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Ho vissuto un’altra vita: babà a Napoli

I sentimenti ultraortodossi leghisti dei ragazzi furono distrutti a colpi di sfogliatelle alla crema, pastiera napoletana, pizza e granite al limone. Per non parlare di o’mare, o’Vesuvio e, appunto, o’ babbà

Esiste la reincarnazione, la vita oltre la vita, una dimensione oltre? Certo che sì, ma anche nell’aldiqua. Io, ad esempio, mi ricordo di un’esistenza precedente dove ero insegnante di scuola media a Conco. Quattro mattine a settimana mi alzavo alle sei meno venti e dopo dodici minuti intensivi di bagno-colazione-bagno, partivo verso l’altopiano. Alle sei e ventidue zulu ora locale ero a Marostica e dopo aver sorbito un caffé gusto Apocalissi in una bettola che non si capiva se aveva appena aperto o stava per chiudere, mi lanciavo con le budella in mano lungo le cinquecento sfumature di curve che portavano a Conco.

Era una vita da precario, tappabuchi di terza fascia, supplente senza abilitazione e con contratto a tempo determinato, emblema della condizione umana, anzi italiana. Credo che all’estero queste eroicomi- che figure non esistano o non siano mai esistite. Non sapendo quello che ci si perde, come ad esempio, una gita scolastica a Napoli, Pompei e Capri. Dopo dodici ore di pullman arrivammo in un paese dello sterminato hinterland napoletano, ospiti in un complesso di edificio del medesimo ordine religioso di appartenenza del prete di Conco, maitre organizzatore della gita, una cosa tipo i Padri Stiratori della Santa Tunica o le Sorelle Afflitte delle Dodici Spine.

Una volta cenato alla mensa comunitaria e aver scoperto che con la pastasciutta si potrebbero anche stuccare i muri, andammo con i ragazzi a prendere un gelato. Nella piazzetta del paese, Giovannino della 3° C, cresciuto a pane e leghismo ortodosso, mi guardò, formulando con il tipico vocione post puberale, la frase: “Professore, qui sono tutti terroni!”, che echeggiò per tutto il paese, rimbalzando per le vallate fitte di noccioli fno al golfo di Napoli, dove si spense tra le onde. Non ci fu bisogno di lezioni morali o punizioni: nei giorni successivi gli sciagurati stereotipi instillati nella mente padana di Giovannino, furono demoliti a colpi di sfogliatelle alla crema, pastiera napoletana, pizza e granite al limone. Per non parlare di o’mare, o’Vesuvio e o’ babbà. Dopo aver visitato Napoli, percorso le antiche strade di Pompei ed essere entrata nella solfatara di Pozzuoli uscendone senza perdite significative, la scolaresca l’ultimo giorno si intruppò sulla banchina del porto per l’ultima meta della gita: Capri. Ora, direte voi ma che c’entra l’isola delle sirene o dell’amore, quando non l’isola più bella e soprattutto più cara del mondo, con una qualsiasi gita scolastica? Il fatto è che il prete era originario proprio di lì e non solo ne aveva programmato una visita, ma addirittura, sempre attraverso il suo tentacolare ordine dei Padri Muratori della Preziosa Betoniera, il pernottamento. Almeno ottanta persone, a Capri! Fuori dalla portata di una scuola media del Lussemburgo o un collegio del Bahrein. Visitata l’isola trascorremmo la restante mezza giornata su una spiaggetta dove gli scolari, chi in mutande e calzini, chi in pantaloncini e maglietta, chi direttamente vestito approfttò per fare un bagno. Verso sera sciamando con la tribù per piazza Umberto I, la famosa piazzetta isolana, un paio di signori mi si avvicinarono con infastidita gentilezza e mi dissero: “Cercate di fare presto, perché l’ultimo traghetto per Napoli parte tra venti minuti”. Li ringraziai della loro pelosa sollecitudine e risposi che non c’era fretta, visto che avremmo passato la notte nella boscaglia tra Capri e Anacapri a cacciare la selvaggina. E forse sarebbe stato meglio, poiché finii a condividere uno stretto lettuccio con un collega che univa ad una opposta fede politica un formidabile russare. Cosa della quale costui mi accusò non appena svegliatosi al mattino, come da miglior tradizione coniugale.

Alberto Graziani

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