C PI
ANNO 3 NUMERO 26
O A G R U AT
A IT
STORIA
Il crollo di Wall Street del 1929 W
NE
SOCIOLOGIA
Uomini e donne, diversi ma complementari
W
NE
FOTOGRAFIA
Edward Burtynsky, “Acqua Shock”
MARIANNE BESSIÈRE LA MAGA DELLE TELE
INTERVISTA ESCLUSIVA
GREEN INTERVISTA Marianne Bessière
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VIAGGI Alsazia
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NATURA Alsazia
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ANIMALI Il pastore alsaziano
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CINEMA Wall Street
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TELEFILM Aquarius
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RED
LIBRI 34 Festival della letteratura di viaggio MISTERO La guerra dei mondi
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STORIA 42 Crollo di Wall Street nell'ottobre 1929 MUSICA 30 anni dopo la rivoluzione
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MODA Barbie
52
BLUE SPORT Qatar 2022
56
SPORT MINORI Quidditch Babbano
60
SPORT CERTIFICATI 64 L'importanza della respirazione
YELLOW SOCIOLOGIA Uomini e donne
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FOTOGRAFIA Edward Burtynsky
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ARTE Gustave Doré
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DIRETTORE RESPONSABILE Pasquale Ragone
CASA & DESIGN Strasburgo
78
DIRETTORE EDITORIALE Laura Maria Gipponi
CURIOSITA’ Ottobre
82
GRAFICA E IMPAGINAZIONE Giulia Dester
PINK GAMES Pes vs Fifa
86
SPAZIO POSITIVO Arriva l'autunno
88
RICETTA SALATA VINO ABBINATO
90
RICETTA DOLCE VINO ABBINATO
92
FOTO DEL LETTORE
94
ANTICIPAZIONI
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ANNO 3 N. 24 Rivista on-line gratuita
HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO Laura Gipponi, Diana Ghisolfi, Nicola Guarneri, Gaia Badioni, Simone Zerbini, Susanna Tuzza, Raffaele d’Isa, Sylvie Capelli, Gianluca Corbani, Gianmarco Soldi, Luca Romeo, Valentina Viollat, Roberto Carnevali, Carlo Cecotti, Sirigh Sakmussen, Maria Solinas, Nia Guaita, Cristina Franzoni. DIREZIONE/REDAZIONE/PUBBLICITA’ AURAOFFICE EDIZIONI S.R.L. a socio unico Via Diaz, 37 / 26013 Crema (CR) Tel 0373 80522 / Fax 0373 254399 www.auraofficeedizioni.com Testi e foto non possono essere riprodotti senza autorizzazione scritta dall’Editore. Le opinioni espresse negli articoli appartengono ai singoli autori dei quali si intende rispettare la piena libertà di espressione. Registrato al ROC n°: 23491 Iscrizione al tribunale N: 1411V.G. dal 29 ottobre 2013
INTERVISTA - MARIANNE BESSIÈRE
Marianne Bessière mentre regge la sua opera "Mamuthones"
INTERVISTA A MARIANNE BESSIÈRE LA MAGA DELLE TELE 4
Siamo andati a trovare Marianne Bessière nella sua villa sul Lago Maggiore, dove si è trasferita da oltre 40 anni e dove ha trovato ispirazione per la sua arte. di Sylvie Capelli sylvieannacapelli@gmail.com
Come ti chiami e quanti anni hai? Mi chiamo Marianne Bessière. Non nascondo la mia età, sono tanti: 76. Da dove vieni, dove vivi, da quanto tempo, per quale motivo? Vengo dalla Francia e ora vivo sul Lago Maggiore. Mi sono trasferita in Italia nel 1963 perché mi sono innamorata di un italiano, e perciò ho fatto proprio un salto in questa avventura; per certi versi positiva, per altri meno. Che lavoro fai? In Italia il lavoro è stato per me un gran problema. In Francia ero assistente sociale: un mestiere per il quale la parlantina e il contatto con le persone sono fondamentali. Non conoscendo l’italiano, e ancora meno i dialetti, ero tagliata fuori. Una volta imparata la lingua e trasferita sul Lago Maggiore, ho iniziato a fare volontariato con un gruppo di genitori di ragazzi handicappati che, inizialmente, erano chiusi ognuno nella propria casa e spaventati per il futuro dei loro figli. Il grande successo è stato l’apertura di una filiale ANFFAS a Luino. Abbiamo anche fondato un Centro Donna a Luino, che ha portato alla creazione di un Consultorio Familiare (che purtroppo non ha dato i risultati che speravamo).
Ingranaggi
Qual è stata la prima impressione al tuo arrivo in Italia? La prima impressione è stata: bello! (perché avevo l’amore con me) Ma i primi sette anni ho vissuto a Milano, nella Milano degli anni ’60 che non è come quella di oggi: una città ostile, che sentivo chiusa, imborghesita. Venivo da Parigi e sentivo moltissimo le differenze. Belli il Duomo e il Castello, ma al di fuori di quello non la trovavo una città interessante… e ancora meno i milanesi! Trovavo le persone — nel contesto in cui vivevo — superficiali, artificiali, poco spontanee. Tutto questo ha favorito il mio isolamento. Ti sei sentita o ti senti straniera? Come sei stata accolta? Sono stata accolta bene in realtà. Da parte della mia nuova famiglia, sentivo l’affetto. Mi mancavano i contatti spontanei che avevo in Francia (amiche e colleghi), tanti scambi che in Italia non avevo. Il mio poco italiano mi consentiva delle battute, e le risposte erano esse stesse delle battute; ma non venivano fuori dei discorsi veri e propri. Negli anni la situazione è migliorata: uno rimane solo se vuole essere solo. Sei tu il motore dei cambiamenti, devi darti da
INTERVISTA - MARIANNE BESSIÈRE
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Cosa ti manca della Francia? Tutto quello che ho lasciato: la famiglia e le amiche. Però, quando eravamo più giovani, i miei fratelli e le amiche condividevano l’estate con me e ho fatto loro conoscere l’Italia. Oggi è difficile l’idea di tornare in Descrivi i pro e i contro di essere una Francia: è molto cambiata e non francese in Italia. ritroverei più il mondo dal quale sono Dicono che abbiamo la “puzza sotto il partita. naso”. Io non sento di averla, ma sono riservata e non mi lego facilmente; Consiglieresti a un francese di seguire inoltre sono timida. Le persone sono le tue orme? incuriosite da me, soprattutto le Sì, sì, perché no? donne, ma ci vuole un po’ di tempo Io credo che, se c’è un vero amore, prima che io riesca ad entrare nella è la linfa: sei con la persona che ti relazione. Da questo lato gli italiani ha scelto, e che hai scelto: è una sono più veloci, più socievoli; io sono cosa da tentare!… e se poi andasse forse più diffidente. male… ritorni in Francia! fare, non accontentarti mai: io mi sono impegnata innanzi tutto nell’imparare l’italiano. Uno straniero è comunque visto come una persona diversa, e lo è; io mi sono sempre sentita diversa — ancora oggi — ma non in senso negativo.
Descrivi una tradizione caratteristica dell’Italia (usanze, aneddoti, superstizioni) Ne ho vissuta una che mi ha veramente travolta: è successo alla festa dei Mamuthones, nella Sardegna più arcaica, nel gennaio di 5 anni fa. Migliaia di persone arrivano in questo paesino e ci sono dei fuochi che durano due giorni e due notti. La gente è generosa: tutti vengono accolti con vino e con i loro biscotti particolari. L’impressione è di essere con loro e come loro. I pastori indossano maschere nere e arcigne e hai l’impressione di vivere la loro stessa mentalità, difficoltà di vita e durezza. E poi, visto che sta arrivando la primavera, c’è un’altra maschera: rossa, allegra ed ermafrodita (infatti indossa un gonnellino), che originariamente doveva prendere al lazo delle pecore, oggi lo fa con le belle ragazze del paese. Sono stata talmente toccata da questa esperienza che ne ho fatto un arazzo. Arriviamo a Marianne artista che, una volta trasferita sul Lago Maggiore, trova l’ispirazione e la volontà di mettere le sue emozioni e i suoi studi su tela (con dei colori, dei fili, delle stoffe) o su tronchi (con colori o pirografo) Ho sempre avuto dentro di me questa attività: mia madre mi ha trasmesso il gusto del “fare con le mani”. Ho imparato quello che so fare con ago e filo guardando lei; non mi ha mai insegnato, ma osservandola ho captato il suo talento. Quando avevo le figlie piccole, cucivo i loro abiti con gioia, ripensando a mia madre. In seguito, una volta cresciute e partite le tre figlie, ho avuto più tempo per me. Sono nata in una casa con giardino, e anche dove vivo ora sono immersa nella natura più esplosiva. Non si può rimanere Il viandante
INTERVISTA - MARIANNE BESSIÈRE
indifferenti alla bellezza della natura. Far crescere una pianta mi ricordava il mio passato: erano le mie radici che si riformavano poco a poco. Quando ho finalmente iniziato a pensare a qualche cosa per me, l’ispirazione è venuta presto. Mi piacciono i colori e le luci, e avevo moltissimo materiale che mi permetteva di improvvisare. L’improvvisazione qualche volta riesce, più spesso sono degli “spetash” (ride), ma a volte ero sorpresa dalle mie creazioni. Da una tela all’altra ho seguito sempre un percorso e, con il tempo, anche le scelte sono diventate più simboliche che realistiche. Sono anche un’appassionata lettrice e attraverso le mie letture sono entrata in una ricerca un po’ psicoanalitica, simbolica e di fantasia. Invento e poi, a volte, mi accorgo che ho inventato delle cose giuste. Un’idea porta alla successiva, un po’ come dei mattoni messi uno sull’altro: più ne fai e più ti
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Le acque
senti realizzata. Ora, oltre ai lavori su tela e su legno, una mia cugina mi ha offerto un telaio che mi permette di tessere… una goduria riposante. Si vede subito il risultato, l’armonia si crea sotto i propri occhi: è davvero stupefacente. Hai fatto due mostre con le tue opere: una a Bergamo nel 2009 e una a Luino nel 2013 In realtà non sono donna da mostre, sono timida e non mi piace esibire le cose che faccio. Mi sento un po’ a disagio nel far vedere le mie cose, preferisco che la gente le scopra da sola. Però è stato un riconoscimento che — tutto sommato — quello che potevo fare, quello che sapevo fare poteva interessare a qualcuno. Le persone che le hanno viste hanno lasciato degli apprezzamenti, e sono stati tutti positivi. Le donne sono in genere più interessate a quello che faccio. Gli uomini non sono negativi, ma sicuramente più indifferenti. Anche gli argomenti delle opere sono a volte un po’ pesanti. Ad esempio, ne ho fatto uno in occasione di un grave incidente accaduto alla mia nipotina. Ho disegnato un albero (era un discorso simbolico), e quando la ragazzina l’ha visto ha esclamato: “ma sono io!”. Per me l’importante è che quello che fai riesca a colpire la persona o il momento che hai illustrato. Ora sto lavorando a un arazzo, anche questa volta simbolico, che sarà la storia genealogica della nostra famiglia attraverso gli alberi: ogni personaggio sarà un albero, e penso che questa sia la conclusione di una vita.
Programmi futuri? Fino a qualche anno fa ero ancora nella “spinta”, ora sto rallentando; ma non è un male. Ti accorgi che i tempi hanno il loro scopo, e il rallentamento ti permette di apprezzare di più; ritorni sulle cose passate, rileggi. Adesso mi sto buttando su Dostoevskij, che è diventato il mio amante. Questi romanzi straordinari, “divorati” quando ero adolescente, mi sono piaciuti tanto. Li ho riletti quasi tutti ed è un altro mondo: li sto scoprendo adesso e mi prendo il tempo di gustarli. L'albero della vita
POESIA
L’arte “taumaturgica” di Marianne è stata colta da Raffaele d’Isa che con questo sonetto ha anche vinto il IV posto assoluto “Premio Streghetta 2008”
La maga delle tele Tu, maga delle tele, spesso ordisci, in luogo di dipingere, tue trame di colori. E dai pace alla tua fame di luci e forme solo quando ardisci curare l’anima che tu capisci affranta. Prima, di ogni affanno strame fanno i segni dei tuoi codici. Lame avverse, poi, estraggono (che tu intuisci) i bagliori vivaci dei tuoi sogni figurati. Gli unguenti dei colori leniscono afflizioni lungamente radicate. Arde polvere d’astro. Ogni ferita si rimargina sotto ori che piovono finché ogni piaga è assente.
VIAGGI - ALSAZIA
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ALSAZIA
di Sylvie Capelli sylvieannacapelli@gmail.com
L’origine del nome Alsazia viene dal termine tedesco antico Ali-saz o Elisaz che significa dominio straniero. Davvero un nome azzeccato per una regione che ha visto un susseguirsi di dominazioni nella storia. Area del Sacro Romano Impero insieme alla Lorena, fu annessa alla Francia nel XVII secolo. Dal 1871 al 1918 era parte dell’Impero Tedesco, poi riconquistata dalla Francia al termine della Prima Guerra Mondiale. Fu occupata dai tedeschi nel 1940 e finalmente liberata dagli alleati nel 1944. I confini della regione sono: Germania a nord e a est, Svizzera a sud, Francia Contea a sud-ovest e Lorena a ovest. Il territorio, pur essendo poco esteso, varia moltissimo: a est troviamo la pianura solcata dal fiume Reno, a ovest i monti Vosgi (con un’altitudine massima di 1424 metri del Grand Ballon) e a sud le colline ricche di filari di viti. Il capoluogo di questa regione francese è Strasburgo e le due altre città principali sono Colmar e Mulhouse, che sono considerate tra le più belle di Francia
aggiudicandosi i maggiori premi nazionali “fleurissement” (comuni fioriti). Ci sono alcuni “turisti” particolari che amano soggiornare in Alsazia e ritornare ogni anno; gli abitanti sono lieti di accoglierli al punto da costruire dei nidi apposta per loro sui tetti di case, palazzi e chiese: si tratta delle cicogne che giungono a primavera per riprodursi, trovando un habitat ideale proprio in questa regione.
Strasburgo
Capoluogo d’Alsazia, il più grande porto fluviale di Francia e capitale politica d’Europa in quanto sede permanente del Parlamento Europeo, del Consiglio d’Europa e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Il centro storico è stato dichiarato patrimonio mondiale dell’UNESCO, e qui si trovano i monumenti principali che hanno reso la città famosa nel mondo: la cattedrale, la Maison Kammerzell (splendido edificio rinascimentale a graticci del XV secolo), la Petite France (quartiere sull’acqua suggestivo dove un
VIAGGI - ALSAZIA
tempo abitavano pescatori, mugnai e conciatori), i ponti coperti (fortificazioni medievali a monte del fiume Ill) e il quartiere delle istituzioni europee. La cattedrale di Notre-Dame è stata costruita tra il 1176 e il 1439 in stile gotico. La classica struttura a tre piani consiste in una navata ad arcate al piano terreno, un triforio (galleria ad arcate) e un livello superiore finestrato. Le mura esterne sono sostenute da contrafforti. Nella costruzione delle cattedrali gotiche, i costruttori hanno dovuto ricorrere all’uso degli archi rampanti che scaricano il peso delle volte in mattoni o pietra sui robusti elementi verticali dei contrafforti. I caratteristici archi acuti scaricano verso il basso la spinta delle volte, permettendo la realizzazione di muri sottili interrotti da finestre ampie. Finestre e rosoni sono veri e propri merletti di pietra traforati. La torre della cattedrale, alta 142 metri, è stata l’edificio più alto del mondo dal 1647 al 1874. All’interno si trova uno splendido organo monumentale, oltre al famoso orologio astronomico.
Colmar
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Viene spesso definita “fiaba a cielo aperto”: un complesso medievale con parecchie costruzioni a graticcio. Degni di nota sono la Collegiata di San Martino in stile
gotico, costruita tra il 1237 e il 1366, la Vecchia Dogana risalente al 1480, Casa Pfister del 1537 con due facciate ornate di balconate in legno e affreschi, il museo d’Unterlinden, la replica della Statua della Libertà in onore dello scultore Auguste Bartholdi che progettò e realizzò quella di New York insieme a Gustafe Eiffel. Il quartiere più pittoresco è la Petite Venise con numerose costruzioni a graticcio colorate costruite sui canali collegati al fiume Ill che, proprio a Colmar, si unisce al Reno.
Mulhouse
A differenza delle altre città alsaziane, Mulhouse era parte della Confederazione Elvetica fino alla Seconda Guerra Mondiale. Una città industriale che ha saputo trasformarsi creando numerosi musei legati alla tecnologia: primo fra tutti la casa dell’automobile, ma anche la città
del treno e l’avventura dell’elettricità. I monumenti storici interessanti sono concentrati nella città vecchia: il Municipio rinascimentale del XVI secolo sopravvissuto ai bombardamenti, il tempio di Santo Stefano neogotico che conserva splendide vetrate del XIV secolo.
Itinerari in auto, in moto…
L’auto e la moto sono sicuramente i mezzi più comodi per visitare la regione, ecco 8 itinerari suggeriti dall’ente del turismo e dall’esperienza dei viaggiatori. Strada dei vini alsaziani – Il percorso più famoso di circa 170 km che percorre il versante orientale dei Vosgi per passare in rassegna 51 località “A.O.C. Alsace Grand cru”, incontrando i produttori, degustare i loro vini, gironzolare per le vie dei borghi medievali e ammirare le vigne. Si parte da Marlenheim per giungere a Thann. I vini, famosi in tutto il mondo, sono ottenuti da un unico tipo di vite e identificati con
il nome del vitigno e del produttore. I più diffusi sono: Gewürztraminer (forti e aromatici con bouquet fruttato e speziato), Muscat d’Alsace (secchi dal vago aroma di agrumi), Pinot Blanc (freschi e armoniosi), Riesling (delicati con note fruttate e floreali), Sylvaner (freschi e leggeri), Tokay Pinot Gris (intensamente profumati con complesse note aromatiche). Strada del Reno – Il fascino del fiume Reno in circa 140 km a partire da Huningue per terminare a Lauterborg. I battellieri del XVIII e XIX secolo navigavano il fiume fino al Mare del Nord per commerciare in vino con inglesi, svedesi e danesi. Strada dei vasai, dei borghi pittoreschi e delle roccaforti – La strada si stende per circa 170 km su un territorio collinoso, con valloni e foreste, tra borghi, città termali e le roccaforti della Linea Maginot (complesso di fortificazioni, ostacoli anti-carro, postazioni di mitragliatrici, caserme e depositi di munizioni creati dal
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Governo francese tra il 1928 e il 1940 per proteggere i confini). Si potranno osservare le famose ceramiche grigie e blu nel museo di Betschdorf, e le botteghe artigiane di Soufflenheim dove nel XII secolo Barbarossa concesse la possibilità di estrarre gratuitamente l’argilla. Strada dei Vosgi del nord – Questo percorso di circa 210 km porta lungo le strade del Kocherberg, del Pays di Hanau, del Parco Naturale dei Vosgi del nord e nella zona detta “Alsace Bossue”. Lungo la strada si trovano fattorie, case e chiese in pietra, oltre all’immensa foresta. Inoltre numerosi siti del patrimonio ebraico e birraio alsaziano. Strada dei Vosgi centrali – Alture boschive e campi di stoppie, ampie vallate e passi montani che culminano con altezze tra 900 e 1100 metri in questa strada di circa 260 km. La zona è rinomata per lo sport: dalle passeggiate ed escursioni a piedi, a percorsi in mountain bike, sci alpino e sci nordico. Strada delle Cime – Si tratta di una strada storica di circa 80 km, creata durante la Prima Guerra Mondiale per assicurare approvvigionamenti e difesa del versante dei Vosgi. Si parte dal passo di Bonhomme al Vecchio Armand, passando per il passo dello Schlucht, il massiccio di Hohneck, il Markstein e il Grand Ballon. Strada verde – Questa strada, lunga circa 200 km, riunisce 15 comuni nel cuore del territorio, della cultura e della gastronomia dell’Alsazia.
Si parte da Contrexéville per Épinal, Gérardmet, Munster, Colmar, NeufBrisach e si termina in Germania a Titisee-Neustadt. Strada della carpa fritta – Creata nel 1975 per promuovere questa specialità culinaria, porta alla scoperta di valloni, frutteti, stagni ricchi di carpe e soprattutto borghi fioriti con le caratteristiche case a graticcio.
…in bicicletta, a cavallo e a piedi! La più fitta rete francese di piste ciclabili, con oltre 1300 km di itinerari, si trova in Alsazia. Per gli esperti di mountain bike è possibile affrontare la traversata del Massiccio dei Vosgi: un percorso di 420 km con un dislivello di 9000 metri in 14 tappe.
Il turismo equestre sta raccogliendo sempre più interesse. Negli ultimi anni in Alsazia sono stati organizzati degli itinerari a cavallo con percorsi di circa 20 km al giorno per godere della natura e dei paesaggi che difficilmente si possono raggiungere in auto. Molti i sentieri segnati per gli appassionati di camminate, sia individuali che di gruppo. A circa 20 km a ovest di Colmar è stato recentemente creato un sentiero particolare che si percorre a piedi scalzi per circa 1,2 km sul letto naturale della foresta, a contatto con diversi materiali che vanno da sabbia a ghiaia, da pietre a legno e cortecce e pigne d’abete. Per maggiori informazioni: www.sentier-pieds-nus-lac-blanc.com
Aneddoto Plan incliné de Saint-Louis-Arzviller
di Laura Gipponi – info@lauragipponi.com
In Francia c’è una rete di 7500 km di vie navigabili, e le chiuse fra queste sono oltre 1800. Le regioni in cui è maggiore la densità di questa rete sono l’Alsazia e la Lorena. Il canale Marna-Reno collega Strasburgo con Parigi attraversando parecchie zone montuose. Questo canale fu realizzato nella seconda metà del 1800 ma fino al 1969, anno in cui vide la messa in funzione il Piano Inclinato, le condizioni di navigazione in alcuni tratti del canale erano piuttosto difficoltose. Il punto più critico era proprio la tratta di Arzviller, in quanto il percorso di superamento del dislivello della zona montagnosa richiedeva il passaggio per 17 chiuse in un tratto di 4 chilometri, e obbligava quindi i battelli a complicate manovre che potevano durare una giornata intera. Ecco che con la realizzazione del Piano Inclinato, con una sola manovra e nel giro di pochi minuti, i battelli scendono da un’altezza di 45 metri e possono riprendere la navigazione alla base del dislivello. La caratteristica principale dell’opera è il solo utilizzo della forza di gravità, sfruttata per sollevare la vasca piena d’acqua dove caricare l’imbarcazione: contrappesi corredati di guide sono agganciati a tamburi girevoli per controbilanciare il carico. Quando contrappesi e carico hanno lo stesso peso, il meccanismo è in equilibrio, e dei motori poco potenti hanno la sola funzione di controllare accelerazione e frenata. Quando la vasca è in salita, il suo peso deve essere leggermente inferiore ai contrappesi per poter così salire, una volta sganciata, in modo naturale. Una volta raggiunta la stazione superiore, la vasca si arresta e, appena la chiusa si apre, le imbarcazioni entrano insieme all’acqua. Una volta sbloccata, il peso stesso la fa poi ridiscendere. Arrivata alla stazione inferiore, si apre la chiusa e, mentre viene rilasciata gradualmente l’acqua, i battelli entrano nel canale e proseguono il tragitto. Quindi si ricomincia il ciclo. Ho provato personalmente questa esperienza durante una gita in battello, e la cosa sorprendente — che non è purtroppo possibile sperimentare in Italia — è la facilità di spostamento tramite una rete di corsi d’acqua navigabili che è, dal punto di vista ambientalistico, davvero affascinante. E, proprio grazie a questo dispositivo, il passaggio da una diversa altezza del livello di navigazione avviene in modo velocissimo e addirittura divertente. L’aspetto matematico-scientifico molto interessante riguarda l’applicazione del Principio di Archimede, in quanto la massa della vasca non è influenzata dalla presenza e dalle dimensioni del battello.
NATURA - ALSAZIA
ALSAZIA di Diana Ghisolfi dianaghiso@gmail.com
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È la regione più piccola della Francia, circa 8.000 km2, e si trova al confine con la Germania. A est la pianura percorsa dal fiume Reno, a ovest la catena montuosa dei Vosgi in cui si erge il Grand Ballon (più di 1400 m di altezza) e a sud le colline con i vitigni.
CLIMA
Il clima alsaziano è semi-continentale e asciutto con delle forti escursioni. Inverni molto rigidi ed estati calde. La media di precipitazioni è bassa rispetto alle altre regioni, i microclimi delle città sono secchi.
FLORA
I parchi e i giardini dell’Alsazia sono molto vari, sono paesaggi naturali rilassanti, classici o contemporanei, bucolici o urbani. La regione conta 21 riserve naturali e due parchi naturali regionali. Uno è il parco naturale regionale dei Ballons des Vosges, costituito da montagne, valli, altipiani e aree riservate ai vigneti. Racchiude anche ambienti naturali rari, come i pascoli in alta quota, le torbiere, le abetaie, i boschi di querce e di faggi, i prati calcarei, i corsi d’acqua, i laghi e gli stagni. L’altro è il parco naturale regionale dei Vosgi del Nord. È caratterizzato da dolci pendenze e paesaggi disseminati di radure e stagni. Il bosco, che copre il 65% del territorio, ospita una fauna molto diversificata: è il posto giusto per incontrare caprioli, cervi, linci o cince nere. Questa straordinaria varietà è valsa al parco il raro titolo di “Riserva Mondiale della Biosfera”, attribuito dall’UNESCO, nonché il premio d’eccellenza del concorso Eden “Turismo e spazi protetti”. Il parco è attraversato da 1650 km di sentieri segnati, che consentono escursioni sia a piedi sia in bicicletta.
possono essere organizzati alla francese o all’inglese. Si tratta di spazi floreali, piccoli frutteti oppure piccoli orti e accolgono il visitatore con passeggiate improvvisate o spettacoli e mostre. Questi spazi botanici e artistici sono luoghi idilliaci, che costituiscono gradevoli isole verdi dove rilassarsi e giocare, ma anche sprofondarsi nella cultura.
PARCHI FAUNISTICI
Il parco della Montagna delle scimmie: 300 macachi su 24 ettari di foresta di pini. Il parco zoologico di Strasburgo: vegetazione esotica e locale, 1200 animali di 190 specie diverse. Il parco zoologico e botanico di Mulhouse: diverse specie di animali immerse in un polmone verde. La voliera delle aquile di Kintzheim: fra le rovine del castello medievale volano i più bei rapaci del mondo sopra le teste del pubblico. Il parco delle cicogne e delle lontre a Hunawihr: centro di reintroduzione di cicogne e lontre. Il giardino delle farfalle a Hunawihr: nella serra volano molte varietà di farfalle di ogni parte del mondo. Il parco acquario Le Naiadi: giardino botanico all’ingresso, e acquario all’interno I GIARDINI I giardini alsaziani aperti al pubblico dell’edificio.
ANIMALI - IL PASTORE ALSAZIANO
IL PASTORE ALSAZIANO 18
OVVERO IL PASTORE TEDESCO di Diana Ghisolfi dianaghiso@gmail.com
NOME
Non c’è alcuna differenza tra il pastore alsaziano e il pastore tedesco, tranne il nome. In Italia, fino a qualche anno fa, con il nome “pastore alsaziano” veniva erroneamente indicato il pastore tedesco dal pelo lungo. Gli standard del pastore tedesco sono stati riconosciuti ufficialmente il 28 luglio 1901. Di lì a poco, durante la prima guerra mondiale, Inghilterra e Francia hanno evitato tutti i nomi che potessero ricondurre alla Germania. Per questo motivo, il sentimento antigermanico ha portato a denominare il cane “pastore alsaziano”, facendo così riferimento all’Alsazia, zona di confine franco-tedesca. Altri nomi frequenti assegnati al pastore tedesco sono: cane lupo e cane poliziotto, il primo grazie alla somiglianza tra il cane e il lupo; e il secondo perché si tratta di un cane impiegato ad aiutare la polizia fin dai primi anni del Novecento.
CHI È Il
pastore
tedesco
appartiene
sottospecie Canis lupus familiaris, mammifero della famiglia dei Canidi. Secondo la FCI (Fédération cynologique internationale) il pastore tedesco rientra nel primo dei dieci gruppi di razze canine, quello che comprende i cani da pastore e i bovari.
COME È FATTO
È un cane robusto, ben proporzionato e muscoloso. L’altezza va dai 60 ai 65 cm per i maschi e dai 55 ai 60 per le femmine. Il peso massimo invece raggiunge i 40 kg per i maschi e 32 per le femmine. La testa è proporzionata e abbastanza ampia tra le orecchie, le quali sono di media grandezza, a punta, erette e rivolte in avanti. Gli occhi sono a mandorla, di colore scuro; e donano all’animale un’espressione intelligente e arguta. La dentatura è a forbice e comprende 20 denti nella mascella superiore e 22 in quella inferiore. Il collo è forte, muscoloso e di lunghezza media. Il petto è molto largo e la groppa è lunga e leggermente alla arcuata. Gli arti anteriori sono dritti,
ANIMALI - IL PASTORE ALSAZIANO
mentre quelli posteriori sono un po’ curvati. La coda è folta e presenta una lieve curvatura all’estremità. Il pelo è di lunghezza media e i colori sono: nero, beige, marrone, con a volte delle sfumature rosso-brune. Vengono distinti tre tipi di manto: a pelo duro e compatto, a pelo lungo e compatto e a pelo lungo. Il primo rappresenta lo standard: il pelo è fitto, liscio, ben aderente, ruvido e con abbondante sottopelo. Il secondo ha il pelo più lungo rispetto al primo tipo, poco aderente al corpo e presenta dei ciuffi dietro le orecchie, dietro le zampe e nella zona lombare. Il terzo tipo denota un pelo decisamente lungo, sul dorso si forma una riga, il sottopelo è assente. Quest’ultimo tipo di pastore tedesco presenta un petto stretto e un muso molto affusolato. In passato questi esemplari venivano esclusi dall’allevamento perché meno forti e resistenti.
DOVE SI TROVA
Originario della Germania, ma diffuso in tutto il mondo sviluppato.
COSA MANGIA
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Il pastore tedesco, come tutti i cani, è un animale carnivoro, diventato poi onnivoro a causa della convivenza con l’uomo. Principalmente la dieta comprende carne di manzo, cavallo, maiale e pollo.
RIPRODUZIONE
Quando il maschio raggiunge il secondo anno di età, e la femmina è già al terzo calore, significa che è arrivato
il momento dell’accoppiamento. Il pastore tedesco è un mammifero e una volta avvenuta la fecondazione, la femmina partorisce i cuccioli. La gravidanza dura dai 58 ai 63 giorni. La cagna incinta deve muoversi in continuazione e mangiare cibo poco voluminoso ma molto sostanzioso, evitando quindi un aumento di peso. Al momento del parto è bene che il padrone assista la cagna. All’avvicinarsi della data, la futura madre sceglie e prepara il luogo nel quale desidera partorire. Quando le doglie iniziano, la cagna dà segni di ansietà e compie movimenti irregolari a causa del dolore delle contrazioni. I cuccioli fuoriescono uno alla volta, la madre strappa con i denti la placenta e il cordone ombelicale. Tra la nascita di un cucciolo e l’altro intercorre un tempo di 15 minuti. Non esiste un numero preciso e standard di cuccioli partoriti, ma generalmente sono 6 o 8. L’allattamento è una fase molto importante per lo sviluppo dei cuccioli: non c’è alimento migliore del latte
materno. Se la madre non riesce ad allattare tutti i piccoli, è necessario trovare un’altra cagna che faccia da balia oppure utilizzare latte di altri animali mischiato al latte in polvere per cani. Dopo il latte, il cucciolo comincia ad essere svezzato con carne cruda tritata ma, se possibile, è bene mantenere il latte materno fino a due mesi. Dopo i due mesi bisogna sverminare e vaccinare i cuccioli.
CARATTERE
Il pastore tedesco rappresenta nell’immaginario collettivo il cane per eccellenza. È un ottimo cane da lavoro, da guardia e da compagnia — il suo grande pregio è difatti la versatilità. È impiegato nelle forze di polizia, nei
servizi di protezione civile e di soccorso, nell’esercito e come cane guida per i non vedenti. Il pastore tedesco è estremamente intelligente, molto devoto al suo padrone e coraggioso. Molto difficile che risulti nervoso e aggressivo, queste caratteristiche possono solo essere conseguenza di un pessimo allevamento. Capace di donare molto affetto e protezione, questo cane si dimostra docile e capace di affrontare qualsiasi situazione con grande spirito di adattamento. È un ottimo compagno anche per i bambini e gli altri animali domestici. Fin da cuccioli devono socializzare con gli altri animali e con il mondo esterno, perché hanno bisogno di essere stimolati per crescere e acquisire il carattere tipico della razza.
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I DUE “WALL STREET” DI OLIVER STONE: FRA CRITICA SOCIALE ALLA FINANZA E DINAMICHE VARIABILI TRA I PERSONAGGI
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di Raffaele d’Isa scrivi@raffaeledisa.it
Nel corso della sua ricca e articolata carriera di regista, Oliver Stone ha rappresentato in due occasioni il mondo della finanza: la prima nel 1987 con “Wall Street”, e la seconda con il sequel “Wall Street – Il denaro non dorme mai” del 2010. Stone aveva diretto e co-sceneggiato il primo film anche in memoria di suo padre, che fu agente di cambio proprio ai tempi del crollo della Borsa del 1929 e nei successivi anni della Grande Depressione. Nel sequel Stone si occupa invece della sola regia, affidando la sceneggiatura alla coppia di screenplayer Allan Loeb e Stephen Schiff. Ma la distanza tra i due film è enorme, non solo in termini di tempo trascorso fra la loro realizzazione. Si tratta a ben vedere di due opere profondamente diverse sul piano dei rispettivi obbiettivi artistici e comunicativi. Entrambe le pellicole hanno riscosso gran successo, anche se la prima viene generalmente considerata superiore alla seconda. E non può escludersi che questo giudizio dipenda soprattutto dalla prorompente figura del grande Michael Douglas nell’indimenticabile personaggio di Gordon Gekko, protagonista di entrambe le pellicole ma indiscusso centro di gravità solo nel film del 1987. Andiamo con ordine. Il “Wall Street” del 1987 è senz’altro un film che rende, a distanza di tempo, un efficace spaccato dell’America reaganiana degli anni ottanta. Lo fa rappresentando a tinte vivide il rampantismo di quegli anni attraverso la figura dello yuppie Bud Fox, interpretato da Charlie Sheen. Vendendo azioni al pubblico per conto di un broker, Fox sogna di diventare rapidamente ricco. Il suo modello è il leggendario Gordon Gekko (alias Michael Douglas), finanziere d’assalto ben noto per le sue spregiudicate scorribande azionarie che lo portano a lucrare ingenti profitti su pacchetti di azioni razziate a basso prezzo e poi lucrosamente rivendute alle più potenti
banche d’affari di Manhattan. Il contesto di quegli anni è rappresentato da Stone con efficacia quasi documentaristica; ma il film deve probabilmente il suo successo, oltre che alla bravura di tutti i principali protagonisti, all’impianto della trama e alla dialettica netta e precisa che si instaura fra i personaggi in gioco. Il film è sostanzialmente la storia di un giovane ambizioso, non privo di ingenuità caratteriali, che arde dal desiderio del successo economico. Bud Fox trova sulla sua strada un maestro, e ne diventa allievo. Ma questo rapporto, inizialmente alla base di una straordinaria rivoluzione nella carriera di Fox, si tradurrà alla fine in sofferenza personale e disfatta lavorativa. Fox perderà la sua fidanzata, innamorata di lui ma inestricabilmente attaccata al carrozzone di Gekko, e sarà cinicamente usato dal suo mentore fino a tradire la fiducia di suo padre, sindacalista della compagnia aerea scalata dal rampante Gekko. Il giovane yuppie si prenderà però la sua rivincita quando, inquisito
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dalla Security Exchange Commission per attività illecite sui mercati, finirà col collaborare con le autorità per incastrare il suo ex maestro. La trama si snoda oltretutto attraverso notevoli tecnicismi finanziari, ma lo spettatore è sempre mediamente in grado di intuire, se non proprio comprendere, gli svariati giochi della finanza che puntellano l’incedere dell’intreccio. Il sequel “Wall Street – Il denaro non dorme mai” potrebbe, a più di venti anni di distanza, aver deluso le aspettative di chi si immaginava una sorta di rifacimento del primo film. Questa volta Stone si concentra su di una regia più complessa, molto ben impegnata in rapide “narrazioni simultanee” oppure in notevoli affondi visivi dentro postazioni multimonitor, con tutto il sapore esoterico che grafici a candele o book di negoziazione possono contenere per spettatori non
addetti ai lavori ma, tutto sommato, ben disposti a farsi inebriare dalla digitalizzatissima finanza dei nostri giorni. Qui si coglie come Stone abbia davvero professionalmente studiato parecchio per aggiornarsi sui fantascientifici supporti tecnici di cui si avvale la finanza ventitré anni dopo il primo “Wall Street”. La vera novità sta nella trama. Il secondo film esordisce alla vigilia del crollo borsistico del 2008, all’epoca dei mutui subprime americani, e notevole è l’intento critico — quasi saggistico — del film allo scopo di informare-documentare lo spettatore. Un po’ perché lo stesso Gordon Gekko in questo secondo film è un protagonista non esattamente in prima linea come nel film antecedente. Dopo qualche anno di prigione per i misfatti raccontati nella prima pellicola, e dopo un rientro in tono minore nelle attività
finanziarie (adesso Gordon si dedica a un più quieto trading online domestico), Gekko pubblica un libro sulla finanza e comincia a venderlo con successo, divulgando così le sue critiche al sistema presente. Si profila un personaggio da guru, ancora in grado di affascinare con le sue battute, e forte del suo leggendario (anche se non sempre fortunato) passato; ma che vive adesso piuttosto defilato dal grosso giro, e anzi più o meno evitato dagli attuali protagonisti della scena finanziaria a Wall Street. Il protagonista “giovane” è in questo sequel Jacob “Jake” Moore (interpretato da Shia LaBeouf), che lavora per la grande banca d’affari Keller Zabel prossima a sua insaputa al fallimento. Il presidente di questa banca, e mentore di Jake, si suiciderà di lì a poco gettando il giovane allievo in uno stato di prostrazione. Jake è fidanzato con Winnie (interpretata da Carey Mulligan), la figlia di Gordon Gekko che ha chiuso i rapporti col padre ritenendolo colpevole della tossicodipendenza e della morte del fratello e, in generale, dell’intero disastro familiare dopo la condanna al carcere del padre. In questa situazione la trama si snoda piuttosto sorniona fra un progressivo avvicinamento fra Gordon Gekko e Jake che, conosciutisi per caso, finiscono col costruire un certo rapporto personale non privo di ambiguità da parte di Gekko. Ma anche la contrastata dinamica fra Gordon e sua figlia Winnie costituisce uno dei leitmotiv del film. Il vero antagonista di Jake è tuttavia un altro personaggio: Bretton James (interpretato da Josh Brolin), uomo di punta della banca d’affari Churchill Schwartz e spregiudicato finanziere abituato a vendere allo scoperto azioni di cui riesce ad assicurarsi poi un idoneo deprezzamento allo scopo di
riacquistarle in profitto. È Bretton James ad aver fatto fallire la banca di Jake e ad aver spinto al suicidio il suo anziano mentore Louis Zabel. Ed è ancora Bretton James che, in tempi più lontani, provocò la condanna a otto anni di carcere a carico di Gordon Gekko, circostanza che non risulta in maniera evidente dal primo film, ma che viene rivelata da Gordon a Jake nel corso del sequel. Il giovane Jake è quindi pronto a colpire Bretton ma, dopo avergli dato un saggio della sua capacità offensiva, decide di lavorare con lui per prendere tempo. Il rapporto non durerà a lungo. Jake è giovane ma esperto, e non ha bisogno di un nuovo mentore. Bretton gli offre, per di più, un ulteriore pretesto di vendetta ingannandolo su di una transazione in corso con dei clienti cinesi. Con i consigli di Gordon Gekko e l’abilità
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di Jake, il “cattivo” Bretton James ha i giorni contati, e finirà infatti in rovina accusato di turbative di mercato per il fallimento della banca Keller Zabel. Gordon ha intanto aiutato Jake a svincolare un patrimonio custodito in Svizzera, destinato a sua figlia Winnie. Quel denaro dovrà andare a realizzare il sogno di Jake di finanziare un’azienda impegnata nella ricerca di estrazione di energia pulita dagli oceani. Ma c’è l’inganno. Gordon non si smentisce e scappa col malloppo. Gekko il Grande rifornisce così il suo arsenale e si trasferisce a Londra per far ripartire la sua attività finanziaria ai più alti livelli. La delusione è tale da indurre Winnie a separarsi da Jake. Ma il film è a lieto fine. Dopo la sconfitta di Bretton James, Gordon si sente più buono. Restituisce il denaro (di cui ha intanto decuplicato il valore) a Winnie e la spinge a rappacificarsi con Jake. I due destinano la somma al finanziamento del progetto sull’energia pulita e si sposano festeggiando con un gran ricevimento nuziale in terrazza. Da non trascurare anche il personaggio di Sylvia, madre di Jake desiderosa invano di affrancarsi dal mestiere di infermiera per un’improbabile attività di agente immobiliare, interpretata da un’ironica ed elegante Susan Sarandon. C’è un vero abisso fra i due “Wall Street”. Il film del 1987 è tutto sommato una narrazione a dialettica forte fra due personaggi in un rapporto di complicità-rivalità: l’allievo e il maestro — anzi, il cattivo maestro — ed è da qui che sorgeranno i guai. Ma il rapporto fra pigmalione e pupillo
è dopotutto una faccenda vecchia quanto il mondo. Che Oliver Stone abbia contestualizzato questa vicenda nell’ambiente della finanza della New York di metà anni ottanta resta una circostanza alquanto accidentale. A parità di dinamiche fra Bud Fox e Gordon Gekko, il film avrebbe funzionato egregiamente anche utilizzando ambientazioni alternative, e perfino abbastanza distanti dal mondo della finanza. Al di là della dialettica Fox-Gekko, c’è ben poco. Certo, il giovane Bud si innamora di Daryl e i due si fidanzano. Ma lei è solo una pedina nel gran gioco di Gekko, e finirà col deludere Bud. Semmai è più degna di nota la dialettica fra Bud Fox e suo padre Carl. Curiosamente padre anche nella vita reale di Charlie Sheen, il Carl (Martin Sheen) padre di Bud svolge una funzione decisamente — e talvolta severamente — gnomica; una specie di “grillo parlante” che, da operaio-sindacalista, cerca di ricordare continuamente al figlio che la finanza non è vero e onesto lavoro, ma solo una fonte equivoca e instabile di arricchimento che prima o poi si rivolterà contro chi ne è allettato. Bud Fox resta un giovane ingenuo al quale il “mago” Gordon Gekko non può che schiudere da un vaso di Pandora tutte le meraviglie che un mondo stregato dalla finanza è in grado di offrirgli. E il gran fascino che Gekko ha esercitato sul pubblico nelle sale cinematografiche non è privo di sottili implicazioni psicologiche, dal momento che ogni spettatore del primo “Wall Street” ha segretamente ammirato con tutto se stesso il
personaggio dell’astuto finanziere. Nel “Wall Street” del 2010 il giovane protagonista Jake non ha nulla a che vedere con il suo predecessore Bud Fox. Jake è giovane, ma già abile ed esperto. Non ha bisogno di apprendistati, ed è già in grado di dimostrare al “cattivo” Bretton James di potergliele suonare. Jake ha inoltre uno spiccato senso etico, consapevole dei problemi del tempo in cui vive, e sensibile alla tematica delle nuove fonti di energia pulita. In “Wall Street – Il denaro non dorme mai” del 2010 è totalmente assente quella dialettica fra apprendista stregato e cattivo maestro che dominava assolutamente il primo film. Jake ha avuto sì un maestro (Louis Zabel interpretato da Frank Langella); ma è stato un buon maestro, suicidatosi poi a
causa del fallimento della sua banca. Con il rivale Bretton James, Jake gioca alla pari; senza complessi di inferiorità. E, d’altra parte, il Gordon Gekko del secondo film riveste un ruolo profondamente diverso da quello del primo. Nel film del 2010 Gordon non è un maestro per Jake. È certamente una leggenda vivente per i suoi trascorsi, ma il Gordon più anziano del secondo film è una figura apparentemente defilata, fuori dai grandi giochi; e più interessato a ricucire i suoi rapporti personali con la figlia Winnie, grazie proprio a Jake fidanzato con lei. A ben vedere nel secondo film non c’è una dialettica chiara e dominante fra i personaggi. I ruoli di ciascuno sono più complessi e sfumati rispetto al primo film, e forse nella seconda pellicola questa indeterminazione dei ruoli fa eco alla stessa indeterminazione del mondo della finanza, che non è buona o cattiva in sé; ma tutto dipende da come la si vive e la si usa. Lo dimostra proprio Jake, la cui massima ambizione professionale è quella di aiutare lo scienziato che lavora per la nuova fonte di energia pulita che lui intende finanziare. Perfino Gordon, intenerito alla fine del film, sarà determinante nel realizzare questo progetto. C’è però il personaggio di Bretton James a rappresentare la ricerca dei soldi per i soldi, senza altro scopo. La seconda pellicola è per certi aspetti più matura. Il gioco della trama reggerebbe perfino senza la presenza di Gordon Gekko, che qui non è così cruciale come nel primo film. Le dialettiche principali sono quella Jake-Bretton, protagonista e rivale oppure Jake-Winnie, coppia di fidanzati o ancora Gordon-Winnie, padre e figlia. Ma sono dialettiche meno stentoree rispetto al grande asse Gekko-Fox intorno al quale
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finiva per ruotare tutto il “Wall Street” del 1987. Ecco perché nel film del 2010 Gordon Gekko può muoversi più disinvoltamente. Disincantato dalle sconfitte, e con qualche anno in più, il vecchio Gekko dispensa consigli ai lettori del suo best seller, tiene conferenze e — dietro le quinte — muove qualche filo nella personale vicenda di Jake, cercando nel frattempo di riconquistare sua figlia Winnie. Gekko non è in fin dei conti un personaggio realmente strategico nell’economia del secondo film. Rimane la sensazione che uno come Jake ce l’avrebbe in fondo fatta anche da solo (con qualche ritocco alla sceneggiatura) a vincere la sua partita, e questo avrà forse deluso chi credeva di provare le stesse emozioni forti del “Wall Street” del 1987. La presenza di Gekko — grazie soprattutto a Michael Douglas che lo incarna — aleggia tuttavia sul film conferendo, di tanto in tanto, alla pellicola qualche eco del potere ipnotico che il personaggio sfoderava — con ben maggior potenza di fuoco — nel film del 1987. Come quando Gordon dichiara nel sequel che “non è il denaro ciò che più conta nella vita, ma il tempo che abbiamo a disposizione per viverla”. Per chi continuasse comunque a preferire inguaribilmente la prima pellicola alla seconda, resta a consolazione nel film del 2010 il cameo offerto da Charlie Sheen che riappare nelle vesti di Bud Fox, trattenendosi per qualche minuto a conversare col suo “vecchio maestro” Gordon durante un ricevimento. Col viso segnato da qualche ruga, e circondato da due belle donne,
ormai Bud Fox è cresciuto; e scivola senza rancori lo scambio di battute fra lui e Gordon. Dopo aver venduto la compagnia aerea Blue Star di cui era diventato presidente, adesso Bud è assai ricco e si dedica alla bella vita e alla filantropia. Da esperto magnate augura buona sorte a Gordon. La chiave per non dispiacersi del film più recente — per chi ha amato troppo il primo — sta forse proprio nel comprendere la differenza fra i due giovani protagonisti. L’ingenuo yuppie degli anni ‘80 allo sbaraglio Bud Fox, e il giovane ma maturo Jacob “Jake” Moore in possesso di un’indiscussa etica della finanza, sono quanto di più diverso si possa immaginare. Ed è proprio intorno alla differenza totale fra questi due personaggi chiave che la trama e la natura complessiva delle due pellicole si sviluppa su sentieri completamente diversi. Potrà essere più facile — ragionando così — accettare che Bud da un lato, e Jake dall’altra parte, abbiano avuto ognuno il Gordon Gekko che si meritavano.
TELEFILM - AQUARIUS
AQUARIUS
INCUBO VINTAGE
Tra le note di una canzone dei Doors e le luci di L.A. si fa largo la follia di Charles Manson. L’orrore ha inizio, la caccia è aperta. di Maria Solinas solinasmaria1989@gmail.com
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1967, Los Angeles: Stati Uniti d’America. Basta questa lapidaria introduzione per aprire la mente ad una miriade di suggestioni e collegamenti; per figurarsi un ben preciso modo di pensare e di vivere. Se poi però a questa indicazione si aggiunge un nome — un nome divenuto famoso per le sue firme di sangue — il tutto assume tinte che sfumano verso l’orrore e la paura. Il nome è Charles Milles Manson. Il 1967 è l’anno dell’album di esordio dei Doors, dei pantaloni di pelle di Jim Morrison e dell’apertura delle porte della percezione; è il periodo della
rivoluzione culturale e del Peace & Love, dei figli dei fiori e delle proteste contro la guerra del Vietnam. Questi sono gli anni in cui si apre un divario insanabile tra una generazione legata ad un passato difficile — quello della seconda guerra mondiale, ma anche quello di una ripresa economica sfolgorante e ricca di opportunità — e un presente ricco di contraddizioni, in cui i giovani non si rispecchiano più nelle tranquille vite di periferia costruite dai genitori: i giovani desiderano qualcosa di più, qualcosa di diverso. Negli anni sessanta il sogno americano abbandona il suo
percorso lineare e si biforca, si moltiplica; non presenta un unico, rassicurante volto dal sorriso bonario e ottimista. Talvolta il sogno americano si spinge verso angoli bui, diventando un incubo. Aquarius esplora l’incubo di quegli anni, che assume i tratti somatici e lo sguardo folle di uno dei serial killer più famosi d’America. A partire dal 28 maggio 2015 l’emittente televisiva NBC presenta al pubblico del piccolo schermo la serie tv, composta da tredici episodi. Protagonista principale è il sergente di polizia Sam Hodiak (David Duchovny, l’agente FBI Fox Mulder di X-Files), affiancato in servizio dal suo giovane partner Brian Shafe (Grey Damon). I due iniziano ad indagare sulla scomparsa di una sedicenne — Emma Karn (Emma Dumont), figlia di una exfidanzata di Hodiak — che sembra essere sparita nel nulla. Il nulla si rivela tuttavia essere il mondo degli hippy, con il quale l’agente Hodiak non ha niente a che fare. Durante le indagini il divario generazionale tra Hodiak e Shafe si fa sentire, ma i due riescono a gestire la situazione con professionalità e serietà; creando un legame lavorativo e umano forte, basato sul rispetto reciproco. La svolta nelle indagini avviene quando si scopre che la bella Emma è stata coinvolta in un gruppo di giovani, capitanato da un leader carismatico dallo sguardo ipnotico e dalle parole incantatrici: Charles Manson (Gethin Anthony, Renly Baratheon in Game of Thrones). L’agente Hodiak sottovaluta il potere di Manson, scambiandolo per l’ennesimo predicatore fricchettone, ma Manson non è soltanto un musicista legato alla cultura beatnik: Aquarius segue la “formazione” dell’assassino, dalle prime esperienze criminali fino all’omicidio di Sharon Tate (moglie e musa del regista Roman Polansky, massacrata nel 1969 all’ottavo
mese di gravidanza). Il binomio costituito dalla coppia Emma Karn-Charles Manson costituisce il nocciolo della storia: esso rappresenta la forza persuasiva e l’abilità manipolatrice di Manson il quale, lungi dall’essere un semplice criminale, è in grado di circondarsi di giovani donne e uomini apparentemente innocenti per poi convincerli a commettere azioni completamente al di fuori dagli schemi; azioni di una malvagità disarmante e apparentemente prive di motivazione logica. In un universo multicolore e multiforme, come in un gigantesco acquario, Charles Manson è il mostro, lo squalo dalle fauci insaziabili e dagli occhi senza emozione che, inseguito dall’arpione della giustizia, si incattivisce ulteriormente e mostra i denti. Ma anche il pesce più grosso, con pazienza e maestria, può essere messo all’angolo e pescato; e i tredici episodi di Aquarius tengono a lungo lo spettatore sul filo della lenza lanciata da Hodiak e Shafe.
LIBRI - FESTIVAL DELLA LETTERATURA DI VIAGGIO
FESTIVAL
DELLA LETTERATURA
DI VIAGGIO
Grande successo nel festival romano dello scorso settembre di Luca Romeo luca.rom90@yahoo.it
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Girare per i corridoi del Palazzetto Mattei e Giardini, nelle scorse settimane, è stato un po’ come viaggiare intorno al mondo. Meta preferita: il continente africano, forse l’area messa maggiormente sotto la lente d’ingrandimento (anche letteraria) negli ultimi anni, complici anche i massicci flussi migratori che dal sud del mondo stanno arrivando in Europa, Italia in primis. Questa è una delle tante premesse del Festival della Letteratura di Viaggio, l’evento
romano giunto all’ottava edizione e che si è svolto al palazzetto della capitale per tutto il mese di settembre. Giorni cruciali, quelli del fine settimana del 13 settembre, con il festival che è stato inaugurato venerdì 11, nel pomeriggio, con l’apertura di una delle tante mostre che l’hanno caratterizzato. Già, perché da queste parti, letteratura fa ancora rima con cultura, motivo per cui l’evento non si è limitato al solo mondo dei libri, ma ha accarezzato ogni ambito
dell’arte: dalla fotografia alla musica (con diversi concerti live), fino al disegno, l’antropologia e la geografia, passando per il giornalismo e la storia. Ha aperto i battenti l’esposizione «Africa, Italia», mostra fotografica, documentaria e multimediale a cui sono stati affiancati successivamente gli altri allestimenti: «A passage to Eritrea», «Crossing Ethiopia Today», «Libya - The Captain and me» e «Somalia time ago». Bastano i titoli, per capire quanto il tema delle migrazioni dal continente «nero» all’Italia sia stato al centro di ogni dibattito. Il festival, promosso dalla Società Geografica Italiana (tutte le info, anche delle edizioni precedenti, sono sul sito web), ha anche visto la consegna di tre importanti riconoscimenti letterari. Primo fra tutti, il premio Kapuscinski, dedicato al celebre scrittore e giornalista autore di alcuni importanti reportage tra cui «Ebano», diario di viaggio in Africa scritto nel 1998. Presente alla cerimonia anche la figlia dell’autore scomparso alcuni anni
fa, Rene Maisner — che ha premiato per i migliori reportage dell’anno lo scrittore scozzese William Dalrymple — , e il direttore di Internazionale Giovanni De Mauro. Gli altri premi legati al festival sono La Navicella d’Oro (per le opere letterarie sul tema del viaggio) e il «Bruno Boschin», per il laboratorio di scrittura e fotografia in viaggio. Tra gli ospiti speciali della rassegna, il direttore d’orchestra e compositore Nicola Piovani e il giornalista Fulvio Abbate. Finita qui? Macché: il Festival della Letteratura di viaggio non sarebbe potuto durare «solo» tre giorni. Ecco, dunque, concedersi in ben otto «bis» d’appendice. Gli incontri sono proseguiti lunedì 14 con un appuntamento letterario direttamente al carcere di Rebibbia, mentre l’ultimissimo incontro ravvicinato con i testi di viaggio si è tenuto al Palazzetto Mattei sabato 26 con lo scrittore svedese Bjorn Larsson che ha portato i suoi vichinghi del Nord Europa in mezzo alla città di Roma. Dall’Africa bollente alla Scandinavia ghiacciata. La letteratura di viaggio non ha confini.
MISTERO - LA GUERRA DEI MONDI
IL PROGRAMMA RADIO “LA GUERRA DEI MONDI” DI
ORSON WELLES
Fra calcolato esordio di un artista emergente e test sociologico dalla misteriosa committenza
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Sirigh Sakmussen compagniadelthe@gmail.com
Quando nell’estate del 1938 Orson Welles iniziò a collaborare con il network radiofonico CBS (Columbia Broadcasting System) assieme alla compagnia teatrale Mercury Theatre, il progetto in atto consisteva nel proporre la reinterpretazione di un certo numero di opere classiche e popolari nel corso del programma noto come “Mercury Theatre on the Air“. Teniamo presente che a quei tempi il ventitreenne Orson Welles non aveva dopotutto ancora trovato la direzione verso il grande successo che di lì a poco sarebbe arrivato. Durante i primi anni della Grande Depressione il giovane attore aveva infatti perfino tentato un’emigrazione “alla rovescia” recandosi prima in Irlanda e poi a Londra, ma optando alla metà degli anni ’30 per un rientro a New York. Il 30 ottobre 1938, la compagnia Mercury Theatre scelse un classico della fantascienza dello scrittore inglese Herbert George Wells “La guerra dei mondi” risalente al 1897. Il testo originale costituì in realtà la base per un adattamento, a cura dello sceneggiatore Howard Koch, che modificava e adeguava al contesto americano la stesura originaria. Quando alle 20:00 del 30 ottobre i programmi musicali dell’emittente furono interrotti, una voce cominciò ad annunciare con tono realistico che erano stati registrati alcuni insoliti avvistamenti sulla superficie del pianeta Marte. Con studiata intermittenza, le interruzioni si susseguirono con toni sempre più concitati, fino all’allarmata descrizione di un meteorite precipitato nell’area di New Jersey. Da qui, con un susseguirsi di finta cronaca e pseudo interviste, si arrivò alla disperata radiocronaca di una vera e propria disfatta militare ad opera di mostruosi marziani, scaturiti da strutture cilindriche precipitate a terra, contro le inermi forze di polizia e della Guardia
Nazionale. Un’ondata di panico sommerse la popolazione dell’intera area, con fughe dalle abitazioni, disperate corse in chiesa o caotico abbandono delle città, incidenti fisici per la fretta disordinata, distruzione e danneggiamenti per milioni di dollari e diversi morti a seguito di danni o per suicidio. Una reazione incontrollata e davvero imprevedibile. Superato lo shock dell’accaduto, non si riuscì tuttavia a trovare altra soluzione che addebitare quelle sciagurate conseguenze all’irrazionalità delle masse. La CBS poté infatti diligentemente dimostrare di aver fornito in anticipo tutti i necessari avvisi circa la natura fittizia della radiocronaca costruita sì con realismo, ma della cui natura teatrale si era data ampia pubblicità preventiva. Resta il fatto che Orson Welles — descritto come entusiasta dell’”inganno” via via che arrivavano in radio le sconcertanti notizie durante la trasmissione, ma pronto a dichiarare il
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giorno dopo di non averne minimamente immaginato gli effetti nefasti — diede una svolta alla propria carriera proprio a partire dalla messa in onda di questa memorabile “Guerra dei mondi” in diretta nell’autunno di quel 1938. Avvenne infatti di lì a poco l’ingresso dell’attore e regista nell’Olimpo di Hollywood e il decollo verso la sua fortunata e lunga carriera cinematografica. Si possono così addebitare alla credulona e irrazionale società americana degli anni trenta tutti i costi di quell’operazione? La domanda viene generalmente liquidata con uno scontato sì. Ma si dimentica spesso che il format di quella trasmissione radiofonica è stato più volte replicato a distanza di anni e di luoghi geografici, determinando sostanzialmente le stesse reazioni. Tra le molteplici repliche, basterà ricordare quella di Quito in Ecuador nel 1949, seguita da disordini e morti; o quella della radio nazionale lusitana “Antena 3” in Portogallo in occasione del sessantesimo anniversario della
“prima”, la sera del 31 ottobre 1998. Anche in questo caso la notizia dello sbarco di un’astronave extraterrestre, 35 km a sud di Lisbona, generò scene di panico e numerosi ricoveri ospedalieri. Non è possibile quindi imputare agli sfortunati radioascoltatori di Orson Welles un maggior grado di ingenuità rispetto alle generazioni successive, che in tempi e luoghi diversi si sono comportate pressappoco alla stesso modo. L’interpretazione dei fatti del 1938 come un geniale tentativo — poi effettivamente riuscito — di farsi pubblicità, da parte di un artista emergente, è una risposta senz’altro adeguata e relativamente rassicurante ma, a ben vedere, qualche perplessità permane. In tempi non vicini, quando non era ancora nata la disciplina dell’esoplanetologia mirante a scoprire e mappare pianeti al di fuori del sistema solare, l’idea di “mondi alieni” si riduceva per la società a cavallo fra XIX e XX secolo al solo pianeta Marte. La teoria dei “canali di Marte” seguita alle osservazioni
dell’astronomo italiano Schiapparelli faceva già da decenni del pianeta rosso una sorta di gemello della Terra. E non poteva che immaginarsi lassù una presenza di vita intelligente superiore in grado di contattare la Terra a suo piacimento. Per la società degli anni trenta nei marziani si identificavano quindi gli Extraterrestri tout court. Abbiamo discusso nel numero di settembre di una strategia di monitoraggio di un pianeta abitato da Esseri intelligenti “primitivi”, come la Terra, da parte di altri Esseri dall’intelligenza di gran lunga superiore. Capaci di attraversare spazi interstellari o addirittura intergalattici per la conoscenza di leggi fisiche — e il possesso delle conseguenti tecnologie — a noi del tutto ignote, questi Fratelli maggiori dello spazio si limiterebbero tuttavia ad osservarci da tempo immemorabile, da quando cioè sono stati intravisti e raccontati da un’umanità ancora più remota quali divinità dei miti delle civiltà più antiche. Abbiamo a settembre anche discusso dei motivi per i quali non sarebbe consigliabile agli ipotizzabili Extraterrestri rivelarsi all’umanità: i troppi rischi di creare uno
shock culturale suggerirebbero invece di offrire solo “campioni” di contatto a singoli destinatari o a piccoli gruppi di Terrestri; ma sempre senza fornire prove certe e incontrovertibili della cosiddetta presenza aliena. Sappiamo anche che i poteri che governano il mondo, annidati innanzitutto nella classe dirigente U.S.A., sono probabilmente al corrente dell’esistenza degli Extraterrestri; e fanno da decenni un’azione di contenimento volta ad evitare — o a ritardare più a lungo possibile — il momento del temuto contatto esplicito di massa. A questi poteri fa quindi comodo o scongiurare il contatto oppure “organizzarsi” per la malaugurata ipotesi nella quale gli Extraterrestri, fino ad oggi solo osservatori della Terra dietro le quinte, decidessero di rivelarsi in maniera massiva ed esplicita. Per non subire radicali azioni destabilizzanti, i poteri forti — facenti capo all’industria petrolifera, farmacologica, bellica e all’alta finanza — cercano da sempre di impostare il problema del contatto in termini militari, in termini cioè di difesa armata del territorio terrestre. In quest’ordine di idee, la stessa cinematografia — e i mass media più in
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generale — risulterebbero arruolati allo scopo. L’impostazione militare del problema extraterrestre, tangibile anche dai documentari televisivi che più volte alla settimana tempestano di stati d’ansia le abitazioni civili in tutto il mondo, consente ai poteri forti di radicare nella popolazione mondiale più una sensazione di diffuso timore verso gli Extraterrestri che un senso di attesa positiva del contatto con loro. E ciò costituisce anche il sistema che renderà possibile perfino conservare parte del potere dopo un’eventuale rivelazione di massa. Ma l’aspetto più rilevante, a breve termine, è costituito dal poter dimensionare gli stanziamenti di spesa pubblica per il settore militare a livelli medio alti proprio per un ostentato rischio di “guerre stellari”
che la Terra potrebbe correre in un futuro prossimo. La tendenza a rappresentare gli Extraterrestri come “brutti, sporchi e cattivi” risulta quindi un’operazione ben calcolata ai nostri giorni, se pensiamo ad espressioni cinematografiche di stagioni in fondo non troppo lontane come “The Independence Day” o come il più recente “La guerra dei mondi” secondo Spielberg in cui proprio il regista che un tempo diresse il messianico “Incontri ravvicinati del terzo tipo” o il favolistico “ET” — che rappresentavano gli Extraterrestri in termini tutto sommato rassicuranti — finisce poi con il rendersi complice di questa visione strumentale degli Alieni quali nemici della Terra sul piano strettamente militare. Come si spiega un simile rovesciamento di fronte da
parte di uno Spielberg? Ai tempi della guerra fredda con l’U.R.S.S. le giustificazioni per mantenere alto il budget militare americano erano piuttosto facili da individuare, e si poteva quindi anche indulgere in una rappresentazione più delicata degli Extraterrestri. A ben pensare, nel 1938 — e cioè ben prima della guerra fredda — chissà perché la trasmissione di Welles aveva toccato nettamente il tasto del marziano (= alieno) come di un nemico in guerra. Che dietro Welles si fosse mossa un’azione più sottile e concertata per inculcare nell’immaginario collettivo una sensazione di sgradevole diffidenza/paura nei confronti del contatto Extraterrestre? Se si tengono presenti le considerazioni da noi svolte nel numero di settembre, questa possibilità rischia di risultare molto meno aleatoria di quanto si potrebbe sospettare. Ma c’è anche un’altra possibilità. Se Orson Welles fu ai tempi della sua “Guerra dei mondi” uno strumento più o meno consapevole di una committenza che intendeva testare determinate reazioni sulla popolazione civile, tale committenza potrebbe anche non identificarsi in via esclusiva con organismi militari e/o di intelligence riconducibili ai poteri forti che reggono, allora come oggi, la classe dirigente americana. Il test potrebbe in fin dei conti essere stato “commissionato” o, per meglio dire, suscitato proprio da ipotetiche invisibili presenze Extraterrestri. Ma quali sarebbero gli esiti utili di questo test per una civiltà superiore e non terrestre che ci starebbe osservando? “I Terrestri non hanno minimamente dubitato che uno sbarco di “marziani” costituisse un vero e proprio atto di guerra. Nessun terrestre ha contato fino a dieci per darsi
la possibilità di concludere che non poteva essere possibile; che Esseri superiori non potrebbero più pensare e agire secondo i loro codici primitivi della guerra. I Terrestri hanno creduto a ciò in cui già credevano prima di averne la prova: che Noi, gli Extraterrestri, siamo Esseri ostili da ricacciare indietro. Non è ancora giunto il tempo per una nostra rivelazione”. Siamo ovviamente solo nel campo di una calcolata ipotesi ma, a pensarci bene, se degli Esseri intelligenti e di gran lunga superiori a noi — dal campo tecnologico fino a quello etico — ci stessero osservando e monitorando, c’è perfino da scommettere che prima o poi possano offendersi davvero a morte per la nostra ostinata tendenza a rappresentarli come dei sanguinari guerrafondai e conquistatori galattici.
STORIA - CROLLO DI WALL STREET OTTOBRE 1929
DINAMICHE DELLA SPECULAZIONE AZIONARIA DI MASSA NEL CROLLO DI WALL STREET DELL’ OTTOBRE 1929 di Raffaele d’Isa scrivi@raffaeledisa.it
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Anche in tempi odierni di ipertrofia della finanza globale — che dall’inizio del secolo ha già prodotto i due crolli azionari del 2001 e del 2008 — il crollo borsistico più mitico nell’immaginario collettivo resta quello del 1929 a Wall Street. Il motivo sta probabilmente nel fatto che — mai più come all’epoca — si è riaffermata nella società civile di un Paese a finanza evoluta l’idea della giustezza, e perfino dell’assoluta naturalezza, di un arricchimento senza limiti riservato praticamente a tutti. Anche oggi certamente si
specula, e si vince o si perde; ma dopotutto si sa che la finanza è un mare denso di pericoli. Circolano infatti degli strumenti informativi relativamente validi ad accrescere la cultura finanziaria del cittadino medio, e senz’altro la tecnologia digitale — che ha consentito anche la nascita e lo sviluppo di una finanza personale sotto le specie dell’home trading — ci ha messo del suo nello stemperare certe punte di ingenuità nell’investitore o nello speculatore fai-da-te. Il 1929 fu però un’altra storia; e
per comprenderne le diverse sfumature, impossibili da cogliere senza una corretta prospettiva storica, bisognerebbe tornare — almeno a volo d’uccello — in quei “ruggenti anni ‘20” che precedettero il crollo con il loro ottimismo vitalistico, con la loro irresistibile miscela di edonismo ed euforia. Gli eventi del mondo finanziario appaiono in genere come grandi fenomenologie illusionistiche, ma sono in realtà preceduti da precisi fatti che si manifestano nel mondo dell’economia reale — costituendone cause più o meno remote — e sono seguiti da effetti spesso devastanti che si manifestano con reazione a catena ancora nella dimensione economica percepibile dal cittadino comune sotto le specie di salari, occupazione, tasse, inflazione/deflazione e così via. In quest’ordine di idee è infatti noto più o meno a tutti che diretta conseguenza del crollo di Wall Street del 1929 fu la Grande Depressione degli anni ’30, dalla quale si riuscì ad emergere lentamente, e con gran fatica, nel corso di quel decennio
grazie alle politiche del New Deal varate dall’Amministrazione Roosevelt, in ossequio alla teoria economica di J. M. Keynes. Comportamenti simili — tendenti a favorire la crescita della domanda di mercato mediante enormi interventi con investimenti pubblici — non erano mai stati tenuti in precedenza dai governi dei Paesi ad economia di mercato. Le politiche americane furono imitate anche nel resto del mondo, ma fu solo con l’avvento della Seconda Guerra Mondiale che ogni strascico di crisi fu definitivamente superato. Come poté un crollo di borsa nel ’29 realizzare un simile disastro? Occorre davvero tornare ai festaioli anni ’20 di un’America un po’ isolazionista per comprenderne la genesi. Durante gli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale stava nascendo negli Stati Uniti la società di massa ad elevato livello di consumi. Le industrie degli elettrodomestici, dell’automobile, della radio — e di tanti altri beni di consumo che dettano lo statuto di una prima
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embrionale società del benessere — spingevano in quegli anni al massimo i propri livelli produttivi. E, dal momento che durante tutti gli anni ’20 il livello dei salari rimase piuttosto costante, quelle industrie accrebbero progressivamente i propri profitti. Il sistema del pagamento rateale con il celebre slogan “compri oggi, paghi domani” era proprio in quegli anni una delle più straordinarie novità, capace di assicurare a strati sociali via via più bassi l’accesso ad un livello di benessere impensabile solo pochi anni prima. La Federal Reserve Bank (la banca centrale americana) teneva per di più i tassi di interesse ad un livello relativamente basso (per quei tempi). Ne derivò un clima di denaro facile che alimentava i consumi e gli investimenti, che a loro volta incentivavano nuovi consumi. Di questo passo, verso la metà degli anni ’20 questi grandi mercati di nuovi beni di consumo avevano già raggiunto un’avanzata fase di maturazione, con livelli produttivi che cominciavano a dare segnali di qualche difficoltà di assorbimento da parte della domanda. L’abbondante liquidità sul mercato cominciò di conseguenza a debordare sempre più nella speculazione borsistica: dal momento che cominciava a diventare meno conveniente far crescere gli investimenti reali costruendo nuovi stabilimenti e assumendo nuovo personale, tanto valeva acquistare azioni che tendevano comunque al rialzo, dato l’inguaribile ottimismo dell’epoca. Ed è così che inizia a lievitare, a partire dal 1926, una bolla speculativa. Ma in un primo
momento la crescita del mercato azionario fu prevalentemente spinta dalla volontà del grande pubblico di investire i propri risparmi in azioni che distribuivano ricchi dividendi, oltre a crescere progressivamente di valore. La qual cosa favoriva pure aumenti di capitale da parte delle società quotate, che potevano così reperire in borsa sempre maggiori mezzi finanziari. La vera svolta nel rigonfiamento della bolla speculativa si ebbe a partire dal 1928, quando davvero chiunque cominciò ad acquistare azioni: il lattaio, il calzolaio, l’operaio, il cameriere, e tante altre figure appartenenti a un mondo del lavoro a basso salario, cominciarono a comprare azioni realizzando inattesi guadagni. La classe politica di allora, a partire dal Presidente repubblicano Coolidge, non si risparmiava nel sottolineare la perfezione del sistema americano che poteva consentire a chiunque — grazie a una sincera professione di ottimismo verso le sorti economiche del Paese — di esercitare concretamente un vero e proprio “diritto alla ricchezza”. Ma, al di là delle chiacchiere, come fu possibile che “l’uomo della strada” americano degli anni ’20 potesse d’un tratto sentirsi “in affari” come investitore e perfino come speculatore sul mercato azionario di Wall Street? La cosa fu possibile grazie a un “trucco” ideato e realizzato dalle banche americane dell’epoca. Nel biennio di massima speculazione che precedette il crollo dell’ottobre 1929, le banche iniziarono a finanziare con l’ingente liquidità di denaro a loro disposizione, la speculazione
azionaria di massa. Un piccolo investitore poteva acquistare, ad esempio, un lotto di 10.000 dollari di azioni, versando un margine di soli 1000 dollari o anche meno a garanzia dell’acquisto: una sorta di caparra. La differenza, nel costo reale dell’operazione, veniva finanziata dalla banca a un tasso di interesse che oscillò nel biennio 1928-1929 dal 6 al 12%, su denaro che costava alle banche stesse un interesse del 4-5% concesso loro dalla Federal Reserve Bank: un vero affare per il sistema bancario americano. E, a queste condizioni, i lavoratori potevano accedere alla borsa pressoché a qualunque condizione di livello del loro salario, anche il più infimo. Il denaro chiesto loro per il margine da anticipare alla banca era infatti alla portata di molti; ma non bisogna dimenticare che si trattava comunque, in diversi casi, dei risparmi di una vita. L’abbaglio consistette proprio nell’idea di investire queste piccole cifre per moltiplicarne facilmente l’importo e garantirsi così un futuro pensionistico di gran lunga più agiato, nonché un patrimonio per migliorare le prospettive dei propri figli. Questo meccanismo, noto come “leva finanziaria” consente in altri termini di muovere molto denaro con quel poco che si ha in tasca. Le conseguenze più dirette di questa leva consistono in un’amplificazione dei profitti da speculazione, che sono rapportati non al margine consegnato in garanzia alla banca, ma all’investimento complessivo per il quale ci si è in gran parte indebitati. È piuttosto semplice comprendere a questo punto che, in una fase di marcata tendenza al rialzo dei corsi azionari, la leva finanziaria può consentire guadagni enormi. Ma è anche vero che, se il mercato finisce col girarsi dalla parte
opposta, si può aprire con la stessa velocità un vero e proprio baratro sotto i piedi dell’improvvisato speculatore. Nel corso del 1929 cominciarono a manifestarsi delle prime avvisaglie di un mercato azionario ormai maturo, con una divaricazione troppo alta fra andamento borsistico dei prezzi delle azioni e il loro valore reale, effettivamente basato sugli utili aziendali. Nella primavera del 1929 c’era stato un primo smottamento al ribasso della borsa, ma la successiva estate fu caldissima, tanto al mare quanto a Wall Street; e perfino rinomati astrologi celebravano in quei mesi le inesauribili sorti del mercato azionario americano. Quando invece il 24 ottobre (il giovedì nero) arrivò il primo pesante scossone, si capì che qualcosa si era inceppato. Le principali banche coinvolte nei finanziamenti facili agli speculatori dell’ultim’ora cercarono di contrastare
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gli eccessi di vendita sui titoli nei giorni successivi; ma il 29 ottobre (il martedì nero) il crollo ebbe un ulteriore inesorabile affondo, e il mercato si trasformò quel giorno da toro in orso per lunghi anni, fino al 1932: una crisi senza eguali. Tutti i piccoli speculatori travolti dall’euforia del biennio precedente il crollo, si trovarono coinvolti proprio nelle giornate di fine ottobre nella spiacevole circostanza della “chiamata di margine”. Le banche finanziatrici segnalavano cioè con telegramma (l’sms dell’epoca) ai propri clienti che le perdite avevano eroso i margini già versati, e che era necessario incrementarne il livello per non essere costretti a chiudere le posizioni accusando ingenti perdite. È così che funziona la “leva finanziaria”, ed è così che le banche più coinvolte, come la National City Bank di Charles Mitchell e la J.P. Morgan, cercarono inutilmente di sostenere il prezzo delle azioni in caduta libera, oltre a intervenire esse stesse con acquisti disperati. La massa dei neo speculatori finì invece sul lastrico, impossibilitata a integrare i margini per mancanza di ulteriori risorse. Ma anche chi fu capace di integrarli riuscì solo a perdere cifre ancora più grandi. Fu la fine di un’epoca e la fine di un sogno. La disoccupazione in America si moltiplicò negli anni successivi di quasi quindici volte a causa dell’impoverimento generale della popolazione i cui
risparmi finirono bruciati dal crollo della borsa, della conseguente contrazione della domanda su tutti i mercati di beni reali, e del fallimento delle aziende che senza quella domanda videro pregiudicata la propria redditività, con le banche finanziatrici che pure fallirono non vedendosi più restituire i prestiti precedentemente erogati. Senza contare la propagazione della crisi a quasi tutto il resto del mondo a causa dell’elevata interazione del commercio internazionale, che già all’epoca era piuttosto significativa. Potrà accadere qualcosa di simile anche ai nostri giorni? L’investitore medio è sicuramente meno ingenuo attualmente; e il poderoso sviluppo di una disciplina come la finanza comportamentale può offrire anche dei percorsi di educazione finanziaria, auspicabili a vantaggio della prima formazione del cittadino, probabilmente non meno della tradizionale educazione civica. Resta tuttavia il fatto che il mondo della finanza ha il potere di mettere l’uomo davanti alle declinazioni più primordiali e viscerali del proprio essere. Lo speculatore finisce, dopotutto, con l’oscillare sempre fra due stati d’animo prevalenti: l’avidità e la paura. E, fin quando non si faranno i conti con le vere radici di queste due condizioni psichiche, entrare nel mondo della finanza resterà — oggi come allora — qualcosa di simile al camminare su di un campo minato.
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MUSICA - 30 ANNI DOPO LA RIVOLUZIONE
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1985: 30 ANNI DOPO LA “PICCOLA” RIVOLUZIONE di Gianmarco Soldi gianmarcosoldi@gmail.com
Si sa, spesso i mutamenti strutturali all’interno di sistemi complessi si notano solamente col senno di poi, osservando a posteriori l’andamento degli eventi e la conseguente influenza che essi hanno avuto nei periodi successivi. Proprio per questo, all’inizio del 1985 non si percepiva forse così nitidamente l’aria di cambiamento che di lì a poco avrebbe investito il mercato musicale mondiale, stravolgendone completamente i connotati. Trent’anni dopo, raccogliamo i frutti di quella piccola rivoluzione che dagli scantinati di Londra agli studios della West Coast sovvertì definitivamente i canoni della musica di ieri per presentarci l’archetipo dell’odierno prodotto musicale. Si tratta ovviamente di un insieme di processi lenti e strettamente legati ai mutamenti culturali che hanno segnato la cosiddetta decade d’oro degli anni Ottanta: nuovi stili di vita e gusti provenienti dall’America ormai uscita dal periodo più rovente della Guerra Fredda,
una maggiore internazionalizzazione del mercato musicale rispetto ai decenni precedenti — a tutti gli effetti dominati dalle sole produzioni inglesi — e un impiego sempre più massiccio della tecnologia a livello di produzione, mixaggio e mastering. Il sound della seconda parte degli anni Ottanta è infatti caratterizzato da trame compositive inedite e da un gusto decisamente digitale, tramite l’utilizzo di sintetizzatori, espander e campionatori considerati solamente pochi anni prima quasi strumenti fantascientifici. Basti pensare che risale proprio all’inizio degli Eighties la commercializzazione del primo cd musicale, The visitors degli Abba, destinato ad entrare nella storia e a segnare definitivamente il declino del vinile in favore del laser. Il benessere economico, unito all’impatto della cultura americana sul resto del mondo, portò ad un epocale cambiamento dell’approccio alla musica rispetto agli anni Settanta: una ventata di frivola
MUSICA - 30 ANNI DOPO LA RIVOLUZIONE
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leggerezza investì le trasmissioni musicali e gli album in commercio, spogliando le produzioni della militante seriosità che aveva contraddistinto il rock d’oltremanica. Mentre, accompagnandosi al fenomeno dell’ipersegmentazione commerciale, anche la musica cominciò ad evidenziare la prima vera distinzione tra mercato mainstream e underground. Nuove tendenze, nuovi generi e gusti si presentarono ad un pubblico totalmente inedito di ascoltatori: mentre da un lato il predominio di Mtv investiva la masse al ritmo dei videoclip di Madonna, Duran Duran e Whitney Houston, un numero sempre più crescente di giovani andava nutrendo le fila del movimento underground e del neonato Hip Hop. Della metà degli anni Ottanta, e in particolare del 1985, sono gli esordi e gli esperimenti più riusciti di artisti eclettici fuoriusciti da storiche formazioni per dedicarsi alla carriera solista. Ne sono un esempio Sting, lanciato come solista proprio nel 1985 con The dream of the blue turtles dopo l’esperienza nei Police, e gli ex Genesis Phil Collins e Peter Gabriel, quest’ultimo impegnato nella registrazione del suo più famoso album solista, So (1986). Il digitale e le rivoluzionarie tecniche di registrazione portarono ad un rinnovato
concetto di discomusic e pop, generi rappresentati da formazioni iconiche come Eurythmics, Depeche Mode e A-Ha (del 1985 è la loro pietra miliare Take on me); mentre dall’altro lato del mercato imperversava la New Wave con Talking Heads, Blondie, Talk Talk e The Replacement (uno dei loro più apprezzati dischi, Tim, è datato 1985). L’onda di cambiamento portò alla nascita di inedite commistioni tra generi e persino alla riscoperta di sonorità abbandonate da anni. Del 1985 sono infatti Misplaced Childhood dei Marillion, manifesto nel neo-progressive, Steve McQueen dei Prefab Sprout e Songs from the big chair del duo Tears For Fears, perle di rara finezza acclamate dal grande pubblico, ma anche dalle nicchie disancorate dal pop video-radiofonico targato Mtv. Del 1985 si ricordano anche ottimi lavori di artisti introspettivi e spesso discontinui: Meat is murder dei The
Smiths, Rain Dogs di Tom Waits e il compatto e piacevole The head on the door dei Cure. Lo stesso cambiamento avvenne in Italia, con i primi lavori di Litfiba (Desaparecido) e i tormentoni di Eros Ramazzotti (Cuori agitati) e Luis Miguel (Noi ragazzi di oggi), artisti destinati a dominare la scena pop rock nel decennio successivo. A partire da questi anni sono state infatti gettate le basi per il grunge e il rock anni Novanta, come logica evoluzione delle sonorità post punk di stampo Eighties, anche se più scevra di orpelli e abbellimenti baroccheggianti. Oggi si sta forse vivendo a trent’anni di distanza un cambiamento simile, anche se forse più consapevole: l’elettronica ha acquisito nell’ultimo lustro una rinnovata importanza, oltre ad essere stata abbinata a generi precedentemente lontani per sonorità e pubblico; e la tecnologia riveste un ruolo sempre più fondamentale non solo nella produzione musicale, ma anche nella distribuzione e
nel marketing di settore. Genere mainstream e underground non sono d’altra parte mai stati così agli antipodi come oggi, con il primo divenuto vero monopolizzatore di tv e radio e il secondo sempre più spinto in nicchie di mercato ogni giorno più strette, supportate solamente dalla tenacia di fanbase e case discografiche indipendenti. Eppure, molti artisti emergenti (basti pensare a James Blake, Bon Iver, Fyfe e Asgèir) stanno riavvicinando i due volti dello stesso mercato attraverso l’impiego di tecnologie, influenze elettroniche e soluzioni stilistiche che palesemente strizzano l’occhio agli anni Ottanta. Un movimento che dall’underground si sta spingendo poco a poco verso il mainstream, acquisendo notorietà e sempre maggiori apprezzamenti. Seppur in Italia questa nuova tendenza sia ancora pressoché nulla, che il 2015 possa dimostrarsi una riproposizione inversa del 1985?
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MODA - BARBIE
BARBIE
UN’ICONA CHE DAL SECOLO SCORSO CI RACCONTA LA DONNA E IL NOSTRO MONDO 52
di Valentina Viollat shoppingamoremio@gmail.com
“Il suo vero nome è Barbara Millicent Robert, ma per tutti è solo Barbie. Definirla una bambola sarebbe riduttivo. Barbie è un’icona globale, che in 56 anni di vita è riuscita ad abbattere ogni frontiera linguistica, culturale, sociale, antropologica. Per questo motivo il Museo delle Culture di Milano – Mudec – le dedica una mostra, curata da Massimiliano Capella, dal titolo Barbie. The Icon.” Inizia così la presentazione di una delle esposizioni d’autunno più attese nella capitale italiana del fashion system. Con questo evento Barbie torna a far parlare di sé. Ne avevamo già parlato anche noi, nel numero 13 de La Pausa, in occasione del suo cinquantacinquesimo compleanno, celebrando, insieme a moltissimi altri, il suo fascino senza tempo. Oggi cogliamo l’occasione per riflettere sul suo recente cambiamento d’immagine e ripercorrere la sua parabola di successo. Barbie, con il suo appeal di giovane donna in fiore, fece il suo ingresso da debuttante in società il 9 marzo del 1959 e dunque è facile immaginare quanti anni possa avere oggi. Non ne dimostra nessuno, non è invecchiata di un solo giorno. Non solo perché per prima ha intuito che un volto di plastica è l’unica chiave del successo in un mondo basato sull’immagine, ma anche perché ha saputo mantenere uno spirito giovane e modernissimo, attento a cogliere i cambiamenti sociali e le sfumature dell’immaginario collettivo. Prova ne è il suo account Instagram, @Barbiestyle, che conta ben 960k (novecentosessantamila) seguaci. Un account dove si mostra in tutto il suo splendore, con amiche e amici, tutti accomunati da uno stile impeccabile, fashionisti dal primo all’ultimo, make up e acconciature sempre perfetti. D’altra parte Barbie è sempre stata amata e coccolata dagli stilisti, che per lei spesso hanno disegnato abiti in esclusiva: Yves
Saint Laurent, Balenciaga Prada, Oscar de la Renta, Givenchy, per citarne alcuni. La bambola più famosa del mondo è un’icona di moda da record: negli anni ha indossato un miliardo di abiti, confezionati con 980 milioni di metri di stoffa. Nel 2009, in occasione del suo cinquantesimo compleanno, 50 stilisti provenienti da tutto il mondo l’hanno festeggiata dedicandole una creazione esclusiva su misura e il mitico shoe designer Christian Louboutin ha disegnato un paio di stiletti rosa solo per lei. Che Barbie cavalchi l’onda dei social media per diventare oggi più famosa che mai non sorprende, dato che ci ha abituati a un’intraprendenza eccezionale. Instancabile, ha abbracciato le più diverse attività e infiniti mestieri: è sbarcata sulla Luna, è stata ambasciatrice Unicef e Presidente degli Stati Uniti, rock star e vigile del fuoco, regista e star del Circo, skater professionale e tennista, insegnante d’arte e di linguaggio dei segni, ufficiale dell’aviazione e, naturalmente, ballerina. Ci ha sempre mostrato una
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grinta e una capacità di surfare sulla superficie della Storia davvero notevoli, presente sempre dove conta, splendida e sorridente, ma anche impegnata e volenterosa, in grado di reinventarsi ad ogni nuova brezza di cambiamento. Se ieri interpretava i sogni delle ragazzine animate dal vento femminista e diventava chirurgo e astronauta, oggi non manca di apparire e primeggiare là dove si fa il nuovo corso degli eventi: influencer sui social media, con numeri sbalorditivi, detta legge indossando abiti da passarella firmatissimi, sfoggiati nei resort super lusso e nelle location più in del pianeta. Dopo il cinquantesimo compleanno, infatti, la casa produttrice Mattel ha optato per un restyling, in modo che Barbie potesse continuare a interpretare il suo ruolo principale, quello di “specchio della condizione della donna nella società contemporanea” come è stato più volte dichiarato. Pertanto ha puntato sempre più sul rapporto con la moda e quest’anno è nata la nuova linea Fashionistas, ispirata a canoni di bellezza globali: 23
nuovi volti con 14 tipi di tratti del viso, 8 tonalità di pelle, 18 colorazioni degli occhi differenti, innumerevoli colori dei capelli e acconciature. Due cose non cambiano mai: la sua bellezza canonica (il fisico da top model e i lineamenti perfetti) che però è parte integrante del concetto di icona e il sorriso o, in mancanza d’esso, l’aria serena. È una donna realizzata Barbie, si vede. La nuova Barbie è celebrata nel video Who is Barbie. Evelyn Mazzocco, SVP del brand, afferma: “Barbie è sempre stata il riflesso dello stile della decade, ma anche della cultura e della moda più attuale. Lo stile riguarda davvero ciò che tu sei e la moda è il mezzo per esprimerlo”. Il numero di settembre di Vogue Italia, (il famoso The September Issue di cui abbiamo parlato nello scorso contributo a questa rubrica) esce quest’anno con un allegato speciale intitolato Global Beauty tutto dedicato a Barbie, la bambola più modaiola del pianeta, interprete di dieci storie di stile e modella per dieci designer emergenti. Vi è celebrato lo charme di Barbie
senza frontiere: versatile e unico al tempo stesso. Sfogliandone le pagine, troviamo Barbie nelle mille versioni di se stessa: con la classica chioma californiana bionda e liscia, in versione rossa lentigginosa dai capelli mossi, con inediti tagli corti, con lineamenti e allure asiatici, persino in versione dark. Barbie globale, Barbie per ogni cultura, Barbie interprete di mille canoni di bellezza, senza tralasciarne alcuno perché oggi più che mai il suo pubblico è il mondo intero e non è più costituito soltanto da fan e appassionati (di ogni tipo e genere) occidentali. Un tempo rappresentante della nuova classe lavoratrice femminile americana e europea, role model per ogni ragazzina ansiosa di diventare indipendente e occupare un posto tutto suo nel mondo come infermiera o paleontologa, Barbie si è evoluta e esporta oggi il modello occidentale di cultura e consumismo in
più di cinquanta paesi. Nel corso della sua ascesa sono cambiati più volte i mestieri e le aspirazioni, segnando un percorso che ha affrancato i sogni delle ragazzine dalla prigionia di un futuro a senso unico come spose e casalinghe disperate. Oggi cambiano i lineamenti, il colore dei capelli, il taglio degli occhi di Barbie, liberando, apparentemente, le ragazzine dal mito estetico californiano. In effetti, l’Occidente si è fatto più sfaccettato e tollerante, avendo scoperto negli altri una massa di potenziali clienti, non solo popoli da colonizzare culturalmente. Così Barbie si fa icona globale e globalizzata, ma in tutte le versioni è una fashionista. Non sogna più lo spazio cosmico da esplorare e le sale operatorie, sogna Chanel e Jimmy Choo. Ben vestita lo è sempre stata, speriamo solo che non perda il suo spirito di donna indipendente e che continui a pagare lei per i suoi vestiti.
SPORT - QATAR 2022
QATAR 2022 Tra calcio, politica e una nazionale in costruzione
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di Gianluca Corbani corba90@hotmail.it
Una penisola deserta e quasi disabitata, poco più grande della Basilicata. Una popolazione leggermente superiore alla provincia di Cremona (400.000 abitanti in tutto, ma con 120.000 stranieri). E un tasso di umidità spaventoso, perché nella terra in questione il caldo fa costantemente evaporare l’acqua del Golfo Persico, elevando la temperatura attorno ai 50°C per la maggior parte dei mesi dell’anno. Nessuna ragione al mondo avrebbe mai spinto la FIFA ad assegnare una Coppa del Mondo al Qatar. Tranne una: sotto le sue distese di sabbia, questo angolo miracoloso della penisola araba nasconde immensi giacimenti di petrolio. Nell’inverno del 2022 gli occhi del mondo saranno puntati sul Qatar, sede eletta tra mille polemiche per i ventiduesimi Mondiali della storia. Per chiare ragioni climatiche si giocherà in inverno e solo questo vale una rivoluzione: mai successo in un secolo di calcio internazionale che la competizione per eccellenza slitti verso i mesi freddi, peraltro deformando il calendario dei tornei per club, con la finale fissata a pochi giorni dal Natale. Le partite saranno disputate principalmente nei 15
chilometri compresi tra Doha, la capitale, e Lusail, l’altra metropoli che gli sceicchi stanno edificando praticamente da zero come punto d’appoggio per i Mondiali. Dato che lo scandalo dei voti corrotti e comprati è ormai cronaca — sappiamo tutti quanta opulenza ispirasse la politica di Blatter —, il Qatar ha offerto al futuro del calcio due garanzie indispensabili per qualsiasi organizzazione globale: la ricchezza e il potere. Parole che, di questi tempi, pesano ben più della tradizione. È stato romantico immaginare il ritorno dei Mondiali a Wembley, nella verde Inghilterra, patria delle origini del calcio e antico impero in declino. La FIFA però, vira ormai verso altre priorità. Geopolitiche innanzitutto, se consideriamo la posizione del Qatar che — affacciato sul Golfo Persico — controlla il transito sulle acque fondamentali per l’energia del pianeta. La monarchia assoluta del Qatar è guidata dalla famiglia Al Thani, una delle potenze economiche più attive nel mondo, forse addirittura la più grande in proporzione alla grandezza del loro regno. Gli Al Thani hanno un programma finalizzato allo sviluppo di una civiltà moderna e
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dominante. Si chiama Qatar National Vision 2030, e impone lineeguida, ispirazioni e obiettivi per qualsiasi settore della vita quotidiana del Paese. Si tratta in sostanza del manuale per preparare la nazione all’epoca in cui il petrolio finirà. Non a caso il governo di Doha sta investendo tanto sulla desalinizzazione del mare, sul business dell’arte (in Qatar è stata aperta una seconda sede del Louvre) e sulle strutture sociali; su tutto quello che resta e non sparisce con le risorse naturali. E naturalmente anche lo sport rientra in questa strategia. La famiglia Al Thani controlla il Paris Saint-Germain dal 2012 ed è alla base degli acquisti di Thiago Silva, Ibrahimovic, Cavani e David Luiz. Nel decennio in corso il Qatar ha iniziato a ospitare annualmente competizioni internazionali di qualsiasi disciplina sportiva. Oltre al calcio, l’atletica, il nuoto, la pallamano, i Giochi Asiatici. Nei prossimi vent’anni arriveranno anche le Olimpiadi. Lo sport rappresenta per il Qatar il mezzo di propaganda più efficace e, in questo disegno, i Mondiali del 2022 saranno una tappa fondamentale. Quando nel 2010 Blatter ha premiato la candidatura qatariana, in Qatar non esistevano calciatori né stadi, e nemmeno la manodopera necessaria per costruirli. L’unica soluzione era prenderli da fuori. Esattamente ciò che fatto il governo di Doha, manovra
per la quale i lavori in preparazione della Coppa del Mondo sono finiti nel mirino di Amnesty International e altre organizzazioni umanitarie. Centinaia di migliaia di operai trasferiti in Qatar dall’Africa subsahariana o presi “in prestito” dal regime della Corea del Nord, spesso tenuti in condizioni semischiavistiche. Delle troppe morti di operai nei cantieri, tuttavia, si parla da troppo tempo senza che vengano adottate efficaci contromisure. Tanto finirà come sempre: con l’avvicinarsi della Coppa del Mondo, le denunce diventeranno lodi per le opere degli organizzatori, e l’opinione pubblica mondiale si focalizzerà sulle cose belle della manifestazione. Otto chilometri fuori Doha, invece, il governo del Qatar sta formando gli sportivi del futuro. Quelli che tra pochi anni porteranno gloria, medaglie e pubblicità alla famiglia Al Thani. Per chiari motivi demografici non poteva esistere una nazionale qatariana degna di rappresentare il Paese per il 2022. Il Ministro dello
sport ha così sguinzagliato decine di talent scout nell’Africa più povera e profonda, dove i delegati del Qatar hanno visionato quasi un milione di ragazzini tra i 12 e i 16 anni. Un po’ come gli operai, i migliori sono volati in Qatar; dove però non sono stati costretti a lavorare, ma custoditi e allenati nel più grande centro sportivo indoor del mondo. Immaginate una navicella di Star Trek grande come un quartiere, in cui c’è tutto. La chiamano ‘’Aspire Dome’’, in realtà è qualcosa che non ci sogniamo neanche. Quindici campi da calcio, le migliori palestre, una torre-simbolo di 300 metri di altezza che domina la città dall’alto, un albergo; collegati poi nei sotterranei con un ospedale sportivo d’avanguardia e un centro studi di ricerca popolato dai migliori ingegneri e fisici stranieri “comprati” qua e là per il mondo. Il loro compito è studiare i movimenti dei migliori calciatori del pianeta (il dribbling di Messi, il tiro di Lewandowski, entrambi ospitati in Qatar) e “rubare” i loro segreti, quindi digitalizzarli e trasmetterli alle nuove leve
locali. A questo punto scatta la Fase Due: chi impara di più, una volta grandicello viene trasferito al livello successivo: il Kas Eupen, seconda divisione belga, squadra comprata ad hoc dal Qatar per inserire i propri calciatori più promettenti nel più formativo calcio europeo. È stato scelto il Belgio perché offre un regolamento più aperto sul numero di extracomunitari (oggi nell’Eupen giocano 2 qatarioti e una decina di africani dell’Aspire). Completando la loro formazione tecnica nel Vecchio Continente, i futuri giocatori del Qatar potranno diventare campioni in grado di vincere anche i Mondiali. Magari nel 2022. Più o meno un anno fa tutti, ma proprio tutti i grandi del calcio mondiali — Lippi, Guardiola, Iniesta, Ronaldo — sono volati in Qatar per farsi studiare ed elargire insegnamenti. Forse inconsapevolmente, ma potrebbero passare alla storia come complici. Complici del popolo ricco che non conosceva il calcio e che, volendo dominare il mondo, ha finito per comprarlo.
SPORT MINORI - QUIDDITCH BABBANO
QUIDDITCH BABBANO
UNO SPORT MAGICO di Simone Zerbini simone-z90@hotmail.it
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Il gioco che presenteremo su questo numero è l’ormai celeberrimo Quidditch. E no, non sono ubriaco. Almeno, non mentre sto scrivendo l’articolo. Il Quidditch Babbano (giustamente babbano, dato che fra i suoi partecipanti non vi sono né streghe né maghi) cerca di calcare il più fedelmente possibile lo sport originale creato da J. K. Rowling, fondendo elementi di rugby, dodgeball, hockey e acchiapparella. I ruoli sono i medesimi dello sport originale: sul campo ogni squadra deve presentare tre cacciatori, due battitori, un portiere e un cercatore. Le differenze iniziano ad entrare in gioco per quanto riguarda il materiale da utilizzare: come pluffa viene utilizzata una palla da pallavolo leggermente sgonfia, come bolidi tre palle da dodgeball e una pallina da tennis come boccino. Prima di dare troppe informazioni, vediamo di fare un veloce glossario del Quidditch: la pluffa, che viene passata tra cacciatori e portieri con lo scopo di
segnare gol in uno dei tre anelli posti su due lati del campo (tre da una parte e tre dall’altra). Un gol vale 10 punti. I bolidi vengono utilizzati dai soli battitori per danneggiare qualsiasi componente della
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squadra avversaria che, una volta colpito, dovrà eseguire una “procedura di k.o.”: smontare dalla scopa (per forza c’è la scopa, altrimenti che Quidditch sarebbe?!), tornare verso uno dei propri anelli senza interferire nel gioco, toccarne uno e rimontare in sella. Il boccino è, nell’universo potteriano e nel mondo del Quidditch, la palla più importante, poiché chiunque la catturi pone fine alla partita e regala 30 punti alla propria squadra. Il problema è che, nel mondo magico, il boccino d’oro è alato e si muove autonomamente cercando di non farsi catturare. Nel Quidditch babbano la pallina da tennis viene nascosta nel risvolto dei calzoncini del boccinatore, a cui è consentito fare di tutto per mettere
k.o. i cercatori. L’idea di mettere in pratica anche nella realtà lo sport più popolare nel mondo magico è nata in Inghilterra nel 2005, riscuotendo successo in molti college. Altre squadre o associazioni che giocano secondo le regole dell’IQA (International Quidditch Association) si trovano in Canada, Messico, Brasile, Colombia, Perù, Spagna, Italia, Francia, Belgio, Germania, Regno Unito, India, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda.
Ogni partita inizia con i sette giocatori lungo la linea di partenza, nella zona del portiere, con le scope a terra e gli occhi chiusi (in modo da non guardare dove si dirige il boccino) e le quattro palle allineate al centro del campo. L’arbitro principale, quando il boccino scompare dalla visuale, grida “Su le scope!” e a questo segnale ogni giocatore corre per entrare in possesso delle palle. Dopo questo segnale, i cercatori non devono interferire con gli altri giocatori e devono attendere nei pressi del campo di gioco fino alla fine della “soglia cercatori”, di solito 10 minuti; a questo punto entrano in gioco e possono correre all’esterno del campo per cercare il boccino. La partita viene vinta da una delle due squadre solo dopo che il boccino è stato catturato con un’azione pulita, e la squadra che ha catturato il boccino si aggiudica 30 punti. La squadra vincitrice è determinata non dalla cattura boccino, ma dal numero di
punti accumulati; quindi non è difficile vedere squadre, che stanno perdendo con ampio margine, spingere per la cattura del boccino per terminare il gioco. Ci sono numerosi falli e azioni illegali che un giocatore può commettere, che corrispondono a diversi gradi di penalità nei confronti di un giocatore, dal semplice avvertimento al cartellino giallo, fino al cartellino rosso che prevede l’espulsione permanente dalla partita. Le regole di contatto sono piuttosto semplici e sono simili a quelle previste per altri sport. Per quanto riguarda la scopa, i giocatori utilizzano una varietà di oggetti, dalle scope vere e proprie ai tubi in PVC, a semplici bastoni di legno verniciato; e ha l’intenzione di essere un “handicap” per i giocatori. Quindi allacciate le cinture delle vostre scope (sempre che vi possiate permettere una Nimbus 2000), e preparatevi a giocare lo sport più magico sulla faccia della terra!
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SPORT CERTIFICATI: PEC - LA RESPIRAZIONE
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L’IMPORTANZA DELLA RESPIRAZIONE di Roberto Carnevali robertocarnevali@eutelia.com
In questo numero cercheremo di addentrarci in uno dei punti cardine del tiro a volo: la respirazione, elemento fondamenta per la buona riuscita della finalità di questo sport, ovvero la rottura del bersaglio. Una buona condizione fisica dell’atleta, correlata a una buona preparazione respiratoria in pedana, è praticamente indispensabile per il conseguimento di buoni risultati. Occupiamoci per il momento di questa fase della respirazione. Il gesto atletico del tiro viene eseguito in apnea, come in tutti gli sport che prevedono il massimo sforzo in tempi molto brevi. La durata di questa apnea è del tutto irrilevante dal punto di vista fisiologico, in quanto si risolve nel giro di 10/12 secondi. Oggigiorno la stragrande cerchia dei tiratori non dà molto peso a questo fattore, e la ritenzione del respiro viene eseguita nelle serie agonistiche in maniera superficiale e sporadica. Ed è questo purtroppo un difetto che sottrae senz’altro valore alla finalizzazione del gesto atletico alla rottura del bersaglio. In pedana occorre avere una concentrazione sia visiva che respiratoria nella stessa misura, e per tutta la durata delle serie (circa 20/25 minuti). Il nostro cervello, punto nevralgico per gli
impulsi visivi e fisiologici, necessita di un quantitativo di ossigeno proporzionale a quanto gli si richiede. L’ossigenazione del cervello è assicurata dal flusso sanguigno che, tramite i globuli rossi, si rifornisce di ossigeno negli alveoli polmonari. Avere una buona costanza nell’ossigenarsi, piattello dopo piattello, rende l’agonista — soprattutto nei momenti di gara ad altissima tensione — più tranquillo e tonificato nei movimenti atletici. Senza una corretta ossigenazione del cervello, i nostri riflessi potrebbero rallentarsi. E percepiremmo dentro di noi quello sgradevole senso di ansia e di palpitazione nel momento in cui attendiamo il nostro turno di sparo. In uno stage che ho fatto personalmente con altri tiratori — dietro le direttive di uno psicologo nonché grande istruttore e tiratore — ho imparato a ossigenarmi costantemente, a dire il vero con una certa difficoltà iniziale, per raggiungere poi una stabile routine nel tempo. Mi sono così avvalso di tanti benefici nelle stagioni successive, che prima nemmeno avrei immaginato. Una buona respirazione eseguita in pedana riesce senza dubbio
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a tamponare l’iperattività psichica del tiratore, riducendo gli stati emozionali che possono essere la causa di un’eccessiva frequenza cardiaca. Se non respiriamo bene e a sufficienza, avremo in pratica sempre un aumento di frequenze cardiache che danneggeranno il nostro equilibrio mentale e fisico, con il risultato non felice di mal finalizzare il gesto atletico. Una diminuzione di ossigeno nel sangue arterioso stimola, attraverso meccanismi nervosi riflessi, la cosiddetta tachicardia (aumento della frequenza cardiaca). Ma, se realizziamo una buona e profonda respirazione volontaria, ridurremo questo sintomo aumentando la pressione parziale di ossigeno nell’aria alveolare, ottenendo di conseguenza una completa ossigenazione del sangue. Per fare un esempio semplice: chinatevi con il capo verso il basso per qualche secondo, e ritornate subito in posizione eretta. Accuserete degli sbandamenti. Ma, se iniziate a respirare piano e profondamente, ossigenerete con rapidità il vostro circolo sanguigno, ritornando allo standard normale.
Un corretto meccanismo di respirazione volontaria, eseguita in pedana a ogni turno di sparo, aumenta l’elasticità del tono muscolare; riducendo così al minimo le probabilità errori e imperfezioni del gesto atletico. Esempi ne sono: una perfetta e morbida partenza, senza il cosiddetto “strappare di braccia”; una buona visione della direzione del bersaglio; una concentrazione assoluta che ci isoli da tutto e da tutti. Già questo non è affatto poco. Non bisogna tuttavia incorrere nell’errore opposto, ovvero nel fare una respirazione profonda e provocare quindi uno stato di eccessiva ossigenazione celebrale da iperventilazione. Concludendo: trovo giusto raccomandare che, per espletare correttamente la funzione respiratoria (che è estremamente importante nel tiro a volo), ci si avvalga di un buon istruttore che insegni ad eseguire la tecnica giusta e che indirizzi l’atleta verso le più adeguate condizioni fisiologiche; ma che soprattutto si faccia una sufficiente pratica quotidiana, quando si deve eseguire un ciclo completo di bersagli.
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SOCIOLOGIA - UOMINI E DONNE
UOMINI E DONNE DIVERSI MA COMPLEMENTARI 68 di Nia Guaita
Premettiamo che “differenza” non è sinonimo di discriminazione, “differenza” non significa un più o un meno, un meglio o un peggio; significa ciò che la parola vuol dire: “diversità”, e uomini e donne sono diversi in ogni aspetto della vita. Il cervello dell’uomo e quello della donna hanno connessioni attive diverse, ma complementari tra loro: nel primo prevalgono le connessioni fra percezioni e azioni coordinate; nel secondo, invece, sono maggiori le comunicazioni tra i processi analitici e quelli intuitivi. Non sono solo le cellule a subire una differenziazione nel loro sviluppo, ma anche il complesso sistema cerebrale che, sottoposto ad ormoni e stimolazioni ambientali, si “plasma” dando così origine a modelli comportamentali e cognitivi differenti. Di conseguenza, non solo i due sessi comunicano in modo diverso; ma pensano, sentono, percepiscono, reagiscono, amano, provano bisogno e giudicano secondo differenti modalità. Secondo uno studio dell’Università di Irvine in California, tra il cervello maschile e femminile vi è una differenza nella distribuzione di materia grigia e bianca. La materia grigia è molto importante per l’analisi delle informazioni, mentre la materia bianca permette il trasferimento delle informazioni fra regioni distanti fra loro. Gli uomini presentano la materia bianca in proporzione simmetrica fra i due emisferi, mentre la materia grigia è in quantità maggiore nell’emisfero sinistro. Nelle donne la distribuzione è più simmetrica e hanno inoltre una maggior quantità di fibre di connessione fra i due emisferi, permettendo una trasmissione e funzionalità simmetrica dei due emisferi. Tradotto in parole semplici, ciò significa che le donne sono brave nel multitasking, ovvero nel fare più cose insieme; sono più intuitive, dimostrano maggiore empatia, mentre gli uomini sono particolarmente
predisposti alle attività motorie e più capaci nel sapersi orientare e interpretare le mappe. Le donne hanno una maggiore concentrazione di neuroni nella zona della corteccia cerebrale che controlla l’elaborazione del linguaggio, mentre nell’uomo è maggiore il volume della corteccia parietale coinvolta nella capacità di percezione spaziale. Insomma, uomo e donna si orientano in maniera diversa. La donna ha bisogno di punti di riferimento (un chiosco, una chiesa, un bar) quando guidando, per esempio, cerca una strada; le si attivano cioè aree del cervello che sono associate alla razionalità, mentre per l’uomo si mette in moto l’ippocampo, una zona legata a comportamenti istintivi. Le donne hanno maggiori capacità comunicative. È notorio poi che, in virtù di una maggiore attivazione dell’emisfero sinistro e della porzione sinistra dell’amigdala, le donne ricordano meglio i dettagli di un evento emotivo; mentre gli uomini, che attivano di più l’emisfero destro e la porzione destra dell’amigdala, colgono dello stesso avvenimento gli aspetti centrali. I cervelli dei due
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sessi differiscono quindi non solo fisicamente, ma funzionano anche in modo differente. Abbiamo visto che nel cervello femminile il corpo calloso (una struttura composta da fibre nervose che connettono l’emisfero di destra con quello di sinistra) è molto più complesso, e i due emisferi comunicano più facilmente tra loro. Le conseguenze sono che l’uomo tende ad elaborare la realtà basandosi soprattutto sull’emisfero sinistro — razionale, logico e rigidamente lineare; mentre la donna utilizza in misura maggiore l’emisfero destro, che permette di compiere operazioni mentali in parallelo ed è più legato alla sfera emozionale e al linguaggio analogico. Il celebre “intuito” femminile si basa proprio su questo: sulla possibilità del cervello di elaborare la realtà in modi diversi e paralleli. Di conseguenza, in situazioni complesse è avvantaggiata la donna, perché il cervello femminile è meno “rigido” ed è quindi portato ad analizzare uno spettro più ampio di dati e possibilità. Il cervello maschile è favorito in situazioni semplici e collaudate. Oltre al corpo calloso, le ricerche hanno evidenziato che nella donna
una zona dei lobi frontali è più attiva: è un’area legata ai processi decisionali, molto connessa alle cosiddette aree “limbiche”, la sede dell’emotività. Il processo decisionale delle donne è quindi influenzato emotivamente in misura maggiore rispetto a quello degli uomini. Ci aspettiamo sempre che i rappresentati del sesso opposto siano simili a noi. In pratica gli uomini si aspettano che le donne pensino, comunichino e reagiscano come uomini; mentre le donne si aspettano che gli uomini pensino, comunichino e reagiscano come donne. LUI: “Non ho niente” LEI: “Non ho niente” Traduzione LUI: “Non sto pensando proprio a niente” LEI: “Sto per scoppiare”
Una delle differenze più rilevanti, invece, la troviamo proprio nella diversa modalità di comunicazione: gli uomini danno alle parole un significato letterale, mentre le donne danno alle parole un significato relazionale. Per esempio: quando l’uomo è stanco, lo dice e basta e va a riposare; mentre quando la donna è stanca — e lo dice — vuol dire anche abbracciami, coccolami, consolami. In una situazione come questa quando l’uomo è stanco, la donna tende a coccolarlo, lo abbraccia e lo consola; mentre lui vuole in realtà solo andare a riposare. Gli uomini amano trovare soluzioni. E, se qualcuno li sollecita, loro sono sempre pronti a darne. Quindi, se una donna torna a casa e dice che è stanca (in realtà vuole instaurare una relazione con il suo compagno, vuole attenzione e consolazione), lui le dice in maniera lapidaria: “Allora vai a riposare”. Le donne sono capaci, grazie alla migliore connessione tra i due emisferi, di poter parlare in modo molto più articolato di un uomo. In particolare, sono in grado di mettere in contatto senza alcun problema
le zone emotive con quelle linguistiche, riuscendo così a parlare di ciò che provano. Gli uomini non hanno un legame così stretto; anzi per loro è molto più difficile riuscire a parlare di quel che provano perché, quando un’emozione li attraversa, non riescono a parlare in modo complesso, e all’aumentare della stessa corrisponde un calo della capacità comunicativa. In conclusione, per evitare incomprensioni tra i sessi, è indispensabile conoscere e rendersi conto di queste differenze da entrambe le parti: gli uomini dovrebbero astenersi dal dare consigli pratici e soluzioni nei momenti sbagliati, cioè quando la donna chiede semplicemente conforto e di essere ascoltata. Le donne, dovrebbero capire che qualsiasi suggerimento non richiesto non è ben accetto dall’uomo perché ogni suggerimento esterno mina la sua autostima e lo porta a pensare di non essere ritenuto competente per affrontare quel problema; di conseguenza, l’aiuto dovrebbe essere dato solo quando è lui a richiederlo.
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FOTOGRAFIA - EDWARD BURTYNSKY
Edward Burtynsky
“Acqua Shock” di Cristina Franzoni franzonicri@hotmail.com
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L’acqua è la risorsa primaria per eccellenza, il liquido più prezioso, la parte essenziale del corpo umano, il sangue del nostro pianeta. Tant’è che il presocratico Talete — che di filosofia se ne intendeva! — la elesse ad arché, il principio del mondo. In campo artistico sono stati tanti a cantarla. Tra questi anche il fotografo canadese Edward Burtynsky
(classe 1955) che, volendo ribadirne l’importanza e la bellezza, le ha dedicato, dal 2009 al 2014, una serie di immagini fine-art stupefacenti; incentrate sia sulla contemplazione del paesaggio puro sia sull’impatto, lo sfruttamento e l’utilizzo dell’acqua da parte dell’uomo in agricoltura, nella preghiera, nell’industria e nella ricreazione: i pozzi a gradini, le serre,
l’acquacoltura marina, le irrigazioni a pivot centrale, i bacini di decantazione del fosforo, gli stabilimenti balneari e le risaie a terrazza. Trattasi di inquadrature di grandi dimensioni, esteticamente avvincenti e a forte impatto visivo. Stregano subito l’osservatore perché hanno una composizione talmente originale che bisogna chinarsi a leggere la didascalia per scoprire, in taluni casi, di cosa si tratta. Rassomigliano, di primo acchito, a fanciulleschi pastrocchi a pennarello o a gigantesche schede chip, a batteri misconosciuti visti al microscopio o a scampoli di tappezzerie dal design innovativo. Sì, perché queste panoramiche a colori vividi — visitabili fino al primo novembre 2015 presso il Palazzo della Ragione a Milano in una mostra intitolata “Acqua Shock” — sono state realizzate da altezze formidabili a bordo di elicotteri, su strutture sopraelevate o con l’ausilio di droni speciali lanciati in ricognizione sui golfi e le baie dei cinque continenti. Da lassù la Terra appare come un collage zen di rettangoli, cerchi, diagonali e tante zone blu. Volando in questi spazi
primordiali, come non provare un senso di appagamento fatto di pace, silenzio e lentezza? Dalle acque purificatrici del sacro Gange fino alla diga cinese del fiume Yangtze, dai campi agricoli in Andalusia fino agli impianti della General Motors, tutte le 60 immagini esposte documentano la potenza miracolosa dell’acqua e il suo ruolo nel mondo, le opere belle create dall’uomo; ma anche l’impatto insostenibile di un’attività scellerata che in nome del progresso e del profitto mira a soddisfare le esigenze contingenti, senza curarsi degli effetti a lungo termine. Si veda il disastro ambientale nel Golfo del Messico con la fuoriscita di greggio dalla piattaforma petrolifera della BP finita in fiamme; o la semi-disidratazione del fiume Colorado, conteso da sette stati USA. E che dire del lago Owens prosciugato del tutto per fornire acqua alla città di Los Angeles nel Novecento o delle piscine artificiali per l’allevamento dei gamberi, abbandonate a ridosso del deserto di Sonora? Edward Burtynsky è un grande interprete della fotografia internazionale, ma
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FOTOGRAFIA - EDWARD BURTYNSKY
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anche un paladino dell’ecosistema. Attraverso lunghi viaggi e ricerche approfondite sulle risorse naturali (fantastici i suoi precedenti lavori sulle cave e sul petrolio) da sempre documenta gli effetti — spesso nefasti — del nostro operato sul pianeta, deplorandone l’impoverimento e lo scempio. Burtynsky, quindi, ci sprona all’azione “perché è attraverso la cultura che innalziamo le nostre coscienze e costruiamo le nostre
storie. Ed è attraverso la cultura che possiamo sensibilizzare l’uomo sulle conseguenze del suo agire”. È dunque un’arte necessaria, la sua, per provocare, informare e coinvolgere. Le sue parole comunicano una verità chiara e semplice: “Quello che diamo al futuro sono le scelte che noi facciamo oggi”. Un argomento più che mai urgente che va di pari passo col tema di Expo Milano 2015 “Nutrire il pianeta. Energia per la vita”.
ARTE - GUSTAVE DORÉ
GUSTAVE DORÉ il grande alsaziano 76 di Susanna Tuzza susannatuzza@gmail.com
Gustave Doré: opere miliari della letteratura di ogni tempo sono passate sotto il suo bulino. Artista dal talento indiscusso, fu incisore, caricaturista, pittore e sul finire della vita anche scultore originale. In una vita breve – morì a cinquantun’anni nel 1883 – ebbe il talento del grande sperimentatore che lanciò messaggi ben oltre il suo tempo: il fumetto e il cinema hanno attinto alla sua opera con voracità, da Pabst a Welles, fino a Polanski, Tim Burton e Lucas. Nato a Strasburgo, Doré fu un autodidatta e un enfant prodige: a undici anni risalgono le prime litografie, e adolescente comincia a collaborare alla rivista satirica Journal pour rire. Ma Parigi fu il suo destino, anche se girò tutta la Francia e la Svizzera; andò in Inghilterra e in Spagna alla ricerca degli eroi più amati e a conoscere i paesaggi ove contestualizzarli. Aveva cominciato a illustrare opere di letterati contemporanei come Balzac, Gautier, Hugo più tardi gli inglesi Coleridge e Tennyson, proseguendo con classici come il Rabelais del Gargantua e Pantagruel, il Cervantes di Don Chisciotte, il Paradiso perduto di Milton, Shakespeare, le favole di La Fontaine e di Perrault. Ma è del 1861 l’Inferno di Dante che ha un successo enorme, e infatti presenta al Salon di Parigi una tela monumentale dedicata a Dante e Virgilio: i due poeti emergono sulle acque dello Stige invaso dai corpi nudi dei dannati che hanno fattura michelangiolesca da
Giudizio Universale. Il nostro immaginario dell’inferno, del purgatorio e del paradiso dantesco lo dobbiamo all’opera scritta da Dante, sublime, ma senza dubbio anche alle immagini fantastiche e minuziose del grande illustratore, pittore artista alsaziano. Accanto alla ricerca dedicata ai capolavori della letteratura di ogni tempo, Doré ebbe una fervida vena sociale: fu interessato ai reietti del suo tempo, agli zingari, allo spettacolo delle feste popolari dove si trovano saltimbanchi e giocolieri che sopravvivono come possono. Un’umanità derelitta che riconosce nei quartieri più sordidi di Londra, proprio come fece Charles Dickens. Gli ultimi anni sono segnati dalla malattia, ma Doré, maestro ormai celebre in tutto il mondo, si misura con la scultura con esiti davvero sorprendenti protoespressionisti e protosurrealisti, che certamente il migliore Rodin seppe studiare. La sua ultima opera fu l’illustrazione del Corvo di Edgar Allan Poe che non poté vedere stampato: immagini visionarie nelle quali sembra distillare il meglio della sua immaginazione romantica.
CASA & DESIGN - STRASBURGO
STRASBURGO
E IL TRIANGOLO MAGICO CHE DANZA SULL’ILL NON SOLO SEDE DEL PARLAMENTO EUROPEO, MA ANCHE STORIA E TRADIZIONI NELLA CAPITALE ALSAZIANA
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di Gaia Badioni gaia.badioni@hotmail.it
Della gita fatta in seconda media a Basilea, Strasburgo e Colmar mi ricordo poco o niente; troppi gli anni trascorsi e, molto probabilmente, troppe le cose viste in soli quattro giorni. Un’indigestione di storia, arte, cultura che a distanza di anni, complice la stanchezza lavorativa e altri ricordi magari più suggestivi, si fatica a raccontare con lucidità. Tuttavia, la cittadina di Strasburgo (dal latino Strate Burgum, letteralmente “la città delle strade”) — capitale dell’Alsazia situata lungo il Basso Reno, che insieme alla Lorena è stata oggetto di numerose contese tra Francia e Germania — già allora mi era sembrata qualcosa di più della capitale politica d’Europa. È, infatti, una vivace città universitaria ricca di cultura — cosmopolita proprio perché in una regione di confine nel cuore del continente, con una forte identità nazionale — nonché di un felice attaccamento alle proprie tradizioni. L’architettura la fa da padrona non solo in termini di edilizia, ma anche nel senso della comunità e della società contemporanea. Nel cuore della città, la Cattedrale di Notre-Dame può essere un libro di pietra grazie alle tracce scolpite nelle sue decorazioni e nelle sue vetrate, che vanno dal 1176 (pieno stile romanico) al gotico del 1439. Il monumentale orologio astronomico all’interno, capolavoro dei maestri orologiai del Rinascimento, riproduce la precessione degli equinozi. Partendo dal quartiere della Petite France — caratterizzato da deliziose casette in legno dai tetti spioventi del XVI e XVII secolo —, e seguendo i canali che movimentano la cittadina, si può giungere ai Ponti Coperti con la Grande Chiusa del 1690; e infine alla zona che ospita il cosiddetto “Triangolo Magico” sul fiume Ill, il quartiere europeo di Strasburgo costituito dalla presenza del Parlamento Europeo, del Consiglio Europeo e della
Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Il Consiglio d’Europa
Le prime assemblee del Consiglio d’Europa avevano luogo solitamente nel sontuoso edificio — risalente agli anni ’80 dell’ottocento — dell’Università di Strasburgo, l’ex Kaiser-WilhelmsUniversität. Tra il 1950 e il 1977 ebbero luogo in un edificio provvisorio di cemento dall’architettura puramente funzionale, la Casa d’Europa (Maison de l’Europe), progettata dall’architetto Bertrand Monnet, che venne sostituita nel 1977 dal Palazzo d’Europa (Palais de l’Europe), utilizzato fino al 1999 per ospitare non solo il Consiglio, ma anche il Parlamento Europeo. L’edificio a circa due chilometri a nord-est della Grande Île, progettato dall’architetto Henry Bernard, si presenta con una forma quadrata molto rigida e regolare alta nove piani. Se l’esterno rosso, argento e mattone assomiglia ad
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una fortezza — grazie anche al gioco delle finestre disposte come feritoie — l’interno appare invece luminoso e armonioso, dominato da forme curvilinee che infondono un’atmosfera cordiale e fiduciosa “utile ad un confronto libero di idee”. A completare la struttura, la sala del Comitato dei Ministri, nella rotonda all’estremità della facciata est; l’emiciclo dell’Assemblea parlamentare al centro dell’edificio, circondato da due giardini e il Palazzo dei Diritti dell’Uomo, lungo la curva maestosa del fiume che attraversa Strasburgo.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
La prospettiva che ci offre un ipotetico volo d’uccello sulla sede del Palazzo della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ci fa ricordare l’allegoria della Dea Giustizia che regge i piatti della bilancia. Questi piatti, nel concreto, divengono dei veri e propri luoghi che fino al 1989 sono stati abitati sia dalla Corte di Giustizia che dalla Camera degli eurodeputati, ognuno
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collocato nel proprio piatto. Richard Roger, architetto britannico di origine italiana e vincitore del premio Pritzler nel 1997, ha organizzato il suo lavoro secondo due principi di metaforico richiamo per l’istituzione: trasparenza e credibilità espressi attraverso l’utilizzo dell’acciaio e del vetro per modellare la facciata che si specchia nell’Ill, in dialogo con la sede del Consiglio e del Parlamento Europeo.
Il Nuovo Parlamento Europeo Louise Weiss
Il Parlamento Europeo, ovvero l’assemblea legislativa dell’unione Europea, nasce in origine come Assemblea comune della CECA il 18 aprile 1951 con sede a Strasburgo, assemblea che muta nome in Parlamento nel 1962 e che vedrà le prime elezioni a suffragio universale diretto nel giugno 1979. L’Europarlamento, ad oggi, dispone di tre sedi ufficiali: Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo. Luogo storico, la sede di Strasburgo ospita ogni mese le sessioni plenarie, insieme a Bruxelles.
Dal 1999 il Parlamento Europeo si riunisce nell’edificio intitolato a Louise Weiss, politica francese femminista e attivista per l’Europa, situato nella parte nord-est della città. Il palazzo è stato progettato dagli architetti francesi dell’Architecture Studio, che hanno vinto l’appalto nel 1991. Grande 220.000 metri quadrati, il Parlamento è costruito su due forme principali: il cerchio e l’ellisse, che dominano tutta la struttura. All’esterno la costruzione ha una parte a forma di arco, che ospita le sale per le assemblee, e una torre riservata agli uffici dei deputati; sulla facciata orientale, invece, si nota una parte che sembra non terminata, forse ispirata al Colosseo di Roma o alla torre di Babele. L’idea alla base dell’imponente progetto era quello di far emergere il visitatore in una sorta di moderna agorà, la piazza dei dibattiti dell’Atene antica, simbolico richiamo alla culla della nostra tradizione democratica. Troneggia al centro della piazza, Sculpture Europe à Cœur, la grande scultura bronzea creata nel 1991 e inserita nel cuore della piazza nella primavera del 1994 da Ludmila Tcherina, artista parigina poliedrica scomparsa nel 2004, opera ufficialmente scelta dalla comunità europea per simboleggiare l’Europa unita e per aprire l’infilata di bandiere degli stati membri dell’UE che accompagnano verso l’ingresso dell’edificio. All’interno del palazzo, tra un ufficio e l’altro, la collezione d’arte del Parlamento Europeo movimenta e completa la struttura. La collezione, che ha avuto origine nel 1980 su iniziativa del primo Presidente del Parlamento europeo eletto a suffragio diretto, Simone Veil, ha raggiunto — grazie alle acquisizioni avvenute nell’arco di 30 anni — le 387 opere in giacenza rappresentative
degli Stati membri dell’UE, riservando particolare attenzione agli artisti giovani e promettenti agli esordi della loro carriera. Inoltre il Parlamento ha accettato oltre 120 donazioni, e ospita regolarmente prestiti temporanei. Buona occasione per vedere la collezione e le mostre temporanee organizzate all’interno dello spazio può essere la visita alla sede ufficiale del Parlamento organizzata quotidianamente, nel rispetto degli orari e delle giornate di seduta, pensata e progettata per accogliere tutti i tipi di visitatori, anche con mobilità ridotta e con disabilità fisiche, grazie ad uno staff specializzato. Per gli studenti, invece, il Programma Euroscola propone di far incontrare giovani tra i 16 e i 18 anni provenienti da tutti i 27 Stati membri dell’Unione europea e di offrire loro la possibilità di discutere, confrontarsi, negoziare, emendare, votare e alla fine approvare risoluzioni su temi europei reali, seduti sui banchi dell’emiciclo del Parlamento. Infine, ai più romantici, una gita in battello lungo il fiume darà la possibilità di vivere da una prospettiva diversa questo variegato paesaggio, diviso fra tradizione e sviluppo, ma che sono certa rimarrà impresso nei ricordi per lungo tempo.
CURIOSITÀ OTTOBRE
Curiosità OTTOBRE di Sylvie Capelli sylvieannacapelli@gmail.com
Nei negozi arrivano i CD
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Il progetto portato avanti da Sony e Philips — sempre all’avanguardia nella ricerca di nuovi mezzi per distribuire musica — porta la distribuzione del primo CD (compact disc) nei negozi il 1 ottobre 1982. Il fortunato artista che inizia una vera e propria rivoluzione per tutti gli amanti della musica è Billy Joel con il suo “52nd street”. Antesignani dei CD sono i dischi 78 giri in gommalacca incisi solo con mezzi meccanici fino agli anni ’50, successivamente i dischi in vinile 33 e 45 giri prodotti in larga scala fino agli anni ’90 (oggi la maggior parte dei dischi in vinile è nelle mani di collezionisti). Ci sono inoltre supporti magnetici: nastri a bobina, musicassette e stereo8. Oggi, anche il “rivoluzionario” CD è obsoleto, essendo ormai passati a un formato di memorizzazione MP3.
Debuttano i Peanuts Sette quotidiani americani decidono di pubblicare contemporaneamente le strisce dei Peanuts di Charles Monroe Schulz il 02 ottobre 1950. I primi personaggi sono Charlie Brown (ispirato all’infanzia dell’autore) e Snoopy (inizialmente un cane “normale” che non esprime i suoi pensieri), Shermy e Patty. Il successo è immediato e costante nel tempo. Oggi si possono a ragione definire fra le più celebri strisce a fumetti della storia, tradotte in 21 lingue e diffuse in 75 Paesi. Nel suo testamento (2000), l’autore ha chiesto che non venissero disegnate nuove strisce basate sulle sue “creature”. Le vecchie strisce continuano quindi ad essere ripubblicate su quotidiani e riviste di tutto il mondo.
CURIOSITÀ OTTOBRE Inaugurazione del Moulin Rouge
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In origine un mulino sorgeva nel quartiere parigino di Mont-Martre. Nel 1870 venne aperto il ristorante “Moulin de la Galette” con sala da ballo. I proprietari del teatro Olympia decisero di trasformarlo in cabaret, e il 06 ottobre 1889 venne inaugurato il “Moulin Rouge”, che diventerà simbolo della Belle Époque grazie allo scalpore suscitato da balli scatenati e “licenziosi” quali il famoso Can Can. Nel ‘900 i maggiori interpreti della canzone francese, quali Edith Piaf e Yves Montand, si sono esibiti su questo palcoscenico. Anche alcuni artisti italiani hanno avuto l’onore di calcare le scene del Moulin Rouge; tra loro il Mago Silvan e il trasformista Arturo Brachetti.
Giosuè Carducci Premio Nobel per la letteratura Il 10 ottobre 1906 è la storica data in cui per la prima volta il Premio Nobel per la letteratura viene assegnato a un italiano con questa motivazione: “non solo in riconoscimento dei suoi profondi insegnamenti e ricerche critiche; ma su tutto un tributo all’energia creativa, alla purezza dello stile e alla forza lirica che caratterizza il suo capolavoro di poetica.” Sarà il barone de Bildet, ambasciatore svedese in Italia, a consegnare il premio direttamente a casa di Carducci, ormai costretto a letto. In seguito altri italiani saranno insigniti del prestigioso premio: Grazia Deledda (1926), Luigi Pirandello (1934), Salvatore Quasimodo (1959), Eugenio Montale (1975), Dario Fo (1997).
Proverbi Italiani Ottobre gelato, ogni insetto è debellato. Ottobre è bello, ma tieni pronto l’ombrello. Ottobre: vino e cantina dalla sera alla mattina. Se ottobre è piovarolo, è pure fungarolo.
- PES VS FIFA
GAMES
PES VS FIFA CHE LA SFIDA CONTINUI
I due giochi di calcio più acquistati tornano a sfidarsi a suon di vendite: la Konami avrà recuperato il gap? 86
di Nicola Guarneri guitartop@libero.it
C’erano gli anni della PlayStation 1 in cui FIFA era solo un’emozione, magari dagli 11 metri al novantesimo. PES (Pro Evolution Soccer, alias Winning Eleven) è stato per generazioni il gioco di calcio di riferimento per la piattaforma PlayStation. Fin dai tempi in cui non esistevano “patch” e la Konami non aveva acquistato i diritti dalla FIFA, si esultava per un goal di Roberto Corlos, un dribbling di Claudio Polez o un colpo di testa di Batustita. Eppur (qualcosa) si muove. FIFA inizia a macinare giochi su giochi per il pc, e nell’ultimo decennio stacca definitivamente PES (arrivando in alcuni anni a vendere dieci volte più del rivale). Il confronto nell’ultima edizione ha visto un leggero cambio di tendenza: FIFA è stato ancora il gioco più venduto ma, se la Electronic Arts si è un po’ “adagiata” sugli allori, la Konami ha osato e ha recuperato parecchio gap. Ecco che quindi la sfida del 2016 si presenta ancora più elettrizzante. FIFA corre ai ripari e nella nuova edizione propone forse la novità più stuzzicante, ovvero la presenza per la prima volta delle nazionali femminili. La Electronic Arts ha puntato molto sul gentil sesso, forse sulla scia del grande successo riscosso dalla nazionale di calcio americana vincitrice dell’ultimo mondiale e celebrata in patria da milioni di fan. Il dettaglio e il particolare restano fondamentali, e anche i miglioramenti della giocabilità sono evidenti: l’Intelligenza Artificiale dei portieri è di gran lunga migliore, i difensori sono più aggressivi e meno “impotenti” di fronte allo strapotere fisico degli attaccanti. Anche le scivolate sono migliorate, con i giocatori che possono “fingere” un tackle e che impiegano molto meno tempo a rialzarsi. Nel reparto “avanzato” (quello che da sempre fa sognare i videogiocatori) sono state aggiunte novità importanti, a partire dal “cross dinamico”. Tra le numerose
nuove finte aggiunte al repertorio degli attaccanti (più stelle hanno i calciatori e più hanno probabilità di successo) merita una menzione il “No touch dribbling”, una finta esercitata senza toccare il pallone; per disorientare l’avversario e poi spostare la sfera nella direzione opposta. Per quanto riguarda PES, invece, sembra che gli sviluppatori si siano concentrati maggiormente sui dettagli tecnici per colmare definitivamente il gap con il colosso americano. Una maggiore Intelligenza Artificiale, quindi, ma anche grandi miglioramenti delle ricostruzioni dei giocatori e delle esultanze (è possibile anche farsi un “selfie” alla Totti premendo un tasto al momento del goal). I movimenti dei giocatori sono più veloci e dinamici, mentre i volti e gli stadi sono pressoché identici a quelli reali. Il gioco inoltre si fa più “maschio” (gli arbitri sono stati depotenziati e possono cadere in errore), la Master League è stata rinnovata e inoltre i server in My Club sono stato potenziati, in modo da avere una maggiore stabilità. Sono passati pochi giorni dall’uscita di FIFA 16 e PES 16 e i videogiocatori si stanno ancora informando su pregi e difetti: come ogni anno, per decretare un vincitore, bisognerà attendere il Natale. E conteggiare le vendite.
- ARRIVA L’AUTUNNO
SPAZIO POSITIVO
ARRIVA L’AUTUNNO Laura Gipponi info@lauragipponi.com
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Lo spazio positivo di questo mese voglio dedicarlo all’autunno. Io amo tantissimo tutte le stagioni; me ne piace ognuna per le particolarità uniche che le rendono fra loro diverse, per i colori tipici di ogni periodo dell’anno. Ecco perché anche l’autunno — spesso criticato da tanti perché iniziano le piogge via via più frequenti, arrivano il vento, le foglie secche e il freddo — merita di essere apprezzato. Proviamo a fermarci ad osservare le bellezze di questa stagione: la gamma cromatica delle foglie che si colorano di giallo e arancio con mille diverse sfumature. E i fantastici regali di cui ci delizia l’autunno? Ad esempio le castagne, l’uva, i funghi. Anche la cucina in autunno si presta a certi manicaretti tipici della stagione che va rinfrescandosi. Nel mese di ottobre si iniziano a vedere le prime nebbie al mattino presto, e la campagna assume una particolare atmosfera. Camminando ai lati dei campi, sulle stradine sterrate, gli aspetti della vita moderna sono celati dalla foschia che sale dai fossi; e sembra talvolta di trovarsi catapultati indietro nel tempo in epoche imprecisate. L’ambiente circostante, i suoni della natura, il profumo dell’erba umida e l’aria fresca stimolano la mente all’immaginazione e aiutano a rilassarsi. Io, vivendo in campagna, ho a portata di mano questo contesto. Se vivete in città, può esserci l’occasione per una scampagnata. Nel caso in cui abitiate al mare, l’atmosfera è comunque magica; e sarà la spiaggia deserta e il suono delle onde a stimolare la vostra fantasia. Chi vive in montagna è privilegiato sotto questo punto di vista, con i boschi dove regna il silenzio spezzato dal rumore dei ruscelli e dagli abitanti del sottobosco; la montagna è già per eccellenza un luogo rilassante anche solo godendo della vista del paesaggio. Quindi, ovunque voi siate, apprezzate la meraviglia dell’autunno e godetevi fino in fondo ogni sua sfaccettatura.
RICETTA SALATA CON VINO ABBINATO
Pollo al Riesling
di Sylvie Capelli - sylvieannacapelli@gmail.com
INGREDIENTI: 1 pollo, 300 gr di champignon de Paris, 1 bottiglia di riesling, 1 bicchierino di Marc d’Alsace (grappa di Gewurtztraminer), 1 litro di brodo di pollo, 50 gr di burro, 4 scalogni, 2 spicchi d’aglio, 1 bouquet garni (mazzetto di erbe aromatiche fresche: prezzemolo, tiglio, alloro), 4 cucchiai di olio extra vergine di oliva, 40 gr di farina, 2 cl panna fresca, 2 tuorli d’uovo, sale, pepe, noce moscata.
Preparazione: Tagliare il pollo in pezzi. Pelare e sminuzzare aglio e
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scalogno. Pulire i funghi e tagliarli in pezzi. In una pentola di terracotta scaldare burro e olio. Aggiungere il pollo con sale e pepe, farlo dorare su tutti i lati a fuoco medio. Togliere il pollo dalla pentola e utilizzarla per cuocere i funghi fino a che non si sia assorbita tutta l’acqua. Togliere i funghi dalla pentola e far dorare aglio e scalogno. Aggiungere il pollo, versare la grappa e farla flambare. Aggiungere la farina setacciata mescolando bene, cuocere per 2 minuti a fuoco medio. Aggiungere il vino e portare a ebollizione; in contemporanea raschiare il fondo di cottura per farlo amalgamare. Aggiungere il brodo caldo e il bouquet garni, cuocere a fuoco lento per due ore con un coperchio. Aggiungere i funghi e proseguire la cottura per 1 ora e 30 minuti. Togliere dalla pentola pollo e funghi e conservarli al caldo. Filtrare la salsa e farla ridurre a fuoco medio per circa 10 minuti; incorporare tuorli, panna, noce moscata, sale e pepe mescolando con una frusta e senza farla bollire. Disporre la carne e i funghi su un piatto da portata, cospargendole di salsa.
Alsace aoc - Riesling Calcaire 2013 Domaine Zind-Humbrecht di Carlo Cecotti - carlocecotti@yahoo.it
Azienda alsaziana molto prestigiosa, attualmente riconosciuta come uno dei migliori produttori di vini bianchi al mondo. Il domaine vero e proprio nasce nel 1959 dalla fusione delle proprietà delle famiglie Zind e Humbrecht e possiede vigne, dislocate nei grand cru più rinomati come Rangen, Goldert, Brand e Hengst, che vengono coltivate manualmente con l’impiego di cavalli. Oro zecchino alla vista. Intenso al naso con profumi fruttati di melone e bergamotto. In sequenza spiccano sensazioni muschiate e di mughetto su un sottofondo minerale di pietra focaia. Al palato è persistente e ben sostenuto da una marcata spalla acida.
RICETTA DOLCE CON VINO ABBINATO
Torta di mele alsaziana
di Sylvie Capelli - sylvieannacapelli@gmail.com
INGREDIENTI: Per la pasta: 250 gr di farina, 125 gr di burro, 25 gr di zucchero, 1 uovo, 5 gr di sale, 5 cl di acqua fredda Per la frutta: 1 kg di mele, 25 gr di zucchero Per il flan: 75 gr di zucchero, 10 cl di latte, 10 cl di panna fresca, 2 uova, 1 stecca di vaniglia (o una busta di vanillina)
Preparazione: Preparare la pasta mescolando tutti gli ingredienti
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a farla riposare per 30 minuti in frigorifero coperta dalla pellicola. Preparare il flan battendo le uova e lo zucchero; aggiungere latte, panna e vaniglia. Imburrare la teglia e disporre la pasta sul fondo, ricoprendo i bordi accuratamente. Sbucciare le mele, togliere il torsolo e tagliarle in 8 fette. Disporre le fette di mele ordinatamente sul fondo e insaporire con lo zucchero. Cuocere in forno a 200째C per circa 30 minuti (verificare la cottura delle mele). Versare il flan sulla torta e terminare la cottura in forno fino a farlo rapprendere. Servire tiepido con eventualmente una spolverata di zucchero a velo o di cannella.
Alsace aoc - Pinot - Gris Clos Jebsal 2011 Vendange Tardive -Domaine Zind-Humbrecht
di Carlo Cecotti - carlocecotti@yahoo.it
“Vendange tardive” è una delle menzioni di maggior importanza riconosciute in Alsazia e indica una filosofia di produzione dove i grappoli vengono lasciati ad appassire direttamente in pianta. Le condizioni climatiche del cru Clos Jebsal, poco più grande di un ettaro, favoriscono lo sviluppo della botrytis cinerea (muffa nobile) sulla buccia dell’acino regalandoci dei nettari deliziosi, dalle caratteristiche uniche. Giallo dorato, brillante. Maestoso il ventaglio aromatico, sentori di zafferano, albicocca secca, confettura di mela cotogna, gardenia, miele di tiglio e una nota tostata di caffè in grani. In bocca svela imponente struttura, rotondità e viva freschezza. Persistenza quasi infinita.
Stefano Bergamaschi, Red Rock Canyon, Las Vegas
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Lucia Bolla, Colmar
SOCIOLOGIA
Coppie e social network
Vi è piaciuto la nuova rubrica? Il mese prossimo torniamo con una nuova puntata, con argomento i social network: lo sapevate che uno dei più grandi motivi di rottura è proprio facebook?
ANTICIPAZIONI
Sul prossimo numero troverete anche...
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Lo sapevate che lo stato uzbeko è l’unico al mondo doppiamente senza sbocco sul mare? Come, non sapete che significa? Non perdetevi il prossimo numero de La Pausa…
GAMES
Super Mario Bros
L’idraulico più famoso del web compie 30 anni: Super Mario Bros. nasceva nel lontano 1985 in Giappone. Chi avrebbe mai immaginato che dopo tre decadi avrebbe ancora fatto impazzire i videogiocatori?