più piccoli dettagli. Rubino luminoso dotato di soffice spuma. Il quadro olfattivo è tutto incentrato sulla freschezza dei toni floreali, rosa canina, violetta e peonia ai quali fanno seguito note fruttate di ribes, fragolina di bosco e melograno. In bocca è snello e dinamico, anche grazie all’effervescenza che ne vivacizza il finale.
Alessandro Lodoli, Isola Pescaroli
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Andrea Ferretti, Platamonas (Grecia)
INTERVISTA
Una vera cittadina del mondo L’attrice Maddy Squillace si racconta in esclusiva per La Pausa Magazine Foto a cura di Idris Erba (Los Angeles - CA)
NATURA
Grand Canyon
La gigantesca gola scavata dal fiume Colorado è anche uno dei parchi nazionali più visitati di tutti gli Stati Uniti
LA PAUSA MAGAZINE VI AUGURA
BUONE VACANZE!
La Pausa torna a settembre con il numero 25. Buona estate a tutti i nostri lettori!
ANTICIPAZIONI
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