I MATERIALI LAPIDEI ORNAMENTALI NEGLI ALTARI DELLE CHIESE DELLA DIOCESI DI PIAZZA ARMERINA

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ISTITUTO UNIVERSITARIO DI ARCHITETTURA DI VENEZIA Corso di Laurea in Storia e Conservazione dei beni architettonici ed ambientali

SALVATORE SCEBBA

I MATERIALI LAPIDEI ORNAMENTALI NEGLI ALTARI DELLE CHIESE DELLA DIOCESI DI PIAZZA ARMERINA REALIZZATI TRA IL XVI ED IL XVIII SECOLO

TESI DI LAUREA

Relatore : LORENZO LAZZARINI

ANNO ACCADEMICO 2002-2003


INDICE

Premessa………………………………………………………………………………………

p. 1

CAPITOLO 1: La Diocesi di Piazza Armerina. Geografia e vicende storiche ……………………

p. 6

1.1 Confini e territorio della Diocesi …………………………………………………… 1.2 Fondazione e storia del Vescovato …………………………………………………

p. 7 p. 11

CAPITOLO 2: Tra Occidente ed Oriente. Sviluppi artistici ed architettura barocca nelle città della Sicilia centrale dalla fine del XVI secolo al XVIII secolo ……………………

p. 17

2.1 La Sicilia nel Seicento e nel Settecento…………………………………………… 2.2 Il Barocco in Sicilia: motivi, protagonisti ed opere principali………………… 2.3 Tendenze artistiche nelle città dell’entroterra siciliano…………………………

p. 18 p. 28 p. 39

CAPITOLO 3: L Le pietre ornamentali nell’architettura barocca……………………………………… e 3.1 Marmi e Diaspri. Litotipi principali e località di cava…………………………… 3.2 Utilizzo delle pietre ornamentali negli interni delle chiese: principali tecniche e motivi decorativi………………………………………………………… 3.3 Architetti, marmorari e maestranze specializzate…………………………………

p. 58 p. 63

Schede di analisi………………………………………………………………………………

p. 67

-

p. 48 p. 49

Premessa alle schede di analisi degli edifici religiosi Indice degli edifici esaminati Schede di analisi degli edifici religiosi esaminati

Conclusioni……………………………………………………………………………………

p. 254

Bibliografia……………………………………………………………………………………

p. 263

Catalogo dei litotipi rilevati………………………………………………………………… -

Indice delle schede di identificazione dei marmi Schede di identificazione dei marmi siciliani Schede di identificazione dei marmi dell’Italia peninsulare Schede di identificazione dei marmi esteri Schede dei marmi non identificati

p. 273


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Premessa L’avvento della Controriforma, nella prima metà del secolo XVI, e la contemporanea diffusione in Sicilia dei motivi del Rinascimento e del Manierismo romano segnano l’inizio per l’isola di una nuova fase artistica, il principio di un cammino, durato più di due secoli, nel corso del quale intere città hanno cambiato volto, rimodellando il loro aspetto medioevale in funzione del mutato modo di intendere l’arte, e più in generale la vita, aiutate purtroppo in questa loro metamorfosi anche da tremende ed imprevedibili calamità naturali, su tutte il terremoto del gennaio del 1693 che devastò gran parte della Sicilia Orientale, provocando migliaia di vittime tra la popolazione1. Si tratta dell’inizio di un processo di trasformazione del gusto estetico che porterà ben presto la Sicilia entro i confini della nuova arte barocca, che da Roma si irradierà in quasi tutta Europa a partire dalla fine del secolo XVI, rielaborata però in chiave locale dagli artisti dell’isola, alla luce della ancora viva tradizione artistica gotico – catalana e prima ancora delle esperienze bizantina, araba e normanna. Forse è proprio a questa commistione di esperienze, tra loro anche molto differenti, che avevano profondamente inciso nell’animo del popolo siciliano determinando mutazioni etniche e stratificazioni culturali, che si deve imputare l’assimilazione tardiva e condizionata dei temi e dei motivi figurativi del Rinascimento, e che ha portato nel giro di pochi decenni a raggiungere esiti artistici originali ed imprevedibili. Non bisogna poi dimenticare l’importante ruolo giocato in questo processo di definizione e diffusione della nuova arte barocca dalla particolare situazione politica, sociale ed economica che caratterizzava in quegli anni la Sicilia, con la radicata presenza Spagnola nell’isola, una pesante crisi economica, un ambiente entusiasticamente inserito entro 1

S. BOSCARINO, Sicilia Barocca. Architetture e città 1610-1760, Roma, 1991, pp. 2088

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l’ortodossia cattolica, ed i numerosi Baroni, Conti, Marchesi e Principi, che di fatto detenevano il potere entro i propri feudi, atteggiandosi a veri e propri sovrani. Nella terra che aveva accolto l’arte dei primi coloni greci e dei romani il classicismo rinascimentale, con il rigorismo delle sue strutture e i suoi principi di ordine, simmetria e solidità, si insinuerà con fatica e verrà ben presto superato da una concezione dinamica dell’arte, intesa come meraviglia,

invenzione,

creatività

pura,

movimento

continuo

e

ornamento2. Il barocco siciliano in ciò si differenzierà anche da quello romano, ben più famoso e di cui in fondo è una derivazione, traendo da questo i motivi fondamentali della nuova concezione artistica, ma lasciando più spazio alla materialità, alla esuberanza delle decorazioni ed all’estro degli artisti. Una tale visione dell’arte non poteva limitarsi solamente alla produzione architettonica, in sé notevole nel periodo che va dalla fine del ‘500 in avanti3, ma investirà ogni campo delle arti ornamentali e decorative dando luogo ad una molteplicità di fatti artistici, diversi tra loro, spesso però fusi insieme per offrire composizioni ancora più sfarzose. È questo il caso dei ricchi rivestimenti parietali realizzati all’interno delle chiese secondo la tecnica dell’intarsio marmoreo (decorazione “a mischio”), utilizzando pietre colorate dai toni vivaci per creare motivi ornamentali di ispirazione naturalistica, caratterizzati dalla complessità delle linee, con continui intrecci e volute4. Architettura, pittura e scultura si uniscono tra loro per dare vita ad una composizione che suscita così sentimenti di meraviglia e stupore, impressionando con la sua fastosità l’osservatore. Nell’ambito della produzione artistica barocca uno spazio importante meritano quindi le creazioni legate alla lavorazione delle pietre 2

G.B. COMANDE’, Idee estetiche ed architettura nel barocco siciliano, Palermo, 1965, pp. 9-10 3 S. BOSCARINO, op. cit., pp. 89-229 4 S. PIAZZA, I marmi mischi nelle chiese di Palermo, Palermo, 1992 IUAV - Istituto Universitario di Architettura di Venezia Corso di Laurea in Storia e Conservazione dei beni architettonici ed ambientali

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ornamentali colorate, impiegate oltre che nei rivestimenti parietali anche nella realizzazione e decorazione degli altari marmorei, che arredano gli interni di gran parte delle chiese realizzate o rinnovate in questi anni. Si tratta di vere e proprie architetture in miniatura nelle quali gli artisti possono con più libertà, ed in maniera più radicale, applicare quei principi di dinamismo, complessità delle forme e ricchezza della decorazione che caratterizzano l’arte di questi anni, a cui prima già si accennava. Nel periodo che va dalla fine del XVI a tutto il XVIII secolo vengono eseguiti un po’ ovunque nell’isola un gran numero di questi altari, in forme e dimensioni sempre tra loro differenti. Sono opera di maestranze specializzate che molto spesso si spostano di città in città alla ricerca di commissioni, chiamate dalle municipalità, dal clero, dagli ordini religiosi, oppure dai numerosi Signori feudali, sempre più desiderosi di manifestare, attraverso la ricchezza di tali composizioni, la loro magnificenza. Questo studio guarda proprio a tale particolare ambito della produzione artistica siciliana, da un punto di vista tuttavia inusuale, perché concentrato sulla città di Piazza Armerina e sui paesi ad essa vicini che fanno parte della sua diocesi. Fino ad oggi infatti tutte le analisi sul barocco della Sicilia hanno riguardato esclusivamente i centri più importanti dell’isola, ovvero le grandi città portuali, quali Palermo, Messina, Siracusa e Catania, sicuramente le più ricche, in quanto importanti poli mercantili, e tra le prime ad accogliere e sviluppare le innovazioni artistiche provenienti dal continente. Grande rilevanza è stata inoltre data ai centri della Sicilia Orientale devastati dal terremoto del 1693, proprio per l’eccezionalità del fenomeno e l’originalità di una ricostruzione, cui si assistette negli anni immediatamente successivi alla calamità, durante la quale intere città furono rifondate, talvolta in differenti siti, secondo i criteri rispondenti al nuovo gusto architettonico, applicati al costruito in maniera uniforme, IUAV - Istituto Universitario di Architettura di Venezia Corso di Laurea in Storia e Conservazione dei beni architettonici ed ambientali

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tanto da produrre veri e propri apparati scenografici, ancora oggi suggestivi e sfarzosi. Di contro ben poco ci si è occupati di quei centri dell’entroterra siciliano, che da sempre hanno avuto grande importanza strategica e militare per il controllo dell’isola, ma che allo stesso tempo sono stati spesso trascurati dagli storici dell’arte, oppure analizzati in maniera superficiale in quanto centri minori, caratterizzati da singole emergenze architettoniche ed isolati fatti artistici, liquidati troppo frettolosamente come episodi secondari all’interno del panorama artistico generale siciliano. È proprio in questi centri che si ha la conferma di come invece l’arte barocca sia stata il frutto di una sensibilità artistica diffusasi in maniera uniforme nel territorio, che ha raggiunto anche le località più isolate. Ciò soprattutto grazie alla presenza di una ricca aristocrazia feudale, desiderosa di esprimere attraverso precise iniziative artistiche nei luoghi da essa controllati la propria nobiltà ed il proprio potere, e di un clero, che assieme agli ordini religiosi, era fortemente radicato sul territorio e detentore di un grande patrimonio economico. Molto spesso ritroviamo alcuni tra i più importanti artisti del barocco siciliano impegnati presso i centri minori dell’entroterra siculo in realizzazioni di grande importanza storica ed artistica, ed i contatti con le città maggiori di Palermo, Catania e Messina sono costanti e ben documentati, sia per quel che riguarda l’ambito architettonico, che per quanto concerne la scultura e la pittura. Allo stesso modo, mentre ci si è a lungo, e giustamente, soffermati nell’analisi degli impianti cittadini, soprattutto dei centri di nuova fondazione, nello studio delle facciate e degli interni di edifici religiosi e civili, e nella descrizione dei temi figurativi degli apparati scultorei e pittorici, la presenza di opere altamente significative e caratteristiche della sensibilità artistica del periodo barocco, quali gli altari marmorei, decorati da pietre ornamentali colorate, è spesso passata in secondo piano, oppure è stata addirittura ignorata. IUAV - Istituto Universitario di Architettura di Venezia Corso di Laurea in Storia e Conservazione dei beni architettonici ed ambientali

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Attraverso la presente ricerca si vuole quindi riportare l’attenzione su di uno degli aspetti più peculiari della produzione artistica barocca, ed allo stesso tempo, grazie a questo, sottolineare l’importante ruolo svolto dalle città dell’entroterra, nell’ambito del panorama artistico isolano, e la presenza in questi luoghi di un ricco patrimonio architettonico, e più in generale artistico, il più delle volte abbandonato a se stesso, scarsamente conosciuto e valorizzato, e spesso a rischio di sopravvivenza. Nel caso specifico degli altari marmorei lo studio si è concentrato sulla identificazione ed analisi dei litotipi utilizzati per la loro realizzazione, condotto esclusivamente sulla base di un esame visivo diretto delle caratteristiche macroscopiche delle pietre, senza trascurare il contesto sociale, politico ed artistico, di cui sono il prodotto, né l’edificio nel quale fisicamente si trovano. Si vuole così fornire un contributo concreto relativamente alla individuazione ed alla conoscenza di queste opere, che funga quale punto di partenza per successive e più approfondite ricerche. Solo attraverso una indagine diretta e profonda di queste realizzazioni è infatti possibile pensare alla loro conservazione e valorizzazione, dal momento che nessuna attività di restauro può prescindere da una analisi dettagliata della materia del manufatto su cui si interviene.

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CAPITOLO 1 La Diocesi di Piazza Armerina. Geografia e vicende storiche.

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Confini e territorio della Diocesi La Diocesi di Piazza Armerina costituisce il preciso ambito geografico entro il quale è stato condotto il presente studio, finalizzato ad indagare uno dei tanti temi che hanno caratterizzato la produzione artistica siciliana nel periodo che va dalla fine del secolo XVI all’intero secolo XVIII, e che comunemente viene identificato dagli storici dell’arte come età “barocca”, ovvero gli altari marmorei decorati da pietre ornamentali colorate, messe in opera secondo la tecnica dell’intarsio. Si tratta di un’area non molto vasta, situata nel cuore dell’isola, comprendente dodici comuni, dei quali sette (Enna, Piazza Armerina, Valguarnera, Villarosa, Pietraperzia, Barrafranca, Aidone) appartengono alla Provincia di Enna, mentre i rimanenti cinque (Gela, Butera, Mazzarino, Riesi, Niscemi) fanno parte della Provincia di Caltanissetta. Tuttavia, al momento della sua creazione, avvenuta nel 18171, la Diocesi aveva un assetto ben differente da quello attuale appena descritto, essendo nata esclusivamente dallo smembramento della Diocesi di Catania. Comprendeva infatti al suo interno i centri di Assoro, Agira, Leonforte, Mirabella e Nissoria in luogo di quelli di Gela, Butera, Mazzarino, Niscemi e Riesi, che invece appartenevano dal 1817 alla Diocesi di Caltagirone e prima di questa data a quella di Siracusa. Solo nel 1844, in occasione di una riorganizzazione dell’assetto delle circoscrizioni religiose siciliane promosso dalla Santa Sede, con l’istituzione dei nuovi vescovati di Noto, Caltanissetta, Acireale e Trapani, la Diocesi di Piazza Armerina assunse la conformazione attuale cedendo alcuni dei comuni della zona centrale dell’isola ed acquisendone degli altri nell’area a sud della città Vescovile.

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E. FRANCHINO, La Diocesi di Piazza Armerina. Ragioni storiche della sua erezione, Piazza Armerina (EN), 1929 IUAV - Istituto Universitario di Architettura di Venezia Corso di Laurea in Storia e Conservazione dei beni architettonici ed ambientali

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Nei suoi confini quindi oggi la Diocesi ricalca in parte il territorio dell’antica Comarca di Piazza Armerina2, comprendendo paesi dal passato in parte comune, un tempo casali o feudi più o meno estesi, spesso proprietà di famiglie nobiliari tra loro imparentate, e due città demaniali (Enna e Piazza Armerina), dalla notevole importanza strategica e militare in ambito isolano, le quali, proprio perché situate nel cuore della Sicilia, sono state spesso protagoniste della storia dell’isola, al pari delle ben più grandi e famose città di Palermo, Messina e Catania. Quest’area vide fiorire le antiche civiltà dei Siculi e dei Sicani, di cui ancora oggi rimangono numerosi resti archeologici disseminati un po’ ovunque nel territorio. A segnare il confine tra i due popoli era il fiume Himera, oggi Salso, che scorre proprio lungo la parte centrale dell’isola, vicinissimo ai paesi di nostro interesse. Tutti i comuni della Diocesi possono vantare all’interno dei propri confini insediamenti riconducibili a queste popolazioni3. Le fonti ci hanno tramandato i nomi di alcune importanti città sicule tra cui Ibla Geleate (o Erea), la minore delle tre ible presenti in Sicilia, Maktorion, citata da Erodoto, Morgantina, Omphakè ed Herbita. Per tutti questi centri, che si conosce essere sicuramente esistiti in quest’area, vengono solo avanzate delle ipotesi sulla loro esatta ubicazione fatte sulla base dei notevoli resti archeologici individuati. Tra questi in particolare ricordiamo i siti rinvenuti nei pressi di Enna (Capodarso), Piazza Armerina (Montagna di Marzo, Monte Navone, Monte Manganelli), Butera (Desusino, Desueri), Aidone (Morgantina) e Mazzarino (Bubbonia). Tra le testimonianze archeologiche presenti nel territorio della Diocesi inoltre una menzione particolare meritano il sito di Gela, importante polis 2

Il territorio siciliano nel 1583 dall’amministrazione spagnola era stato suddiviso in 44 Comarche per rendere più efficiente la gestione burocratica, soprattutto nell’accentramento e nella riscossione delle imposte. La Comarca abbracciava più comuni contigui, sia demaniali che feudali, superando quindi l’antica ripartizione, molto più vasta, in tre Valli, risalente al periodo arabo. 3 V. AMICO, Dizionario topografico della Sicilia, Palermo, 1855 IUAV - Istituto Universitario di Architettura di Venezia Corso di Laurea in Storia e Conservazione dei beni architettonici ed ambientali

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greca fondata nel VII sec. a.C. da coloni rodio – cretesi4, e soprattutto la ricca residenza patrizia nota come Villa del Casale, sorta probabilmente nel II sec. d.C. ma rinnovata ed ampliata nel IV sec. d.C.5 I romani infatti si insediarono stabilmente in questi luoghi, che divennero per

la

Capitale

dell’impero

una

delle

principali

fonti

di

approvvigionamento di frumento, e fortificarono la zona con strutture difensive quali torri e castelli, poi ristrutturati ed utilizzati in età medievale, ed ancora oggi ancora visibili. I notabili della classe senatoriale intanto amavano risiedere presso le loro tenute siciliane, dedicandosi alla gestione delle loro aziende agricole ed al loro otium. La villa, secondo alcuni addirittura nata come residenza di uno dei Tetrarchi, Massimiano Erculeo, è giunta sino ai nostri giorni e costituisce uno dei più begli esempi di villa rurale romana, con la sua estensione, i suoi grandi ed articolati ambienti e la sua ricchissima decorazione musiva, che ricopre interamente i pavimenti di tutti i vani che costituiscono il complesso residenziale. È con l’arrivo dei Normanni nell’isola, guidati dal Gran Conte Ruggero, che la Sicilia venne strappata alla dominazione araba ed ebbe iniziò lo stanziamento di genti lombarde che ha in maniera decisiva segnato la cultura di molti dei centri dell’entroterra siculo ed in particolare all’interno della Diocesi soprattutto dei comuni di Aidone, Piazza Armerina ed Enna, lasciando tracce indelebili in particolare nell’idioma locale, definito dai linguisti moderni “Gallo – italico”. Da questo momento in poi, a causa della diffusione del sistema feudale, sarà un fiorire di principati, marchesati e contee e la storia di questi centri coinciderà sempre più con quella delle potenti famiglie feudali che, per concessione regia, ne detenevano il possesso; ed anche nelle città demaniali sarà una ristretta cerchia di famiglie aristocratiche, assieme al clero, a governare e ad indirizzare politicamente la comunità cittadina. 4 5

N. VICINO, Gela nella sua storia, Modica (RG), 1981 B. PACE, I mosaici di Piazza Armerina, Roma, 1955

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In particolare nei tre secoli della dominazione spagnola in Sicilia nei territori dell’entroterra, e quindi in molti dei comuni che oggi costituiscono il territorio della Diocesi di Piazza Armerina, si rafforzerà la presenza di poche potenti famiglie aristocratiche, le quali accumuleranno titoli, venduti in alcuni periodi dalla stessa Corona spagnola per aumentare le proprie entrate, e ricchezze, soprattutto attraverso lo sfruttamento agricolo del territorio6. Tra le più importanti famiglie feudali, che per tutto il periodo della dominazione spagnola controlleranno il territorio della Sicilia centrale, legandosi spesso tra loro attraverso matrimoni incrociati in modo da unificare e quindi accrescere i loro già ingenti possedimenti, ricordiamo la potente famiglia dei Branciforti, residente a Mazzarino e che tra i propri titoli poteva vantare quello di Principi di Butera, primo titolo del regno, quella dei Barrese di Pietraperzia, dei Moncada di Caltanissetta, dei Santapau di Butera, dei Trigona di Piazza Armerina e dei Chiaramonte.

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S. CORRENTI, Storia di Sicilia come storia del popolo siciliano, S.G. La Punta (CT), 1995 IUAV - Istituto Universitario di Architettura di Venezia Corso di Laurea in Storia e Conservazione dei beni architettonici ed ambientali

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Fondazione e storia del Vescovato La diocesi di Piazza Armerina nasce nel 1817, dallo smembramento delle Diocesi di Catania e di Siracusa, ed è pertanto relativamente recente, dal momento che conta meno di duecento anni di storia7. In Sicilia fino a questa data esistevano solamente sei Vescovati e due Arcivescovati, per cui, già intorno alla metà del secolo XVIII, ci si era resi conto della necessità di ridefinire l’assetto delle diocesi, aumentandole di numero e creandone quindi delle nuove, soprattutto nella zona centrale dell’isola. Il processo che portò alla creazione della Diocesi di Piazza Armerina fu lungo e complesso, caratterizzato soprattutto da aspri scontri con altre municipalità vicine che rivendicavano per sé la Cattedra Vescovile. È nel 1778 che per la prima volta, durante un Parlamento Generale del Regno, viene sottolineata l’insufficienza delle diocesi esistenti, avanzando istanza al Re Ferdinando IV di Borbone affinché, smembrando i vasti Vescovati esistenti, ne erigesse di nuovi. Il Re tuttavia in quella occasione prese tempo, in attesa che gli venisse sottoposto un piano specifico, relativo alla nuova distribuzione territoriale. Solo nel 1802 però venne presentata al Sovrano una dettagliata relazione contenente tale piano di smembramento, il quale prevedeva la creazione di tre nuove Diocesi presso le sedi municipali di Caltagirone, Piazza Armerina e Nicosia, stabilendo con esattezza quali comuni avrebbero fatto parte delle nuove circoscrizioni religiose. Il documento fu esaminato l’anno successivo in occasione del Parlamento Generale del Regno, durante il quale furono anche vagliati i ricorsi presentati dalle altre città, alcune delle quali erano state in antico a capo di diocesi ormai non più esistenti, che si proponevano quali sedi vescovili

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E. FRANCHINO, op. cit.

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alternative a quelle proposte (tra queste Enna – Castrogiovanni, Troina, Cerami, Randazzo, ecc.). La Deputazione del Regno, vagliati tutti i documenti, reputò idonee le tre città, respingendo tutti i ricorsi e le querele. La scelta fu motivata non dal fatto che così venivano ripristinate antiche sedi vescovili, ormai scomparse, ma per la centralità e accessibilità dei siti, nonché per il numero della popolazione, per le dimensioni del centro abitato, per l’idoneità delle infrastrutture e per la nobiltà e le tradizioni storiche che tali centri potevano vantare. Si chiudeva così la fase preliminare e politica relativa alla creazione dei nuovi Vescovati. Nel 1805 venne quindi avanzata dal Re delle Due Sicilie, Ferdinando IV di Borbone, istanza al Sommo Pontefice Pio VII affinché venissero erette le tre nuove diocesi, e tra queste quella di Piazza Armerina. Con decreto del 1807 il Papa nominò l’Arcivescovo di Palermo, Mons. Raffaele Mormile, Delegato Apostolico per verificare la necessità e l’utilità di un nuovo Vescovato presso Piazza Armerina, smembrandolo da Catania. Furono quindi interpellati tutti i soggetti in causa, per conoscerne l’opinione, e fu verificata l’esistenza di tutte le condizioni tecniche per l’erezione della nuova diocesi. Alla morte di Mons. Mormile il procedimento fu sospeso fino al 1814. In quell’anno fu infatti ripreso dal Vicario Capitolare di Palermo, Mons. Bernardo Serio, Vescovo titolare di Ermopoli. Morto anche Mons. Serio suo successore fu nominato Mons. Gabriele Maria Gravina, Vescovo titolare di Flaviopoli. Nel frattempo la città aveva provveduto a costituire una ricca dote per la Cattedrale e per il novello Vescovo. Erano stati realizzati inoltre il Palazzo Vescovile, il Seminario per i chierici ed il Monte di Pietà, necessari per ottenere la diocesi. La nuova circoscrizione religiosa doveva essere costituita dai seguenti paesi: Aidone, Assoro, Barrafranca, Valguarnera, Enna – Castrogiovanni, IUAV - Istituto Universitario di Architettura di Venezia Corso di Laurea in Storia e Conservazione dei beni architettonici ed ambientali

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San Filippo, Mirabella Imbaccari, Leonforte, Nissoria, Pietraperzia, Villarosa, Piazza Armerina. L’inizio del processo canonico per la creazione della nuova diocesi trovò larga eco presso i comuni coinvolti nella vicenda. Tutte le persone interpellate (rappresentanti del clero e rappresentanti del Senato dei vari comuni) avevano espresso parere positivo, dal momento che la nuova situazione avrebbe portato loro diversi vantaggi, legati soprattutto alla vicinanza con la nuova sede vescovile. Forti opposizioni erano invece venute dalla Diocesi di Catania, che non intendeva cedere parte del suo territorio, e da Enna – Castrogiovanni, che aspirava ad ottenere per sé il Vescovato. Il 10 Maggio del 1815 il Delegato Apostolico comunica le sue conclusioni e dà parere positivo alla creazione della Diocesi di Piazza Armerina. Al termine di questa fase del processo canonico quindi Piazza Armerina veniva ritenuta degna Sede Vescovile. A questo punto il processo prendeva la strada di Roma. Qui ancora Catania ed Enna – Castrogiovanni tentarono di opporsi alla creazione della diocesi di Piazza senza però riuscirvi. Il 27 Marzo del 1817 infatti Piazza Armerina ottenne la Cattedra Vescovile ed alcuni mesi dopo, il 3 Luglio del 1817, la Bolla Pontificia di erezione della nuova diocesi fu finalmente pronta. Per curare l’esecuzione del decreto papale viene incaricato Mons. Filippo Maria Trigona, Vescovo di Siracusa. Nel 1844 la Santa Sede decise di ritoccare nuovamente l’assetto delle circoscrizioni religiose dell’isola, istituendo i nuovi Vescovati di Noto, Caltanissetta, Acireale e Trapani. Alcune delle vecchie diocesi furono così nuovamente modificate nei loro confini e, nel nostro caso specifico, la Diocesi di Piazza Armerina perdette i cinque comuni di Assoro, Agira, Leonforte, Mirabella e Nissoria, acquistando però quelli di Gela – Terranova, Butera, Mazzarino, Niscemi e Riesi.

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Riassumendo in breve quindi, prima della creazione della nuova sede diocesana presso Piazza Armerina, i comuni che oggi ne fanno parte ricadevano alcuni nell’ambito della Diocesi di Catania (Enna– Castrogiovanni, Piazza Armerina, Aidone, Barrafranca, Pietraperzia, Villarosa, Valguarnera), mentre gli altri entro la Diocesi di Siracusa (Butera, Gela - Terranova, Niscemi, Riesi, Mazzarino, ). I cinque comuni della Diocesi di Siracusa, quando questa fu smembrata, agli inizi del secolo XIX, per un breve periodo appartennero alla Diocesi di Caltagirone, entrando a fare parte di quella di Piazza Armerina solo successivamente, quando nuovamente fu ridefinito l’assetto delle diocesi siciliane. I Vescovi che hanno occupato la Cattedra di Piazza Armerina nel corso dei suoi 186 anni di storia sono stati undici, mentre sette sono stati gli Amministratori Diocesani che hanno retto il Vescovato nei periodi, talvolta anche lunghi, durante i quali la sede è rimasta vacante, in attesa della nomina del nuovo Vescovo8. Primo Vescovo di Piazza Armerina fu Mons. Girolamo Aprile Benzo, a partire dal 1819, dopo due anni dalla fondazione della nuova diocesi, durante i quali era stato Mons. Gaetano Trigona a svolgere il compito di Amministratore Diocesano. Mons. Benzo, nativo di Caltagirone, morì ad Enna nel 1836 e da questa data, fino al 1838, la sede Vescovile rimase vacante, retta dal secondo Amministratore Diocesano Mons. Vincenzo Velardita. A partire dal 1838 la Cattedra Vescovile di Piazza fu occupata dal piazzese Mons. Pietro Naselli, secondo Vescovo, dei Principi di Aragona. Questi tenne l’ufficio pastorale per due anni, ovvero fino al 1840, quando vi rinunciò per rivestire la carica di Cappellano Maggiore di corte a Napoli, al servizio del Re Ferdinando II delle due Sicilie, che lo aveva conosciuto durante una sua visita nella città di Piazza Armerina.

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L. VILLARI, Storia ecclesiastica della città di Piazza Armerina, Messina, 1988

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Mons. Vincenzo Velardita tornò quindi a ricoprire la carica di Amministratore diocesano per ben quattro anni, fino al 1844. In questa data fu nominato terzo Vescovo di Piazza Armerina Mons. Pier Francesco Brunaccini, messinese, appartenente alla famiglia dei Principi di San Teodoro. L’anno successivo fu però trasferito alla sede Arcivescovile di Monreale. Fu durante la sua brevissima presenza a Piazza che vennero ritoccati i confini della diocesi, che perse cinque comuni acquisendone però ulteriori cinque, in occasione della creazione nell’isola di quattro nuove diocesi. Il terzo Amministratore Diocesano, Mons. Giuseppe Felice Lattuca, resse la sede Vescovile fino al 1846. L’agrigentino Mons. Cesare Agostino Sajeva infatti in quell’anno divenne il quarto Vescovo della Diocesi, rimanendo in carica per lungo tempo, in un periodo burrascoso per la Chiesa e per l’Italia intera, interessata dalle guerre di Indipendenza che porteranno alla nascita dello Stato Italiano, sotto la guida della Monarchia Sabauda. Morì nel marzo del 1867 e fu sepolto nella Cattedrale di Piazza, in un luogo ancora oggi sconosciuto. Seguì un nuovo e lungo periodo di vacanza della sede vescovile, la cui reggenza era stata provvisoriamente affidata al Mons. Benedetto Maria Trigona della Floresta, in qualità di quarto Amministratore Diocesano. Finalmente nel 1872 giunse la nomina a quinto Vescovo di Piazza Armerina per Mons. Francesco Saverio Gerbino. Questi governò la Diocesi per quindici anni, fino al 1887, anno in cui fu trasferito presso la sede Episcopale di Caltagirone, sua città natale. Venne in tempi brevissimi nominato Mons. Mariano Palermo, proveniente dalla sede Vescovile di Lipari, quale sesto Vescovo della Diocesi di Piazza Armerina, insediatosi nell’anno stesso del trasferimento del suo predecessore. Rimase in carica per lungo tempo, fino alla sua morte avvenuta nel 1903. Entro lo stesso anno fu nominato settimo Vescovo di Piazza Mons. Mario Sturzo, nativo di Caltagirone, fratello e guida spirituale del famoso IUAV - Istituto Universitario di Architettura di Venezia Corso di Laurea in Storia e Conservazione dei beni architettonici ed ambientali

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Luigi, fondatore del Partito Popolare, poi divenuto Democrazia Cristiana. Questi resse la diocesi fino al 1941, coprendo un lungo arco di tempo, nel quale, oltre alla Prima Guerra Mondiale, dovette fronteggiare gli anni di miseria del dopoguerra e l’ascesa del Fascismo, cui sempre, assieme al fratello, si oppose. Si tratta del Vescovo che per più tempo ha occupato la sede Episcopale di Piazza Armerina, legatissimo a questa città, che considerava la sua seconda patria, tanto da desiderare di essere alla sua morte sepolto presso la chiesa Cattedrale, dove ancora oggi riposa. Alla morte di Mons. Sturzo fu incaricato della gestione della diocesi il piazzese Mons. Giuseppe La Vaccara, quale sesto Amministratore Diocesano. Rimase in carica per un anno, fino a quando si insediò il nuovo e ottavo Vescovo della Diocesi di Piazza Armerina, Mons. Antonino Catarella, nativo di Cammarata (AG). Raggiunta nel 1970 l’età di ottanta anni chiese ed ottenne di essere esonerato dal governo della diocesi, quindi si dimise per raggiunti limiti di età. Morì solo due anni dopo e fu anche egli sepolto nella chiesa Cattedrale di Piazza Armerina. Intanto gli era succeduto alla guida della diocesi quale nono Vescovo Mons. Sebastiano Rosso, nato a Chiaramente Gulfi (SR). Questi si insediò ufficialmente nel febbraio del 1971 rimanendo in carica fino al 1986. Nel gennaio di quell’anno infatti chiese alla Santa Sede di essere esonerato dall’incarico per motivi di salute e Papa Giovanni Paolo II accolse la richiesta, nominando quale suo successore Mons. Vincenzo Cirrincione, nativo di Vicari (PA), decimo Vescovo della Diocesi di Piazza Armerina, fino al febbraio 2002, data della sua morte. Con Mons. Michele Pennisi, nato presso Licodia Eubea (CT), undicesimo ed attuale Vescovo di Piazza Armerina, giungiamo infine ai giorni nostri. Dopo alcuni mesi affidati alla reggenza di Mons. Salvatore Zagarella, in qualità di settimo Amministratore Diocesano. Il nuovo Vescovo infatti si è ufficialmente insediato il 3 Luglio del 2002 iniziando così il suo Ministero Episcopale.

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CAPITOLO 2 Tra Occidente ed Oriente. Sviluppi artistici ed architettura barocca nelle cittĂ della Sicilia centrale dalla fine del XVI al XVIII secolo

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La Sicilia nel Seicento e nel Settecento L’espressione di “secolo niente felice” è stata usata per la prima volta per descrivere il secolo XVII dallo studioso ottocentesco V. Di Giovanni nel suo testo intitolato Storia della filosofia in Sicilia1. La stessa espressione è stata ripresa in tempi più recenti dallo storico siciliano S. Correnti, nel suo libro dedicato alla Sicilia del Seicento, sempre per definire un secolo che di fatto fu assai duro per l’isola2. Nell’arco di cento anni infatti fu un susseguirsi continuo di carestie, epidemie, tremende calamità naturali e sanguinose sommosse popolari, causate soprattutto dal cattivo governo dell’amministrazione spagnola, che vessava la Sicilia con tasse e tributi e manteneva ed incentivava una istituzione crudele come quella del Tribunale dell’Inquisizione, lasciando invece che miseria e brigantaggio proliferassero tra la popolazione, mentre i membri della classe aristocratica, dall’alto dei loro privilegi e chiusi nei loro lussuosi palazzi, continuavano a vagheggiare un governo autonomo per la Sicilia. Era infatti tra la nobiltà siciliana diffusa la convinzione che la Sicilia non era stata conquistata dagli spagnoli, ma si era data ad essi per spontanea volontà, per cui i siciliani non erano sudditi della corona spagnola bensì di quella siciliana. In realtà dal 1412, da quando cioè si insediò nell’isola il primo Viceré, non vi furono più monarchi residenti in Sicilia. In un primo momento i nobili avevano ottenuto che il Viceré fosse almeno di sangue regale, tuttavia ben presto tale vincolo non fu più tenuto in considerazione dalla Corona spagnola, tanto che molti dei viceré furono addirittura scelti all’interno dell’aristocrazia siciliana3. Nel corso del secolo tuttavia furono ordite dai baroni numerose congiure contro la Corona con l’obiettivo di eleggere un re di Sicilia tra i membri della

1

V. DI GIOVANNI, Storia della filosofia in Sicilia, Palermo, 1873, p. 245 S. CORRENTI, La Sicilia del Seicento, Milano, 1976, p. 17 3 Ibidem, pp. 8-9 2

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nobiltà locale. Tutte queste congiure furono però scoperte ed i loro protagonisti severamente puniti dall’autorità spagnola4. Assieme alle cospirazioni dei nobili si verificarono inoltre delle rivolte popolari contro il governo spagnolo in varie città dell’isola. Queste tuttavia furono sempre sedate dal potere centrale, grazie anche all’aiuto dei baroni, ma spesso con difficoltà e, talvolta, spargimento di sangue. Tra le rivolte meritano di essere menzionate per le dimensioni che assunsero l’insurrezione di Palermo del 1647, guidata dall’orefice Giuseppe D’alesi5, e quella della città di Messina, avvenuta invece negli anni che vanno dal 1674 al 1678, e ben più grave della prima per le ripercussioni internazionali che provocò nell’ambito della guerra tra le due superpotenze spagnola e francese6. È indubbio come la classe sociale più potente nella Sicilia del Seicento fu la nobiltà, mentre la cultura e l’istruzione erano saldamente nelle mani del clero e degli ordini religiosi, soprattutto di quello dei gesuiti. Abbiamo prima accennato al fatto che la classe nobile, al di là di qualche misero tentativo di ribellione, peraltro sempre fallito, in realtà vivesse quasi inoperosa, immersa nel fasto e noncurante dei tristi destini dell’isola, preoccupata solo di mantenere i propri privilegi. In questi anni l’amministrazione spagnola inoltre perseguì una politica economica che mirava a recuperare fondi attraverso la vendita di titoli nobiliari, concessioni e privilegi. Fu quindi un proliferare di Principi, Baroni, Conti e Marchesi, desiderosi di aumentare il loro prestigio comperando dalla Corona tali titoli, ma in realtà sempre più sulla strada di una lenta ed inesorabile decadenza. Assieme ai titoli gli spagnoli vendevano anche le cosiddette “licentiae populandi”, ovvero la prerogativa di fondare entro i propri feudi delle nuove città. Ebbe inizio così un vasto fenomeno di colonizzazione, 4

S. CORRENTI, Storia di Sicilia, cit., pp. 157-158 S. CORRENTI, La Sicilia del Seicento, cit., pp. 21-22 6 Ibidem, pp. 26-30 5

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proseguito anche nel secolo successivo, che interessò soprattutto l’interno della Sicilia, dove nacquero più di 150 nuovi centri, per opera non solo dei baroni, ma anche per spontanea iniziativa dei cittadini delle stesse comunità7. Di contro si ebbe il contemporaneo spopolamento delle città demaniali,

sulle

quali

maggiore

era

la

pressione

fiscale

dell’amministrazione centrale. I contadini infatti accorrevano volentieri nei nuovi borghi, attirati dalla promessa di una terra da coltivare e da migliori condizioni fiscali (questi centri infatti godevano per un periodo di circa dieci anni della completa esenzione delle tasse da versare alla Corona). I baroni attraverso questa loro iniziativa ottenevano di potere riscuotere le tasse, riservandosi anche l’amministrazione della giustizia civile e criminale, accrescendo il loro peso all’interno del Parlamento del regno. Ad essi si deve generalmente la realizzazione della chiesa madre del paese e del palazzo baronale, che per primi contribuivano alla definizione del nuovo impianto urbano, dal momento che attorno a queste emergenze architettoniche venivano realizzate poi le abitazioni dei cittadini, sicuramente in forme più modeste. Tra i comuni sorti in questi anni abbiamo Barrafranca, ad opera del marchese Matteo III Barresi, che la chiamò così proprio per indicare le franchigie e le esenzioni fiscali di cui questa città godeva8. Nel 1626 fu il turno di Niscemi, per cui il Conte Giuseppe Branciforti di Mazzarino, proprietario del feudo, ottenne il titolo di Principe, fondata nei pressi del luogo in cui alcuni anni prima era stata rinvenuta da un pastore una immagine della Madonna ritenuta dal popolo miracolosa ed ancora oggi patrona di questo comune9.

7

S. BOSCARINO, Sicilia Barocca, cit., pp. 57-65 S. LICATA - C. OROFINO, Un paese dell’entroterra siciliano: Barrafranca. Storia, tradizioni, cultura, Caltanissetta, 1984, p. 21 9 A. MARSIANO, Geografia antropica, Caltanissetta, 1995, pp. 19-26 8

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Il paese di Valguarnera Caropepe fu fondato dal conte Giovanni Valguarnera, che aveva ottenuto la “licentia aedificandi” nel 1549 dall’imperatore Carlo V10. Nel 1647 Riesi sorge sul sito di un precedente piccolo borgo rurale, abitato da contadini, per volontà della famiglia feudale spagnola degli Altariva, sotto la guida amministrativa del loro procuratore in Sicilia Don Cristoforo Benenati11. Ultimo centro oggi facente parte della Diocesi di Piazza Armerina ad essere stato edificato fu il paese di Villarosa nel secolo XVIII. Questo fu fondato quindi solo molti anni dopo la prima ondata di colonizzazione dell’interno, durante la quale erano sorti i paesi precedentemente menzionati, quando nel 1761 il Duca Placido Notarbartolo ottenne la “licentia populandi”12. Il secolo XVII si chiuse in maniera drammatica con il terribile terremoto che nel gennaio del 1693 devastò la Sicilia orientale, distruggendo intere città e causando migliaia di vittime tra la popolazione13. I maggiori danni alle cose ed alle persone conseguenti a tale cataclisma furono registrati presso le città della parte più orientale dell’isola. Catania, Noto, Avola, per ricordare solo le più famose, furono quasi interamente abbattute dal terremoto ed intrapresero negli anni successivi una intensa attività di ricostruzione. Nel caso di Avola e di Noto addirittura si decise di ricostruire la città in un sito differente dal precedente, realizzando in pochi decenni quei capolavori

dell’architettura

barocca

che

ancora

oggi

possiamo

ammirare14.

10

G. GIULIANA, La Diocesi di Piazza Armerina, Caltagirone (CT), 1967, p. 257 G. TESTA, Riesi nella storia, Palermo, 1981 12 G. GIULIANA, op. cit., p. 269 13 S. CORRENTI, op. cit., p. 30 14 S. BOSCARINO, op. cit., pp. 52-56; p. 79 11

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Il terremoto raggiunse in parte anche alcune delle località della Sicilia centrale, provocando danni molto più lievi e soprattutto nessuna vittima tra la popolazione. I comuni di Niscemi, Aidone, Barrafranca, Enna e Piazza Armerina furono quelli più danneggiati dal sisma e necessitarono negli anni seguenti di lavori di restauro di alcune delle loro chiese e dei loro palazzi. In particolare a Niscemi quasi tutte le chiese esistenti furono ricostruite in forme ancora più grandiose dopo il sisma e la stessa cosa grossomodo avvenne nella cittadina di Aidone, dove i maggiori danni furono riportati dalla chiesa madre di San Lorenzo la cui facciata fu danneggiata e poi interamente ricostruita, e dove ancora oggi è possibile scorgere nei ruderi del vecchio castello medievale i segni della violenza del terremoto. I rimanenti comuni superarono pressoché indenni la sciagura e si prodigarono nell’aiuto dei centri più danneggiati. Il Principe di Butera Carlo Maria Carafa, signore colto ed erudito tra i più potenti di Sicilia che risiedeva presso Mazzarino, in occasione di questo drammatico evento dovette registrare entro i suoi possedimenti danni consistenti oltre che in alcune delle città prima menzionate, facenti parte dei suoi numerosi feudi, anche nella cittadina di Occhiolà, maggiormente vicina all’epicentro del sisma, e praticamente rasa interamente al suolo. Egli stesso immediatamente si prodigò per soccorrere la popolazione in difficoltà inviando aiuti consistenti e si occupò personalmente della ricostruzione del paese in un sito differente dal precedente, con il nuovo nome di Grammichele, disegnandone il particolare impianto esagonale con piazza al centro della città, su cui si affacciano tutti gli edifici principali (chiesa madre, il municipio ed il palazzo del Principe), e da cui si dipartono poi sei strade rettilinee, poste su ciascuno degli assi dei lati dell’esagono, famoso e spesso studiato dagli urbanisti proprio per la sua originalità15.

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S. BOSCARINO, op. cit., pp. 82-83

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Il secolo XVIII fu invece dal punto di vista politico determinante per la Sicilia che da regno indipendente, anche se unito ad un regno forestiero nella persona del re, divenne subordinata ad un altro Stato, dal momento che nel 1735 l’isola entrò di fatto a fare parte del regno dei Borboni di Napoli, conservando solo nominalmente, per ancora alcuni decenni, la sua prerogativa di regno indipendente16. Ma il Settecento si era aperto con la grave crisi dinastica che aveva interessato la Spagna alla morte di Carlo II, passata alla storia come “guerra di successione spagnola”, culminata con il trattato di Utrecht del 1713, che sancì definitivamente la fine della dominazione spagnola sull’isola. Da questo momento in poi infatti la Sicilia, in seguito ai nuovi equilibri politici stabiliti dalle potenze europee, da tempo in lotta tra loro per la supremazia sul continente, divenne proprietà del duca Vittorio Amedeo II di Savoia, che quindi assunse il titolo di Re di Sicilia. Egli giunse a Palermo nello stesso anno ed il 24 dicembre del 1713 venne solennemente incoronato re nel duomo di Palermo17. I siciliani inizialmente accolsero con entusiasmo il nuovo re credendo che questo si sarebbe stabilito a Palermo, realizzando finalmente l’eterno e mai concretizzato sogno di un regno di Sicilia indipendente, quale era stato al tempo dei normanni. Tuttavia furono ben presto delusi da Vittorio Amedeo che dopo circa un anno di permanenza nell’isola tornò in Piemonte, nominando un viceré che si occupasse del governo della Sicilia. Alle più alte cariche dello Stato furono inoltre chiamati solo funzionari piemontesi, mentre le iniziative politiche ed in materia economica e fiscale del nuovo sovrano finirono per scontentare tutte le componenti della popolazione siciliana, soprattutto l’aristocrazia, ancora fortemente filospagnola18. 16

S. CORRENTI, La Sicilia del Settecento, Catania, 1985, pp. 18-19 S. CORRENTI, Storia di Sicilia, cit., p. 174 18 S. CORRENTI, La Sicilia del Settecento, cit., pp. 28-29 17

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Approfittando quindi del crescente malumore contro i piemontesi della Sicilia, la Spagna tentò di rientrarne in possesso inviando una spedizione militare, ma fu bloccata nel suo progetto dall’intervento degli austriaci, che a loro volta si impadronirono dell’isola. Il governo austriaco in Sicilia fu breve e mai accettato dai siciliani. Dopo soli quindici anni infatti il re Carlo di Borbone, sconfitti gli austriaci nella battaglia di Bitonto nel 1734, venne a prendere possesso dell’isola, accolto favorevolmente dalla popolazione. Carlo venne proclamato re a Palermo nel 1735, e fu l’ultimo re ad essere incoronato in questo luogo, assumendo il titolo di III re di Sicilia e IV re di Napoli, mantenendo una separazione, almeno nominale, tra i due stati. Inizia così per la Sicilia una nuova fase politica, sotto il controllo dei Borboni di Napoli, durante la quale il nuovo re provvide a riformare lo Stato siciliano, smantellando gradualmente il sistema feudale, che per tutto il medioevo era stato alla base dell’organizzazione statale isolana. Condusse con saggezza ed astuzia inoltre una lotta contro gli abusi baronali, mentre furono mitigati i tributi, destinati da questo momento quasi esclusivamente ai bisogni dell’isola19. A Carlo di Borbone, divenuto nuovo re di Spagna nel 1759, successe il figlio Ferdinando che nel 1816 divenne primo “Re delle Due Sicilie” eliminando il doppio titolo di “Re di Sicilia” e “Re di Napoli” rimasto in vigore fino a quel momento20. Il Secolo XVIII si chiuse con la presenza al governo dell’isola di due grandi viceré: il marchese Domenico Caracciolo di Villamaina ed il principe Francesco D’Aquino di Caramaico. Entrambi questi personaggi svolsero in Sicilia una politica riformatrice e di lotta contro una nobiltà ormai allo sfascio e piena di debiti, riducendone i privilegi. Il Caracciolo soppresse nel 1782 il tribunale del Sant’Uffizio, destinandone le cospicue 19 20

S. CORRENTI, op. cit., pp. 34-35 S. CORRENTI, Storia di Sicilia, cit., p. 192

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rendite alla creazione di istituti culturali, mentre il principe di Caramaico, tra le tante sue iniziative, abolì le “angherie”, residuo del vecchio sistema feudale di tipo medievale21. Come abbiamo visto quindi il Settecento fu inizialmente un secolo di incertezza politica, in seguito ai vari avvicendamenti al governo dell’isola, e di trasformazione dell’assetto dello Stato, a partire dalla seconda metà del secolo, ponendo fine a quella che era stata l’organizzazione medievale del regno, a favore della creazione di uno Stato moderno, secondo le nuove idee illuministe dell’epoca, che sempre più prendevano piede in tutta Europa. In tutto questo il ruolo del popolo siciliano, con le sue diverse componenti, fu secondario e per lo più passivo. Mai infatti questo ebbe modo di decidere le proprie sorti ed il proprio governo, mentre sempre fu costretto ad adeguarsi alle situazioni di volta in volta predisposte da soggetti esterni all’isola stessa, nell’ambito di superiori interessi ed equilibri internazionali. Soprattutto la nobiltà sembrò sempre in maniera accondiscendente accettare i vari governi succedutisi in questi pochi anni, in cambio della promessa del mantenimento dei propri privilegi e dei propri titoli, illudendosi che da questi potesse nascere una forte monarchia siciliana, finalmente indipendente, con un sovrano residente nell’isola. Si trattava sempre della classe sociale più importante della Sicilia, accresciutasi nel frattempo di numero e proprietaria, assieme agli ecclesiastici, della quasi totalità delle terre che costituivano il patrimonio terriero dell’isola; tuttavia questa aveva ormai imboccato la strada inesorabile del declino, in seguito soprattutto alla incapacità di molti suoi rappresentanti nell’amministrare i propri patrimoni ed alla politica riformatrice dei nuovi dominatori Borboni, a cui prima si accennava, tendente a diminuirne i privilegi ed a contrastarne i soprusi. 21

S. CORRENTI, La Sicilia del Settecento, cit., pp. 37-39

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I ricchi signori feudali infatti molto presto sperperarono le loro fortune vivendo nel lusso e nello sfarzo, ritrovandosi pieni di debiti, mentre i loro poteri in Parlamento erano ormai molto limitati22. Le città dell’entroterra in questi anni seguiranno i destini dell’intera isola, adeguandosi continuamente alla mutata situazione politica. I signori feudali, proprietari di questi centri, continueranno a governare i propri possedimenti, dedicandosi allo sfruttamento agricolo del territorio ed impegnandosi di tanto in tanto in imprese architettoniche più o meno rilevanti, attraverso cui manifestare la loro ricchezza ed il loro potere. I paesi che sul finire del secolo precedente avevano subito danni ai propri edifici in occasione del sisma del 1693 per tutto il secolo provvidero alla loro ricostruzione, grazie ai fondi messi a disposizione dal signore feudale, dalla nobiltà locale, oppure in seguito a mobilitazioni popolari che portavano all’accumulo delle somme necessarie. Molto spesso la ricostruzione, soprattutto degli edifici religiosi, avveniva secondo programmi architettonici impegnativi, tanto da richiedere lunghi periodi di realizzazione ed ingenti somme di denaro. Abbiamo già detto del caso di Niscemi, dove tutte le chiese esistenti nella cittadina, realizzate nel corso della seconda metà del secolo XVII, quando la città era stata fondata, furono danneggiate pesantemente dal terremoto tanto da essere ricostruite tutte nel corso del Settecento, sullo stesso sito delle chiese preesistenti, ma in forme più grandiose e riccamente decorate, secondo i motivi ornamentali tipici della architettura barocca. Nel frattempo le altre città fondate nel secolo precedente, dopo la concessione della licenza di edificazione da parte del sovrano, vedevano la loro popolazione crescere ininterrottamente di numero, assumendo gradualmente, da piccoli borghi quali inizialmente erano, l’aspetto e le dimensioni di veri e propri paesi.

22

S. CORRENTI, op. cit., pp. 211-216

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Ai centri di Riesi, Niscemi, Valguarnera e Barrafranca, sorti nel corso del secolo XVII, si aggiunse inoltre nel 1761 Villarosa, l’ultimo dei paesi oggi facenti parte della Diocesi di Piazza Armerina ad essere stato fondato per concessione regia della “licentia populandi”, come ricordato in precedenza. Anche le città demaniali di Enna e di Piazza Armerina nel corso di questo secolo aumentarono la loro popolazione, assumendo sempre più il ruolo di città guida attorno a cui graviteranno gli altri centri vicini, impegnandosi inoltre in importanti realizzazioni architettoniche, quale quella del Duomo di Piazza Armerina, ultimato intorno alla metà del secolo XVIII, dopo lunghe e complesse vicende costruttive, iniziate nel secolo precedente. Piazza Armerina inoltre venne indicata dal Parlamento del regno come possibile sede di una delle nuove diocesi che si era deciso di erigere nell’entroterra siculo, provvedendo così ad una profonda riorganizzazione delle circoscrizioni religiose dell’isola. La città, nonostante la strenua opposizione di Enna, da sempre sua rivale, diventerà sede Vescovile all’inizio del secolo successivo, al termine di un lungo iter burocratico, condotto secondo quella che è la procedura indicata dal diritto canonico in queste circostanze, descritto nel capitolo precedente23.

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E. FRANCHINO, op. cit.

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Il Barocco in Sicilia: motivi, protagonisti ed opere principali È ormai stata definitivamente abbandonata dagli studiosi di storia dell’arte la tendenza a connotare negativamente la produzione artistica siciliana dei secoli XVII e XVIII, considerandola di secondario interesse, nell’ambito del panorama artistico nazionale, ed espressione della decadenza e della corruzione dei principi dell’arte classica, che erano stati alla base del Rinascimento italiano. Si riteneva infatti, in maniera forse troppo superficiale, che la Sicilia fosse rimasta estranea a quel movimento di rinnovamento artistico, sviluppatosi intorno alla fine del Quattrocento, che aveva portato i centri principali della penisola, e soprattutto Roma e Firenze, al superamento dell’arte medievale, attraverso la riscoperta e la riproposizione dei motivi tipici della classicità greca e romana, con la realizzazione di meravigliose opere d’arte, frutto dell’ingegno di alcuni tra i più grandi artisti che la storia abbia mai conosciuto. Solo in un secondo momento invece, sempre secondo questa visione semplificata e distorta della storia dell’arte siciliana, nell’isola sarebbero stati introdotti i temi del barocco romano, passivamente imitati e riproposti dagli artisti isolani nelle loro realizzazioni. In realtà nell’isola la penetrazione dei temi e dei motivi del classicismo rinascimentale romano era avvenuta, se pur in ritardo e non senza resistenze, alla fine del secolo XVI, soprattutto in seguito all’arrivo nelle grandi città portuali di Messina e Palermo di alcuni dei maggiori esponenti del manierismo romano, sia nel campo dell’architettura che in quello della scultura e della pittura, e di maestranze specializzate, formatesi presso i principali cantieri romani, in stretto contatto con gli architetti e gli artisti più famosi ed alla moda nella città papale in quegli anni di grandi realizzazioni edilizie24.

24

G. GANGI, Il Barocco della Sicilia Orientale, Roma, 1964, pp. 10-14

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Successivamente invece gli artefici del nuovo linguaggio barocco saranno quasi esclusivamente siciliani, per lo più appartenenti ad ordini religiosi, formatisi anche attraverso viaggi a Roma e nelle principali città europee, dove più facilmente avevano modo di aggiornarsi relativamente alle nuove tecniche e tendenze artistiche25. Tali nuovi temi e motivi figurativi tuttavia non furono mai passivamente assimilati dagli artisti dell’isola, bensì accolti e rielaborati alla luce delle precedenti esperienze artistiche siciliane, frutto a loro volta di una situazione politica, sociale ed economica complessa, derivata dal fatto che in Sicilia per secoli si era avuta la presenza di dominazioni straniere, tra loro differenti, che al loro passaggio avevano lasciato profonde tracce nella cultura della popolazione locale26. Erano infatti ancora fortemente radicati nell’isola motivi artistici di chiara matrice medievale normanna ed addirittura araba, riproposti assieme ai ricchi e complessi temi ornamentali dell’arte gotico–catalana, di derivazione spagnola, che hanno nelle torri difensive, nelle finestre e nei ricchi portali trecenteschi e quattrocenteschi i loro esempi principali27. È proprio grazie a questa commistione di esperienze differenti che nella Sicilia del Seicento si ha non una fase di decadenza dell’arte bensì un periodo di sviluppo di una nuova sensibilità artistica che si propone quale superamento dell’arte rinascimentale stessa, considerata dagli artisti troppo statica ed imbrigliata entro eccessive regole, ma della quale vengono apprezzati ed accolti i principi fondamentali di ordine e rigore della composizione, governata dalla matematica e dalla geometria, ed in particolare, in ambito architettonico, dagli ordini di derivazione classica. Nasce così un’arte che ha nel dinamismo la sua caratteristica principale, e nella grandiosità delle forme, nel senso di meraviglia, nell’audacia dei

25

S. BOSCARINO, op. cit., pp. 13-14 G. B. COMANDE’, op. cit., p. 25 27 Ibidem, pp. 18-19 26

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temi proposti e nell’ornamento le sue peculiarità, che la rendono unica ed originale nel panorama artistico italiano28. La derivazione dal barocco romano è innegabile, soprattutto perché dovuta alla attività di promozione di questa tendenza artistica operata dagli ordini religiosi, profondamente radicati in un ambiente, quale era quello siciliano, fortemente ispirato al cattolicesimo ortodosso29. Questi, detentori di immense ricchezze, del controllo della cultura e della istruzione, e tra i principali committenti di opere d’arte del periodo in esame assieme all’aristocrazia feudale, erano desiderosi di riproporre in una provincia religiosa lontana l’immagine della propria casa generalizia. Gli artisti siciliani hanno così dato vita ad un’arte originale e dinamica, riflesso delle complesse condizioni politiche economiche e sociali dell’epoca, e tuttavia caratterizzata dall’equilibrio delle forme e da un ornato fantasioso, ma sempre composto ed in armonia con la realizzazione artistica, dove, così come in ogni altro aspetto della vita di tutti i giorni in questo periodo, il sembrare è più importante che l’essere30. In ambito architettonico in particolare questi principi si esprimeranno attraverso forme movimentate ed articolate ed attraverso la tendenza degli artisti a prediligere quale motivo principale quello della facciata, la cui composizione è sempre fortemente caratterizzata dal punto di vista geometrico e volumetrico da ben proporzionati ordini architettonici, rispetto a quello dell’interno31. La decorazione degli esterni e degli interni, ad uso pubblico, è ricca e fastosa, talvolta eccessiva, ma sempre regolata e ricondotta entro i limiti precisi e le proporzioni fissate dall’ordine, in maniera tale che il tutto risulti sempre armonioso e gradevole all’osservatore, ma allo stesso

28

Ibidem, pp. 9-12 S. BOSCARINO, op. cit., p. 10 30 G. B. COMANDE’, op. cit., p. 33 31 S. BOSCARINO, op. cit., p. 30 29

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tempo di grande effetto estetico e capace di destare in questo sentimenti di meraviglia e di ammirazione. Una tale concezione artistica inoltre non poteva manifestarsi soltanto attraverso le realizzazioni architettoniche ma investiva tutti i campi dell’arte, raggiungendo in modo particolare i suoi livelli più elevati nell’oreficeria, nell’intarsio marmoreo ed in tutte le arti ornamentali e decorative in genere. Nell’arco dei circa due secoli da noi presi in considerazione verranno realizzate in Sicilia alcune delle più belle opere del barocco europeo, e l’isola subirà un processo generale di rinnovamento delle proprie città, con la realizzazione di nuovi impianti viari ed edifici, che non ha avuto precedenti nella sua storia, e che la porterà rapidamente ad assumere un aspetto molto vicino a quello attuale. I grandi centri portuali della costa infatti intraprenderanno un processo di rinnovamento urbanistico, iniziato in alcuni casi già intorno alla seconda metà del Quattrocento secondo i nuovi principi di ordine e di decoro, creando ampie strade, piazze e lunghi assi viari rettilinei in modo da organizzare e gerarchizzare il sistema di strade ed i quartieri delle città stesse. Venivano valorizzati così i centri produttivi e del potere con il fine di garantire sia un migliore svolgimento delle attività economiche cittadine, che la presenza di luoghi fortemente scenografici che esaltassero il fasto e la ricchezza della città, soprattutto in occasione di festività religiose e celebrazioni politiche32. A Palermo infatti si provvide verso la fine del ‘500 all’ingrandimento ed al prolungamento del Cassaro (l’odierno corso Vittorio Emanuele), che collega la cattedrale al palazzo reale, ed inoltre fu realizzata a partire dal 1609 la monumentale piazza di forma ottagonale comunemente nota come “Quattro Canti”, opera di Giulio Lasso33.

32 33

G. BELLAFIORE, Architettura in Sicilia, Palermo, 1984, pp. 24-32 S. BOSCARINO, op. cit., pp. 22-25

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Anche a Messina negli stessi anni ci si dedicò alla creazione di moderni assi viari, come la via d’Austria, che si sostituirono alle tortuose strade medievali, ed alla realizzazione della “Palazzata”, opera dell’ingegnere regio Simone Gullì, ovvero una scenografica successione di palazzi nobiliari, situati a ridosso della zona portuale, che impressionava per la sua eccezionale bellezza chiunque giungesse in città dal mare, ma che purtroppo a causa dei terremoti che hanno colpito più volte Messina, in particolare quello del 1908, non è pervenuta sino ai nostri giorni34. Le città della Sicilia sud orientale furono purtroppo favorite in questo processo di rinnovamento urbanistico degli impianti cittadini dal terremoto che sconvolse questa parte dell’isola nel gennaio del 1693. A causa dei danni ingentissimi riportati infatti molte città dovettero provvedere alla ricostruzione di gran parte del loro centro abitato, come nel caso della città di Catania, dove il tutto fu ricostruito sulla base di rigide norme urbanistiche per evitare il ripetersi di tali sciagure. Si realizzarono infatti strade più larghe e rettilinee, si crearono nuove piazze ed edifici la cui altezza fosse proporzionata alla strada stessa. Le città di nuova fondazione colpiscono invece per i loro originali impianti, organizzati secondo tracciati geometrici regolari, caratterizzati dalla presenza di ampie piazze dalla forma quadrata su cui si affacciano le architetture più importanti, dalle magnifiche e scenografiche facciate, realizzate secondo i principi della nuova arte barocca. In particolare i centri nati nel corso del Seicento prediligevano impianti a maglia ortogonale, soprattutto lo schema a scacchiera, e non sono mai delle città chiuse da mura, caratterizzate dalla presenza di un castello medievale di difesa, bensì città aperte, con al centro la piazza, dotata di chiesa, palazzo baronale e municipio, ed attorno a questa le abitazioni del popolo35. Sicuramente però le realizzazioni più cospicue per numero ed originalità della composizione sono quelle relative all’architettura religiosa, con le 34 35

Ibidem, pp. 26-29 Ibidem, p. 58

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numerose chiese, collegi e monasteri costruiti ovunque nell’isola nel giro di pochi decenni, in forme e dimensioni considerevoli e ricche. A favorire la costruzione di tali opere contribuiranno soprattutto i numerosi e ricchi ordini religiosi, in modo particolare quello dei Gesuiti, che in questi decenni realizzerà proprie case in tutte le principali città ed anche in alcuni dei centri minori dell’isola, ma anche quelli dei Domenicani, dei Teatini, dei Carmelitani, solo per citare i più noti ed attivi nel campo dell’edilizia religiosa. Si tratta di un tipo di architettura che ha ormai fatto propri i temi ed i motivi

artistici

della

Controriforma,

importati

dal

continente,

caratterizzata da impianti planimetrici poco innovativi, generalmente longitudinali, ad una oppure a tre navate, mentre più rari sono gli edifici a pianta centrale, o le combinazioni tra questi diversi schemi36. La particolarità di tali realizzazioni generalmente risiede nelle articolate e decoratissime facciate, il cui sviluppo è sempre misurato dagli ordini architettonici, che costituiscono il telaio e la cornice entro cui poi trova libera espressione un ricco apparato scultoreo ed ornamentale. Mentre quindi per quel che riguarda gli impianti planimetrici delle chiese abbiamo pochi e semplici tipi sempre ricorrenti, poco innovativi ed ispirati alla tradizione, il tema della facciata invece presenta innumerevoli esempi e varianti, esibendo volute ed originali soluzioni architettoniche, alternando schemi con andamento retto e squadrato a schemi di tipo ondeggiante sinusoidale, oppure uno o due campanili laterali, affiancati alla composizione, alla facciata con torre-campanile centrale37. Le maestranze che materialmente hanno costruito questi edifici hanno una origine prevalentemente cantieristica ed artigianale38; si tratta di uomini che hanno operato sempre all’ombra degli architetti, anche se spesso, dopo lunghi anni di apprendistato, qualcuno di essi è riuscito ad 36

F. MINISSI, Aspetti dell’architettura religiosa del ‘700 in Sicilia, Roma, 1958, pp. 19-20 37 S. BOSCARINO, op. cit., pp. 92-94 38 Ibidem, p. 14 IUAV - Istituto Universitario di Architettura di Venezia Corso di Laurea in Storia e Conservazione dei beni architettonici ed ambientali

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elevarsi fino a raggiungere addirittura la carica di architetto o di ingegnere, non senza essere prima passato per i gradini di apprendista e poi di responsabile della realizzazione. Sarebbe lungo citare tutti i protagonisti che in qualche modo hanno contribuito alla ideazione e realizzazione dei numerosi edifici religiosi, innalzati nel corso dell’età barocca. Ci si limita quindi qui a ricordare, in una rapida carrellata, solo i principali esponenti dell’architettura siciliana e gli edifici religiosi più importanti e significativi del panorama architettonico isolano legati ai loro nomi. In ordine cronologico il primo architetto che incontriamo, a cavallo tra il secolo XVI ed il secolo XVII, è il gesuita Natale Masuccio, attivo presso diversi importanti centri siciliani, autore del progetto di trasformazione della famosa chiesa di Casa Professa di Palermo. A lui, tra le tante opere, sono anche attribuiti i progetti per la chiesa ed il Collegio dei Gesuiti di Trapani e per il Collegio primario di Messina, oggi non più esistente39. Di Simone Gullì invece abbiamo già accennato per il fatto che egli realizzò a Messina, nei primi anni del secolo XVII, una delle opere più significative della sensibilità artistica barocca, purtroppo non più esistente, ovvero la “Palazzata”40. Ritornando a Palermo dobbiamo accennare a Mariano Smiriglio, autore del duomo della cittadina di Salemi e della chiesa del Carmine a Palermo, ma soprattutto ideatore della prima opera architettonica palermitana interamente decorata da intarsi in marmi policromi. Si tratta della cappella di Santa Rosalia, nel duomo di Palermo, oggi non più esistente perché distrutta in occasione di alcuni restauri ed ammodernamenti Settecenteschi, nella quale quindi per la prima volta si realizza quella fusione tra pittura, scultura ed architettura, attraverso l’uso della tecnica decorativa detta “a mischio”, che tanta fortuna avrà soprattutto a Palermo

39 40

Ibidem, pp. 95-99 Ibidem, pp. 166-168

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in questi anni, trovando la sua massima espressione negli interni della chiesa gesuitica di casa Professa41. Proseguendo nella nostra rapida esposizione arriviamo quindi a trattare di uno degli architetti più famosi del Seicento siciliano, attivo nella seconda metà del secolo, ovvero Angelo Italia, anche egli gesuita, nativo di Licata. Il suo nome è legato alla realizzazione della chiesa palermitana di S. Francesco Saverio, a pianta centrale, alla chiesa madre di Palma di Montechiaro, ad impianto basilicale, ed alla chiesa di Sant’Angelo a Licata, sua prima opera. Ebbe modo di partecipare anche al cantiere della chiesa di Casa Professa, a Palermo, che in quegli anni era ormai in fase di ultimazione, realizzando la cupola, oggi non più esistente perché ricostruita secondo un altro disegno nel 1945. Nella Sicilia Orientale, immediatamente dopo l’evento sismico del 1693, partecipò alle attività di ricostruzione sia come architetto, ma anche in qualità di urbanista. A lui si deve infatti l’ideazione dell’impianto cittadino di Avola, mentre incerta è l’attribuzione all’Italia dello schema di Noto. L’ultima opera legata al suo nome è la chiesa madre di Alcamo, progettata alla fine del secolo in collaborazione con Giuseppe Diamante42. Il Secolo XVII si chiude invece con la presenza a Palermo di due importanti architetti, attivi anche nei primi anni del secolo successivo: Paolo Amato e Giacomo Amato, entrambi religiosi, appartenenti il primo all’ordine degli Infermi, mentre il secondo a quello dei Crociferi. A Paolo Amato sono attribuite molte opere, non solo architettoniche, ma anche decorative. Il suo nome è legato soprattutto alla chiesa del SS. Salvatore, a Palermo, ed a quella di San Giovanni Battista, a Ciminna. Per quanto riguarda invece gli apparati decorativi, famose sono le sue realizzazioni in marmi policromi per la chiesa di San Carlo a Palermo, eseguiti in collaborazione con Giacomo Amato, e quelle a mischio presso la chiesa di S. Maria di Valverde, sempre a Palermo, questa volta 41 42

S. PIAZZA, op. cit., pp. 22-23 S. BOSCARINO, op. cit., pp. 114-122

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coadiuvato da Andrea Palma, autore della monumentale facciata barocca del duomo di Siracusa43. Giacomo Amato invece realizza la sua opera più importante nella chiesa di Santa Teresa alla Kalsa, ad impianto longitudinale, con navata unica ed altari laterali incassati nelle pareti. A lui si deve anche la facciata dell’edificio, scandita da due ordini sovrapposti di lesene44. Spostandoci nella parte orientale dell’isola invece incontriamo a Catania nella prima metà del Settecento Giovan Battista Vaccarini, formatosi a Roma alla scuola di Carlo Fontana, autore della facciata del duomo della città etnea e di alcune chiese a pianta centrale, come quella della Badia di Sant’Agata e di San Giuliano, sempre nella stessa città. Nominato architetto della città di Palermo dalla Deputazione del Regno si trasferirà in questa città partecipando ai lavori di restauro e di ammodernamento della chiesa Cattedrale45. Tuttavia la figura più emblematica ed originale del barocco nella parte sud orientale dell’isola è quella del siracusano Rosario Gagliardi, il quale, formatosi come maestro artigiano, esperto nella lavorazione del legno, operò soprattutto a Noto negli anni della ricostruzione successiva al sisma del 1693 della città. La sua prima opera netina fu la chiesa del SS. Crocifisso, dalla pianta basilicale a tre navate ed incompleta nel prospetto esterno. Sempre a Noto progettò anche la chiesa ed il convento di Santa Chiara, la cui particolarità risiede nell’impianto di forma ovale allungata della chiesa. Nella chiesa di San Domenico infine operò una sintesi tra i due schemi longitudinale e a pianta centrale, realizzando una facciata fortemente convessa, con ordini sovrapposti costituiti da colonne libere collocate nei punti di inversione della curvatura. Di lui inoltre rimangono numerosi progetti di edifici non realizzati, che sicuramente circolarono in

43

Ibidem, pp. 123-125 G. B. COMANDE’, op. cit., pp. 41-42 45 G. POLICASTRO, Catania nel ‘700. Architettura, scultura, pittura, musica e teatri, Catania, 2000 44

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quegli anni tra gli architetti suoi seguaci, costituendo un sicuro ed importante punto di riferimento nelle loro realizzazioni46. Per quanto riguarda invece l’architettura civile il tema che principalmente verrà sviluppato dagli architetti in età barocca è quello della residenza aristocratica, ed in particolare quello della abitazione di campagna della nobiltà, ovvero la villa47. Ovviamente la maggior parte dei palazzi aristocratici realizzati in questo periodo si trova a Palermo, capitale e quindi sede e centro del potere che governava la Sicilia. Qui risiedevano quindi gran parte degli esponenti della aristocrazia isolana, che vedevano nel palazzo un mezzo di espressione della loro ricchezza e del loro stato di superiorità. Tali edifici tuttavia non presentano particolari caratteri innovativi per quel che riguarda le forme architettoniche e gli schemi planimetrici adottati, mentre si caratterizzano per la presenza del balcone, che diventa spesso l’elemento decorativo principale dell’intera composizione, assieme al portale. Le ville più belle furono invece edificate nella città di Bagheria, vicinissima a Palermo, secondo fastosi e complessi programmi architettonici e circondate da immensi giardini. Tra queste ricordiamo Villa Palagonia e Villa Valguarnera, realizzate dall’architetto Tommaso Maria Napoli48. L’inventiva degli artisti in questi anni non si espresse esclusivamente nelle realizzazioni di tipo architettonico, rivelandosi anche nell’ambito delle arti pittoriche e scultoree. Per quel che riguarda la pittura dobbiamo registrare la venuta in Sicilia di famosi artisti provenienti dalla penisola oppure stranieri che, giunti nell’isola intorno ai primi anni del Seicento indirizzeranno gli artisti locali verso le nuove tendenze artistiche italiane ed europee. 46

G. GANGI, op. cit., pp. 41-47 S. BOSCARINO, op. cit., pp. 195-198 48 P. GIANSIRACUSA, Il Barocco siciliano: Architetti, urbanistica, scenografia, Roma, 1984, pp. 29-30 47

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La presenza in Sicilia di Michelangelo da Caravaggio negli anni 1609 e 1610, del pittore fiorentino Filippo Paladini, intorno ai primi anni del secolo XVII, così come quella successiva dei pittori fiamminghi Van Dyck e Borremans oppure del caravaggesco Mattia Preti, proveniente da Napoli, influenzeranno in maniera decisiva infatti l’attività dei principali artisti dell’isola di quel periodo49. Tra i pittori siciliani più famosi ricordiamo solamente il monrealese Pietro Novelli, vissuto nella prima metà del ‘600 ed attivo soprattutto a Palermo, autore di numerosissime opere, sparse in tutta l’isola, iniziatore di una vera e propria scuola, cui appartennero anche i suoi figli50. L’attività di scultura invece in Sicilia si segnalò per una tendenza tutta locale che prediligeva alle sculture vere e proprie sfarzosi apparati decorativi realizzati a stucco. Questo tipo di decorazione, più economica delle tarsie marmoree, diffusissima in tutta la Sicilia ancora alla fine del secolo XIX, permetteva di ottenere composizioni plastiche stupefacenti per la ricchezza e la complessità dei motivi che venivano rappresentati. Esistevano vere e proprie famiglie specializzate in questo tipo di decorazione che per generazioni si sono tramandate tali tecniche, riempiendo delle loro opere la maggior parte delle chiese e dei palazzi siciliani. Esponente supremo di questa arte in Sicilia fu il palermitano Giacomo Serpotta51.

49

S. CORRENTI, La Sicilia del Seicento, cit., pp. 210-212 Ibidem, pp. 196-197 51 D. GARSTANG, G. Serpotta e gli stuccatori di Palermo, Palermo, 1990 50

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Tendenze artistiche nelle città dell’entroterra siciliano Nel paragrafo precedente abbiamo visto quindi quali siano stati i temi, i protagonisti, ed alcune delle opere principali della stagione barocca siciliana; tuttavia essi costituiscono solo una parte, anche se sicuramente quella più conosciuta, della vicenda artistica svoltasi nell’isola nel periodo che va dalla fine del Cinquecento a tutto il Settecento. Accanto alle realizzazioni dei grandi centri di Palermo, Messina, Catania, Trapani, Siracusa e Noto, esistono infatti una miriade di ulteriori esempi di quella che è stata la sensibilità artistica barocca, disseminati presso i piccoli centri e le città minori dell’entroterra siculo. Il più delle volte questi episodi sono passati in secondo piano rispetto a quelli delle più importanti città portuali, oppure sono stati addirittura ignorati. Tuttavia rivestono anche essi grande importanza nell’ambito del panorama artistico dell’isola, soprattutto perché ci permettono di comprendere quali fossero i meccanismi e le modalità di diffusione dei temi dell’arte barocca, e quindi più in generale quali fossero i rapporti culturali che intercorrevano tra i centri del potere politico ed economico della costa e le cittadine dell’interno. L’area che oggi rientra nei confini della Diocesi di Piazza Armerina è situata infatti esattamente al centro dell’isola, equidistante dai principali centri di potere prima citati. Questa sua peculiarità di carattere geografico ha fatto si che essa sia stata in qualche modo soggetta nel corso dei secoli all’influenza di ciascuno di questi, mantenendo stretti contatti, di tipo economico ma anche culturale ed artistico, tanto con la parte occidentale dell’isola, la cui città principale è Palermo, quanto con quella orientale, dove possiamo individuare Catania, Siracusa e Messina quali città egemoni, e quindi punti di riferimento artistico per i paesi minori. Tra le varie città della diocesi quindi possiamo notare come i centri demaniali di Piazza Armerina ed Enna, che erano anche quelli più popolati e ricchi, gravitassero prevalentemente nell’orbita di Catania,

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soprattutto perché facenti parte di quella diocesi fino ai primi anni dell’Ottocento, ma grazie anche alla loro vicinanza con la città di Caltagirone, dove ancora più forti erano gli influssi che giungevano dalla città etnea e da tutta la Sicilia sud orientale. Di contro gli altri paesi di tipo feudale, essendo proprietà dei ricchi signori aristocratici, oltre a subire l’influenza delle vicine città demaniali, e quindi indirettamente delle grandi città della parte orientale, erano soggetti anche a quella di Palermo, dove si trovavano le sedi del potere politico siciliano e dove quindi risiedevano spesso i nobili in occasione delle riunioni del Parlamento del Regno, di cui facevano parte. I temi ed i motivi del barocco visti in precedenza, che inizialmente erano stati accolti dalle città portuali della costa, in poco tempo, grazie ai frequenti contatti con l’entroterra, raggiungeranno quindi anche i paesi oggetto di questo studio. Essi troveranno soprattutto applicazione in ambito architettonico, dal momento che in quegli stessi anni alcuni di questi paesi erano alle prese con la ricostruzione successiva al terremoto del 1693, mentre altri erano addirittura appena stati fondati in seguito all’acquisto da parte di alcuni nobili della “licentia populandi”, per cui si stava provvedendo a dotarli di chiese, monasteri, collegi e palazzi, ispirati alla nuova sensibilità artistica. È alla committenza dell’aristocrazia feudale, unitamente a quella ecclesiastica, che si deve la diffusione delle tematiche artistiche barocche e quindi la maggior parte della produzione artistica dell’area in esame. Erano soprattutto questi infatti che commissionavano le opere agli artisti, rivolgendosi a quelli più in voga nell’isola e non solo, oppure promuovevano sontuosi programmi edilizi, notevoli sia per le dimensioni che per la qualità degli architetti chiamati ad idearli e delle maestranze esecutrici. Tra i committenti più importanti, appartenenti alla classe aristocratica, ricordiamo le famiglie Branciforti e Barresi. Si tratta di due delle famiglie più ricche e più titolate della zona; in particolare i Branciforti si IUAV - Istituto Universitario di Architettura di Venezia Corso di Laurea in Storia e Conservazione dei beni architettonici ed ambientali

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fregiavano del prestigioso titolo di principi di Butera che gli garantiva un posto di preminenza in parlamento, in quanto primo titolo del regno. Il nome dei Branciforti è legato prevalentemente alle più importanti realizzazioni di questo periodo nei centri di Mazzarino, Butera e Niscemi. Nell’ambito di questa famiglia si distinse in modo particolare quale committente e mecenate, oltre che studioso, letterato ed architetto, il principe Carlo Maria Carafa52. Questi, possessore di un ingente patrimonio e dotato di grande cultura, carisma e prestigio, promosse presso la sua corte tutte le arti, contribuendo anche alla costruzione oppure al restauro di molte delle chiese dei centri soggetti al suo controllo. A lui si deve l’ideazione del particolarissimo impianto di forma esagonale della città di Grammichele, che rientrava tra i suoi numerosi possedimenti, ricostruita in un nuovo sito, dopo che il terremoto del 1693 aveva raso al suolo la città precedente. Commissionò inoltre la realizzazione della chiesa madre di Mazzarino e di quella di Butera, nonché di numerose altre chiese minori, che durante il suo principato furono completamente rinnovate ed abbellite. Promosse la venuta sempre a Mazzarino dei Gesuiti, che vi aprirono uno dei loro collegi nei primi anni del secolo XVIII, insediandosi in una struttura conventuale di nuova realizzazione, con annessa una chiesa, voluta dallo stesso Carafa, che fu anche progettista del complesso, e contigua al suo magnifico palazzo, a sua volta da lui dotato di un piccolo teatro. Nell’ambito della pittura invece si distinse quale committente del famoso pittore Mattia Preti, seguace del Caravaggio ed attivo a Napoli alla fine del Seicento, che realizzò per lui un dipinto raffigurante il Martirio di Santo Stefano, collocato poi quale pala dell’altare nella chiesa del Carmine di Mazzarino, mausoleo personale della famiglia Branciforti, e purtroppo trafugato da ignoti nel 1982 e non ancora recuperato.

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P. DI MARTINO, Carlo Maria Carafa. Vita ed Opere, Mazzarino (CL), 1982

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Alla famiglia Barresi, imparentatasi ben presto con i Branciforti, si devono invece le più importanti realizzazioni dei centri di Barrafranca e di Pietraperzia. Le chiese madri di entrambi questi paesi sono legate alla committenza di questa famiglia ed in particolare quella di Pietraperzia ne divenne il mausoleo ospitando le tombe di alcuni dei suoi esponenti, realizzate in forme monumentali con marmi pregiati e sculture dal gusto classicheggiante, opera dei più rinomati artisti del periodo53. La stessa cosa accadeva in tutti gli altri centri vicini, dove erano le famiglie più ricche, esponenti della aristocrazia locale, che investivano parte dei loro denari in commissioni artistiche, in modo da accrescere il loro prestigio e da esprimere la loro ricchezza e magnificenza, secondo un modo di fare molto diffuso presso la nobiltà di questo periodo. Anche presso le città demaniali le maggiori imprese artistiche vedranno impegnati in prima fila esponenti della nobiltà cittadina quali promotori e finanziatori delle stesse. Basti pensare alla famiglia Trigona di Piazza Armerina grazie ai cui fondi nella città venne realizzata, nei decenni a cavallo tra il secolo XVII e XVIII, la chiesa madre, divenuta poi chiesa cattedrale, con il titolo di Maria SS. delle Vittorie54. Il clero e gli ordini religiosi non furono da meno, negli stessi anni, in questa opera di promozione e finanziamento di imprese artistiche, sia per quel che riguarda l’architettura che nell’ambito delle altre arti, soprattutto della pittura, della scultura e dell’oreficeria. Gli ordini religiosi in particolare sempre più andavano radicandosi sul territorio, invitati spesso dalle municipalità oppure dagli stessi signori feudali, realizzando proprie case in vari centri dell’isola. Saranno in particolare gli ordini dei Gesuiti, dei Domenicani, dei Francescani, dei Teatini e dei Carmelitani a promuovere in questi anni la realizzazione delle loro sedi e conventi nei paesi oggi appartenenti alla 53

L. GUARNACCIA, La chiesa Matrice di Pietraperzia, Pietraperzia (EN), s.i.d. A. RAGONA, Il Santuario di Maria SS. delle Vittorie a Piazza, Piazza Armerina (EN), s.i.d.

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Diocesi di Piazza Armerina. Principalmente si stanzieranno presso le città demaniali, che quindi oggi risultano essere le più ricche di strutture monastiche, di dimensioni talvolta considerevoli, ma ben presto giungeranno anche presso i centri più piccoli. I collegi dei gesuiti, per fare un esempio, sorgeranno dapprima a Piazza Armerina e ad Enna, mentre solo successivamente una loro casa verrà aperta anche a Mazzarino, grazie all’interessamento del principe Carafa55. Non vanno dimenticate nell’ambito della committenza religiosa le numerose Confraternite e Congregazioni a carattere religioso, a cui appartenevano gran parte della popolazione della città ed anche molti esponenti dell’aristocrazia. A Niscemi infatti la chiesa dell’Addolorata, che sorge presso la piazza principale della città, fu interamente ricostruita in forme più ricche nella prima metà del Settecento per volontà della confraternita del SS. Crocifisso e della congregazione di Maria SS. Addolorata, che avevano la loro sede presso la chiesa stessa56. Sempre a Niscemi, negli anni successivi al terremoto del 1693, le chiese del paese, che erano tutte state danneggiate dal sisma, furono interamente ricostruite grazie alle offerte raccolte presso la popolazione locale, che quindi può essere considerata di fatto la committente di tutti gli edifici a carattere religioso della città57. La produzione artistica di questa area, data la vasta committenza, è quindi molto numerosa e ricca, caratterizzata prevalentemente da opere di artisti locali, ma anche dalla presenza di molte opere di assoluto valore, realizzate da artisti di livello superiore provenienti generalmente da Palermo, Catania o Messina. Non mancano inoltre opere di artisti famosi oltre i confini dell’isola, provenienti dai più famosi centri artistici d’Italia ed anche dai paesi dell’Europa del nord.

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A. I. LIMA, Architetti ed urbanistica della Compagnia di Gesù: fonti e documenti inediti. Secoli 16-18, Palermo, 2001 56 S. PEPI, La Basilica dell’Addolorata di Niscemi, Niscemi (CL), 1996 57 A. MARSIANO, op. cit. IUAV - Istituto Universitario di Architettura di Venezia Corso di Laurea in Storia e Conservazione dei beni architettonici ed ambientali

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Nell’ambito della scultura le opere più importanti presenti nel territorio da noi studiato provengono dalla bottega dei Gagini, una famiglia di scultori e costruttori attiva soprattutto a Palermo e nella parte occidentale della Sicilia. Il capostipite Domenico Gagini, proveniente da Bissone, in Lombardia, ed allievo del Bramante, si era stabilito a Palermo alla fine del secolo XV, importando così nell’isola i motivi della nuova arte rinascimentale58. I suoi successori continueranno la sua opera nei due secoli successivi ricevendo commissioni da ogni parte dell’isola; in particolare grande successo avrà Antonello Gagini, figlio di Domenico, il quale lavorerà presso la cattedrale di Palermo e realizzerà anche alcune opere presso la chiesa madre di Pietraperzia, quali i portali marmorei della chiesa ed il monumento raffigurante a rilievo una Madonna con Bambino, commissionatigli dal marchese Matteo Barresi nella prima metà del Cinquecento. Giandomenico Gagini, altro esponente di questa importante famiglia di scultori, nel corso del secolo XVI sarà impegnato nei restauri del Duomo di Enna, ed a lui si devono le basi ed i capitelli di alcuni dei piloni della navata della chiesa59. Numerose opere dei Gagini, o comunque attribuite alla loro bottega, si trovano inoltre presso tutti i centri della Diocesi di Piazza Armerina. Si tratta per lo più di fonti battesimali, acquasantiere e monumenti funebri in marmo, sempre caratterizzati da forme eleganti ispirate chiaramente ai principi di imitazione dell’arte classica tipici dell’età rinascimentale. Tra queste opere ricordiamo l’arco marmoreo, realizzato da Antonio Gagini, situato all’ingresso della Cattedrale di Piazza Armerina60, ed il monumento funebre di Giovanni Branciforti, collocato nel chiostro dell’attuale municipio di Mazzarino, ex convento dei Padri Carmelitani61. Numerose sono anche le statue lignee che si trovano all’interno di gran parte delle chiese della diocesi, rappresentanti principalmente figure di 58

G. GANGI, op. cit., pp. 12-13 A. RAGONA, Arte ed artisti nel Duomo di Enna, Caltagirone (CT), 1976, p. 8 60 A. RAGONA, Il Santuario di Maria SS. delle Vittorie a Piazza, cit. 61 A. D’ALEO, Mazzarino e la sua storia, San Cataldo (CL), 1991, p. 58 59

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Santi e della Madonna. Le opere di questo genere più belle e suggestive sono tuttavia i Crocifissi in legno scolpito e dipinto, realizzati a grandezza naturale con grande realismo, carichi di pathos e di grande tensione emotiva. In questo particolare tipo di realizzazioni si distinse nell’area di Piazza Armerina Frate Umile Pintorno da Petralia, vissuto a cavallo tra il XVI ed il XVIII secolo62, autore del Crocifisso conservato presso la chiesa di Sant’Anna ad Aidone e probabilmente anche di quello della chiesa di Santa Maria di Gesù a Pietraperzia, oltre che di numerose altre opere simili, custodite però in paesi che non ricadono all’interno della circoscrizione religiosa oggetto del presente studio. Le chiese della diocesi possiedono inoltre moltissimi dipinti su tela, per lo più di discreta fattura, realizzati generalmente da artisti locali. Assieme a questi tuttavia troviamo anche tele di buona ed eccellente fattura, opera di pittori più rinomati. Era Palermo il centro di riferimento in ambito pittorico per la ricca committenza nobiliare dell’entroterra, per cui la maggior parte delle opere è stata commissionata ad artisti attivi in area palermitana. Importante fu poi la presenza nella zona nei primi anni del Seicento del pittore Filippo Paladini, famoso esponente del manierismo italiano, proveniente dalla toscana, trasferitosi in Sicilia e rimasto nell’isola fino alla sua morte. Egli, si stabilì ed operò proprio in questa area lasciandoci numerosi dipinti a soggetto religioso. Tra i quadri da lui realizzati ricordiamo il ciclo di cinque tele, raffiguranti le storie della Madonna, collocate nell’abside principale del Duomo di Enna, ed il quadro raffigurante l’Assunta, presente nella Cattedrale di Piazza Armerina. Altre sue opere si trovano presso i centri di Barrafranca, Pietraperzia e Mazzarino, paese nel quale anche risiedeva63.

62 63

S. CORRENTI, op. cit., p. 198 Ibidem, p. 211

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Abbiamo già accennato in precedenza alla presenza a Mazzarino di un dipinto del pittore caravaggesco Mattia Preti, raffigurante il Martirio di Santo Stefano, commissionatogli intorno alla fine del secolo XVII. Altro grande esponente della pittura siciliana di età barocca, attivo anche in alcuni dei centri della diocesi di Piazza Armerina, fu poi il pittore fiammingo Guglielmo Borremans, stabilitosi a Palermo nei primi anni del Settecento, autore di importanti cicli di affreschi e di numerosi dipinti. Egli è l’autore degli affreschi che decorano interamente l’interno della chiesa di San Giovanni Evangelista a Piazza Armerina e di alcuni dei dipinti conservati nel Duomo di Enna. Alla sua scuola sono poi attribuite numerose altre opere presenti in alcune delle chiese della zona64. Giungendo infine alle realizzazioni architettoniche va precisato che la maggior parte di queste sono state realizzate da costruttori il più delle volte anonimi e da maestranze locali. Si tratta di capomastri e maestri muratori che generalmente si formavano presso i cantieri di alcune delle città maggiori, e che quindi in virtù della loro esperienza sul campo venivano chiamati a loro volta a realizzare degli edifici. I progetti per le costruzioni più importanti invece venivano affidati ad architetti ben più esperti e famosi. Così sappiamo che a Piazza Armerina, per la realizzazione della nuova chiesa madre della città, vennero convocati alla fine del secolo XVI a redigere un primo progetto l’architetto napoletano Francesco Zaccarella e il fiorentino Giulio Lasso, autore dei famosi “Quattro Canti” a Palermo. Tale progetto tuttavia non ebbe seguito ed alcuni anni dopo un nuovo progetto fu ideato in collaborazione dagli architetti Natale Masuccio, gesuita proveniente da Trapani, Simone Gullì, di Messina ed ideatore della “Palazzata”, e Giovanni Maffei, toscano. Anche in questo caso il loro progetto fu abbandonato e solo parecchi anni dopo venne sostituito da una nuova

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G. DI MARZO, Guglielmo Borremans di Anversa. Pittore fiammingo in Sicilia, Gela (CL), 1982 IUAV - Istituto Universitario di Architettura di Venezia Corso di Laurea in Storia e Conservazione dei beni architettonici ed ambientali

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idea progettuale opera dell’architetto romano Orazio Torriani, allievo di Domenico Fontana65. Non del tutto certa è inoltre la partecipazione alla stesura del progetto per la chiesa madre di Mazzarino dell’architetto gesuita Angelo Italia66, tra i più famosi del barocco siciliano, attivo nella seconda metà del Settecento a Palermo ma anche nella sicilia orientale, durante i primi anni della ricostruzione successiva al terremoto. Forti furono anche le influenze dell’architetto siracusano Rosario Gagliardi su alcuni dei centri più vicini alla città di Caltagirone. Il Gagliardi infatti, famoso per le sue originali creazioni architettoniche presso i centri di Noto e Ragusa Ibla, che sono tra le più belle ed originali dell’architettura barocca siciliana, ci ha lasciato in questa città importanti edifici di tipo religioso, ed è molto probabile che alla sua scuola si siano formati capomastri come Silvestro Gugliara, attivo a Niscemi ed ideatore della chiesa dell’Addolorata e probabilmente anche di quella della Madonna del Bosco, ispirate sicuramente ai disegni del Gagliardi, tanto da essere per lungo tempo erroneamente attribuite a questi67.

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A. RAGONA, op. cit. P. DI MARTINO, op. cit., p. 44 67 G. B. COMANDE’, op. cit., pp. 81-82 66

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CAPITOLO 3 Le pietre ornamentali nell’architettura barocca

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Marmi e Diaspri. Litotipi principali e loro località di cava Con il termine marmo in ambito petrografico si indica un particolare tipo di roccia metamorfica generatasi in seguito al metamorfismo di preesistenti rocce sedimentarie di tipo calcareo e/o dolomitico, ovvero di rocce costituite in prevalenza da carbonato di calcio (CaCO3), oppure da carbonato di calcio e magnesio [CaMg(Co3)2], e da percentuali di impurità, variabili dallo 0 al 15 %, che ne determinano di fatto il colore. Tuttavia, nonostante la sua definizione sia così precisa, il termine viene correntemente usato in una accezione molto più ampia, derivatagli sin dalla antichità romana dall’ambito commerciale, che non tiene conto di quella che è la classificazione delle rocce messa a punto dai geologi, per indicare tutte le pietre, ma soprattutto i materiali calcarei in grado di acquistare lucentezza attraverso la levigatura e la lucidatura. Anche nel presente lavoro il termine, in maniera generica, viene utilizzato per indicare anche litotipi che, da un punto di vista prettamente geologico, non sono affatto dei marmi. In realtà infatti tra i litotipi individuati negli altari di età barocca delle chiese della Diocesi di Piazza Armerina sono pochissimi i marmi propriamente detti, mentre più generalmente si tratta di calcari compatti a grana fine, di brecce policrome, o di altro ancora, tutti sempre caratterizzati da pigmentazioni molto vivaci, dovute alle impurità che sono presenti nella roccia stessa, in quantità di volta in volta differenti. È proprio a questa variabilità nella composizione delle pietre che si deve la grande diversità cromatica dei litotipi, molto apprezzata dagli artisti, ma tale da renderne spesso l’identificazione molto difficoltosa, soprattutto se basata solamente su di un esame superficiale di tipo macroscopico del campione lapideo. Possiamo affermare quindi che il colore è la proprietà principale di un marmo, soprattutto se utilizzato a scopo ornamentale, poichè è quella che immediatamente balza allo sguardo dell’osservatore, determinandone il

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più delle volte l’apprezzamento e quindi la fortuna commerciale e di utilizzo1. Grande importanza riveste poi la tessitura della pietra, dal momento che anche questa, assieme al colore, ne accresce la valenza decorativa, rendendola originale ed unica grazie al disegno che la Natura, in maniera spontanea, ha creato2. È ovvio quindi che in un periodo come quello barocco, in cui in ambito artistico si prediligeva tutto ciò che è vivacità e colore, meraviglia e sfarzo, dinamismo ed esuberanza di forme, tali materiali non potessero venire ignorati dai committenti, e tanto meno dagli artisti. I marmi policromi già nel corso del Rinascimento, divennero infatti i materiali prediletti per la decorazione degli interni degli edifici, rispolverando tecniche ornamentali che hanno avuto origine in età romana3, e che in età barocca vengono riproposte con la creazione di finissime composizioni ad intarsio, caratterizzate sempre da un disegno articolato e complesso. Ad essere maggiormente apprezzate in questa fase artistica sono quindi le pietre dai colori più vivaci e dalle tessiture più originali e strane, e soprattutto le brecce policrome, perché maggiormente rispondenti al gusto estetico che nei secoli XVII e XVIII si era ormai diffuso in tutta Italia, ed anche in Europa, ed è con tali materiali quindi che vengono rivestite interamente in questi anni le pareti di gran parte degli edifici più importanti, soprattutto di quelli a carattere religioso4. Dicevamo prima che l’utilizzo delle pietre a scopo ornamentale risale all’epoca romana. Fu infatti in questo periodo storico che ai marmi venne attribuita grande importanza artistica, ma anche elevato valore economico, il quale cresceva tanto più quanto la pietra era apprezzata dal

1

F. CALVINO, Lezioni di litologia applicata, Padova, 1967, pp. 92-98 P. MATTIAS, Minerali e rocce, Roma, 1991, p. 114 3 A. BONANNI, Interraso Marmore: esempi della tecnica decorativa a intarsio in età romana, in “Marmi antichi II, cave e tecnica di lavorazione, provenienze e distribuzione”, a cura di P. Pensabene, “ studi Miscellanei, 31, 1998, pp. 259-292 4 S. PIAZZA, op. cit., pp. 17-20 2

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punto di vista estetico, secondo il gusto del tempo, e quanto più questa era rara oppure difficile da reperire. Così vennero cavate in grande quantità pietre ornamentali in tutto l’impero romano, soprattutto in Egitto, Asia Minore e Grecia. Da questi luoghi infatti provenivano i porfidi ed i graniti più belli, i marmi colorati e le brecce, ed i marmi bianchi utilizzati nella statuaria. Importanti cave esistevano in età romana anche in Italia, e tra queste meritano una particolare menzione quelle di Luni, una località nei pressi di Carrara, nelle quali si estraeva il marmo detto appunto lunense, molto diffuso a partire dalla età imperiale a Roma e riscoperto ed utilizzato in grandi quantità in epoca rinascimentale e moderna5. Tutte le pietre cavate, dalle lontane province dell’impero, giungevano quindi nella capitale dove venivano utilizzate per la realizzazione degli edifici pubblici più importanti, oppure venivano acquistate dai personaggi più ricchi per le loro residenze private. Il marmo infatti divenne ben presto uno status symbol nella società romana, di cui fare sfoggio per esprimere il proprio prestigio e la propria ricchezza, mantenendo questa sua valenza anche nei secoli successivi. Tra le pietre più apprezzate in età romana, oltre al marmo lunense, ricordiamo anche il porfido rosso egiziano, il porfido serpentino greco, il granito rosso, sempre proveniente dall’Egitto, e quello violetto, estratto invece in Turchia, il marmo luculleo, o Africano, anche questo cavato nella penisola turca, il verde antico ed il marmo rosso tenario, importati entrambi dalla Grecia, così come il bianco pentelico, utilizzato nella statuaria e nella costruzione dei templi,oppure i marmi bianchi di Taso e di Paro, provenienti dalle omonime isole situate nell’Egeo, solo per citare alcuni dei più importanti e conosciuti a Roma6. Caduto l’impero romano molte cave furono abbandonate, mentre altre continuarono la loro produzione in età bizantina, quando addirittura ne 5 6

AA. VV., Marmi antichi, Roma, 1989, p. 248 R. GNOLI, Marmora romana, Roma, 1988

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furono aperte di nuove. In età medievale tuttavia l’attività estrattiva si fermò del tutto ed i monumenti dell’antichità classica divennero loro malgrado delle immense cave da cui ricavare materiale per la costruzione di nuovi edifici. I marmi, e le pietre ornamentali in genere, continuarono ad essere apprezzate dagli artisti e dai sovrani, ma non furono più cavate, ricorrendo alla più comoda pratica del reimpiego di materiali romani e bizantini per le loro nuove realizzazioni. Tale tendenza fu mantenuta fino a tutto il Rinascimento, ed in particolare la città di Roma, sotto la spinta della committenza papale, vide nascere in questo periodo alcuni dei suoi più importanti e grandiosi edifici dalla spoliazione sistematica degli antichi monumenti di età romana imperiale.

Fig. 1 Ubicazione delle principali cave dell’area mediterranea in età romana e rinascimentale – barocca. 1. Verde Alpi; 2. Verde di Calabria; 3. Alabastro di Palombara; 4. Portoro; 5. Rosso e Verde di Levanto; 6. Breccia di Seravezza; 7. Breccia Medicea; 8. Marmo di Carrara; 9. Pavonazzetto di Siena; 10. Giallo di Siena; 11. Nero Assoluto; 12. Alabastro a Pecorella; 13. Alabastro orientale egiziano; 14. Porfido Verde Antico (Serpentino); 15. Rosso di Francia; 16. Marmo Chio; 17. Verde Antico; 18. Broccatello di Spagna; 19. Giallo Antico; 20. Breccia Corallina; 21. Marmo Troadense; 22. Cipollino Rosso (Iassense); 23. Marmo Luculleo; 24. Graniti e Porfidi egiziani; 25. Marmo Tenario (Rosso Antico); 26. Marmo Pario.

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Con l’avvento della nuova sensibilità artistica barocca la grande richiesta di materiale lapideo per scopi ornamentali fece sì che si rendesse necessario provvedere all’individuazione ed allo sfruttamento di nuove cave nell’ambito stesso della penisola italiana, ricercando possibilmente pietre che fossero “barocche”, meglio se simili nell’aspetto ai più famosi litotipi di età romana, non più direttamente reperibili ma ancora famosi e ricercati. Non venne abbandonata inoltre la diffusissima pratica del reimpiego del materiale antico, rinvenuto in occasione di scavi presso siti di età romana, mentre si importarono anche pietre estere, provenienti soprattutto dalla Francia, dal Belgio e dalla Spagna. Tra queste le maggiormente utilizzate in Italia durante il periodo barocco furono il Rosso di Francia, detto anche rosso Linguadoca, il Broccatello di Spagna7, cavato presso Tortosa e conosciuto anche dai romani, e le pietre nere provenienti dal Belgio. In particolare fu la potente e ricca famiglia fiorentina de’ Medici a dedicarsi nel Cinquecento alla cavatura, al commercio ed alla lavorazione delle pietre ornamentali, rimettendo in funzione nell’area apuana vecchie cave di età romana oppure aprendone delle nuove. Sono infatti molto famose, ed anche molto utilizzate dagli artisti di tutta Italia in questi anni, le brecce medicee ed i marmi, per lo più gialli, provenienti dalla montagnola senese. Altre cave furono invece attivate in territorio ligure, in Valle D’Aosta, in Calabria ed anche in Sicilia. Tra le pietre più utilizzate in questo periodo dagli artisti, assieme a quelle già citate di importazione, alla breccia medicea ed al marmo giallo senese, abbiamo i verdi aostani e calabresi, molto simili al verde antico proveniente dalla Grecia usato dai romani, il marmo nero portoro e quelli

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R. FALCONE – L. LAZZARINI, Note storico – scientifiche sul Broccatello di Spagna, in “Marmi antichi II”, cit. in nota 4, pp. 87-97 IUAV - Istituto Universitario di Architettura di Venezia Corso di Laurea in Storia e Conservazione dei beni architettonici ed ambientali

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rossi e verdi di Levanto, tutti cavati in Liguria, ed il libeccio, molto famoso in età barocca, proveniente dalla Sicilia8. In particolare in Sicilia, oltre al libeccio, conosciuto anche con il nome di diaspro tenero di Sicilia e cavato a Custonaci, nei pressi di Trapani, che, come già detto, ebbe larga diffusione a Roma ed in tutta Italia in età barocca per la sua particolare e vivace cromia, furono cavate anche pietre di ogni genere e colore, soprattutto nella parte occidentale dell’isola, presso il trapanese ed il palermitano, mentre nella parte orientale gli unici marmi ad avere una buona diffusione tra i marmorari dell’epoca furono quelli rossi, grigi e neri dell’area di Taormina, conosciuti già in età romana con il nome di marmora taumeritama9.

Fig. 2 Ubicazione delle principali cave siciliane in età barocca

8

R. LA DUCA, Ricerca, criteri e metodi per lo studio dei monumenti storici in relazione all’impiego dei marmi e delle pietre, in “Marmo Tecnica Architettura”, VI, 1965, pp. 5-24 9 G. MONTANA – V. GAGLIARDO BRIUCCIA, I marmi e i diaspri del Barocco siciliano, Palermo, 1998, pp. 54-70 IUAV - Istituto Universitario di Architettura di Venezia Corso di Laurea in Storia e Conservazione dei beni architettonici ed ambientali

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Tra i litotipi siciliani più diffusi nell’isola ricordiamo quindi, insieme a quelli già menzionati, anche il giallo di Castronovo, che riscaldato assume delle sfumature tendenti al rosso - arancio, il rosso di San Vito Lo Capo, il giallo di Segesta, il marmo grigio di Billiemi, il nero di Erice. Si tratta ovviamente dei marmi che maggiormente trovarono impiego nelle fastose decorazioni realizzate in Sicilia dagli artisti in questo periodo, assieme a quelli di reimpiego ed a quelli importati dalla penisola italiana, soprattutto dalla Liguria e dalla Toscana10, oppure dall’estero; tuttavia ne circolavano in Sicilia anche molti altri, sempre cavati nell’isola, che però hanno trovato un impiego assai più limitato e per lo più relativo alle aree più prossime alle località in cui questi stessi venivano estratti. Le pietre ornamentali più belle ed apprezzate dagli artisti in età barocca furono però i diaspri propriamente detti, ovvero pietre dure caratterizzate da originali tessiture e cromie, e da un elevato valore economico, tanto da essere considerati dei materiali semipreziosi, utilizzati soprattutto per la realizzazione di oggetti ornamentali di dimensioni contenute. Si tratta in realtà di rocce piuttosto comuni in natura, corrispondenti dal punto di vista geologico a selci più o meno stratificate, contenenti impurità varie (ossidi di Ferro, Manganese, ecc.), disperse nella massa lapidea, che ne determinano la colorazione, e quindi il particolare aspetto esteriore, rendendole di fatto preziose e differenziandole notevolmente dalle più comuni selci11. Si formano dalla precipitazione marina della silice di origine chimica, per saturazione del contenuto in acido silicico (H4SiO4), oppure di origine biologica, per sedimentazione di scheletri silicei di micro organismi.

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Ibidem, pp. 71-74 L. LAZZARINI – P. EVANGELISTA, La Collezione ex Kircheriana di Diaspri siciliani del Museo di Mineralogia alla <<Sapienza>>, in “Marmi antichi II” cit. in nota 4, pp. 393-394

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Proprio a causa di questa loro composizione mineralogica sono caratterizzate, oltre che da una particolare bellezza, anche da una notevole durezza superficiale, ragione per cui vengono denominate “pietre dure” e la loro lavorazione risulta particolarmente difficoltosa e tale da richiedere grande sforzo ed abilità, oltre che perizia. I diaspri in area mediterranea ebbero largo utilizzo già presso i Mesopotamici e successivamente anche presso gli Egizi, i Minoici ed i Micenei. Furono apprezzati ed utilizzati dai Greci, ed anche in età romana ebbero una larga diffusione. Si continuò ad utilizzarli in età Bizantina e poi Medievale, anche se in quantità e per opere più modeste, ma fu nel Rinascimento che si ebbe una ripresa su vasta scala della ricerca e della lavorazione dei diaspri. Ciò avvenne soprattutto grazie all’interesse manifestato per le pietre dure da parte di Lorenzo de’ Medici, il quale fece pervenire a Firenze da ogni parte del mondo alcune tra le più belle pietre allora in circolazione. Il Magnifico incrementò così la propria collezione di oggetti realizzati in pietre dure, favorendo anche la nascita di laboratori specializzati nella loro lavorazione, gettando così le basi per la creazione nel 1588 dell’Opificio delle Pietre Dure, presso la stessa città di Firenze12. Molti dei diaspri più apprezzati nel Rinascimento e poi in età barocca provenivano proprio dalla Sicilia e furono utilizzati in grande quantità in tutta la penisola italiana ma soprattutto a Firenze, dove gli intagliatori li impiegavano per la realizzazione dei piani dei tavoli a commesso, riducendoli in lastre sottilissime che andavano a costituire ricche composizioni ad intarsio, caratterizzate da ricchi intrecci di tipo geometrico, floreale e zoomorfo13. In Sicilia furono largamente utilizzati dai marmorari nella realizzazione degli altari in pietre ornamentali colorate, soprattutto a Palermo, impiegandoli in particolare per il rivestimento della zona del tabernacolo, 12 13

Ibidem, pp. 392-393 Ibidem, p. 393

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attribuendo così al materiale una valenza simbolica e quindi il compito di sottolineare con la sua preziosità l’importanza del contenuto presente all’interno del tabernacolo stesso. Anche in questo caso le principali località di provenienza delle pietre dure di Sicilia sono situate nella parte nord - occidentale dell’isola; in particolare famosi in tutta Italia sono i diaspri gialli, rossi e verdi provenienti da Giuliana, nel palermitano14. Tra i diaspri più conosciuti ed utilizzati negli altari delle chiese ricordiamo anche quelli di Monreale, Santa Cristina Gela, Piana degli Albanesi, Caccamo, Cammarata, Termini Imerese, Collesano, Cefalù e Prizzi, sempre in area palermitana, mentre nella parte orientale della Sicilia le varietà più belle, generalmente screziate, sono state rinvenute nei pressi di Taormina15.

14 15

G. MONTANA – V. GAGLIARDO BRIUCCIA, op. cit., pp. 76-78 Ibidem, p. 81

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Utilizzo delle pietre ornamentali all’interno delle chiese: principali tecniche e motivi decorativi L’abbondanza delle pietre ornamentali, di ogni colore e varietà, che come abbiamo visto caratterizzava la Sicilia, e gli stretti rapporti commerciali che già nel Cinquecento esistevano soprattutto con la Toscana16, i quali favorivano l’approvvigionamento di marmi apuani e liguri, ma anche la diffusione di temi e motivi decorativi relativi alle nuove concezioni artistiche rinascimentali, fecero si che nell’isola rapidamente si creassero i presupposti necessari allo sviluppo di attività artistiche e decorative connesse alla tecnica dell’intarsio marmoreo. In Sicilia inoltre esistevano condizioni politiche, sociali, economiche e culturali particolarmente favorevoli alla diffusione di tale fenomeno artistico, tanto che questo diventerà l’elemento caratterizzante del barocco siciliano, soprattutto a partire dai primi anni del secolo XVII, quando verranno realizzati i programmi decorativi più imponenti e sfarzosi, relativi soprattutto ad edifici a carattere religioso17. Le tecniche della tarsia e del commesso marmoreo erano già state ampiamente utilizzate nelle decorazioni dei monumenti normanni, per cui si può affermare che queste costituissero un elemento della tradizione artistica siciliana, ancora vivo e presente nella memoria degli artisti, soprattutto perché legato ad un periodo di splendore per la Sicilia, che ancora nel Seicento rimpiangeva tale glorioso passato18. Gli ordini religiosi e le più alte cariche ecclesiastiche inoltre disponevano in questo periodo di immensi patrimoni finanziari, accumulati grazie alle cospicue donazioni che costantemente ricevevano e , nel caso degli ordini religiosi, grazie alle ricche doti dei figli cadetti delle famiglie

16

S. BOSCARINO, La Sicilia ed i marmorari toscani, in “Catalogo della Mostra <<Firenze e la Toscana dei Medici nell’Europa del ‘500: il potere e lo spazio. La scena del Principe>>, Firenze, 1980 17 S. PIAZZA, op. cit., pp. 17-18 18 G. MONTANA – V. GAGLIARDO BRIUCCIA, op. cit., p. 14 IUAV - Istituto Universitario di Architettura di Venezia Corso di Laurea in Storia e Conservazione dei beni architettonici ed ambientali

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aristocratiche, le quali, per non smembrare il loro patrimonio, li spingevano ad abbracciare la vita religiosa. Questa grande quantità di denaro veniva il più delle volte quindi investita nella realizzazione di sontuosi programmi architettonici che riguardavano la ristrutturazione delle vecchie chiese, non più adatte alle esigenze del tempo, e la costruzione di nuovi ed imponenti edifici per il culto, generalmente annessi a grandi monasteri. La Spagna inoltre, a quel tempo detentrice del governo dell’isola, aveva fatto del cattolicesimo il proprio instrumentum regni, incoraggiando così gli aristocratici, laici o anche ecclesiastici, a fare sfoggio della propria religiosità, prestigio e ricchezza commissionando agli artisti sfarzose opere in marmo a cui legare il proprio nome e quello del proprio casato19. La tecnica della decorazione ad intarsio, pur presente come abbiamo visto nella tradizione artistica siciliana, si sviluppò in Sicilia grazie alla presenza nell’isola di artisti provenienti dal continente, soprattutto da Firenze e da Roma, centri guida per l’arte italiana di questi anni, e quindi sotto l’influenza delle nuove tendenze artistiche che caratterizzarono il rinascimento fiorentino e romano, e successivamente il periodo barocco. Si manifestò inizialmente in forme molto semplici nella decorazione dei sarcofagi e delle targhe celebrative, realizzata appunto con tessere marmoree policrome. Solo successivamente tale tecnica raggiunse i suoi livelli più elevati con la realizzazione di complessi motivi decorativi negli interni delle chiese, dove a partire dalla seconda metà del ‘600 si ha il proliferare di rilievi e tarsie in marmi policromi, eseguiti secondo la tecnica detta “a marmi mischi e tramischi”20. La Sicilia in questo particolare ambito si distinse nettamente dalle analoghe vicende artistiche della penisola per l’esuberanza e la ricchezza delle composizioni che furono realizzate in questi anni, caratterizzate soprattutto da vivaci cromie e da un ininterrotto alternarsi di figure 19 20

S. PIAZZA, op. cit., pp. 17-18 G. MONTANA – V. GAGLIARDO BRIUCCIA, op. cit., p. 14

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vegetali, animali, umane e zoomorfe, imponendosi quindi come qualche cosa di fortemente originale e prettamente siciliano, nell’ambito del panorama artistico generale italiano21. Saranno soprattutto i centri di Messina e di Palermo ad accogliere e sviluppare in maniera originalissima tale tipo di composizione tanto che, in particolare nella città capitale, non esiste chiesa di una certa importanza, realizzata e decorata in questo periodo, che non presenti il suo interno completamente ricoperto da questo genere di ornamento. Il primo esempio di decorazione realizzata in marmi policromi a Palermo era stato quello relativo alla Cappella di Santa Rosalia, presso la chiesa Cattedrale della città, opera dell’architetto Mariano Smiriglio dei primi anni del secolo XVII22, oggi non più esistente perché la cappella venne eliminata durante dei lavori di risistemazione e restauro del Duomo, realizzati nel corso del Settecento sotto la guida del Fuga, famoso architetto napoletano23. Il caso più famoso ed eclatante a Palermo, ed in tutta l’isola, di decorazione a mischio è tuttavia quello della chiesa del Gesù di Casa Professa, appartenente all’ordine dei gesuiti, il più ricco e potente in questo periodo, terminata nella prima metà del Seicento ed interamente rivestita di tarsie in marmi colorati, intrecci floreali, volute, figure umane ed animali, tali da suscitare profondo stupore e meraviglia in chiunque si ritrovi ad ammirarla24. Altri importanti esempi realizzati sempre a Palermo negli stessi anni sono quelli della chiesa del SS. Salvatore, di S. Caterina, di S. Maria in Valverde, della cappella del Rosario, presso la chiesa di Santa Cita e di quella dell’Immacolata, nella chiesa di San Francesco d’Assisi25.

21

S. PIAZZA, op. cit., p. 20 S. BOSCARINO, Sicilia Barocca, cit., p. 109 23 Ibidem, pp. 146-147 24 S. PIAZZA, op. cit., p. 37 25 G. TAMBURELLO, La grande decorazione in marmi a colore delle chiese di Palermo nel XVI e XVII secolo, in “Pamormus”, I, 3-4, 1920 22

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Così come a Palermo anche a Trapani ed a Monreale, e più in generale nella Sicilia nord-occidentale, troviamo esempi di decorazioni a mischio simili per sfarzo, complessità ed estensione tale da ricoprire intere pareti di cappelle, o addirittura la totalità degli interni delle chiese. Di contro nella parte orientale dell’isola la diffusione di questa pratica decorativa risulta molto più contenuta e limitata a casi sporadici, prediligendo invece i committenti e gli artisti la costruzione di eleganti ed altrettanto sfarzosi altari marmorei, realizzati in grande quantità ed in svariate forme e dimensioni, sempre secondo la tecnica dell’intarsio. Dal punto di vista tecnico la decorazione a tarsia marmorea trae origine e si richiama direttamente a quella tipicamente romana dell’opus sectile utilizzata per il rivestimento dei pavimenti e delle pareti. Tuttavia non va confusa completamente con questa dal momento che mentre nel caso dell’opera sectilia le lastre marmoree sono collocate una accanto all’altra su di un sottofondo di calce, nell’intarsio invece queste sono posizionate all’interno di incavi precedentemente realizzati su di una lastra marmorea che funge quindi da supporto per la composizione. Anche questa tecnica era conosciuta presso i romani con il nome di interraso marmore, ma venne applicata su ampia scala solo a partire dal tardo Quattrocento e nel Rinascimento dai marmorari romani e fiorentini26. Abbiamo già detto che in Sicilia le opere decorative ad intarsio marmoreo sono meglio conosciute come “opere mischie” oppure “tramischie”. Nel primo caso si tratta di tarsie bidimensionali, mentre nel secondo di opere caratterizzate da parti a rilievo, talvolta dal notevole valore plastico tanto da costituire un vero e proprio apparato scultoreo27. Per la loro esecuzione veniva utilizzata quindi una lastra di base, generalmente in marmo cristallino bianco, dello spessore variabile dai 4 agli 8 cm, nella quale venivano realizzati con grande precisione degli 26

L. LAZZARINI, recensione al testo “I marmi e i diaspri del barocco siciliano”, in “Recupero e Conservazione”, Anno V, 27, Aprile – Maggio 1999, pp. 10-11 27 G. MONTANA – V. GAGLIARDO BRIUCCIA, op. cit., p. 13 IUAV - Istituto Universitario di Architettura di Venezia Corso di Laurea in Storia e Conservazione dei beni architettonici ed ambientali

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incavi della profondità variabile dai 6 ai 10 mm, mentre le parti che dovevano rimanere bianche venivano lasciate a rilievo . Negli incavi venivano poi inserite ad incastro, e fissate con un collante, le lastre lapidee policrome, opportunamente sagomate. Al termine dell’inserimento delle pietre colorate l’opera veniva rifinita con l’applicazione di particolari stucchi colorati per riempire gli eventuali vuoti generatisi da una non perfetta rispondenza tra le lastre e gli incavi che devono contenerle, oppure le linee appositamente realizzate mediante un incavo a sezione triangolare, aventi scopo puramente ornamentale. Il tutto veniva infine accuratamente levigato e lucidato ed applicato alla parete attraverso l’utilizzo di zanche metalliche inserite nella muratura28. Per l’esecuzione dei tramischi venivano impiegate invece lastre di base di marmo di spessore tale da consentire che venissero ricavate, mediante scalpellamento, tutte le parti in aggetto, oltre agli incavi destinati ad accogliere i marmi colorati, che di solito in questi casi erano eseguiti con maggiore profondità nella lastra29. Lo stesso procedimento veniva utilizzato per la decorazione, oltre che delle pareti, anche degli altari, oppure delle balaustre, dei fonti battesimali, dei sarcofagi e delle acquasantiere, di cui numerosi esempi sono stati individuati nelle chiese della Diocesi di Piazza Armerina. Nel caso degli altari marmorei in particolare va sottolineato come molto spesso si tratta di vere e proprie architetture in miniatura, nelle quali con più libertà gli artisti-architetti di età barocca potevano dare libero sfogo alla loro creatività attraverso l’invenzione di complesse ed articolate forme e di tabernacoli simili ai prospetti degli edifici religiosi realizzati in questi anni, con colonnine libere, volute ed aggetti, che sono poi la caratteristica principale, assieme alle tarsie dei paliotti ed ai rivestimenti in marmi policromi, di queste composizioni, così diffuse anche nei centri minori dell’isola. 28 29

R. LA DUCA, op. cit., p. 17 Ibidem, p. 21

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Architetti, marmorari e maestranze specializzate Il processo che portava alla realizzazione degli splendidi apparati decorativi realizzati in marmi policromi in età barocca era alquanto complesso e vedeva coinvolte nei diversi momenti della realizzazione varie figure a partire dai committenti, che finanziavano il progetto dettando le linee guida ed i contenuti principali che l’opera doveva soddisfare, ai teologi, che si occupavano di fornire agli artisti precise indicazioni su quali storie o figure bibliche rappresentare, sulla sequenza iconografica da rispettare e sui fini morali e devozionali da seguire30, agli architetti-artisti, che invece eseguivano i disegni ed i modelli, fino ad arrivare alle maestranze specializzate nell’intaglio della pietra, ovvero i marmorari, o lapidum incisores31, i quali materialmente eseguivano l’opera, seguendo le precise indicazioni fornite dagli artisti. Oggi conosciamo i nomi di molti degli artisti che a partire dal secolo XVII idearono gran parte delle decorazioni a mischio eseguite nella città di Palermo, che costituisce il luogo in cui principalmente questa particolare forma d’arte si espresse raggiungendo i suoi livelli più elevati. Si trattava generalmente di architetti appartenenti ad ordini religiosi di vario genere, detentori di un vero e proprio monopolio sulla cultura e sull’istruzione in questa epoca. Oltre agli architetti in alcuni casi, anche se rari, troviamo dei pittori chiamati a dare forma ai programmi iconografici e decorativi messi a punto dai teologi. Tra gli architetti ricordiamo Mariano Smiriglio, attivo anche come pittore, a cui viene attribuita la prima cappella interamente decorata da tarsie marmoree presso il Duomo di Palermo; il gesuita Angelo Italia, autore del disegno della decorazione della cappella del Crocifisso del Duomo di Monreale; Andrea Palma, progettista di una parte della decorazione della chiesa di Santa Caterina; Nicolò Palma, attivo presso la 30

S. PIAZZA, op. cit., p. 21 G. CHIELLO, I materiali lapidei ornamentali negli interni delle chiese barocche di Catania, Tesi di Laurea, rel. Prof. L. Lazzarini, IUAV, a.a. 1995-96, pp. 31-32

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chiesa di Santa Chiara; Giacomo Amato, autore assieme al più famoso Paolo Amato delle decorazioni marmoree della chiesa di San Carlo alla Fieravecchia; Natale Masuccio, trapanese ed anche lui appartenente alla Compagnia di Gesù, autore del complesso (chiesa + Collegio) dei gesuiti a Trapani e delle decorazioni degli interni32. Tuttavia il più grande protagonista della decorazione barocca a Palermo fu l’architetto Paolo Amato, ideatore degli apparati decorativi delle chiese più importanti della città. Il suo nome è rimasto maggiormente legato alla chiesa palermitana del SS. Salvatore, che egli progettò dalle fondamenta, dirigendone i lavori di costruzione e disegnandone infine le decorazioni dell’interno realizzate appunto in marmi policromi. Lavorò inoltre presso il cantiere di casa Professa, dove si dedicò alla realizzazione del rivestimento marmoreo della cappella dell’Immacolata. Figura anche quale progettista delle strutture murarie e degli apparati decorativi della chiesa di Santa Chiara, oggi non più esistenti33. Tra i pittori attivi sempre a Palermo negli stessi anni, coinvolti nella decorazione marmorea degli interni degli edifici religiosi, non vanno dimenticati Vincenzo Marchesi e Antonio Vasquez, autori dei disegni di parte della decorazione degli interni di Casa Professa34. Anche nella parte orientale dell’isola in questi stessi anni si procedeva alla realizzazione di simili opere di decorazione, anche se si trattava per lo più di esempi sporadici, nei quali mai furono raggiunti i livelli di eccellenza visti nella città di Palermo. I centri che videro sorgere le principali realizzazioni in questo ambito artistico furono quelli di Messina e di Catania, che ricoprirono anche il ruolo di centri guida per le città ed i centri minori che gravitavano nella loro sfera di influenza politica, economica e culturale.

32

S. PIAZZA, op. cit., pp. 22-23 Ibidem, pp. 23-24 34 Ibidem, p. 28 33

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Anche qui troviamo attivi, quali ideatori dei complessi disegni e dei motivi iconografici delle decorazioni marmoree, soprattutto gli architetti. Da Messina in particolare proveniva la famiglia di esperti intagliatori ed edificatori degli Amato, attiva a Catania nella ricostruzione della città intrapresa dopo che il terremoto del 1693 la aveva rasa al suolo35. A questa famiglia apparteneva Antonio Amato, presente quale architetto agli inizi del Settecento presso il grande cantiere del monastero dei benedettini. A lui successe alla guida della fabbrica il figlio Andrea, protagonista del panorama architettonico catanese nella prima metà del secolo XVIII, assieme agli architetti Francesco ed Antonino Battaglia e Stefano Ittar36. Egli, oltre che architetto anche stuccatore e scultore, è l’autore nel 1737 del progetto per la decorazione marmorea della cappella della Madonna della Visitazione, presso il Duomo di Enna, interamente rivestita da tarsie marmoree e da un ricco apparato scultoreo37. Mentre i nomi dei committenti e quelli degli architetti ed artisti coinvolti nella realizzazione delle decorazioni marmoree ad intarsio sono spesso noti, quelli delle maestranze esecutrici sono per lo più sconosciuti, eccetto nei casi in cui la presenza dei contratti stipulati per l’attuazione di tali lavori non ne hanno rivelato i nomi, fornendoci così qualche frammentaria notizia su di esse. L’apparato decorativo, dopo essere stato concepito e disegnato dagli artisti,e successivamente approvato dalla committenza, veniva realizzato da una numerosa schiera di artisti e maestranze specializzate di cui facevano parte scultori, pittori, stuccatori, intagliatori, marmorari, muratori, indoratori, fabbri e maestri d’ascia38. Tra questi gli unici a godere di una certa libertà creativa nella realizzazione dell’opera erano gli scultori, dal momento che spesso gli 35

L. SARULLO, Dizionario degli artisti siciliani (Architettura, scultura, pittura), Palermo, 1993, vedi alla voce Amato 36 G. POLICASTRO, op. cit. 37 A. RAGONA, Arte ed artisti nel Duomo di Enna, cit., pp. 28-29 38 S. PIAZZA, op. cit., p. 29 IUAV - Istituto Universitario di Architettura di Venezia Corso di Laurea in Storia e Conservazione dei beni architettonici ed ambientali

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architetti fornivano loro gli ingombri principali lasciandogli una certa libertà nella definizione finale della creazione. Tutti gli altri invece dovevano attenersi rigorosamente alle indicazioni degli artisti, ed in particolare ai marmorari, che di fatto erano coloro che eseguivano le tarsie marmoree, veniva richiesta una grande capacità tecnica ma nessun contributo creativo o interpretativo39. Questi appartenevano generalmente a vere e proprie famiglie che per generazioni si tramandavano di padre in figlio l’arte della tarsia marmorea. Erano organizzati in botteghe, e più in generale si associavano tra loro in corporazioni di mestiere e confraternite, regolate da statuti40. Oggi, attraverso i contratti stipulati con la committenza, conosciamo i nomi di alcune di queste famiglie di marmorari e scultori, autori oltre che delle decorazioni parietali anche degli altari marmorei che arredano quasi tutte le chiese realizzate in questo periodo. In particolare a Catania ricordiamo, tra le tante famiglie di marmorari e scultori esistenti ed attive in questi anni, quella dei Marino, la cui bottega risulta presente anche in diverse realizzazioni nei centri dell’entroterra siciliano, tra cui anche la stessa Piazza Armerina41. Nel caso degli altari marmorei in particolare erano gli stessi marmorari il più delle volte, e soprattutto in occasione di commissioni di secondaria importanza, ad ideare e realizzare interamente la composizione, concependone il disegno architettonico ed occupandosi personalmente della fase decorativa, e quindi della scelta, della lavorazione e della messa in opera dei marmi.

39

Ibidem, p. 31 M. R. NOBILE, Un altro Rinascimento: architetti, maestranze e cantieri in Sicilia, Benevento, 2002 41 DEMETRA società cooperativa a.r.l. (a cura di), Monumenti di Piazza Armerina, Vol. I, Piazza Armerina, 1989 40

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SCHEDE DI ANALISI

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Premessa alle schede di analisi degli edifici religiosi studiati Nell’ambito della Diocesi di Piazza Armerina è stata effettuata una accurata ricognizione con il fine di individuare tutti gli altari marmorei realizzati tra la fine del secolo XVI e la fine del secolo XVIII, decorati da pietre ornamentali colorate, presenti all’interno delle chiese dei comuni facenti parte di questa circoscrizione religiosa. Grazie alla disponibilità dei parroci della diocesi, custodi di questo ricco patrimonio artistico, è stato possibile così individuare 45 altari marmorei, rispondenti per le loro caratteristiche alla tipologia oggetto del presente studio, localizzati entro 26 edifici religiosi differenti. Solo le chiese di tre dei dodici comuni appartenenti alla Diocesi di Piazza Armerina (Butera, Villarosa, Valguarnera) sono risultate completamente prive di tali opere. Per ciascuno di questi altari l’indagine sui litotipi è stata eseguita esclusivamente sulla base di un esame visivo diretto, prendendo in considerazione le caratteristiche macroscopiche delle pietre (colore, struttura, tessitura, ecc.) e confrontando queste con i campioni di certa identificazione, presenti sui manuali e nelle litoteche, senza l’ausilio di analisi di laboratorio. Attraverso tale metodologia tuttavia non sempre si riesce a pervenire ad una identificazione certa del materiale lapideo a causa della grande varietà tessiturale e cromatica di alcuni litotipi. Solo indagini più approfondite, basate su ricerche archivistiche ed analisi microscopiche dei campioni marmorei, potranno sciogliere i dubbi lasciati in sospeso dal presente lavoro, come l’esatta identificazione degli alabastri calcarei presenti in alcuni degli altari esaminati, per i quali è stata fornita solo una identificazione petrografica generica, oppure quello relativo ai due differenti marmi di colore verde (Verde Alpi e Verde di Calabria), molto simili tra loro e quindi difficilmente distinguibili a vista. Nel caso di alcune pietre ornamentali inoltre non si è riusciti a pervenire ad una soddisfacente identificazione per cui queste sono state indicate nelle mappature con la sigla n.i. (marmo non identificato).

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Tutti i dati sono stati organizzati all’interno di schede di analisi, suddivise per paesi, riguardanti ognuna di volta in volta uno degli edifici esaminati. Per ciascuna chiesa sono state quindi fornite brevi notizie sulle sue vicende storiche, tratte dalla bibliografia relativa all’edificio o alla località in questione, ed una sommaria descrizione delle sue caratteristiche principali (impianto, prospetto esterno, caratteristiche dell’interno, presenza di ulteriori opere d’arte degne di menzione). All’interno della scheda stessa sono infine riportati gli altari marmorei presenti nell’edificio in questione, con la mappatura dei litotipi utilizzati, una semplice descrizione architettonica dell’opera, e le principali notizie riguardanti il periodo di realizzazione, la committenza e gli artisti, o le maestranze, che li hanno eseguiti, qualora tali informazioni fossero note attraverso la semplice consultazione della bibliografia specifica. In appendice al lavoro è riportato inoltre un catalogo dei litotipi individuati, composto da schede monografiche relative ad ogni singola pietra ornamentale presente negli altari esaminati, contenenti le principali notizie storiche e scientifiche sul materiale, correlate da illustrazioni che ne documentano le particolari pigmentazioni.

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INDICE DEGLI EDIFICI ESAMINATI • Aidone 1. Chiesa di San Lorenzo 2. Chiesa di Sant’Anna • Barrafranca 3. Chiesa di San Francesco • Enna 4. Chiesa di Santa Maria della Visitazione (Duomo) 5. Chiesa Santuario di San Giuseppe 6. Chiesa di San Marco Le Vergini • Gela 7. Chiesa di San Giuseppe (PP. Agostiniani) 8. Chiesa del SS. Salvatore e Rosario • Mazzarino 9. Chiesa di Maria SS. della Neve (Chiesa Madre) 10. Chiesa di Maria SS. del Carmelo (Carmine) 11. Chiesa del SS. Crocifisso dell’Olmo 12. Chiesa di San Francesco di Paola • Niscemi 13. Chiesa di Santa Maria dell’Itria (Chiesa Madre) 14. Chiesa dell’Addolorata 15. Chiesa della Madonna delle Grazie 16. Chiesa di San Francesco 17. Chiesa Santuario della Madonna del Bosco 18. Chiesa di San Giuseppe • Piazza Armerina 19. Cattedrale di Santa Maria delle Vittorie 20. Chiesa di San Rocco (Fundrò) 21. Chiesa di Santo Stefano 22. Chiesa di San Giovanni Evangelista • Pietraperzia 23. Chiesa di Santa Maria Maggiore (Chiesa Madre) 24. Chiesa del SS. Rosario 25. Chiesa di Santa Maria di Gesù • Riesi 26. Chiesa Santuario di Maria SS. della Catena (Chiesa Madre)


LEGENDA LITOTIPI INDIVIDUATI

Marmi siciliani 1) 2) 3) 4) 5) 6) 7) 8) 9) 10) 11) 12)

LIBECCIO DI TRAPANI - LT ROSSO DI SAN VITO LO CAPO - RSV ROSSO DI SAN MARCO D ALUNZIO - RSM ROSSO DI TAORMINA - RT GIALLO DI CASTRONOVO - GC GRIGIO DI BILLIEMI - GB ROSSO MONTECITORIO - RM ALABASTRO - AC DIASPRO GIALLO DI GIULIANA - DiGg DIASPRO ROSSO DI GIULIANA - DiGr DIASPRO DI SANTA CRISTINA GELA - DiSCG DIASPRO DI CAMMARATA - DiC

Marmi italiani 13) 14) 15) 16) 17) 18) 19) 20) 21) 22) 23)

ROSSO DI LEVANTO - RL VERDE DI LEVANTO - VL VERDE DI CALABRIA - VC VERDE ALPI - VA GIALLO DI SIENA - GS PAVONAZZETTO DI SIENA - PS BRECCIA DI SERRAVEZZA - BrS BRECCIA MEDICEA - BrM NERO PORTORO - NP NERO ASSOLUTO - NA MARMO DI CARRARA - MC

Marmi esteri 24) 25) 26) 27) 28) 29) 30)

ROSSO DI FRANCIA - RF FIOR DI PESCO - FP IASSENSE - IA VERDE ANTICO - VAN BRECCIA DI SCIRO - BrSc BROCCATELLO DI SPAGNA - BS LAPISLAZZULO - LA

Marmi non identificati 31) 32) 33) 34) 35) 36)

n.i. 1 n.i. 2 n.i. 3 n.i. 4 n.i. 5 n.i. 6


AIDONE

Chiese con altari in marmi policromi 1. Chiesa di San Lorenzo (chiesa madre) 2. Chiesa di Sant’Anna


Chiesa di San Lorenzo (Chiesa Madre)

Fig. 1 Prospetto Principale

UBICAZIONE

: L’edificio sorge lungo la via Roma, nelle immediate vicinanze del Castello di Aidone, nella parte più antica della città

DATAZIONE

: Data di edificazione incerta (intorno all’anno Mille) Fine del XVII secolo (ricostruzione)

COMMITTENZA: Ignota

AUTORE

: Ignoto

BIBLIOGRAFIA : Mazzola G., 1913, pp. 41-42 Nicotra F., pp. 165-166 Giuliana G., 1967, pp. 158-159


Breve cenno storico: Il culto di San Lorenzo fu portato ad Aidone dalla nobile famiglia romana dei Colonna Gioieni che detenne per lungo tempo il dominio feudale sulla cittadina. Nella seconda metà del Seicento infatti Isabella Gioieni, che aveva ricevuto in dote Aidone avendo sposato Antonio Colonna di Palliano, promise al Santo che lo avrebbe fatto eleggere patrono di Aidone in cambio della sua intercessione per la nascita del figlio. La chiesa possiede inoltre una reliquia del Santo la cui autenticità è attestata da una pergamenta miniata del 1531 recante la firma di PapaAdriano III. L’edificio sorge nel punto più elevato della città, nei pressi del vecchio Castello di Aidone, oggi ridotto ad un cumulo di rovine, e costituiva un tempo assieme a questo l’originario nucleo cittadino. Fig. 2 Portale ad arco acuto realizzato in conci di Si tratta secondo la tradizione della pietra intagliata più antica chiesa diAidone ; tuttavia ancora incerta è la data di fondazione dell’edificio che alcuni storici collocano in epoca anteriore all’Anno Mille, anche se dai resti architettonici più antichi presenti nell’edificio, quali il portale sul prospetto principale, sembra molto più probabile una datazione intorno al secolo XIII. La struttura attuale risale invece ai primi decenni del Settecento quando in seguito agli ingenti danni provocati dal terremoto del 1693 si rese necessaria la ricostruzione quasi totale dell’edificio. In quella occasione, pur mantenendo invariato il sito, si pensò di edificare un tempio di dimensioni maggiori. Così al precedente impianto rettangolare furono aggiunte lungo i lati delle cappelle rettangolari e si iniziò la costruzione di un campanile che però non è stato mai ultimato. La facciata venne ricostruita ricollocando a caso il materiale antico a conci regolari, per cui oggi, oltre al bel portale ad arco acuto testimonianza della originaria chiesa, si notano anche in disordine delle lettere scolpite sui vari bolognini che originariamente costituivano una iscrizione latina.


Descrizione edificio: La chiesa così come oggi noi la vediamo è il risultato della ricostruzione effettuata in seguito al terribile terremoto del 1693 che la aveva pesantemente danneggiata. L’impianto dell’edificio, orientato con l’ingresso ad occidente e l’altare maggiore ad oriente, che era originariamente rettangolare fu così modificato e ridisegnato grazie alla aggiunta lungo le pareti laterali di sei cappelle laterali, tre per lato, e di un campanile, rimasto però incompiuto. La riedificazione fu realizzata riutilizzando il materiale dell’edificio precedente ed in particolare nella facciata i conci di pietra squadrata furono ricollocati anche se in modo casuale. Le rimanenti porzioni murarie realizzate ex novo sono invece facilmente riconoscibili dal momento che presentano una differente tessitura in conci irregolari e laterizi. La facciata risulta semplice e disadorna, impreziosita però dal portale ad arco acuto incassato in un timpano triangolare, testimonianza della struttura precedente. L’interno, ad unica navata e coperto da una volta a botte con unghiature, è scandito da paraste aggettanti che inquadrano le cappelle laterali e che sostengono gli arconi della volta ed è decorato da stucchi. L’altare maggiore è della fine del ‘600 e realizzato in marmi policromi mentre tra le cappelle laterali una è dedicata a San Lorenzo e contiene una Fig. 3 Vista dell’interno tela della fine del ’700 raffigurante il Santo con gli attributi classici simboli del martirio: palma, libro, aureola, graticola, dalmatica. Tra le opere d’arte contenute nella chiesa troviamo anche un crocifisso del ‘600 nella Cappella del Sacramento, sistemato su di un altare proveniente dal Monastero di Santa Caterina o dalla Chiesa di San Domenico, e numerose suppellettili, arredi sacri, antichi paramenti, statue e tele anche questi in parte provenienti dalla Chiesa di Santa Caterina. Preziosissimo è il reliquiario in argento a forma di braccio contenente la reliquia di San Lorenzo, la cui autenticità è attestata da un certificato pontificio del 1531 di Papa Adriano III su pergamena miniata a colori.. Nelle vicinanze dell’ingresso sono inoltre collocati due monumenti funebri marmorei: uno risale al secolo XVI ed è dedicato ad un Vescovo imparentato con la famiglia Colonna Gioeni, che per un lungo periodo detenne il dominio feudale della cittadina; l’altro è invece dedicato ad un aidonese illustre del secolo XIX.


Altare Maggiore

L’altare è posizionato al centro dello spazio del presbiterio, sopraelevato rispetto alla quota del pavimento da due gradini marmorei, di colore bianco. Di grandi dimensioni, risale alla fine del secolo XVII e reca sul retro una lapide con iscrizione latina che ricorda le vittime del terribile terremoto del gennaio del 1693 e l’anno di ultimazione dei lavori di ricostruzione della chiesa (1709). Nella parte bassa è costituito da una mensa, leggermente avanzata, con pilastrini ai lati ed affiancata da corpi laterali, decorati con mensole e volute conclusive. Al centro della mensa, inserito dentro una cornice circolare, troviamo un medaglione, circondato da foglie e volute, con all’interno intarsiata la graticola, simbolo di San Lorenzo, a cui è dedicato l’edificio ed uno degli altari delle cappelle laterali. La parte superiore presenta invece quatto gradini porta candela digradanti, inquadrati da volute ai lati, caratterizzati da leggeri aggetti e rientranze, a sottolineare il disegno architettonico. Al centro poi è situato, su di un basamento, il ricco tabernacolo marmoreo a forma di tempio, con colonnine libere e volute ai lati che inquadrano lo sportello centrale e sostengono la trabeazione conclusiva. Due statue raffiguranti angeli sono inoltre oggi collocate sulle mensole dei corpi laterali della parte bassa della struttura. L’altare, dalle forme semplici ma tipicamente barocche, è realizzato in marmo bianco di Carrara. Questo costituisce la struttura dell’opera ed il supporto su cui sono state eseguite le tarsie in marmi policromi che ravvivano la composizione.


Mappatura litotipi

0

10

20

50

100 cm


Altare di San Lorenzo

L’altare occupa la seconda cappella del lato destro, rispetto all’ingresso principale. É posizionato nella parete di fondo del vano rettangolare, rialzato dalla quota del pavimento da un gradino in pietra, ed è possibile che originariamente fosse collocato in un’altra chiesa (San Domenico oppure Monastero di S. Caterina). Ha dimensioni modeste ed è inserito all’interno di una struttura architettonica con colonne tortili a sostegno della trabeazione rettilinea e ricche decorazioni in stucco, dal sapore tipicamente barocco. La presenza di infiltrazioni d’acqua nella struttura ha però reso umido l’ambiente provocando così il deterioramento soprattutto degli apparati decorativi in stucco. É costituito da una mensa, leggermente avanzata rispetto alle basi che sostengono le colonne tortili della struttura superiore, con paliotto intarsiato affiancato da pilastrini, decorati in alto da teste di angeli, e da volute, che costituiscono orizzontalmente l’elemento conclusivo della composizione. Il paliotto è decorato, oltre che dai marmi policromi, anche da rilievi in bronzo, applicati alle lastre marmoree, dal motivo di ispirazione naturalistica e floreale. Tra questi troviamo il medaglione centrale, ovale ed incorniciato da volute, con all’interno intarsiata la graticola, simbolo di San Lorenzo. La parte superiore presenta tre gradini porta candele ed al centro il tabernacolo, a forma di tempietto, con paraste e volute laterali a sostegno della trabeazione e del coronamento conclusivo con volute. L’altare è arricchito anche da una tela della fine del ‘700 raffigurante San Lorenzo.


Mappatura litotipi

0

10

20

50

100 cm


Altare di Santissimo Sacramento

L’altare si trova nella terza cappella della navata di sinistra, rispetto all’ingresso principale, collocato sulla parete di fondo del vano, dalla forma rettangolare, e rialzato dalla quota del pavimento da uno scalino. É molto simile a quello dedicato a San Lorenzo, situato nella cappella di fronte, e differisce da questo solo per alcuni dettagli. É possibile ipotizzare quindi che entrambi siano stati realizzati dalle medesime maestranze e nello stesso periodo. Come quello di San Lorenzo inoltre questo altare fu realizzato per un edificio differente e solo successivamente, dopo la realizzazione delle cappelle nella chiesa nei primi anni del secolo XVIII, fu sistemato nella posizione in cui noi oggi lo vediamo. L’edificio dal quale provenivano era la vicina chiesa di San Domenico, oppure il monastero di Santa Caterina. Anche in questo caso l’opera è inserita all’interno di una composizione architettonica complessa, dalle forme barocche, con colonne tortili su piedistallo, trabeazione e ricche decorazioni a stucco, identica a quella dell’altare precedente, che inquadra un Crocifisso del secolo XVII. L’altare come già detto è identico nelle forme a quello precedentemente decritto. Ha quindi paliotto rettangolare, volute ai lati, tre gradini e tabernacolo centrale. In questo caso però il paliotto è ornato da rilievi in marmo bianco ad inquadrare le lastre in marmi policromi e la tarsia centrale, simbolo della Crocifissione. Possiede inoltre due elementi sporgenti, collocati ai bordi del primo gradino sopra la mensa.


Mappatura litotipi

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Altare della Sacra Famiglia

L’altare è posizionato sulla parete di fondo della prima cappella lungo la parete di sinistra, rispetto all’ingresso principale del tempio. Ha dimensioni modeste ed è sopraelevato dalla quota del pavimento da un gradino marmoreo. Non abbiamo notizie storiche precise su questo altare per cui non ne conosciamo nè la datazione nè le maestranze che lo eseguirono. É differente nelle forme dagli altari presenti sempre nella chiesa di San Lorenzo, e precedentemente descritti. Sembra essere più antico rispetto a questi ultimi e databile al secolo XVII, ed anche il suo stato di conservazione risulta peggiore, a causa della mancanza o sconnessione di alcuni degli elementi marmorei, e dell’umidità che interessa il vano. É costituito da una mensa con paliotto rettangolare riccamente intarsiato. Nel marmo bianco sono infatti ricavate a rilievo figure di tipo floreale e naturalistico e volute, che inquadrano le tarsie marmoree, realizzate con pietre ornamentali colorate. Al centro troviamo un medaglione, con sopra la corona imperiale, al cui interno è scolpita una croce. Il paliotto era inquadrato da due paraste marmoree, oggi non più in situ, con ai lati delle volute conclusive, leggermente arretrate rispetto alla mensa. Nella parte superiore si trovano due gradini porta candele decorati da tarsie in marmi policromi dal motivo geometrico. Precedentemente doveva esistere anche un tabernacolo marmoreo, dal momento che in un angolo della cappella stessa sono conservati vari frammenti marmorei di piccole paraste e trabeazione. Sopra l’altare è custodito il Fercolo di San Lorenzo risalente al ‘600.


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Chiesa di Sant’ Anna

Fig. 1 Prospetto Principale

UBICAZIONE

: Si affaccia sul piano omonimo nella periferia del paese, accanto al convento dei Padri Riformati di cui oggi rimangono alcuni resti

DATAZIONE

: Seconda metà del XVI secolo

COMMITTENZA: Ignota

AUTORE

: Ignoto

BIBLIOGRAFIA : Mazzola G., 1913, pp. 40-41 Nicotra F., p. 166 Giuliana G., 1967, p. 158-159


Breve cenno storico: Le notizie sulla Chiesa di Sant’Anna sono scarse, frammentarie e difficilmente verificabili. Quello che però appare certo è che anche nel caso di questo edificio ci si trova di fronte ad una struttura molto antica e che nel corso dei secoli è stata più volte rimaneggiata e destinata ad usi differenti. Prima che sorgesse l’edificio cristiano che noi oggi ammiriamo infatti nello stesso luogo si trovava una moschea, retaggio della dominazione araba, di cui ancora rimangono alcuni frammenti murari. Questa moschea sorgeva nei pressi di un fortilizio arabo (fortilizio del Casinello) ma, una volta scacciati questi ad opera dei Normanni del Conte Ruggero, venne abbandonata e riutilizzata alcuni secoli dopo come tempio cristiano al quale venne anche annesso un monastero occupato dai Padri Riformati. Il convento di Santa Maria di Gesù degli Osservanti di San Francesco D’Assisi fu fondato nel 1623 ed era convinzione diffusa che la chiesa contigua fosse sorta contemporaneamente a questo. Da una data incisa attorno ad una nicchia a sinistra dell’entrata si desume invece che la chiesa sia preesistente al convento e sia stata costruita forse nel 1530. Nel 1640 il convento passò ai Padri Riformati di Palermo che dedicarono la chiesa a Santa Rosalia. Solo successivamente il Tempio riprese la denominazione di Sant’Anna.


Descrizione edificio: La chiesa si presenta semplice e disadorna con forme architettoniche lineari che denunciano chiaramente lo spirito “francescano” che animò l’artista. Il prospetto esterno infatti risulta caratterizzato da pochi e semplici elementi architettonici in pietra squadrata inseriti entro una struttura muraria in conci irregolari: il portale, posto al termine di una ripida scalinata, la finestra rettangolare, collocata in asse con il portale, ed il cantonale, che chiude da un lato la facciata. La copertura a due spioventi poi costituisce il coronamento triangolare della facciata nella parte alta. Contigui alla facciata sono inoltre i resti del convento dei Padri Riformati di cui ormai non rimane che un lato del chiostro (quello adiacente alla chiesa) con arcate di mattoni in cotto e colonne doriche in Fig. 2 Vista dell’interno pietra arenaria. L’interno è a navata unica, con una cornice continua che definisce l’imposta della copertura e delle paraste a sottolineare la zona del presbiterio. Spiccano all’interno di questa semplice conformazione architettonica le opere d’arte che la chiesa possiede. In particolare i due altari marmorei caratterizzati da una complessa struttura architettonica con colonne corinzie su piedistallo e timpano spezzato ed ornati anche da intarsi in marmo bianco su fondo in pietra nera. Sull’altare maggiore inoltre è collocato un Crocifisso ligneo di rara bellezza, realismo e suggestione, realizzato nel 1600 da Frate Umile Pintorno da Petralia. Degni di menzione sono anche i dipinti raffiguranti uno Maria Assunta in Cielo e l’altro Sant’Anna che porge della frutta al Bambino Gesù in braccio alla Madonna, e Fig. 3 Crocifisso ligneo opera di Fra’ Umile da Petralia l’armadio seicentesco a palchetti in legno intarsiato conservato nella sacrestia.


Altare Maggiore

L’altare è oggi collocato al centro del presbiterio e funge da mensa durante le celebrazioni eucaristiche. Non si tratta di una intera struttura in marmo, ma di un paliotto rettangolare, che con molta probabilità faceva in origine parte di un altare. È solo da poco tempo che occupa questa posizione, essendovi stato sistemato recentemente, nel corso di una risistemazione dell’area presbiteriale. Prima si trovava lungo la navata laterale, fissato con dei supporti ad una delle pareti. Non si hanno notizie precise relativamente all’epoca di realizzazione dell’opera ed alle maestranze che la eseguirono. Non si conoscono nemmeno le vicende che hanno interessato l’altare ed il motivo per cui ne sia rimasto solo un frammento, se pur consistente. Il paliotto rettangolare è inserito oggi entro una semplice cornice lignea, di recente realizzazione, che funge da supporto per la lastra marmorea. Questa è realizzata in marmo bianco arricchito da intarsi in marmi policromi e sculture a rilievo dalle forme movimentate ed ispirate a motivi naturalistici, quali foglie e volute. Al centro della composizione troviamo l’artistico medaglione scolpito dalle forme rotondeggianti, con al centro in rilievo una particolare raffigurazione della croce. Fa da sfondo alla mensa una struttura architettonica, con eleganti colonne su piedistallo a sostegno del timpano curvo e spezzato, che contiene entro una nicchia rettangolare il bellissimo crocifisso ligneo, opera di Fra’ Umile da Petralia. La particolarità di questa struttura risiede soprattutto nei ricchi intarsi, a motivo floreale, realizzati in marmo bianco su di uno sfondo in pietra nera.


Mappatura litotipi

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Altare di MariaAssunta in Cielo

L’altare è il secondo della navata di sinistra, rispetto all’ingresso principale. Si tratta in realtà di una serie di frammenti marmorei, originariamente assemblati insieme a costituire una vera e proprio altare (forse l’altare maggiore della chiesa), oggi collocati con dei supporti metallici alla parete, nel tentativo di ricomporre in qualche modo quello che doveva essere inizialmente l’aspetto dell’opera. È stato così posizionato al centro il paliotto della mensa, riccamente ornato da sculture, quali figure di putti, volute e medaglione allungato contenente il simbolo della croce. Ai lati sono stati posti i frammenti di due paraste, di forma rettangolare, decorate da eleganti rilievi scultorei e dagli intarsi in marmo Rosso di Francia. Nella parte superiore invece troviamo il bel tabernacolo, a forma di tempietto, con paraste e volute a sostegno della trabeazione rettilinea, affiancato da un gradino porta candele, intarsiato con motivi di tipo floreale e naturalistico. Anche nel caso di questa opera non si conoscono l’epoca di realizzazione e le maestranze che la hanno eseguita. Probabilmente si tratta di un altare del secolo XVII, la cui originaria conformazione e collocazione però rimangono ignote. L’altare è inserito all’interno di una nicchia ed è sormontato da un dipinto di buona fattura raffigurante la Madonna, collocato entro una ricca cornice lignea. In un angolo della chiesa sono conservati anche altri frammenti marmorei che originariamente facevano parte di altari.


Mappatura litotipi

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BARRAFRANCA

Chiese con altari in marmi policromi 1. Chiesa di San Francesco


Chiesa di San Francesco

Fig. 1 Prospetto Principale

UBICAZIONE

: La chiesa prospetta sulla Piazza Regina Margherita, accanto al palazzo del Comune (ex convento francescano cui la chiesa era annessa)

DATAZIONE

: 1 settembre 1694 (fondazione)

COMMITTENZA: Carlo Maria Carafa, Marchese di Barrafranca e Principe di Butera AUTORE

: Michelangelo da Caltagirone, architetto

BIBLIOGRAFIA : Giunta L., 1928, pp. 131-135 Vicari G., 1984, pp. 41-50 Orofino C.- Licata S., 1984, pp. 30-31 Orofino C.- Licata S., 1990, p. 129


Breve cenno storico: Nel 1923, mentre venivano eseguiti alcuni lavori di restauro dell’edificio, casualmente fu rinvenuta una pietra recante incisa una iscrizione. Tale ritrovamento risulta molto importante per la conoscenza della storia della chiesa dal momento che si tratta della pietra di fondazione del tempio e che l’iscrizione fornisce notizie riguardo la data di fondazione, la committenza, l’autore del progetto e le personalità presenti al momento dell’atto di fondazione ufficiale. Così sappiamo con certezza che la posa della prima pietra avvenne il giorno 1 settembre dell’anno 1694, durante il marchesato di Carlo Maria Carafa, Principe di Butera oltre che Marchese di Barrafranca, e che l’architetto che curò il progetto e la realizzazione dell’opera fu un certo Michelangelo da Caltagirone. Tra i nomi delle personalità presenti alla cerimonia incisi sulla pietra troviamo, subito dopo quello dell’architetto di Caltagirone, anche quello di “Michael a Ferula” che potrebbe corrispondere a Michele La Ferla, frate dei Minori Osservanti ed “esimio architetto e maestro”, che in quel periodo era impegnato nella esecuzione del progetto dello stesso Principe Carafa per la città di Occhiolà, distrutta dal terremoto del 1693 e ricostruita in un differente sito con il nome di Grammichele. Se tale ipotesi è vera si potrebbe anche pensare ad una partecipazione attiva di questo architetto alla definizione del progetto per la chiesa di San Francesco di Barrafranca. Accanto alla chiesa i Frati Minori Francescani realizzarono nel periodo che va dal 1694 al 1697 il loro nuovo convento avendo deciso di abbandonare quello vecchio perchè situato in un’area malsana (il vecchio convento era stato fondato da Matteo III Barresi nel 1530 in contrada Musciolino su un preesistente chiostro del 1524). Nel 1866 parte del convento è stata acquistata dall’Amministrazione comunale che lo ha adibito a sede Municipale e successivamente, abbandonato il convento dai frati, altri locali sono stati ceduti. Si ha notizia inoltre di ripetuti restauri eseguiti sull’edificio ed in particolare ricordiamo quello del 1923, quando fu rinvenuta la famosa pietra, precedentemente menzionata, e fu realizzata la facciata attuale, e quelli eseguiti dal 1946 al 1950, quando fu sopraelevato il soffitto, riparata la volta, rifatti alcuni altari e rinnovato il pavimento. Completati questi lavori la chiesa fu riconsacrata solennemente dal Vescovo di PiazzaArmerina Monsignor Catarella. Oggi la chiesa è chiusa al culto, perchè in non perfetto stato di conservazione, e necessita di urgenti lavori di restauro delle strutture e degli apparati decorativi che, qualora perdurasse tale stato di abbandono, potrebbero andare irrimediabilmente perduti.


Descrizione edificio: La chiesa di San Francesco è l’unica tra quelle di Barrafranca a godere di una posizione invidiabile dal momento che si affaccia su una ampia piazza e che è ben visibile dalla strada che le si apre di fronte. La facciata presenta nella parte centrale un portale in pietra, con paraste laterali che sostengono la trabeazione, posto al termine di una ripida scalinata e sormontato da una finestra rettangolare con stipiti ed architrave, sempre in pietra squadrata. Il portale fu realizzato nel 1713 dallo scalpellino Filippo la Pergola e verosimilmente ha ispirato l’artista Santo Scarpulla che nel 1923 ha realizzato il progetto per il prospetto attuale, mantenendo il portale settecentesco, con paraste angolari su di un alto piedistallo a fungere da cantonale e a sostenere la Fig. 2 Vista dell’interno trabeazione, che a sua volta sostiene il campanile terminale, caratterizzato da una bifora affiancata da delle volute, tipiche dei prospetti delle chiese di questo periodo. La chiesa è ad una sola navata con le pareti e la volta interamente decorate da stucchi ed affreschi dai motivi architettonici e floreali, realizzati in un arco di tempo molto lungo e più volte rinnovati e restaurati. Tra gli affreschi spicca quello posto al centro della volta raffigurante San Francesco che riceve le stigmate, restaurato negli anni ‘50 da un artista locale. Le pareti della navata sono inoltre ornate da quattro altari, due per lato, contenenti marmi, tele e statue di pregevole fattura, come quella lignea dell’Immacolata oppure del Crocifisso posta su di uno sfondo in cartapesta e stucco. Tra le tante opere d’arte contenute nella chiesa abbiamo inoltre l’altare Maggiore, in legno scolpito ed in parte intarsiato e dalla architettura complessa, di cui si sconosce l’autore, ed una Via Crucis dipinta da Francesco e Giuseppe Vaccaro, artisti originari di Caltagirone, nel secolo XIX. Merita una menzione particolare quello che viene considerato il quadro più famoso di Barrafranca e che è custodito presso il Convento di San Francesco ovvero la tela di “Santa Maria degli Angeli”, che la tradizione vorrebbe fare risalire al 1244 e che raffigura la Madonna circondata da angeli e da frati, tra i quali spicca la figura di San Francesco. In realtà i dubbi su questa opera sono parecchi e, dal momento che si tratta di un dipinto ad olio, è impossibile che sia tanto antica. Più probabile è l’ipotesi per cui questo quadro sarebbe una copia settecentesca, realizzata ad olio, di un dipinto su tavola ben più antico, prima di proprietà del convento di Barrafranca e poi pervenuto in seguito a varie vicissitudini presso il Collegio di Maria di Caltanissetta.


Altare del Crocifisso

L’altare si trova entro una nicchia ad arco, lungo la parete di sinistra della navata, rispetto all’ingresso principale. É il secondo altare, dopo quello di Sant’Antonio. La parte superiore della composizione è costituita da uno sfondo, con il grande Crocifisso, in cartapesta e stucco. Ai piedi della croce si trovano poi due statue in gesso, raffiguranti la Madonna e San Giovanni, donate al convento nel 1952. L’altare marmoreo vero e proprio si trova nella parte bassa della parete. Non se ne conosce la data di realizzazione nè l’autore, tuttavia è probabile che si tratti di un’opera del tardo XVIII secolo, modificata però nelcorso del tempo con aggiunte, quali il tabernacolo in marmo bianco a forma di tempio con paraste e timpano triangolare, palesemente più recenti. Ha forme semplici e che si richiamano a modelli presenti in area palermitana, per cui potrebbe essere stato realizzato da maestranze provenienti da questa località. La mensa ha forma rettangolare, con paraste ai lati e piccoli corpi rettangolari in pietra gialla brecciata ai fianchi. Al centro troviamo il paliotto, ornato da lastre di marmi policromi, con medaglione ovale e riquadri, definiti dal marmo giallo. Sopra la mensa sono poi due gradini porta candele, con piccole volute conclusive ai lati e decorati da intarsi realizzati secondo la tecnica a marmi mischi. Sul supporto di marmo bianco, che costituisce l’intero altare, sono ricavati infatti gli incavi che contengono le piccole lastre di pietra colorata e gli stucchi attraverso i quali sono stati creati motivi di ispirazione geometrica e naturalistica.


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ENNA

Chiese con altari in marmi policromi 1. Chiesa di Maria SS. Della Visitazione 2. Chiesa Santuario di San Giuseppe 3. Chiesa di San Marco le Vergini


Chiesa di Santa Maria della Visitazione (Chiesa Madre)

Fig. 1 Prospetto Principale

UBICAZIONE

: L’ingresso principale prospetta su di una piazzetta aperta da un lato sulla Via Roma, l’antica strada maggiore

DATAZIONE

: Inizio del secolo XIV (fondazione primo edificio) Secolo XVI (ricostruzione)

COMMITTENZA: Regina Eleonora D’Aragona, moglie di Federico II D’Aragona AUTORE

: Jacopino Salemi, capo mastro di Messina (sistemazione cinquecentesca)

BIBLIOGRAFIA : Sinicropi E., 1963, pp. 115-128 Giuliana G., 1967, pp. 88-94 Rosso Di Cerami M., 1945 Ragona A., 1976 Ragona A., 1988 Guarneri B., 1999, pp. 64-70 Candura G., pp. 175-187


Breve cenno storico: Il Duomo di Enna fu fondato nel 1307 per volontà della Regina Eleonora, moglie di Federico II D’Aragona. Sorse molto probabilmente sul luogo di una precedente chiesetta a sua volta, come racconta la tradizione, elevata sui resti dell’antico tempio pagano dedicato a Proserpina. L’edificio romanico nel 1446 fu quasi interamente distrutto da un terribile incendio che risparmiò solamente la zona del presbiterio; così da quel momento cominciò un lungo periodo di ricostruzione, abbellimento ed aggiornamento del tempio che di fatto si è concluso solo nel XVIII secolo e che ha lentamente portato la chiesa al suo aspetto attuale. In un primo tempo si erano sottovalutate le conseguenze dell’incendio sulla struttura per cui si era provveduto ad accomodare le parti danneggiate senza prendere però provvedimenti radicali. A distanza di alcuni decenni invece gli effetti del fuoco soprattutto sui pilastri della navata si resero evidenti dal momento che si verificò il crollo nel 1549 di uno dei pilieri, immediatamente ricostruito dal maestro scalpellino fiorentino Raffaele Rosso e completato nel 1551. Dopo il primo allarme di crollo canonici e procuratori si interessarono alacremente per il rinnovo di tutti i pilieri che davano segni di scarsa stabilità e deterioramento. Furono così rifatti anche nel 1559 il quinto piliere, dall’intagliatore e scalpellino Antonino Catrini da Ficarra, e nel 1560 i due secondi pilieri, da Giandomenico Gagini, figlio diAntonello, che li ultimò nel 1562. Ormai però si richiedeva il rinnovo completo di tutti i pilieri, compresi i due grossi pilastri dell’arcata maggiore. Per tali lavori era necessario interpellare un architetto e quindi ci si rivolse a Jacopino Salemi, capo mastro della città di Messina, il quale provvide a montare tutti i nuovi pilastri. A lui si deve la sistemazione cinquecentesca dell’edificio. Rifatti i pilieri si pensò a realizzare un elegante portale sul fianco meridionale del tempio ed a realizzare un tetto ligneo nella navata principale. Del primo lavoro fu incaricato lo stesso Salemi che disegnò e scolpì il portale ultimandolo nel 1574. Il tetto ligneo fu invece realizzato dal “magister lignaius” Andrea Russo da Collesano che lo ultimò intorno al 1586.. Questi diresse anche tutti i lavori murari ancora occorrenti nella chiesa, fornendo disegni ai maestri stuccatori e scalpellini per la realizzazione di cornici ed elementi decorativi nell’abside e nella porta di tramontana. Altri lavori negli anni successivi interessarono l’abside dell’edificio che fu decorato con stucchi, eseguiti dallo stuccatore e scultore Cesare Puzzo, sotto la guida del capo mastro Andrea Russo, e con un coro ligneo riccamente intagliato opera dello scultore napoletano Scipione di Guido. Completati i lavori dell’abside si passò a decorare con stucchi la cappella della Madonna, affidando l’incarico nel 1595 allo stuccatore Paolo Pellegrino da Chiusa, autore anche degli stucchi dei pilastri del coro e della cappella del battistero. Contemporaneamente al Pellegrino operò nel Duomo il lo stuccatore bolognese Pietro Rosso, attivo a Palermo. Gli stucchi del Pellegrino e del Rosso furono decorati dai pittori Agostino di Cara e Damiano Basile e dall’indoratore Leonardo Lupo.


Frattanto la chiesa continuava ad arricchirsi di opere d’arte quali il pulpito marmoreo, il palco dei cantori in legno, ma soprattutto i cinque dipinti del pittore fiorentino Filippo Paladini, eseguiti fra il 1612 ed il 1613. Oltre ai continui restauri eseguiti nella chiesa nel corso del XVI secolo menzionati nei documenti dell’archivio del Duomo, e di cui abbiamo fino ad ora parlato, ulteriori lavori furono eseguiti sulla torre campanaria, danneggiata anch’essa dall’incendio del 1446. Per circa due secoli il campanile fu oggetto di lavori di accomodamento di piccola entità fino a quando nel 1619 improvvisamente crollò. La ricostruzione ebbe inizio nel 1625 sotto la guida del maestro Oriano Calì e fu completata nel 1633. Tuttavia nel 1676 il campanile, Fig. 2 Vista di una delle colonne della navata ricostruito appena quarant’anni prima, crollava nuovamente, probabilmente a causa dell’enorme peso della guglia. I lavori per la seconda ricostruzione ebbero inizio solo nel 1681, dopo che furono approntati i disegni della ricostruito nuova costruzione dall’artista locale Clemente Bruno. Nel 1659 fu realizzato da maestranze catanesi, sotto la guida del capo mastro Giovan Battista Caruso, il tetto ligneo del transetto, che quindi è posteriore di circa un secolo rispetto a quello della navata. Sono successivi al predetto soffitto gli stucchi del transetto ed i dipinti dei tabelloni. La decorazione in stucco fu ideata nel 1660 dal maestro Francesco Puzzo da Catania ed eseguita nel giro di quattro anni dal maestro Giovan Calogero Calamaro da Nicosia su disegni del pittore e doratore ennese Vincenzo Trimoglie. Nei quattro tabelloni in stucco del transetto furono collocati quattro dipinti del pittore napoletano Giovanni Piccinelli, eseguiti nel 1663. Nei dodici tabelloni della navata furono poste altrettante tele del pittore Vincenzo Ruggeri da Caltanissetta. Con il nuovo secolo altre opere arricchirono la chiesa. Tra queste ricordiamo le cinque tele realizzate dal pittore fiammingo Guglielmo Borremans. L’ultima imponente opera in ordine di tempo è la realizzazione della cappella marmorea della Madonna della Visitazione. L’incarico fu dato all’architetto e scultore catanese Andrea Amato che la iniziò nel 1737 ma che non riuscì a vederla ultimata dal momento che morì ad Enna nel 1742. I lavori proseguirono sotto la supervisione del maestro catanese Domenico Bevilacqua, allievo e nipote dell’Amato, fino alla loro ultimazione nel 1753. Contemporaneamente all’abbellimento dell’edificio inoltre si era provveduto ad arricchire il Tesoro del Tempio con oggetti di argenteria ed oreficeria di ottima fattura tra cui ostensori, calici, paliotti, ricchi paramenti e ricami, ecc.


Descrizione edificio: Come raccontato precedentemente, il Tempio di Santa Maria della Visitazione, nelle sue forme attuali, è il risultato di un lungo processo di ricostruzione e decorazione durato circa tre secoli e successivo all’incendio del 1446 che interessò gran parte dell’edificio trecentesco. Di quest’ultimo ci rimane oggi solamente l’impostazione dell’impianto, di tipo basilicale, e a tre navate, e le strutture della zona absidale, risparmiate dall’incendio. La facciata, della seconda metà del secolo XVII, ricalca lo schema delle costruzioni a torre. Una struttura a tre fornici, posta al termine di una ripida scalinata, dà accesso al Tempio e sostiene la torre campanaria, raccordata alla parte inferiore da volute. Il tutto è caratterizzato da una composizione Fig. 3 Vista dell’interno architettonica semplice e ben definita con gli ordini sovrapposti di paraste su piedistallo che si susseguono nei vari livelli. L’interno è riccamente decorato da stucchi, pregevoli dipinti e sculture. Le navate sono divise da colonne marmoree, dagli ornatissimi capitelli e con le basi decorate da putti e grifi, che sostengono delle arcate ogivali. Due di queste colonne sono opera di Giandomenico Gagini, realizzate intorno al 1560. Elegantissimo e di pregevole fattura è il soffitto ligneo a cassettoni realizzato da Andrea Russo alla fine del secolo XVI. Quello del transetto fu eseguito invece da maestranze catanesi circa un secolo dopo. La navata maggiore, il transetto e la zona dell’abside sono ricche di decorazioni a stucco eseguite a più riprese nel corso della ricostruzione dell’edificio da valenti stuccatori tra cui Cesare Puzzo, Paolo Pellegrino da Chiusa, Pietro Rosso ed infine Giovan Calogero Calamaro da Nicosia. Tra le opere pittoriche ricordiamo invece i cinque dipinti del fiorentino Paladini, realizzati nel 1612-13, tutti dedicati alla Vergine Maria e posti nell’abside maggiore. Il Nisseno Vincenzo Ruggieri è invece l’autore delle dodici pitture raffiguranti santi ennesi e monaci basiliani, collocate tra le finestre della navata centrale. Le quattro tele dei tabelloni in stucco del transetto sono opera del pittore napoletano Giovanni Piccinelli, mentre agli inizi del XVIII secolo si data la commissione al fiammingo Guglielmo Borremans di ulteriori cinque splendide tele. Degna di nota è la magnifica cappella, con decorazioni in marmi policromi, dedicata alla Madonna della Visitazione, realizzata intorno alla metà del secolo XVIII dal cataneseAndreaAmato.


Altare del SS. Sacramento

L’altare occupa la parete di fondo della cappella del SS. Sacramento, sulla destra dell’abside maggiore. La cappella, nata assieme all’originario impianto romanico della chiesa, fu nel corso dei secoli modificata, soprattutto per quel che riguarda il suo apparato decorativo. In particolare fu arricchita da stucchi, opera del maestro stuccatore Pietro Rosso, nei primi anni del secolo XVII. Nel corso di recenti lavori di restauro tuttavia si è ritenuto opportuno eliminare l’intero apparato decorativo seicentesco, riportando così il vano al suo aspetto romanico iniziale, spoglio e disadorno, scandito dalla presenza delle sole colonnine filiformi, che confluiscono in alto nei costoloni della copertura, e del ricco altare in marmi policromi. Questo fu realizzato nel secolo XVIII dalle stesse maestranze catanesi cui si deve il rivestimento marmoreo della cappella della Madonna della Visitazione, sul lato sinistro dell’abside maggiore. Più precisamente l’altare del SS. Sacramento fu eseguito dal maestro Domenico Bevilacqua e portato a termine nel 1753, contemporaneamente ai lavori della cappella della Madonna. Si tratta di un’opera complessa, riccamente decorata da intarsi in marmi policromi, caratterizzata soprattutto da una superba architettura, entro cui è collocato il tabernacolo, con colonne libere su due livelli, aggetti e volute, molto simile al prospetto di un tempio di età barocca. Alla base troviamo una mensa rettangolare, con paliotto decorato da semplici figure geometriche e da un medaglione centrale quadrilobato, ed inquadrata ai fianchi da piccoli corpi laterali leggermente arretrati.


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Cappella della Madonna della Visitazione

La cappella nasce come coronamento dell’impianto della chiesa trecentesca, assieme all’abside maggiore ed alla cappella del SS. Sacramento. Inizialmente dalle forme semplici e completamente disadorna, fu alla fine del ‘500 ricoperta da eleganti stucchi, con ricche dorature e pitture. Tuttavia ben presto le acque piovane danneggiarono queste opere, tanto che si decise di intervenire rivestendo interamente la cappella con marmi, senza porre limitazione preventiva di spesa. Dell’antica decorazione cinquecentesca in stucco è rimasta solo quella della copertura del vano. L’incarico fu dato nel 1736 al rinomato architetto e scultore catanese Andrea Amato. Questi tuttavia morì prima che i lavori fossero ultimati, così l’opera fu portata a termine dal suo allievo e nipote Domenico Bevilacqua (autore anche dell’altare del SS. Sacramento, nella medesima chiesa), il quale si avvalse della collaborazione di altri capaci marmorari catanesi, tra cui F. Battaglia, V. Bonaventura, A. Bevilacqua, F. Torrisi, P. Fichera, T. Viola, G. Anastasio. Queste stesse maestranze, ultimata la cappella, realizzeranno il pavimento marmoreo della chiesa ed altre opere marmoree presso Castrogiovanni. La cappella si caratterizza per la sfarzosità architettonica e scultorea, per l’accurata lavorazione a mischio e per la profusione di marmi di vario colore. L’altare, dalla mensa rettangolare, si compone di due possenti colonne tortili con intarsi, che sostengono la trabeazione ed il ricco coronamento. Allo stesso modo le pareti sono scandite da paraste ed arricchite da figure di putti, rilievi, cornici, cartigli e fastosi medaglioni marmorei.


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Chiesa di San Giuseppe

Fig. 1 Prospetto Principale

UBICAZIONE

: L’ingresso principale prospetta su di una piazzetta aperta da un lato sulla Via Roma, l’antica strada maggiore

DATAZIONE

: Secolo XVII (edificio attuale)

COMMITTENZA: Nicolò Colletorto AUTORE

: Ignoto

BIBLIOGRAFIA : Sinicropi E., 1963, p. 134 Giuliana G., 1967, pp. 88-94 Guarneri B., 1999, pp. 98-99


Breve cenno storico: Le notizie reperite sulla Chiesa di San Giuseppe sono pochissime e tali da non consentire una approfondita conoscenza dell’edificio relativamente alle sue vicende storiche e costruttive. La chiesa, così come oggi la vediamo, assieme all’annesso monastero, fu realizzata nel XVII secolo quando Nicolò Colletorto donava il suo palazzo ed altri suoi beni per la fondazione del complesso. Probabilmente l’edificio sorse sul luogo di una precedente chiesa, per cui piuttosto che di nuova edificazione si trattò di una riedificazione. Il Monastero era destinato ad ospitare le suore benedettine e così anche la chiesa inizialmente assunse la dedica a San Benedetto. Il Tempio cambiò il suo nome in San Giuseppe solo nel 1926 quando vi si trasferì la comunità della dirimpettaia chiesetta in origine dedicata al Santo.


Descrizione edificio: Il tempio è a navata unica coperta da una volta ribassata. L’esterno della chiesa è forse l’elemento di maggiore interesse dell’edificio grazie all’impostazione a torre della facciata, motivo presente in molte delle chiese di Enna. Il prospetto, in pietra squadrata, ha forma allungata e si compone di due strutture sovrapposte. La parte inferiore, che costituisce il prospetto vero e proprio, è caratterizzata da slanciate paraste su piedistallo che sostengono la trabeazione. Su questa imposta il campanile ornato da un ordine di lesene che inquadrano tre aperture ad arco con balaustre in pietra. Di particolare interesse è il portale in pietra, posto al termine di una ripida scalinata, costituito da colonne binate su Fig. 2 Vista dell’interno piedistallo, ornate da rilievi nella parte bassa , che sostengono una complessa trabeazione con aggetti e cornici curve. Al di sopra del portale si trova la finestra rettangolare che illumina l’interno. L’interno, rinnovato grazie ad un recente restauro, presenta superfici riccamente ornate da stucchi. La navata è ritmata da un ordine di paraste che inquadrano le arcate, entro cui sono collocati gli altari laterali, e che sostengono la trabeazione con cornicione aggettante. Al di sopra della cornice si sviluppa una sorta di attico ornato da un ulteriore ordine di paraste, che stavolta inquadrano le aperture rettangolari della navata. L’accesso al presbiterio è sottolineato da un grande arco trionfale a tutto sesto su pilastri. Attraverso questo si accede all’abside poligonale che chiude la struttura e che contiene l’altare maggiore in marmi policromi. Sopra l’altare maggiore sono collocate delle sculture raffiguranti la Sacra Famiglia, realizzate nel XVII secolo da un artista locale. Il catino absidale è caratterizzato in alto da affreschi entro cornici in stucco e nella parte bassa da medaglioni con rilievi in stucco che rappresentano figure di Santi a mezzobusto. La chiesa possiede, oltre a dei quadri di notevole interesse artistico, un pregevole e ricco paliotto d’altare in argento che risale all’origine della chiesa e che è oggi collocato in una delle nicchie ad arco della navata.


Altare della Sacra Famiglia (Altare Maggiore)

L’altare si trova al centro della zona del presbiterio, notevolmente sopraelevato rispetto alla quota del pavimento da tre scalini in marmo bianco, di recente fattura (l’intera pavimentazione della chiesa è stata rifatta molto di recente). Si tratta di una struttura in marmo bianco, decorata da tarsie in pietre ornamentali colorate, di cui non si hanno precise notizie storiche, relative soprattutto alla sua datazione ed alle maestranze che la hanno realizzata. Ha forme lineari e si presenta costituita da una mensa rettangolare, chiusa ai bordi da paraste con mensole, al centro della quale si trova una sorta di urna aggettante, con volute, che contiene all’interno un medaglione, ornato da volute e caratterizzato dal simbolo delle croce, a rilievo. Ai fianchi della mensa si trovano dei corpi laterali, leggermente arretrati, decorati da paraste con tarsie in marmi policromi, dalle semplici forme geometriche. Nella parte superiore l’altare ha tre gradini porta candele, digradanti, arricchiti da tarsie a motivo geometrico realizzate in marmi policromi. Al centro c’è il ricco tabernacolo a forma di tempietto, con quattro colonne libere corinzie che sostengono la trabeazione aggettante, ed inquadrano lo sportellino dorato. Ai lati il tabernacolo è chiuso da volute, mentre in alto il coronamento è costituito da teste di angeli. Al di sopra dell’ultimo gradino è stato posizionato un ulteriore ed alto gradino in finto marmo, che riprende il motivo ornamentale della tarsia dell’altare stesso. Questo fa da base alle statue del secolo XVII raffiguranti la Sacra Famiglia.


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Chiesa di San Marco Le Vergini

Fig. 1 Prospetto Principale

UBICAZIONE

: Il fianco della chiesa si affaccia sulla Piazza 6 Dicembre, mentre la facciata prospetta sul corso principale (Via Roma)

DATAZIONE

: Secolo XVI (edificio originario) 1643 (riedificazione nelle forme attuali)

COMMITTENZA: Suor Angelica Petroso (riedificazione) AUTORE

: Giovan Battista Vitale, mastro lapicida (riedificazione)

BIBLIOGRAFIA : Lombardo R., 1999 Candura G., pp. 138-139 Giuliana G., 1967, pp. 88-94 Guarneri B., 1999, pp. 98-99


Breve cenno storico: La tradizione vuole che la Chiesa di San Marco sia stata edificata sul luogo in cui precedentemente sorgeva la sinagoga, luogo di culto della folta comunità ebraica che risiedeva presso Castrogiovanni. L’edificazione del nuovo edificio religioso sarebbe avvenuta, contemporaneamente al monastero, subito dopo l’espulsione dalla città degli ebrei, in seguito all’editto emanato dal Re Ferdinando nel 1492. La chiesa ed il monastero ospitano una comunità di suore appartenenti all’ordine delle Carmelitane che in questo luogo da secoli conduce la propria vita claustrale, fatta eccezione per il periodo successivo al 1871 quando, in esecuzione delle leggi eversive, anche ad Enna i monasteri furono soppressi ed i loro beni confiscati. Solo alcuni anni dopo, nel 1931, il monastero fu riaperto ed ancora oggi accoglie la comunità di religiose. Della chiesa fondata agli inizi del secolo XVI non sappiamo quasi nulla, mentre sappiamo che l’edificio assunse l’apetto attuale nel 1643, in seguito all’opera di rinnovamento ed aggiornamento delle strutture promossa dall’abbadessa suor Angelica Petroso. Questa commissionò tutte le opere murarie al “mastro lapicida” Giovan Battista Vitale, il quale si avvalse anche della collaborazione del figlio e di Mariano Mancuso. Da questo momento in poi le abbadesse che si avvicenderanno alla guida del monastero, favorite dalla cospicuità delle rendite, degli introiti del monastero e dalla ricchezza delle doti portate dalle religiose, realizzeranno nel tempo un programma di abbellimento del tempio secondo il gusto barocco dell’epoca, caratterizzato dal fasto e dalla teatralità degli apparati decorativi. Così gli stucchi dell’interno furono commissionati nel 1705 dall’abbadessa suor Aurora Carnazza a Gabriele De Blanco, che apparteneva ad una numerosa famiglia di artisti stuccatori nativi di Licodia ed attivi nel XVIII secolo nella Val di Noto. Portata a termine la vasta opera di decorazione a stucco, nel 1708 l’abbadessa suor Caterina Maria Mazzola progetta di dotare il tempio di una custodia lignea destinata a sovrastare l’altare maggiore ed a diventare l’opera più appariscente e sontuosa di tutta la chiesa. La commissione fu affidata nello stesso anno al trapanese Antonino Rallo il quale avrebbe dovuto eseguire la custodia secondo il disegno di Agatino Daidone di Calscibetta, abile cartografo, stimato architetto ed illustre matematico, che ad Enna ebbe occasione di lavorare anche per la Chiesa Madre. Nel 1781 invece furono commissionati ai maestri catanesi Vincenzo Bonaventura e Benedetto Giuffrida, che avevano appena ultimato il pavimento marmoreo del duomo cittadino, i quattro altari marmorei della navata. La chiesa si andava inoltre arricchendo di ulteriori opere d’arte quali le tele degli altari laterali e gli affreschi delle pareti laterali, della volta e del catino dell’abside divenendo uno dei più ricchi ed ornati edifici religiosi della città di Castrogiovanni.


Descrizione edificio: La chiesa realizzata nel 1643 dal Vitale è a navata unica, sovrastata da una copertura a botte, e priva di transetto, capace di consentire ai numerosi fedeli un facile svolgimento delle preghiere comunitarie, ma pure idonea a permettere alle suore di assistere alle funzioni da dei balconcini oppure dalla cantoria, posta sopra il vestibolo di ingresso, senza contravvenire all’obbligo della clausura. La facciata del tempio si presenta severa e lineare nelle forme, priva di vistosi elementi scultorei e caratterizzata solamente da due eleganti paraste su alti piedistalli sormontate da capitelli corinzi. Queste, fiancheggiate da due semplici volute, sostengono la trabeazione ed il cornicione che concludono la composizione ed inquadrano il portale e la Fig. 2 Vista dell’interno soprastante finestra di forma rettangolare. L’interno, così ricco di stucchi, rivestimenti marmorei, dipinti ed affreschi, contrasta invece con l’elegante semplicità del prospetto appena descritto. Superato il vestibolo infatti la navata si presenta scandita da paraste appena aggettanti, che fiancheggiano le nicchie ad arco contenenti gli altari laterali e l’ingresso laterale. Il presbiterio è delimitato da un arco sostenuto da pilastri e si conclude con’ un abside poligonale. Tutto lo spazio interno è riccamente decorato da stucchi realizzati nel secolo XVIII da Gabriele de Blanco il quale, senza eccedere nello sfarzo, distribuisce con parsimonia leggiadre ghirlande, conchiglie, putti, festoni, foglie carnose e fiori, modellandoli con fantasia ma anche con realismo. Gli affreschi, realizzati sulle pareti laterali, sulla volta che copre la navata e nel catino absidale, si distinguono per la vivacità dei colori e sono stati da alcuni attribuiti alla scuola del pittore fiammingo Borremans e più precisamente al figlio Luigi, autore degli affreschi della chiesa delleAnime Sante ad Enna. Tra le opere custodite nella chiesa ricordiamo le quattro tele collocate sugli altari laterali e raffiguranti la Crocifissione, la Madonna del Carmelo, l’Immacolata e San Marco, e la splendida custodia in legno dorato che sovrasta l’altare maggiore e che costituisce l’elemento di maggiore interesse della chiesa. Questa fu eseguita dal trapanese Antonino Rallo su disegno dell’artista Agatino Daidone nel 1708. Nelle sue forme richiama il prospetto di un edificio sacro di età barocca con paraste nella parte inferiore che sostengono un timpano triangolare. Nelle nicchie sono contenute delle statue e tra queste, nella nicchia centrale più avanzata, si trova la statua lignea di San Marco seduto, con al suo fianco il leone.


Altari laterali

Si tratta dei quattro altari laterali della navata della chiesa, posizionati, due per lato, entro nicchie ad arco ornate da stucchi. Gli altari sono identici nella forma, nelle dimensioni e nel tipo di pietre ornamentali colorate utilizzate e differiscono solo per il fatto che due, quelli piÚ vicini al presbiterio, sono dotati di tabernacolo marmoreo, mentre gli altri due ne sono privi. Sono ornati da tele di buona fattura che danno il nome agli altari stessi. Partendo dal vestibolo abbiamo sulla sinistra la Crocifissione e la Madonna del Carmelo, mentre sulla destra l’Immacolata e San Marco. Dai documenti d’archivio sappiamo che gli altari furono tutti commissionati da suor Rosane Petroso ai maestri catanesi Vincenzo Bonaventura e Benedetto Giuffrida. Questi, che nel duomo cittadino avevano lavorato alla realizzazione della cappella della Madonna, sotto la guida di Andrea Amato, e vi avevano da poco ultimato il pavimento marmoreo, realizzarono i disegni e li eseguirono intorno al 1781. Ricevettero come pagamento 32 onze ciascuno, per gli altari con tabernacolo, e 30 onze per quelli privi di tabernacolo. Gli altari hanno la mensa affiancata da piccole volute e sormontata da un alto attico, con al centro il tabernacolo (anche se non sempre), ed hanno forme lineari e sobrie, caratterizzate dalle semplici figure geometriche del quadrato, del rettangolo e del cerchio. In alto troviamo collocate ai bordi dell’attico marmoreo due volute ornamentali, sempre in marmo. Oltre che dai marmi policromi sono impreziositi dalla presenza di decorazioni bronzee, raffiguranti dei festoni dal motivo floreale.


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GELA

Chiese con altari in marmi policromi 1. Chiesa di San Giuseppe (PP. Agostiniani) 2. Chiesa del SS. Salvatore e Rosario


Chiesa degli Agostiniani (Chiesa di San Giuseppe)

Fig. 1 Prospetto Principale

UBICAZIONE

: Assieme al contiguo convento dei PP. Agostiniani si affaccia sulla Piazza Salandra (fino al 1915 Piazza S.Agostino)

DATAZIONE

: Edificio originario del 1439 (datazione incerta) Facciata del 1783

COMMITTENZA: Ignota

AUTORE

: Ignoto

BIBLIOGRAFIA : Damaggio Navarra S., pp. 3-11 Mulè N., 1981, pp. 63-64; pp. 139-159 Giuliana G., 1967, p. 143


Breve cenno storico: La chiesa degli Agostiniani, intitolata anche a San Giuseppe, è un delle più antiche di Gela. Tuttavia ancora oggi si sconosce la data precisa di fondazione dell’edificio, cui è annesso anche il convento, e quelle che si avanzano sono solo ipotesi sulla sua nascita, prive però di prove certe. Tra gli studiosi è predominante la convinzione che l’edificio sia sorto nella metà del XV secolo e precisamente negli anni intorno al 1456. Esistono però prove che la comunità degli Agostiniani esistesse già precedentemente a questa data, dal momento che uno dei Padri (Padre Antonio Macali, priore) stipulava nel 1439 un atto presso uno dei notai della città. Alcuni studiosi inoltre rivendicano per la chiesa ben più remote origini, sostenendo la sua presenza al momento della fondazione della città medievale di Terranova avvenuta nel 1233 per volontà dell’Imperatore Federico II di Svevia. Tale affermazione sarebbe supportata dal fatto che la piazza su cui prospetta il Tempio esisteva già a quel tempo. Nel 1613 fu realizzata nella chiesa per volontà della famiglia Mugnos, una cappella. La famiglia deteneva il titolo di Baroni di Bulgarano e decise di intervenire nella chiesa con la creazione di questa struttura collegata alla navata attraverso un arcone monumentale in pietra bianca e decorata da uno splendido altare costituito da colonne tortili, ricca trabeazione decorata, pala d’altare ed altare in marmi colorati. Successivamente, intorno al 1656, sempre per volontà e grazie ai mezzi messi a disposizione dalla famiglia Mugnos, si iniziarono dei lavori di ristrutturazione e decorazione generale della chiesa che assunse un nuovo aspetto. Furono realizzati gli altari laterali e quello Maggiore, gli stucchi dorati e alcuni dei quadri che decorano la chiesa, recanti lo stemma della famiglia Mugnos. I lavori di ricostruzione del’esterno invece sono successivi e solo alla fine del XVIII secolo si giunse ad ultimare il campanile e la facciata, databile al 1783. Nel 1857 si ha notizia dell’esecuzione di lavori di ristrutturazione della struttura mirati a renderla più alta. Nel 1866, con la soppressione della comunità religiosa, la chiesa passò in mano al Comune, assieme al convento. Parte del convento inoltre fu sfruttata proprio in questi anni quale edificio scolastico. Nel 1913 la chiesa degli Agostiniani, completamente ristrutturata all’interno, fu riaperta al culto. In questa occasione furono restaurate le mura cadenti, fu costruito il soffitto del Sancta Sanctorum, furono eretti due nuovi altari e rifatte le decorazioni a stucco. Abbiamo notizia di ulteriori lavori di restauro riguardanti la copertura realizzati negli anni ‘50 del Novecento. In questa occasione i cassettoni del soffitto ligneo, degradati e cadenti, furono asportati e sostituiti con pannelli di gesso.


Descrizione edificio: La chiesa di S. Agostino, attigua al convento degli agostiniani, prospetta, come detto precedentemente, su una ampia piazza che fino al 1915 veniva denominata Piazza S. Agostino, mentre oggi prende il nome di Piazza Salandra. É a navata unica con cella campanaria compresa nella stessa facciata. Il prospetto attuale, terminato nel 1783, è realizzato in pietra squadrata e si presenta dal complesso disegno architettonico. Due coppie di paraste su alto piedistallo infatti inquadrano il portale e l’apertura centrali e sostengono la trabeazione sulla quale poi imposta la cella campanaria. Questa è costituita da tre aperture ad arco, contenenti le campane, inserite all’interno di un telaio architettonico con paraste, balaustre e trabeazione conclusiva, al di Fig. 2 Vista dell’interno sopra della quale si erge il frontone triangolare che chiude la struttura. Anche il portale, ad arco, è inserito all’interno di un disegno architettonico comprendente delle paraste su piedistallo e la trabeazione. Sopra il portale vi è una nicchia a fondo semicircolare contenente una statua di San Giuseppe, opera dell’artista locale Matteo Peritore. L’interno è ben illuminato grazie alla presenza di sei finestre sui suoi lati. La navata è ritmata dalla presenza di nicchie ad arco, contenenti gli altari laterali (costituiti ormai dai soli dipinti). Le arcate poggiano su delle paraste e sono sormontate da un cornicione aggettante che marca orizzontalmente l’intero perimetro della chiesa, tranne che sul lato del presbiterio. Qui sorge infatti il grande arcone trionfale sostenuto da pilastri corinzi che dà accesso all’altare Maggiore. Il ritmo delle nicchie delle pareti laterali è interrotto dalla presenza dell’arco di ingresso alla Cappella Mugnos, sul lato sinistro della navata. Questa cappella costituisce l’elemento di maggiore interesse dal punto di vista artistico grazie alle decorazioni a rilievo delle paraste che ne sottolineano l’ingresso, alla struttura dell’altare, costituita da colonne tortili ornate da rilievi e sormontate da una trabeazione con timpano spezzato, e all’altare in marmi policromi al di sopra del quale è collocato un bellissimo Crocifisso ligneo. La Chiesa possiede inoltre una acquasantiera in marmo finemente lavorato e numerosi dipinti, collocati nelle nicchie della navata. L’altare Maggiore è invece piuttosto recente, opera di un marmista di Canicattì realizzata nel 1967. Il convento contiguo, recentemente ristrutturato, conserva diversi dipinti e possiede una ricca biblioteca i cui libri risalgono in buona parte al 1700.


Altare del Crocifisso (Cappella Mugnos)

L’altare si trova sulla parete di fondo della Cappella Mugnos, situata nei pressi del presbiterio, lungo la navata di sinistra (rispetto all’ingresso principale), alla quale si accede attraverso un arcone trionfale in marmo bianco, riccamente decorato da rilievi. La cappella fu realizzata per volontà della nobile ed antica famiglia terranovese dei Mugnos, Baroni di Bulgarano, nel 1613. L’altare è probabilmente un’opera del secolo XVII, realizzata nell’ambito del fastoso programma di abbellimento della cappella stessa, promosso dalla famiglia che la aveva commissionata. Tuttavia è evidente come nel corso degli anni abbia subito modifiche e risistemazioni cui si deve l’aspetto attuale. É inserito all’interno di una elegante struttura architettonica in marmo cristallino bianco, caratterizzata da due colonne tortili su piedistallo che sostengono la trabeazione ed il timpano spezzato, e ornata da sculture e rilievi dal motivo di ispirazione naturalistica. Nella parte alta, al centro della composizione e nel luogo in cui precedentemente era collocata la pala d’altare, troviamo un drammatico Crocifisso ligneo. L’altare ha forme semplici ed è costituito da una struttura in marmo bianco entro cui sono inserite le tarsie in marmi policromi che lo decorano. Il paliotto, con medaglione al centro, è inquadrato ai fianchi da volute. La parte superiore invece prevede due gradini marmorei, di cui il secondo più alto del primo, con al centro il tabernacolo a forma di tempietto. É chiaramente visibile come molti degli elementi marmorei dell’altare siano stati recentemente sostituiti e rinnovati.


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Chiesa del SS. Salvatore e Rosario

Fig. 1 Prospetto Principale

UBICAZIONE

: Sorge lungo il Corso Vittorio Emanuele (corso principale), nei pressi della Chiesa Madre

DATAZIONE

: Fine del XVI secolo (edificio originario) Fine del XVIII secolo (edificio attuale)

COMMITTENZA: Ignota

AUTORE

: Ignoto

BIBLIOGRAFIA : Damaggio Navarra S., pp. 10-11 Mulè N., 1981, pp. 85-86; pp. 103-109 Giuliana G., 1967, p. 144


Breve cenno storico: Sulla Chiesa del SS. Salvatore e Rosario esistono poche e frammentarie notizie. Sappiamo che il Tempio esisteva, con la sola dedica al SS. Salvatore, in un sito differente da quello attuale, al di fuori delle mura di cinta della città. Solo alla fine del XVI secolo fu abbandonata la chiesa originaria, utilizzata da questo momento in poi come cava per le riparazioni delle brecce delle mura, e si decise di realizzare una nuova struttura nei pressi della Chiesa Madre. Alcuni secoli dopo nello stesso sito della originaria chiesa del SS. Salvatore sorse un nuovo edificio religioso dedicato a S. Martino o anche a S. Maria delle Grazie. Una iscrizione all’interno della chiesa attuale ci dice che la nuova costruzione fu realizzata nel 1585. La chiesa ricevette poi il privilegio del Rosario il 9 giugno del 1600 e da quella data vi ha sede la Confraternita del Santo Rosario. L’edificio così come oggi noi lo vediamo risale invece alla fine del XVIII secolo. Fu in questo periodo infatti che il Tempio fu completamente rinnovato, all’interno ed all’estreno, ed assunse la conformazione attuale. I lavori ebbero inizio nel 1796 e terminarono nel 1838. Non si conosce il nome dell’artefice della costruzione anche se sugli spioventi del frontone triangolare sud della sommità del campanile esiste incisa una iscrizione che riporta il nome di Antonino da Noto, architetto, quale realizzatore della struttura. Sempre l’iscrizione posta al di sopra dell’ingresso principale ci dà notizia della data di inaugurazione solenne del rinnovato edificio avvenuta nel 1842. Nel 1971 furono eseguiti dei restauri e la chiesa, che evidentemente prima di allora era inutilizzata, fu riaperta al culto. Tutto ciò fu possibile grazie alla generosità della SignoraAnna Concetta Cannizzo e all’intervento dei fedeli. Gli ultimi lavori nell’edificio sono stati realizzati nel 1987 quando è stato rifatto il pavimento. In questa occasione sono venute alla luce diverse sepolture gentilizie, ovvero dei loculi e delle cripte tra loro intercomunicanti.


Descrizione edificio: La chiesa del SS. Salvatore e Rosario, a navata unica, si affaccia sul corso principale di Gela, Corso Vittorio Emanuele, a brevissima distanza dalla Chiesa Madre. Il prospetto si presenta completamente spoglio, privo di qualsiasi elemento decorativo e costituito dalla sola muratura in conci irregolari all’interno di cui si trovano il portale di ingresso, posto al termine di una ripida scalinata a due rampe, ed una grande finestra rettangolare. L’interno invece è riccamente decorato e molto ben illuminato grazie alla presenza di ampie aperture nelle navate laterali, oltre quella del prospetto. Le pareti ed il soffitto sono ornate da stucchi dorati. Dal punto di vista Fig. 2 Vista dell’interno architettonico invece nella navata esistono ad intervalli regolari dei pilastri leggermente aggettanti con capitelli corinzi. Le paraste inquadrano delle nicchie ad arco che contengono gli altari laterali, tre per lato, e sostengono il cornicione su cui impostano gli arconi della volta, decorata da quattro affreschi dipinti nel 1841 da Filippo Casabene. Questi raffigurano scene della vita di Gesù. Un grande arcone trionfale segna il passaggio dalla navata al presbitero il cui abside presenta sei colonne, emergenti per tre quarti, con capitelli corinzi e basi a forma di plinto, che sorreggono il cornicione semicircolare su cui poggiano sei grossi vasi. Il tutto è chiuso in alto dal catino absidale a lacunari al cui centro si trova una raggera con angioletti. L’altare Maggiore, in stile Neoclassico, è realizzato in marmi colorati e dedicato alla Madonna del Rosario e contenente anche la statua della Madonna. Gli altari laterali, all’interno delle nicchie, sono costituiti invece da mense in marmi policromi di età barocca al di sopra dei quali sono poste delle tele di buona fattura o delle statue. Tra queste ricordiamo le statue di S. Eligio e di S. Vincenzo Ferreri e le pale raffiguranti la Trasfigurazione, la Madonna del Rosario e la Madonna, San Gregorio e le anime del Purgatorio. La chiesa possiede anche una acquasantiera in marmo, in prossimità della bussola di ingresso, nella parte destra, ed un pulpito ligneo intarsiato, nella parte sinistra.


Altare del Crocifisso

É il primo altare della navata di destra, rispetto all’ingresso principale, posto entro una nicchia ad arco, sostenuto da pilastri, e rialzato rispetto alla quota del pavimento da due scalini marmorei. Nella chiesa esistono cinque di questi altari, lungo la navata, identici tra loro nella forma, ma uguali a due a due per quel che riguarda la disposizione ed il tipo di marmo colorato utilizzato. L’altare in questione originariamente doveva essere interamente marmoreo, identico a quelli che si trovano nelle altre nicchie della navata, tuttavia oggi ne rimane solo l’originario paliotto rettangolare intarsiato, inserito entro una semplice cornice in legno. Attorno alla mensa troviamo poi, come negli altri altari, dei corpi laterali ed una struttura ad attico soprastante, sempre in legno. Si tratta di un’opera realizzata secondo la tecnica a marmi mischi, caratterizzata da un supporto in marmo bianco su cui sono state eseguite le ricche e movimentate decorazioni a rilievo che fanno da cornice alle lastre in marmi policromi. Al centro troviamo il medaglione dalle forme tipicamente barocche che inquadra un rilievo raffigurante un cane, incorniciato da un motivo floreale intarsiato. Proprio queste figure dentro al medaglione centrale, sempre diverse tra loro, costituiscono uno degli elementi di distinzione tra i vari altari. É l’unico tra gli altari laterali a non avere un altare gemello nella nicchia di fronte. Nella parte superiore della nicchia, al posto della pala, è collocato un Crocifisso.


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Altare della Madonna

Si tratta del secondo altare della navata di sinistra (rispetto all’ingresso principale), collocato anche questo all’interno di una nicchia ad arco e sopraelevato dalla quota del pavimento della navata da due scalini in marmo. Non abbiamo notizie sulla data di realizzazione di questo come degli altri altari, e sulle maestranze che li hanno eseguiti. Uguale nel disegno agli altri altari presenti nella navata della chiesa, si differenzia per la presenza di una pietra violacea brecciata nelle paraste che chiudono ai lati la composizione, oltre che per il simbolo raffigurato all’interno del medaglione centrale (due figure umane a mezzo busto entro una nuvola). Solo l’altare dedicato a San Vincenzo Ferreri, situato nella nicchia di fronte, è perfettamente uguale a questo. La mensa marmorea, rettangolare, ha forme semplici ma riccamente ornate. Le paraste inquadrano il paliotto decorato da rilievi scultorei di ispirazione naturalistica, con foglie e volute, entro cui sono inserite le lastre in marmi policromi, dai vivaci colori, della decorazione a mischio. Nella attuale sistemazione la mensa è stata affiancata da semplici corpi laterali in legno, e sormontata da un attico con tabernacolo centrale a forma di tempio, con paraste e timpano triangolare, sempre in legno. Nella parte alta della nicchia troviamo una pala d’altrare di buona fattura raffigurante la Madonna con San Gregorio Magno e le anime del Purgatorio.


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Altare della Trasfigurazione

L’altare è posizionato nella terza nicchia della navata di sinistra (rispetto all’ingresso principale), sopraelevato dalla quota del pavimento della navata da due scalini in marmo. La mensa è identica a quelle degli altri altari della navata per il disegno architettonico, ma si differenzia per la presenza di una delle pietre ornamentali siciliane più famosa ed utilizzata in età barocca, ovvero il Libeccio di trapani. Qui lo ritroviamo inserito nelle paraste che inquadrano il paliotto rettangolare e all’interno del medaglione ornamentale centrale. Il paliotto presenta una decorazione scultorea a rilievo identica nel disegno a quelle viste in precedenza per gli altri altari. Nel medaglione centrale è raffigurata a rilievo una Madonna con in braccio Gesù Bambino, posti al di sopra di una nuvola. La mensa è anche in questo caso circondata ai lati e nella parte superiore da una semplice struttura lignea, leggermente arretrata rispetto alla mensa stessa. In questo caso l’altare non possiede il tabernacolo ed è chiuso in alto dal solo attico ligneo, decorato in modo tale da sembrare in marmo. L’altare possiede in alto una pala raffigurante la Trasfigurazione di Cristo, di ispirazione raffaellesca. Nella nicchia di fronte si trova un altare dedicato alla Madonna del Rosario, dotato di pala d’altare di buona fattura, identico a quello appena descritto.


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MAZZARINO

Chiese con altari in marmi policromi 1. Chiesa di Maria SS. Della Neve (chiesa madre) 2. Chiesa di Maria SS. Del Carmelo (Carmine) 3. Chiesa del SS. Crocifisso dell’Olmo 4. Chiesa di San Francesco di Paola


Chiesa di Santa Maria della Neve (Chiesa Madre)

Fig. 1 Prospetto Principale

UBICAZIONE

: Prospetta sulla Piazza Monterosso, adiacente al Corso Vittorio Emanuele

DATAZIONE

: Fine del XVII secolo

COMMITTENZA: Carlo Maria Carafa, Principe di Butera e Conte di Mazzarino AUTORE

: Angelo Italia, architetto (progetto originario) Giuseppe Ferrara, architetto (nuovo impianto ed ultimazione dei lavori)

BIBLIOGRAFIA : Di Giorgio Ingala P., 1900, pp. 335-341 D’Aleo A., 1991, pp. 45-47 Giuliana G., 1967, p. 192 Di Martino P., 1982, pp. 43-44


Breve cenno storico: L’edificio odierno, dedicato a Maria SS. Della Neve, fu realizzato alla fine del XVII secolo nel luogo in cui precedentemente sorgeva una chiesetta del XV secolo di cui il nuovo tempio conserva il titolo. Fu realizzato per volontà del Principe Carlo Maria Carafa, Conte di Mazzarino e nobile tra i più potenti di Sicilia. Questi, desideroso di fornire alla città nella quale risiedeva un maestoso tempio, diede avvio ai lavori e dispose anche nel suo testamento che il suo erede fornisse i mezzi necessari per ultimare la fabbrica. L’incarico progettuale sarebbe stato affidato all’ architetto gesuita Angelo Italia, nativo di Licata, ma attivo a Palermo e nei più importanti centri della Sicilia orientale devastati dal terribile sisma del 1693. Tale ipotesi purtroppo non è suffragata da documenti che testimonino il reale coinvolgimento del famoso architetto nella realizzazione dell’opera, anche se la Fig. 2 Planimetria dell’edificio grandiosità e le forme della facciata e la sua documentata presenza in questa area in quegli anni sembrerebbero confermarla. Il progetto originario dell’Italia per la chiesa prevedeva la realizzazione di un edificio ad una sola navata coperta da una volta a botte. Tuttavia, in seguito alla morte del Principe Carafa e dello stesso architetto gesuita, i lavori, proseguiti fino ai primi decenni del 1700, furono interrotti sia per la mancanza dei fondi necessari che per l’incapacità dei costruttori nel portare avanti un progetto ambizioso dal punto di vista strutturale, essendo venuto a mancare il suo ideatore. Tale situazione di stallo durò a lungo e solo più di un secolo dopo, nei primi decenni del XIX secolo, grazie all’opera del sacerdote Andrea Bartolotta e alle offerte del popolo, la chiesa fu completata. Il progetto originario però fu fortemente modificato e ridimensionato lasciando incompleta la maestosa facciata, la cui realizzazione era arrivata fino al secondo ordine, e realizzando un impianto basilicale a tre navate, meno impegnativo dal punto di vista economico e strutturale. L’architetto che diresse questi lavori di completamento della chiesa fu Giuseppe Ferrara, mazzarinese, coadiuvato dal capo mastro Matteo Buccola, anche egli nativo di Mazzarino. Gli ultimi lavori di muratura documentati risalgono al 1844, mentre le opere di decorazione ed arredamento degli interni presero avvio negli anni immediatamente successivi e prosegiurono fino alla fine del secolo XIX.. La chiesa di Santa Maria della Neve è Parrocchia dal 1763.


Descrizione edificio: La chiesa Madre di Mazzarino sorge nel cuore del centro storico, in quello che nei progetti del Principe Carafa doveva essere il luogo di rappresentanza più importante della cittadina per la presenza, oltre che della chiesa, del palazzo dello stesso Principe e del Teatro. La facciata rimasta incompleta testimonia la magnificenza del progetto previsto dall’Italia. Questa imposta su di un alto basamento al di sopra di cui si innalza un grandioso ordine di lesene, semplici ed abbinate, con al centro delle semicolonne che affiancano il portale ad arco inquadrato da paraste e ravvivato da volute e maschere. In asse con questo troviamo una finestra rettangolare con timpano curvo. Il secondo ordine è quello rimasto incompleto ed oltre alle appena iniziate lesene doppie su piedistallo prevede al centro un ampia apertura rettangolare. Tale finestra è significativa di quella che doveva essere la reale altezza della navata nel progetto iniziale, dal momento che la copertura attuale Fig. 3 Vista dell’interno dovuta al secondo progetto è più bassa. L’interno, a croce latina, è a tre navate definite da robusti pilastri compositi collegati da arcate cui corrispondono, nello spessore dei muri perimetrali, delle cappelle absidate aperte sulle navate laterali. Anche il presbiterio e le testate del transetto terminano con delle absidi. Nell’abside maggiore è collocato un grande altare marmoreo realizzato, a spese del parroco Sac. Nazareno Faraci, dal marmista catanese Antonino Piazza nel 1881 e consacrato nel 1896 dal Vescovo di Mazzara Mons. Gaetano Quattrocchi. La navata centrale è coperta da una volta a botte decorata da stucchi ed affreschi realizzati dal pittore palermitano Tasca. Questi realizzò anche gli affreschi presenti nei transetti e le figure dei quattro Evangelisti nei pennacchi della cupola. Le navate laterali presentano invece una successione di cupolette, corrispondenti alle campate che definiscono le navate. Del 1872 è lo stallo dei canonici (coro ligneo), opera dell’artista mazzarinese Santo Luigi Rigani. Nelle 36 spalliere delle sedie canonicali sono rappresentati in bassorilievo i principali racconti del Vecchio e Nuovo Testamento. La chiesa possiede inoltre numerose tele sei-settecentesche ed ottocentesche e diverse opere di oreficeria. Tra le tele ricordiamo la pala dell’altare Maggiore raffigurante la Madonna della Neve, l’Adorazione dei Magi, la Consegna delle chiavi a San Pietro, l’Ascensione e la Natività, opere di G. Tinnirello. Tra le opere di oreficeria i busti di San Benedetto e Santa Scolastica, calici, pissidi, ostensori ed incensieri.


Altare di Sant’Antonio

Si tratta del terzo altare della navata di destra (rispetto all’ingresso), posto all’altezza della quarta campata. Originariamente era collocato nella chiesa di Sant’Antonino, dove fungeva da altare maggiore. La chiesetta, situata nei presi della chiesa Madre, dopo anni di abbandono, fu abbattuta nel primo dopoguerra e l’altare in questione smontato e ricollocato in questa posizione. Per forma, disegno architettonico e tipo di marmi utilizzati sembra databile alla fine del XVII secolo, ma di ciò non esistono conferme dirette. Simile per certi versi all’altare della chiesa del Carmine di Mazzarino, è rispetto a questo più piccolo e semplice. Tuttavia sempre rispondente al gusto barocco per il dinamismo delle forme e la decoratività. É caratterizzato da un telaio architettonico in marmo bianco di Carrara che fa da cornice alle lastre di marmi policromi dai vivaci colori. In basso ha un andamento leggermente rientrante nella parte centrale dove, in leggero aggetto, troviamo una sorta di urna dalle forme arrotondate e con stemma riccamente ornato da rilievi scultorei a motivo floreale. Il paliotto ai lati è inquadrato da mensole inclinate con volute, arricchite dalla presenza di teste di angeli, scolpite nel marmo bianco. La parte superiore è costituita da tre gradini porta candele con al centro il tabernacolo a forma di tempietto, con paraste e volute a sostegno della trabeazione e dell’elemento di coronamento della composizione in marmo giallo.


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Chiesa di S.Maria del Carmelo (Carmine)

Fig. 1 Prospetto Principale

UBICAZIONE

: Si affaccia sulla piazza Vittorio Emanuele, lungo il corso principale, affiancando l’attuale palazzo del Comune (ex convento carmelitano)

DATAZIONE

: Metà del XVII secolo

COMMITTENZA: Giuseppe Branciforti, Conte di Mazzarino e Principe di Butera AUTORE

: Ignoto

BIBLIOGRAFIA : Di Giorgio Ingala P., 1900, pp. 391-398 Russo Ferruggia S., 1857, pp. 83-90 D’Aleo A., 1991, pp. 57-58 Giuliana G., 1967, p. 198 Di Martino P., 1982, pp. 16-18 Correnti S., 1995, p. 158


Breve cenno storico: Secondo quanto riferisce l’Ingala una lapide, posta all’interno dell’edificio nel 1877 in occasione di lavori di restauro della facciata, riporta l’anno 1605 quale data dell’edificazione della chiesa ad opera del Principe Giuseppe Branciforti. Tale data probabilmente, come precisa lo stesso Ingala, è da ritenersi inesatta dal momento che il Principe nacque solamente nel 1619, per cui la data di fondazione dell’edificio va posticipata intorno alla metà del secolo. Accanto alla Chiesa, sempre per opera del Branciforti, si iniziò a costruire un monastero (oggi sede del palazzo del Comune). Tuttavia, forse per motivi politici, il Principe non potè ultimarlo e decise di venderlo al Padre Marco Ferranti, nativo di Piazza Armerina e Priore del convento dei PP. Carmelitani di Mazzarino, con l’obbligo che questi lo completasse al fine di insediarvi gli stessi PP. Carmelitani, il cui convento allora versava in pessime condizioni. Il nuovo convento fu ultimato nel 1673. Assieme al convento il Principe vendette al Ferranti anche la contigua Chiesa, che allora terminava dove ora è il primo arcone a sostegno della cupola. Le tre cappelle maggiori e la cupola infatti furono aggiunte solo successivamente, sempre per volontà del Branciforti per sciogliere il voto fatto a S. Stefano Protomartire per averlo fatto scampare alla pena di morte che gli era stata inflitta a causa della congiura, ordita dai baroni siciliani nel 1649 contro la Corona Spagnola, nella quale era rimasto coinvolto. Fece quindi riccamente decorare la tre cappelle con pregevoli affreschi, attribuiti alla scuola del Borremans, pitture, balaustre di marmo intarsiato, ed uno stupendo altare maggiore in marmi policromi, e vi fece collocare le spoglie dei suoi avi. Alla sua morte inoltre volle costituire la Cappella di S. Stefano erede universale del suo vastissimo patrimonio, come si evince dal suo testamento nel quale anche ordinava che il suo erede e successore facesse realizzare da un “valente dipintore” un quadro raffigurante S. Stefano da collocare sull’altare maggiore. Il dipinto, che raffigura il martirio del Santo, fu commissionato al pittore napoletano Mattia Preti, tra i più famosi di quel periodo e seguace del Caravaggio, e collocato come da disposizioni testamentarie nella Cappella Maggiore; tuttavia è stato trafugato da ignoti nel 1982 e non ancora recuperato. Nel 1877 la Chiesa ha subito il restauro della facciata a spese del Municipio e della Congregazione di Carità che ha sede nella Chiesa stessa e sempre nel corso della seconda metà del XIX secolo l’interno è stato arricchito da finissimi stucchi, realizzati dai fratelli Fantauzzo provenienti dalla vicina Barrafranca, da dipinti e sculture. Nel 1857 in seguito all’abbassamento del piano stradale la chiesa, fino ad allora a pian terreno, si trovò rialzata di quasi tre metri per cui fu realizzata la scalinata in pietra a due rampe. Un nuovo restauro ha interessato l’edificio nel corso degli anni ’70 del Novecento.


Descrizione edificio: La chiesa è ad unica navata, a forma di croce latina, grazie alle due cappelle laterali e all’abside. All’incrocio tra i due bracci della croce sorge la cupola, decorata al suo interno da finissimi stucchi, realizzati dai fratelli Fantauzzo nel XIX secolo, e i cui peducci sono affrescati con i quattro Profeti maggiori (Davide, Geremia, Isaia, Daniele) opera della scuola del Borremans. La cupola termina con un proporzionato lanternino sormontato da una palla di rame sulla quale si erge la bandiera sorretta dal leone, simbolo di Casa Branciforti. Il prospetto dell’edificio si presenta dalle linee semplici, con un cantonale in pietra squadrata sull’angolo destro e torre campanaria, sempre in pietra, a sinistra, contigua al convento. E’ coronato da un fregio dorico con metope e triglifi sormontato da un cornicione conclusivo. Al centro della facciata l’ingresso principale è sottolineato da due colonne in pietra i cui piedistalli sono ornati da motivi vegetali a rilievo. Il portale è Fig. 2 Vista dell’interno sormontato da una finestra ad arco. All’interno la navata, in stile barocco, è scandita da lesene, che sostengono una cornice in stucco su cui imposta la volta di copertura, ed è riccamente decorata da tele e sculture di buona fattura, stucchi e da due altari, con colonne aggettanti, su ciascuna delle pareti. La cappella sulla destra al termine della navata e dedicata alla Vergine del Carmine, oltre ad una grande tela di autore sconosciuto ed agli affreschi che ne decorano la volta, presenta al suo interno un sarcofago marmoreo contenente le spoglie del Principe Giovanni IV Branciforti. Il sarcofago, in marmo rosso di San Marco D’Alunzio, ha la forma di una grande arca sorretta alle testate da due coppie di leoni congiunti alle terga e con le code tra loro attorcigliate, simile a quelli in porfido rosso della Cattedrale di Palermo contenenti le spoglie di Enrico IV, l’Imperatrice Costanza e Federico II. Fu fatto realizzare dopo la morte del Principe Giovanni dal figlio Fabrizio nel 1621 e fatto collocare in questa chiesa solo Fig. 3 Sarcofago marmoreo di Giovanni IV Branciforti successivamente per volontà di Giuseppe Branciforti.


La Cappella Maggiore dedicata a S. Stefano è caratterizzata lungo la parete di fondo dallo splendido altare maggiore in marmi policromi e da una tarsia a motivi geometrico - floreali, sempre in marmi colorati, posizionata al centro del pavimento dell'abside. Di particolare rilievo sono le balaustre che chiudono le tre cappelle realizzate in finissimo marmo bianco e decorate da intarsi in marmi policromi a carattere geometrico e raffiguranti lo stemma della famiglia Branciforti con il leone rampante che sostiene una bandiera. Tra le pietre colorate qui utilizzate troviamo il Giallo di Castronovo, il Libeccio di Trapani, il Fig. 4 Tarsia in marmi policromi posta al centro Grigio di Billiemi, il Verde di Calabria del pavimento della Cappella Maggiore ed il Rosso di San Vito. Furono realizzate assieme alle cappelle stesse per volontà del Principe Giuseppe Branciforti.

Fig. 5 Balaustra marmorea


Altare di Santo Stefano (Altare Maggiore)

L’altare è posizionato sulla parete di fondo della maggiore delle tre cappelle fatte erigere dal Principe Giuseppe Branciforti quale voto al Santo per averlo salvato dalla pena di morte, inflittagli dopo la congiura dei baroni siciliani contro la Corona Spagnola, alla quale aveva preso parte. Fu realizzato alla fine del XVII secolo e, dopo la morte del Principe, arricchito da una tela raffigurante il Martirio di Santo Stefano, opera del pittore napoletano Mattia Preti, trafugata da ignoti nel 1982. É di grandi dimensioni (occupa infatti quasi l’intera parete), rialzato da quattro gradini e realizzato in marmo bianco di Carrara, riccamente scolpito, con intarsi in marmi policromi. Si compone di due parti: l’altare vero e proprio, in basso, e la struttura della cornice, per contenere la pala d’altare, in alto. Ha una mensa leggermente avanzata, con paliotto decorato da elementi scultorei a rilievo, soprattutto nella parte centrale aggettante, raffiguranti putti e fogliame. Agli angoli presenta delle mensole inclinate con volute. Sopra la mensa, al centro dei due gradini porta candele, è collocato il tabernacolo, dalle forme arrotondate, ed ancora più in alto troviamo una struttura, a forma di tempio, con colonne libere in marmo grigio, affiancate da volute di raccordo, che sostengono la trabeazione, che chiude in alto la composizione. Il ricchissimo apparato scultoreo prevede due figure marmoree di Serafini, seduti su grandi volute che fuoriescono inclinate dagli angoli dell’altare. Nella parte alta invece le due statue presenti raffigurano le allegorie della Fede e della Speranza.


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Chiesa del SS. Crocifisso dell’Olmo

Fig. 1 Prospetto Principale

UBICAZIONE

: Si affaccia su una piazzetta che costeggia la Via Gallo

DATAZIONE

: Secolo XI (edificio originario) Prima metà del secolo XVIII (rifondazione)

COMMITTENZA: Marchese Filippo Bivona (rifondazione) AUTORE

: Ignoto

BIBLIOGRAFIA : Di Giorgio Ingala P., 1900, pp. 329-332 D’Aleo A., 1991, pp. 52-55


Breve cenno storico: La storia di questo edificio è legata ad una leggenda che ci racconta di alcuni ladri che volevano rubare il Prezioso Crocifisso ligneo custodito nella chiesa. Uno dei ladri, avendo con se un grosso bastone di olmo, lo piantò nel terreno davanti la chiesa per avere le mani libere. Dopo avere preso il Crocifisso i ladri uscirono dal Tempio ma, con loro grande meraviglia, al posto del bastone trovarono un grande albero di olmo, cresciuto miracolosamente. Spaventati per il prodigio lasciarono la refurtiva scappando via e così il Crocifisso fu salvo. Sarebbe a causa di questo avvenimento miracoloso che la Chiesa avrebbe assunto la denominazione attuale di SS. Crocifisso dell’Olmo, in luogo di quella precedente di Santa Maria dell’Itria. Non sappiamo quanto di vero ci sia nel racconto ma questo ci aiuta a spiegare il cambio di denominazione del Tempio e la nascita della particolare devozione del popolo mazzarinese verso questo Crocifisso miracoloso, Patrono della città fino al 1814 e, dopo quella data, Compatrono insieme alla Madonna del Mazzaro. Dell’edificio sappiamo invece che è molto antico ed assieme alle chiese di S. Francesco di Paola, di San Antonio Abate, di Sant’Agata (oggi SS. Crocifisso dei Miracoli) è tra i più antichi della città, sorto in quello che era allora il cuore del borgo medievale, nei pressi del castello e della originaria Chiesa Madre. La sua fondazione con il titolo di Santa Maria dell’Itria sarebbe opera dei Normanni e risalirebbe al secolo XI. La struttura originaria, in stile normanno, aveva aperture a sesto acuto e soffitto ligneo con travi istoriate. Il terremoto del 1693 distrusse la chiesa normanna e solo parecchi anni dopo, nel 1756, questa fu ricostruita dalle fondamenta, nelle forme attuali, grazie alla devozione del Marchese Filippo Bivona, come ci testimonia una lapide posta all’interno dell’edificio. Questi, oltre ad erigerla, la dotò di arredi e paramenti, fece costruire e decorare gli altari e commissionò anche alcuni dei dipinti che li impreziosiscono. Al Marchese Bivona, che si fece poi seppellire nella stessa chiesa dove ancora oggi possiamo ammirare il suo mausoleo marmoreo, si deve anche la realizzazione del campanile annesso alla struttura, che fu colpito nel 1874 da un fulmine e rovinò in buona parte. Fu restaurato nel 1881. A Mons. Gaetano Quattrocchi, mazzarinese, rettore del Tempio e poi divenuto Vescovo di Mazzara, si devono inoltre le opere di decorazione a stucco degli interni nel 1886. Nel 1881 fu anche fondata la “Confraternita della Bara”, formata da più di cento uomini che in occasione della Festa del Crocifisso dell’Olmo (la prima domenica di Maggio) portano il fercolo, in ferro battuto e dal notevole peso, contenente il Crocifisso in processione per le vie del paese. Tale tradizione si sviluppò negli anni immediatamente successivi al terremoto quale voto della popolazione per lo scampato pericolo. Mazzarino infatti aveva subito danni relativamente modesti, se confrontati con quelli di altri centri della parte sud orientale dell’isola completamente rasi al suolo, e non vi erano state vittime tra la popolazione.


Descrizione edificio: La chiesa, realizzata dalle fondamenta dal Marchese Bivona nel 1756, ha tre navate divise da quattro colonne cilindriche che sostengono delle arcate a tutto sesto. L’impianto longitudinalmente si chiude con l’abside centrale affiancato da due cappelle a destra e a sinistra. Il prospetto esterno si affaccia su di una piazzetta che costeggia la strada ed è semplice e spoglio. Si caratterizza soltanto per gli elementi architettonici principali, realizzati in pietra squadrata, quali il portale, le due finestre delle navate laterali ad arco ribassato, la finestra finestra della navata principale, rettangolare ed in asse con il portale, ed infine i cantonali. La parte terminale segue il profilo della copertura a due spioventi della navata centrale assumendo la forma di di un timpano triangolare cui si appoggiano le falde inclinate delle coperture delle navate laterali, leggermente più basse. Fig. 2 Vista dell’interno L’interno è interamente decorato da stucchi, fatti realizzare nel 1886 dal rettore del Tempio Mons. Gaetano Quattrocchi, divenuto poi Vescovo di Mazzara. Furono eseguiti dai Fratelli Fantauzzo di Barrafranca, artisti e stuccatori attivi in questa area ed impegnati nella decorazione degli edifici più importanti della Diocesi di PiazzaArmerina, e di altri centri vicini. Sono presenti sette altari, compreso quello Maggiore, tutti con le mense in marmi colorati (decorazione a mischio). Negli altari sono collocati dei dipinti di buona fattura e tra questi uno di autore ignoto raffigurante la Madonna dell’Itria, cui la chiesa era prima intitolata, quello della Maddalena, commissionato dal Marchese Bivona nel 1755 al pittore palermitano Pietro Spinosa, una tela con la sacra famiglia del XVI secolo e l’Arcangelo Michele di autore ignoto. La chiesa come detto conserva un prezioso crocifisso ligneo scolpito (Crocifisso dell’Olmo o delle Grazie), di epoca cinquecentesca e Compatrono della città. La scultura lignea del Crocifisso, alterata nell’aspetto da pesanti ridipinture, non è omogenea al supporto. Quest’ultimo è caratterizzato da dipinti nei capicroce del recto raffiguranti la Madonna e San Giovanni dolenti, ai lati del Crocifisso, e Dio Padre Benedicente in alto. Il verso, oltre ai capicroce dipinti presenta anche lungo l’asse verticale le figure del Redentore Benedicente, del Cristo Risorto e della Madonna con il Bambino. Nell’edificio è collocata anche una pila dell’acqua santa, forse appartenente all’antica chiesa distrutta dal terremoto, realizzata in marmo bianco ed opera forse del Gagini.


Altare Maggiore -Altari Cappelle -Altari laterali

Gli altari in marmi policromi che ornano la chiesa sono sette e tutti identici nella forma, nel tipo di pietra ornamentale colorata utilizzata e nella posizione di questa all’interno della composizione. Quelli della navata di destra sono dedicati alla Maddalena, alla Madonna dell’Itria ed alla Sacra Famiglia, mentre quelli di sinistra all’Arcangelo Michele, alla Madonna del Monserrato e alla Madonna delle Grazie. L’altare maggiore è invece dedicato al SS. Crocifisso dell’olmo e contiene nella nicchia in alto lo stesso Crocifisso miracoloso, in legno scolpito, che dà il nome alla chiesa. Tutti furono realizzati intorno alla metà del secolo XVIII (dopo il 1756) per volontà del Marchese Filippo Bivona, promotore e finanziatore della edificazione della nuova chiesa, che così volle abbellire ed arricchire l’edificio. Si tratta di altari dalle forme semplici e dalle piccole dimensioni ma riccamente decorati da tarsie marmoree e rilievi scultorei. Una struttura rettangolare in marmo bianco di Carrara, caratterizzata ai bordi da due paraste con volute che sostengono la cornice conclusiva, inquadra il ricco paliotto centrale. Qui i marmi colorati sono inseriti entro movimentate riquadri le cui cornici scultoree, in leggero rilievo, richiamano motivi floreali. Al centro dell’intero disegno troviamo uno stemma dalle forme rotondeggianti, sempre ispirate a motivi naturalistici. Ciascuno degli altari è arricchito inoltre nella parte alta dalla presenza di dipinti di buona fattura, realizzati per lo più nei secoli XVII e XVIII.


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Chiesa di S. Francesco di Paola

Fig. 1 Prospetto Principale

UBICAZIONE

: Sorge nella periferia cittadina, ai piedi del castello medievale (“Cannuni”) e vicino alla chiesa del SS. Crocifisso dei Miracoli (ex Chiesa Madre)

DATAZIONE

: Secolo XIII

COMMITTENZA: Famiglia Branciforti, Signori di Mazzarino

AUTORE

: Ignoto

BIBLIOGRAFIA : Di Giorgio Ingala P., 1900, pp. 385-389 D’Aleo A., 1991, p. 69


Breve cenno storico: La chiesa di San Francesco di Paola è tra le più antiche di Mazzarino e la sua fondazione è legata alla potente famiglia dei Branciforti, detentrice del feudo, che dimorava presso il vicinissimo castello, ed i cui simboli sono visibili negli elementi circolari in pietra su cui confluiscono i costoloni della volta che copre il vano. Si tratta di una piccola struttura, utilizzata dai signori feudali quale cappella privata, annessa ad un Eremo di frati Carmelitani. Probabilmente la chiesetta fu fondata nel secolo XIII e dalla sua origine, fino al 1673 fu occupata dai frati. Questi però in quell’anno si trasferirono in un nuovo convento all’interno della città, acquistato e ultimato dal Padre Marco Ferranti, Priore del Convento, dal Principe Giuseppe Branciforti, e così il vecchio ed isolato monastero, le cui strutture erano ormai fatiscenti, fu abbandonato. Da questo momento fino all’inizio del secolo XIX l’ex convento dei Carmelitani, ai piedi del castello, e l’annessa chiesetta furono utilizzati come ricovero di eremiti sotto il titolo di S. Corrado. Solo successivamente l’edificio religioso assunse la dedica a San Francesco di Paola. In seguito alla emanazione nel 1866 delle leggi sulla soppressione degli ordini religiosi sia il convento che la chiesa vennero incamerati all’interno del patrimonio del Demanio e vi rimasero fino al 1881. In quell’anno infatti la chiesa fu comprata dal Padre Carmelo Nicolosi, che la riaprì al culto, ed il convento invece fu acquistato dal Sig. Giuseppe Vitali, di Licata, che lo restaurò trasformandolo nella sua residenza privata. Tale stato di cose tuttavia permanne per brevissimo tempo, infatti già nel 1885 i PP. Riformati, acquistato il convento, vi si stabilirono, officiando nella chiesa contigua. Nel XX secolo il complesso ha cambiato più volte proprietà, subendo diverse trasformazioni ed ammodernamenti fino ad assumere l’aspetto attuale. Negli anni ‘50 è pervenuto ad una comunità di suore Figlie della Carità di Giacomo Cusmano, le quali hanno dato vita all’opera “Boccone del Povero” - Casa del Fanciullo, ed ancora oggi vi risiedono gestendo una casa di accoglienza per anziani.


Descrizione edificio: Sorge ai piedi del castello feudale, residenza fino al secolo XVII dei Signori di Mazzarino. Si tratta di un edificio dalle piccole dimensioni ma molto antico, avente impianto originario a croce greca, trasformato nel corso dei secoli in croce latina con abside centrale maggiore, in asse con l’ingresso, e absidi laterali, sporgenti e visibili dall’esterno. La chiesa è stata recentemente interessata da un profondo intervento di restauro, sia delle strutture esterne che dell’interno, che ne ha in parte stravolto la forma tramandataci dal tempo, frutto di continue trasformazioni e cambiamenti di gusto. Oggi quindi si presenta con un aspetto medievale (suo aspetto originario), austero e più vicino ad un’opera di fortificazione che ad un edificio religioso, Fig. 2 Vista dell’interno destinato ad ospitare delle celebrazioni. Il prospetto principale esterno infatti è costituito da una muratura in conci irregolari di pietra arenaria locale. Ha forma rettangolare ed è chiuso in alto, lungo tutto il suo perimetro, da una merlatura. Unici elementi presenti nella facciata sono la porta di ingresso rettangolare, piccola ed essenziale nelle forme, con stipiti ed architrave in pietra squadrata, e l’apertura circolare, situata in asse con la porta stessa. Sempre all’esterno, sulle pareti laterali sulle murature delle absidi laterali , troviamo delle sottili aperture ad arco strombate, simili a delle feritoie. L’interno è completamente rinnovato e quasi del tutto spoglio. Il pavimento è stato realizzato da breve tempo, le pareti sono state intonacate e così anche le volte di copertura della piccola navata, e delle absidi. Le volte presentano ancora i costoloni, realizzati in laterizio, che convergono su di un elemento circolare, che funge da chiave di volta, su cui sono rappresentati simboli riconducibili alla nobile famiglia dei Branciforti. L’unico elemento decorativo all’interno dell’edificio è l’altare maggiore, dedicato a San Francesco di Paola, caratterizzato da una mensa in marmi policromi e da una ricca decorazione in stucco colorato, con motivi di ispirazione naturalistica e floreale, di gusto tipicamente barocco. La nicchia contenente la statua del Santo infatti è inquadrata da una struttura con paraste laterali, aggettanti e dalla originale forma curva, che sostengono la trabeazione curvilinea. In alto, sempre in stucco, la composizione si chiude con una sorta di grande medaglione, sormontato da una corona e con figure di putti che inquadrano una iscrizione inneggiante alla Carità. Le absidi laterali, oggi spoglie, contengono ancora i dipinti che prima ornavano gli altari qui collocati, dedicati a San Corrado ed alla Beata Vergine del Carmelo.


Altare di S. Francesco di Paola (Altare Maggiore)

L’altare è collocato entro l’abside maggiore, proprio di fronte all’ingresso principale, inserito all’interno di una ricca composizione, ornata da stucchi e da vivaci colori, realizzata in età barocca nella chiesetta di aspetto invece medievale. L’opera infatti è l’unico elemento decorativo dell’edificio ed ha nel disegno architettonico complessivo e nelle paraste curve, che sostengono il coronamento soprastante, un elemento di originalità dal notevole interesse artistico ed utile per comprendere le peculiarità dell’arte e dell’architettura barocca. Il tutto è infatti caratterizzato dal dinamismo e dalla complessità delle forme, oltre che da una ricca decorazione di ispirazione naturalistica realizzata in stucco, a sua volta arricchito da vivaci colorazioni. Al centro troviamo poi la nicchia contenente la statua del Santo, ed ancora più in alto il grande medaglione conclusivo con figure di angeli ed iscrizione inneggiante alla carità. La mensa, nella parte bassa, è costituita da marmo bianco di Carrara, decorato da tarsie in marmi policromi. Il paliotto, inquadrato ai lati da piccole volute, presenta al centro una sorta di urna aggettante, dalle forme rotondeggianti, con fastoso medaglione centrale. Nella parte alta invece vi sono tre gradini porta candele ed al centro il tabernacolo marmoreo, a forma di tempietto con paraste e volute a sostegno della trabeazione. Per il disegno architettonico e per il tipo di pietre ornamentali colorate utilizzate somiglia molto all’altare di Sant’Antonio, presente sempre a Mazzarino nella Chiesa Madre. É probabile che i due altari siano coevi e che siano stati realizzati dalle medesime maestranze.


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NISCEMI

Chiese con altari in marmi policromi 1. Chiesa di Maria SS. Dell’Itria (chiesa madre) 2. Chiesa di Maria SS. Addolorata (Carmine) 3. Chiesa della Madonna delle Grazie 4. Chiesa di San Francesco 5. Chiesa Santuario di Maria SS. Del Bosco 6. Chiesa di San Giuseppe


Chiesa di Santa Maria d’Itria (Chiesa Madre)

Fig. 1 Prospetto Principale

UBICAZIONE

: Si affaccia sulla Piazza Vittorio Emanuele III, piazza principale di Niscemi, di fronte alla chiesa dell’Addolorata

DATAZIONE

: Secolo XVII (1° edificio) Prima metà del secolo XVIII (edificio attuale)

COMMITTENZA: Giuseppe Branciforti (1° edificio) Devozione popolare (edificio attuale) AUTORE

: Giuseppe La Rosa, architetto (edificio attuale)

BIBLIOGRAFIA : Giuliana G., 1967, p. 210 Conti E., 1977, pp. 81-86 Marsiano A., 1989, pp. 10-11 Marsiano A., 1995, p. 33; p. 88; pp. 90-97


Breve cenno storico: La chiesa di Santa Maria d’Itria fu realizzata nelle forme attuali nel corso della prima metà del secolo XVIII, sul luogo in cui si trovava la primitiva Chiesa Madre, recante sempre lo stesso titolo. Della chiesa iniziale sappiamo ben poco. Sicuramente fu realizzata nei decenni immediatamente successivi alla fondazione della città di Niscemi, avvenuta nel 1626. Non si è certi inoltre del fatto che sia stata fabbricata a spese del Principe Giuseppe Branciforti oppure per contribuzione volontaria di tutto il popolo. Da alcune realzioni relative a visite pastorali, effettuate dai Vescovi nella chiesa nei primi anni del secolo XVIII, siamo venuti a conoscenza della presenza nel tempio seicentesco di una cappella dedicata al Purgatorio e di un’altra al Rosario, di altari dedicati a Sant’Anna, alla Sacra Famiglia, ai Santi Pietro e Paolo e al SS. Crocifisso. Sicuramente l’edificio venne seriamente danneggiato dal terremoto del 1693 e così, dopo avere per alcuni anni provveduto a piccole e provvisorie riparazioni delle strutture, si diede inizio alla riedificazione della chiesa, in forme più maestose, finanziata esclusivamente dal popolo. Dopo il disastroso terremoto infatti il popolo da solo, senza alcun aiuto finanziario di personalità esterne, ricostruì nel breve periodo che va dal 1710 al 1780 quasi tutte le chiese attualmente esistenti nella città, seriamente danneggiate in occasione della calamità. I lavori per la costruzione della nuova chiesa ebbero inizio nel 1742 secondo il progetto redatto dall’architetto messinese Giuseppe La Rosa, attivo in quegli anni a Piazza Armerina. La costruzione continuò ininterrottamente fino al 1751. In quell’anno infatti il nuovo parroco decise di sospendere in via provvisoria i lavori a causa della mancanza dei fondi necessari. Negli anni successivi, però, a causa dei cattivi raccolti e in considerazione del fatto che l’attenzione e il concorso popolare si erano ormai rivolti verso la costruzione della nuova chiesa dell’Addolorata, non si ebbe più cura di portare a termine la Chiesa Madre che rimase incompleta. La facciata rimase priva del suo coronamento, mentre l’interno fu lasciato rustico, privo di intonaco, stucchi e decorazioni. Solo in seguito si provvide ad intonacare le pareti e a pavimentare la chiesa in modo che questa potesse essere inaugurata ed utilizzata per le sacre celebrazioni. Due anni dopo così, il 15 luglio 1753, il tempio venne solennemente consacrato alla presenza del Vescovo di Siracusa, Mons. Francesco Testa. Nel 1858 furono stanziati dal decurionato trecento ducati per la decorazione della chiesa Madre, secondo il progetto redatto dall’architetto Francesco Cultrera di Vizzini. Negli anni 1863 e 1864 furono effettivamente eseguiti i lavori di abbellimento di tutto l’edificio da un gruppo di pittori decoratori provenienti da Avola, sotto la guida del pittore Gregorio Scalia. Nel 1906 fu messo in opera il nuovo pavimento in marmo bianco e bardiglio. Nel 1982, ad opera del parroco don Antonino Russo, tutta la chiesa è stata restaurata ed affrescata dal pittore e decoratore Giacomo Cinnirella di Caltagirone. Restauri delle strutture murarie esterne, di quelle di copertura e degli infissi sono stati eseguiti invece nel 1991 grazie ad un finanziamento della Regione Siciliana.


Descrizione edificio: La chiesa ha pianta basilicale, a tre navate, di cui quella maggiore coperta da una volta a botte lunettata, con abside centrale molto profondo, affiancato da due cappelle, e cupola, posta all’incrocio del transetto con la navata. La facciata è costituita da tre ordini, di cui l’ultimo rimasto incompleto. Le due lesene centrali dividono la superficie di ciascun livello in tre rettangoli, di cui i due laterali rientrano con leggera concavità conferendo movimento, snellezza ed eleganza a tutta la composizione. Al centro spicca il bel portale in pietra con due fasci di tre colonne libere su basamento che sostengono un fastoso coronamento dalle forme curve. In asse con il portale, in corrispondenza del secondo livello, troviamo la finestra Fig. 2 Vista dell’interno rettangolare racchiusa entro una ricca cornice con colonne piatte in leggero aggetto, complete di trabeazione. Il terzo ordine, rimasto incompiuto perchè privo della trabeazione, è caratterizzato da tre celle campanarie con archi a tutto sesto inquadrati da delle paraste. Le quattro superfici laterali concave sono decorate ciascuna con una nicchia contenente una statua. Vi sono così raffigurati i due Evangelisti Marco e Giovanni ed i SantiApostoli Pietro e Paolo. L’interno è diviso in tre navate da cinque pilastri per lato. Delle paraste corinzie sostengono la trabeazione con cornice aggettante su cui imposta la volta. Le aperture della navata sono collocate entro le lunette della copertura. Le decorazioni a stucco furono realizzate negli anni 1863-1864 da maestranze provenienti da Avola guidate dal pittore decoratore Gregorio Scalia. Queste, su progetto dell’architetto Francesco Cultrera di Vizzini, decorarono la cupola, il coro, la volta della navata principale e quelle delle navate laterali. Tra le tele possedute dalla chiesa ricordiamo due opere dei fratelli Vaccaro di Caltagirone, una raffigurante la Crocifissione e realizzata nel 1837, mentre l’altra, con la Madonna del Suffragio, datata al 1860. Gli altari laterali e quello maggiore sono tutti realizzati in marmi policromi ed impreziositi dalla presenza di dipinti e statue di buona fattura. Il presbiterio è separato dalla navata da una balaustra in marmo con intarsi in pietre colorate, tra cui il marmo Rosso di Francia ed il Libeccio di Trapani. Nella chiesa si trovano altre opere realizzate in marmo ed impreziosite dalla presenza di pietre ornamentali colorate quali diverse acquasantiere, il fonte battesimale, in legno lavorato e decorato nella parte superiore, ed un paliotto di altare, in marmi mischi, collocato sul muro lungo la navata di sinistra.


Altare della Sacra Famiglia

Si tratta del primo altare, posto lungo la navata laterale di destra, rispetto all’ingresso principale, subito dopo il fonte battesimale in legno e marmo. L’altare si compone di un paliotto seicentesco, inquadrato da due paraste ai bordi, appartenente ad un altare marmoreo della originaria chiesa Madre, realizzata agli inizi del secolo XVII. Questo, dopo l’edificazione del nuovo tempio e dopo la sua decorazione, è stato risistemato alla fine dell’800 all’interno di una composizione, con corpi laterali e gradini nella parte alta, dal gusto neoclassico, tipicamente tardo ottocentesco. Mentre infatti nella mensa, in marmo bianco con intarsi in pietre ornamentali colorate, prevale la tendenza alla decorazione ed alla vivacità delle forme e dei colori, nel resto della struttura troviamo invece forme lineari, decorazioni a carattere geometrico, ispirate alle figura del rettangolo, e pietre colorate dai toni severi. La mappatura dei litotipi presenti è stata quindi eseguita solo sulla parte di altare più antica, ovvero solo relativamente al paliotto marmoreo. L’opera seicentesca ricalca modelli e temi decorativi molto diffusi nelle chiese di Niscemi. Paliotti simili sono infatti presenti, oltre che nella stessa chiesa Madre, anche presso la chiesa di San Giuseppe, della Madonna del Bosco e della Madonna delle Grazie, mentre altri, realizzati in paese successivamente, sono chiaramente ispirati a questi. Si tratta di una composizione di ispirazione naturalistica, ricca di volute e linee curve che inquadrano le lastre in marmi policromi della decorazione a mischio, inserita entro lo spazio rettangolare definito dalle paraste ai bordi.


Mappatura litotipi

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Altare del SS. Sacramento

L’altare occupa la parete di fondo di una delle cappelle che affiancano l’abside maggiore della chiesa. Si tratta della cappella dedicata al SS. Sacramento situata al termine della navata laterale di destra, rispetto all’ingresso principale. Una cappella con la stessa dedica esisteva già nella primitiva chiesa Madre, realizzata agli inizi del secolo XVII. É probabile che questa fosse già allora dotata di un altare marmoreo e che alcuni frammenti dello stesso altare (tabernacolo e tempietto con colonne libere) fossero stati riutilizzati in occasione della realizzazione dell’altare attualmente visibile. Questo, sopraelevato da due scalini marmorei, è inserito all’interno di una struttura architettonica con colonne libere su basamento che sostengono un coronamento con architrave, fregio, cornice e timpano triangolare. Due figure di angeli, realizzati in stucco, con in mano un ostensorio contenente il SS. Sacramento occupano lo spazio centrale. L’altare ha forme semplici ed ormai di gusto neoclassico. Si compone nella parte bassa di una mensa in marmo bianco con paliotto decorato da una grande lastra rettangolare di Libeccio di Trapani. Al centro del paliotto troviamo il simbolo della croce, mentre ai fianchi due corpi laterali, di forma rettangolare e leggermente arretrati, fungono da basamento per le colonne della struttura superiore. Nella parte alta dell’altare è collocato il tabernacolo marmoreo. Sopra questo la composizione si chiude con una struttura a forma di tempio circolare con colonne libere a sostegno della trabeazione e del coronamento con volute conclusivo.


Mappatura litotipi

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Altare Maggiore

L’altare è posizionato in fondo all’abside maggiore della chiesa, notevolmente rialzato rispetto alla quota del pavimento da cinque scalini in marmo bianco. Abbiamo pochissime notizie storiche relativamente a quest’opera probabilmente eseguita alla fine del secolo XVIII oppure degli inizi del secolo XIX, e realizzata nel momento in cui alla ricchezza e complessità delle forme, tipiche dell’età barocca si cominciarono a preferire la sobrietà e compostezza delle composizioni di tipo neoclassico, sempre più diffuse anche a Niscemi. L’altare ha grandi dimensioni e si compone di una lunga mensa rettangolare, in marmo bianco, con paliotto riccamente decorato da marmi policromi e rilievi scultorei, dalle forme rotondeggianti, che inquadrano il medaglione al centro, contenente il simbolo della croce. Il paliotto è inquadrato ai bordi da paraste, ornate da intarsi dal motivo naturalistico, mentre ai fianchi della mensa due corpi laterali, leggermente arretrati, chiudono orizzontalmente la composizione. Nella parte alta invece, sopraelevato da un gradino, si trova l’alto attico, con cornice conclusiva, decorato da lastre in marmi policromi, di forma rettangolare e quadrata, tagliate a specchio in modo da ottenere un particolare effetto decorativo. Al centro è collocato il tabernacolo a forma di tempietto, avente la stessa altezza dell’attico ed ornato da paraste con intarsi in marmi policromi, che inquadrano lo sportellino centrale dorato e sostengono la trabeazione con cornice conclusiva.


Mappatura litotipi

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Altare del SS. Crocifisso

L’altare si trova all’interno della cappella del SS. Crocifisso, situata al termine della navata di sinistra ed aperta sul transetto. Occupa la parete di fondo del vano rettangolare, sopraelevato rispetto alla quota del pavimento da due scalini marmorei. É inserito entro una struttura con colonne a sostegno della trabeazione curvilinea, che inquadra il grande Crocifisso e gli stucchi, che costituiscono il motivo ornamentale della composizione. La cappella è coperta da una volta divisa in otto vele, affrescata e con angeli in gesso, a rilievo, mentre nel medaglione centrale è stato dipinto Gesù Risorto con la croce. L’altare è abbastanza antico e sicuramente presente già nella primitiva chiesa Madre, realizzata nel secolo XVII e sostituita dal nuovo tempio nel secolo successivo. Era probabilmente già allora collocato in una cappella dedicata al SS. Crocifisso e fu rimontato in questa posizione dopo l’edificazione e decorazione della nuova chiesa. L’altare ha piccole dimensioni ed è realizzato in un marmo bianco, probabilmente locale, caratterizzato da sottili venature di colore grigio. É interamente decorato da tarsie in marmi policromi dalle forme tipicamente barocche, ma allo stesso tempo semplici ed ispirate a motivi geometrici. La mensa presenta un paliotto rettangolare, ornato da tarsie marmoree ed inquadrato da paraste ai lati. In alto invece troviamo due gradini porta candele ed al centro del secondo gradino il tabernacolo in legno dorato a forma di tempietto.


Mappatura litotipi

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Altare della Madonna del Carmine

É il secondo altare della navata laterale di sinistra, rispetto all’ingresso principale, sopraelevato dalla quota del pavimento da uno scalino in marmo Rosso di San Vito. Non abbiamo notizie precise su quest’opera, tuttavia è probabile che si tratti di una composizione ottocentesca, realizzata contemporaneamente alle decorazioni in stucco della chiesa, dalle forme lineari e semplici, di gusto neoclassico, ma dalla ricca profusione di marmi policromi, soprattutto brecciati, retaggio della cultura figurativa di periodo barocco. Sopra l’altare, entro una nicchia ad arco affiancata da decorazioni a stucco, si trova conservata una statua della Madonna con in braccio Gesù Bambino. L’altare è interamente rivestito di marmi policromi e decorato da motivi di ispirazione geometrica quali lastre di forma rettangolare inserite entro semplici cornici lineari. La mensa presenta un paliotto rettangolare, inquadrato da paraste ai bordi ornate da teste di angeli, con al centro un ottagono contenente un rilievo scultoreo raffigurante la Madonna. Ai fianchi della mensa troviamo due corpi laterali arretrati, mentre nella parte alta due gradini chiudono la composizione. Il primo gradino, rivestito da una marmo brecciato dal fondo violaceo, sostiene il secondo gradino, notevolmente più alto e tale da costituire un vero e propio attico. Questo è decorato da lastre marmoree di forma rettangolare e presenta in alto, lungo l’asse di simmetria verticale dell’altare, un piccolo elemento di coronamento con volute ed intarsi in marmi policromi.


Mappatura litotipi

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Chiesa di Maria SS. Addolorata

Fig. 1 Prospetto Principale

UBICAZIONE

: Si affaccia sulla Piazza Vittorio Emanuele III, piazza principale di Niscemi, di fronte alla Chiesa Madre e nei pressi del Palazzo Comunale

DATAZIONE

: Primo decennio del secolo XVII (1° chiesetta) Metà del secolo XVIII (edificio attuale)

COMMITTENZA: Fratelli Calcagno, procuratori della riedificazione della chiesa di Maria SS. Addolorata (edificio attuale) AUTORE

: Silvestro Gugliara, architetto (edificio attuale)

BIBLIOGRAFIA : Giuliana G., 1967, p. 212 Cincotta R.-Pepi C., 1980, pp. 64-71 Marsiano A., 1989, pp. 11-19 Marsiano A., 1995, p. 33; p. 88; pp. 97-101 Pepi S., 1996


Breve cenno storico: Anche la attuale chiesa dedicata a Maria SS. Addolorata è stata edificata nel XVIII secolo sul luogo di un precedente edificio religioso, gravemente danneggiato durante il terremoto del 1693. Esisteva infatti in questo sito, già prima che venisse fondato il paese di Niscemi, una “rusticana aedicula”, ovvero una piccola chiesetta-oratorio, che serviva per soddisfare i bisogni religiosi dei pastori e degli agricoltori che lavoravano nel feudo di Niscemi. Quando nel 1660 fu fondata la Confraternita del SS. Crocifisso, composta da tutte le classi sociali, che osservava scrupolosamente un regolamento di vita spirituale compilato da padre Luigi La Nuza, fu scelta proprio questa chiesetta per svolgervi le quotidiane pratiche religiose. L’edicola fu pesantemente danneggiata dal terremoto del gennaio del 1693 e cadde definitivamente intorno al 1748. A spese della confraternita del SS. Crocifisso e della Congregazione di Maria SS. Addolorata, e grazie alle generose offerte della popolazione, fu possibile negli anni successivi costruire un nuovo edificio, ben più maestoso e ricco del precedente. Sotto la guida del superiore della confraternita, don Gioacchino Calcagno, aiutato ed incoraggiato dai fratelli sacerdoti Giuseppe e Gaetano e dall’altro fratello Giacomo, fu infatti ricostruito non più un semplice oratorio ma una chiesa molto ampia e dalle forme aggiornate, secondo il gusto del tempo. Acquistate le case circostanti ed ottenuta dal Vescovo di Siracusa la licenza di riedificare la chiesa, si conferì l’incarico di redigere il progetto all’esperto capomastro Silvestro Gugliara, nativo di Caltagirone, seguace della maniera architettonica del famoso architetto Rosario Gagliardi, cui per lungo tempo ed erroneamente era stata attribuita la paternità della chiesa dell’Addolorata di Niscemi (è probabile che il Gugliara abbia tratto ispirazione dai progetti del Gagliardi, che conosceva ed aveva visto all’opera a Caltagirone). I lavori iniziarono nel 1753, con lo scavo delle fondazioni, e si conclusero nel 1764, quando la chiesa venne consacrata dal Vescovo di Siracusa, Mons. Antonio de Requesens, e dedicata alla VergineAddolorata e a Gesù Crocifisso. Nel 1972 un grave incendio danneggiò l’edificio ed in particolare le pitture e gli affreschi in esso conservati. Per questo motivo il procuratore Salvatore Benintende ed il rettore parroco don Antonino Russo si fecero promotori dei lavori di restauro delle decorazioni, realizzati nel 1982. Fu il pittore e restauratore Giacomo Cinnirella, di Caltagirone, a rimettere a nuovo i quadri e gli affreschi settecenteschi. L’usura del tempo aveva però apportato anche consistenti danni alle murature ed alla copertura della chiesa, per cui si resero necessarie nuove operazioni di restauro, riguardanti questa volta la struttura, e non gli apparati decorativi. Nel 1989 la Soprindendenza ai beni culturali ed ambientali fece eseguire i restauri secondo il progetto redatto e diretto dall’architetto Salvatore Scuto, che riportò la facciata all’originario aspetto, consolidò la struttura muraria, rifece il tetto ormai pericolante, irrobustì la struttura del campanile e riordinò la cripta e gli elementi decorativi, quali gli altari.


Descrizione edificio: La chiesa è una pregevole opera di architettura barocca, dalla insolita pianta ottagonale allungata, quasi ellittica, e caratterizzata da una elegante facciata, convessa nella parte centrale. All’esterno il prospetto principale prevede un ordine gigante di quattro lesene in pietra, su basamento, che lo divide in tre parti, mettendo così in risalto il movimento della superficie, convessa al centro e concava ai lati. Al centro l’artistico portale di ingresso è decorato da paraste che sostengono un timpano spezzato e ricurvo. Sopra il portale, ed in asse con questo, è collocata la finestra, rettangolare e riccamente ornata, che dà luce all’interno. L’ordine di lesene sostiene una trabeazione concavo-convessa su cui Fig. 2 Vista dell’interno imposta la struttura della cella campanaria, con paraste ad inquadrare le tre arcate con le campane, ed affiancata da volute, che chiude la composizione. L’interno, a pianta centrale, è coperto da una volta a crociera composta, costituita da un sapiente intrecciarsi di curve su cui si innestano le lesene interne. L’illuminazione, oltre che dalla finestra della facciata, è garantita anche dalla presenza di occhi che si aprono sotto la volta. Le decorazioni della chiesa furono realizzate nel 1760 da Francesco Sajola di Catania, mentre il pittore Gasperino Vizzini affrescò il grande quadro centrale della volta, racchiuso entro una cornice in stucco, raffigurante Gesù Cristo, la Madonna e San Giovanni Evangelista. Gli altari in marmi policromi furono messi in opera nel 1764 da Domenico Viola di Catania. Quello Maggiore è dedicato al SS. Crocifisso ed alla Vergine Addolorata e fu completato ed abbellito nel 1797 con l’aggiunta della struttura superiore con colonne e frontone. Gli altari laterali, sempre in marmi policromi, sono dedicati al Maria SS. Della Mercede e a San Filippo Neri. Il pavimento della chiesa era originariamente in mattoni di ceramica stagnata di Caltagirone, eseguito nel 1762. Questo venne sostituito nel 1850 con un altro a strisce di pietra nera e bianca e nel 1931 con uno in mattoni di cemento a mosaico. La chiesa possiede alcune tele di autore ignoto quali i quadri raffiguranti la Madonna della Mercede, San Filippo Neri, l’Addolorata ed il Cristo Morto. Nel 1761 venne collocata la porta della chiesa costruita da Andrea Militello e decorata con pitture del Tinnirello. Nella cappella dell’altare Maggiore si conserva inoltre un pregevole Crocifisso ligneo, opera dello scultore Antonio La Verde di Licata, eseguito nel 1760 e donato alla chiesa da don Carmelo La Iacona.


Altare del SS. Crocifisso e della VergineAddolorata (Altare Maggiore)

Si tratta di un grande altare posizionato nell’abside maggiore della chiesa, di fronte all’ingresso principale. Occupa la parete di fondo della zona del presbiterio, separata dal resto del vano da una balaustra in marmi policromi, rialzato rispetto alla quota del pavimento da tre gradini in marmo grigio scuro. Grazie alla esistenza del contratto stipulato dai procuratori, preposti all’edificazione del tempio, per l’esecuzione dell’opera oggi ne conosciamo esattamente la data di realizzazione ed i nomi degli artisti che la eseguirono. Fu infatti Domenico Viola, proveniente da Catania, a realizzarla nel 1764. Allo stesso artista si devono anche i due altari marmorei che occupano gli spazi laterali. L’altare fu però completato ed arricchito nel 1797 quando lo scultore Giuseppe Orlando, sempre di Catania, vi inserì le due colonne corinzie in marmo policromo, che sostengono l’architrave, il fregio ed il coronamento che conclude in alto la composizione. L’altare ha forme lineari e semplici ma vivaci colori dovuti ai vari litotipi presenti, per lo più brecciati. É caratterizzato da una mensa rettangolare il cui paliotto, inquadrato da due artistiche mensole sporgenti, ha al centro un rilievo in marmo bianco raffigurante l’agnello, simbolo di Cristo, entro una cornice circolare. Ai fianchi della mensa troviamo le basi che sostengono le grandi colonne in marmo, mentre nella parte superiore il tabernacolo, a forma di tempio con paraste, colonne libere e ricco coronamento triangolare, occupa lo spazio al centro dell’alto attico.


Mappatura litotipi

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Chiesa di Maria SS. delle Grazie

Fig. 1 Prospetto Principale

UBICAZIONE

: Sorge nelle immediate vicinanze della piazza principale della città, nel cuore del centro storico

DATAZIONE

: Fine del secolo XVI (1° chiesetta) Prima metà del secolo XVIII (edificio attuale)

COMMITTENZA: Famiglia La Iacona AUTORE

: Lucio Iacona, ingegnere (facciata novecentesca)

BIBLIOGRAFIA : Marsiano A., 1995, p. 88; pp. 108-112 Pepi S., 1996


Breve cenno storico: La chiesa dedicata a Maria SS. delle Grazie è stata con molta probabilità il primo edificio religioso di Niscemi, esistente ancora prima che il paese stesso venisse fondato, nello stesso luogo del tempio attuale. Una piccola chiesetta infatti faceva parte, già negli ultimi anni del secolo XVI, del caseggiato della masseria dell’ex feudo di Niscemi, svolgendo le mansioni di chiesa parrocchiale e costituendo, con la sua antistante piazza il cuore del vecchio centro abitato. Fu proprio in questa chiesetta che inizialmente si conservò la sacra immagine della Madonna del Bosco, rinvenuta dal pastore Andrea Armao nel 1599, fino a quando non fu pronto il nuovo edificio appositamente realizzato per custodirla (prima chiesa della Madonna del Bosco). Solo con l’incremento della popolazione e la costruzione della Chiesa Madre, con la nuova e più grande piazza davanti a questa, intorno al 1640, il nucleo della città si spostò più a nord-est, a discapito della chiesa della Madonna delle Grazie. Questa infatti rimase per poco tempo ancora aperta al culto, ma successivamente venne chiusa e trascurata, tanto che già intorno al 1720 presentava evidenti segni di fatiscenza, minacciando di rovinare al suolo. La nobile e ricca famiglia La Iacona, in occasione della ordinazione sacerdotale di don Antonio, membro della famiglia, pensò di ricostruirla e di dotarla della rendita necessaria al mantenimento del culto. Si rivolse allora al Principe Ercole Michele Branciforti, nel 1733, per ottenere l’autorizzazione ad iniziare i lavori e la concessione del diritto di patronato laicale sull’edificio (tale diritto fu richiesto anche al Vescovo di Siracusa, Mons. Matteo Trigona, che lo concesse nel 1734). L’autorizzazione fu concessa dal Principe il 29 novembre dello stesso anno e così don Antonino La Iacona, con l’aiuto finanziario dei fratelli, del popolo e con una piccola donazione del Principe, iniziò lo stesso anno la ricostruzione della struttura. Dopo brevissimo tempo i lavori furono portati a compimento e la chiesa divenne l’orgoglio della famiglia La Iacona, che nel corso degli anni la dotò di un cospicuo patrimonio ed abbellì con sontuosi arredi e pregevoli opere d’arte. Nella chiesa si esercitavano regolarmente le funzioni religiose e questa fu tenuta bene e continuò ad arricchirsi fino a quando non furono emanate le leggi eversive dei beni ecclesiastici nel 1866 e nel 1870. In seguito a queste leggi infatti i beni della Chiesa venivano incamerati dallo Stato ed anche la chiesa della Madonna delle Grazie subì la stessa sorte. La famiglia La Iacona tuttavia si ribellò a questo stato di cose, rivendicando per se la proprietà dell’edificio. Iniziò così un lungo periodo di liti e di battaglie legali tra la famiglia Iacona ed il Comune e tra gli stessi eredi, per la spartizione del patrimonio, che si conclusero soltanto molti anni dopo. L’ultima sentenza della Corte di appello di Palermo è del 1939. Fu nominato in questa occasione un amministratore giudiziario con il mandato di provvedere, oltre che alla riscossione delle rendite, anche al restauro della edificio, che in tutto questo tempo era stata trascurato ed abbandonato, per cui versava in pessime condizioni. Furono così eseguiti i lavori di restauro delle strutture e degli apparati decorativi, ultimati i quali si provvide a riaprire al culto la chiesa, consacrata solennemente dal Vescovo di PiazzaArmerina Mons.Antonino Catarella, nel 1947. Oggi la chiesa, nuovamente chiusa al culto, necessita di ulteriori lavori di restauro.


Descrizione edificio: La chiesa, di piccole dimensioni, è ad una sola navata con pianta rettangolare. La facciata attuale è relativamente recente e realizzata su progetto dell’ingegnere Lucio Iacona in pietra bianca di Comiso. Fu materialmente eseguita dallo scultore Biagio Pulichino. La composizione, elegante ed armoniosa, è divisa dagli ordini sovrapposti in tre livelli. Il portale, posto al termine della scalinata ed inquadrato da due paraste su piedistallo, occupa lo spazio centrale del primo livello. In asse con il portale si trova, in corrispondenza del secondo livello, una nicchia a forma di edicola, con lesene ioniche reggenti il timpano curvo, che contiene al suo interno la statua di San Gaetano. Il terzo livello è costituito invece dal campanile con tre celle campanarie ad Fig. 2 Vista dell’interno arco inquadrate da paraste corinzie, binate agli angoli, che sostengono la trabeazione con timpano spezzato e piccola struttura centrale con volute, che funge da coronamento della composizione. All’interno il piccolo vano è ben illuminato e coperto da una volta a botte lunettata. É interamente decorato da stucchi e da affreschi, raffiguranti finte architetture, medaglioni, festoni e cornici, ed è impreziosito dalla presenza di 5 altari marmorei, compreso quello maggiore, in marmi policromi, dedicato a Maria SS. delle Grazie. Troviamo in questo altare inoltre un quadro con l’immagine della Madonna con in braccio Gesù Bambino, racchiuso entro una cornice in marmo e stucco. Gli altari di destra sono dedicati a San Luigi Gonzaga,prima dedicato a San Filippo, e a San Gaetano da Thiene, arricchiti da statue collocate entro delle nicchie. Sulla sinistra invece troviamo l’altare dedicato alla Sacra Famiglia, con dipinto del Vaccaro di Caltagirone collocato qui nel 1902 in sostituzione di un altra tela raffigurante la Madonna degliAngeli, e quello dedicato a Santa Lucia. Al centro della volta, in un grande ovale, è stato dipinto un affresco raffigurante la Madonna in gloria, incoronata da Gesù e da San Giuseppe, mentre lo spirito Santo scende sul suo capo in forma di colomba. La chiesa originariamente possedeva un coro semicircolare, con le pareti affrescate, ed un campanile di forma quadrangolare e termionante con una cupola, addossato al lato destro del coro. Questi furono demoliti nel 1889 per sgombrare una delle vie adiacenti (Via Tondo), dopo una aspra controversia tra la famiglia Iacona ed il Comune. Il campanile fu però ricostruito sul lato sinistro della facciata, alquanto sporgente dalla linea della fabbrica, per cui dovette essere demolito nuovamente dal Comune per sgombrare e sistemare la piazzetta antistante la chiesa.


Altare di Maria SS. delle Grazie (Altare Maggiore)

L’altare sorge, rialzato rispetto alla quota del pavimento da quattro scalini marmorei, sulla parete di fondo della chiesa, all’interno della zona del presbiterio, separata dalla navata da una balaustra in ferro battuto. È dedicato a Maria SS. Delle Grazie ed in alto è sormontato da un piccolo quadro, di forma quadrata, con l’immagine della Madonna che tiene in braccio Gesù Bambino, racchiuso entro una ricca cornice barocca in marmo policromo e stucco. Non possediamo notizie storiche precise su questa opera, ma è probabile che l’altare esistesse già all’interno della primitiva chiesa dedicata alla Madonna delle Grazie, situata sempre in questo luogo. Successivamente, costruito il nuovo tempio fu rimontato nella posizione in cui noi oggi lo ammiriamo. Si tratta di una struttura in marmo bianco, di dimensioni contenute, dalle forme semplici e lineari, ma allo stesso tempo dal ricco apparato decorativo, realizzato con intarsi in marmi policromi, eleganti rilievi scultorei e dorature. L’altare è costituito da una mensa con paliotto rettangolare, affiancato ai lati da paraste. Al centro troviamo il medaglione dorato, incorniciato da volute e da una corona, con all’interno, raffigurata a rilievo, la Madonna con Gesù Bambino. Due corpi laterali, leggermente arretrati e con volute, chiudono orizzontalmente la composizione. La parte alta è invece caratterizzata da due gradini porta candele, di cui il secondo notevolmente più alto, tanto da costituire un vero e proprio attico, chiuso da una cornice. Al centro è collocato invece il ricco tabernacolo, a forma di tempietto, con paraste a sostegno della trabeazione e del coronamento con volute.


Mappatura litotipi

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Altare di San Gaetano da Thiene

Si tratta del primo altare della parete di sinistra della navata, rispetto all’ingresso principale, collocato entro una nicchia ad arco e sormontato da una ulteriore nicchia contenente la statua del Santo, ornata tutto intorno da stucchi, pitture e da una cornice lignea. É leggermente sopraelevato rispetto alla quota del pavimento ed ha piccole dimensioni. Non conosciamo nè la datazione, nè le maestranze che lo eseguirono. Tuttavia è probabile che anche questo, come l’altare maggiore, fosse presente già nella primitiva chiesa della Madonna delle Grazie e sia stato rimontato in questa posizione una volta ultimato il nuovo edificio. Ha forme tipicamente barocche e potrebbe essere datato intorno alla fine del secolo XVII. L’altare si compone di una semplice mensa in marmo bianco con intarsi in marmi policromi e paliotto rettangolare, inquadrato ai lati da paraste. La mensa è affiancata da piccoli corpi laterali arretrati a forma di voluta. In alto invece il tabernacolo a forma di tempietto, con paraste, volute e trabeazione curvilinea, è inserito al centro di una sorta di semplice attico, costituito da due gradini, di cui il secondo notevolmente più alto e chiuso da una cornice. L’intera opera è riccamente decorata da tarsie in marmi colorati dalla forma geometrica. Tuttavia è soprattutto il paliotto a presentare un complesso motivo decorativo a rilievo con la figura del Santo inserita entro una articolata composizione con volute, motivi di ispirazione floreale e la testa di un angelo al centro.


Mappatura litotipi

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100 cm


Chiesa di San Francesco

Fig. 1 Prospetto Principale

UBICAZIONE

: Sorge nella periferia della città sul piano detto della Torre, nei pressi della chiesa della Madonna del Bosco e dell’ospedale cittadino

DATAZIONE

: Prima metà del secolo XVII (1° chiesa e convento) Prima metà del secolo XVIII (edificio attuale)

COMMITTENZA: F.Aprile e C.Aprile, dei Frati Conventuali di S. Francesco d’Assisi (1° edificazione) Padre Antonino da Barrafranca, dei Frati Minori Riformati (riedificazione) AUTORE

: Un frate francescano ideò il progetto di riedificazione del complesso nel secolo XVIII

BIBLIOGRAFIA : Marsiano A., 1995, pp. 87-88; pp. 105-107


Breve cenno storico: La chiesa di San Francesco faceva parte di un vasto complesso edilizio, comprendente anche un convento con chiostro, situato nei pressi della chiesa della Madonna del Bosco, Patrona di Niscemi, ed appartenente ai frati minori francescani riformati. Il primo nucleo di questa struttura risale al secolo XVII. Fu infatti nel 1639 che don Francesco Aprile, ex religioso dei padri conventuali di San Francesco, e Carlo Aprile, procuratore della provincia, realizzarono nello stesso sito delle strutture attuali una chiesetta ed un dormitorio. Tuttavia oratorio e chiesa furono abbandonati dopo poco tempo e così rimasero per circa ottanta anni. Quando nel 1731 giunse a Niscemi il celebre predicatore padre Antonino da Barrafranca, ex provinciale dei frati riformati della Val di Noto, si diffuse un grande fervore attorno alla figura del frate, che godeva della stima di tutte le classi sociali. Padre Antonino pensò di approfittare del fatto che la popolazione si stava preparando a costruire una nuova chiesa per conservare la sacra immagine della Madonna del Bosco, per cui era stata raccolta una buona quantità di materiale edile, dell’esistenza di una chiesetta con annesso un dormitorio e dell’entusiasmo popolare per realizzare a Niscemi un nuovo convento di francescani, in cui custodire la sacra immagine ed i beni della primitiva chiesetta della Patrona. La popolazione ne appoggiò il progetto e quindi il frate, recatosi a Palermo, nel 1732 ottenne l’autorizzazione per la costruzione del nuovo convento e della chiesa dal Principe don Ercole Michele Branciforti. L’11 novembre del 1732 fu redatto formalmente l’atto di fondazione del complesso e si diede inizio ai lavori. Il progetto della nuova struttura fu ideato da un abile e competente frate francescano. La fabbrica fu ultimata rapidamente nel 1737 e nel 1740 vi si installarono dodici frati francescani riformati dell’ordine di San Francesco. La sacra immagine della Madonna del Bosco tuttavia vi rimase custodita, assieme ai beni ad essa legati, solo per pochi anni, dal momento che ben presto fu realizzato, vicinissimo al complesso francescano, un tempio appositamente destinato a custodire l’effige. In seguito all’entrata in vigore delle leggi eversive dei beni ecclesiastici e degli ordini religiosi la chiesa, il convento e i tutti i beni dei frati furono incamerati dal Comune. La chiesa è stata abbandonata e trascurata e lentamente è andata in rovina, mentre il convento venne inizialmente adibito in parte a carcere ed in parte ad ospedale. Una volta sgombrato il carcere tutto l’edificio è stato destinato ad ospedale. Oggi la chiesa è ancora chiusa al culto ed utilizzata come magazzino. La fabbrica, in precario stato di conservazione e fatiscente, necessita ormai di un radicale restauro, sia delle strutture esterne ed interne, che degli apparati decorativi.


Descrizione edificio: La chiesa, ad una sola navata, ha pianta rettangolare allungata. L’esterno, secondo lo stile francescano, ha forme semplici e si caratterizza per pochi e significativi elementi in pietra squadrata inseriti in una struttura muraria in conci irregolari ed intonacata. Lo schema proposto è quello, molto diffuso in quest’area, con robusti cantonali a forma di parasta, su alto basamento, che sostengono il coronamento triangolare. Al centro spicca il portale in pietra e la finestra rettangolare soprastante, in asse con questo. Il portale, posto al termine di una ripida scalinata, è inquadrato da lesene su piedistallo che sostengono un timpano spezzato. Oggi il tempio presenta evidentissima una sovrastruttura provvisoria di copertura a Fig. 2 Vista dell’interno doppia falda inclinata. La chiesa all’interno si presenta in pessimo stato di conservazione, gravemente segnata da lunghi anni di abbandono e da un utilizzo improprio quale magazzino. Tuttavia, tra il materiale accatastato, sono ancora ben evidenti, e perfettamente recuperabili, gli apparati decorativi in stucco. Le pareti della navata sono ritmate da un appena accennato ordine di paraste, che inquadrano le nicchie ad arco contenenti gli altari laterali, e sostengono la cornice che segna l’imposta della volta a botte lunettata, che copre lo spazio destinato ai fedeli. L’area del presbiterio è separata dalla navata da una balaustra marmorea ed ha nella parete di fondo un grande altare in marmi policromi, che ha sostituito un precedente altare in legno scolpito. Nella navata troviamo due altari per lato. A destra sono collocati l’altare dedicato a Sant’Anna, con dipinto della santa che insegna la lettura a Maria Bambina, e quello dedicato a San Pasquale di Bajlon. Sulla sinistra invece sono gli altari di San Francesco d’Assisi e del Santissimo Crocifisso. La chiesa conserva due pregevoli statue in legno scolpito, una raffigurante l’Immacolata, realizzata a Napoli dallo scultore Arcangelo Testa nel 1855, e l’altra raffigurante San Francesco.


Altare di Maria SS. Del Bosco (Altare Maggiore)

L’altare, di grandi dimensioni, è posizionato al centro della zona del presbiterio, sopraelevato rispetto alla quota del pavimento da quattro scalini in marmo Rosso di San Vito Lo Capo. É dedicato alla Vergine Maria SS. Del Bosco e sostituì un precedente altare in legno scolpito. Si tratta di un opera del tardo secolo XVIII che, per le forme semplici e lineari, per la mancanza di una ricca ed articolata decorazione scultorea e per la prevalenza di motivi ornamentali ispirati alle forme del cerchio, del quadrato e del rettangolo, testimonia del cambiamento di gusto che in quegli anni stava portando ad un abbandono dei motivi barocchi a favore di forme più sobrie e di ispirazione classica. L’altare, in marmo bianco con intarsi in pietre ornamentali colorate, è costituito nella parte bassa da una mensa leggermente sporgente, con ai bordi delle paraste a forma di mensola che inquadrano il tondo centrale con il simbolo della croce. Ai fianchi della mensa troviamo due semplici corpi laterali, ornati da lastre rettangolari in marmo colorato. Nella parte alta invece abbiamo un alto attico, posto al di sopra di un gradino, con al centro il tabernacolo a forma di tempietto, con paraste e timpano triangolare, impreziosito dalla presenza del diaspro di Cammarata, quale pietra decorativa. Sopra l’altare è collocata una tela ovale, di discreta fattura, inserita all’interno di una cornice in marmo nero, ornata anche, nella parte alta, da motivi scultorei di tipo floreale e naturalistico, e da un medaglione con all’interno una iscrizione, in basso.


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Santuario di Maria SS. Del Bosco

Fig. 1 Prospetto Principale

UBICAZIONE

: Sorge isolata nella periferia del paese, nei pressi della chiesa di San Francesco e dell’ospedale, ex convento francescano

DATAZIONE

: Inizio del secolo XVII (1° chiesetta) Metà del secolo XVIII (edificio attuale)

COMMITTENZA: Devozione popolare AUTORE

: Silvestro Gugliara, architetto (edificio attuale)

BIBLIOGRAFIA : Giuliana G., 1967, pp. 207-209 Conti E., 1977, pp. 32-35; p. 45; pp. 82-84 Cincotta R.-Pepi C., 1980, pp. 73-76 Marsiano A., 1989, p. 28 Marsiano A., 1995, p. 88; pp. 101-105 Disca R., 1999 Arcadipane G., 1999 Giugno G., 2002


Breve cenno storico: La costruzione della chiesa di Maria SS. Del Bosco, Patrona di Niscemi, è strettamente legata al ritrovamento del quadro della Madonna, avvenuto nel 1599 in una zona boschiva del feudo, a nord-ovest del centro abitato. Sarebbe stato un pastore, Andrea Armao, a rinvenire la sacra immagine, mentre pascolava dei buoi nei pressi di una sorgente d’acqua. Il quadro fu subito trasportato nella chiesetta della masseria del feudo di Niscemi e qui rimase custodito fino a quando lo stesso pastore non raccolse, mediante elemosine, la somma sufficiente per la costruzione di una chiesetta sul luogo del ritrovamento, destinata a custodire l’immagine della Madonna. Anche questa, come quasi tutte le altre chiese della città, fu danneggiata dal terremoto del gennaio del 1693, tuttavia, riparata per quanto possibile, fu riaperta al pubblico e così rimase fino al 1741. Ma la sua struttura era ormai troppo malandata e quindi era facile per i ladri introdursi nel tempio e rubare gli oggetti preziosi custoditi all’interno quale voto alla Madonna da parte dei fedeli. Si era ormai deciso di riedificare la chiesa quando i frati francescani si proposero come custodi del quadro e dei beni della chiesa, che così furono collocati nel nuovo tempio che questi si erano da poco costruiti. Ma dopo appena dieci anni, a causa dell’egoismo e dell’arroganza dei frati, si decise di riappropriarsi del quadro e dei beni della chiesetta e di realizzare un nuovo Santuario dedicato esclusivamente alla Patrona, cui il popolo era molto legato e sinceramente devoto. La chiesa fu costruita, sullo stesso sito della primitiva chiesetta, tra il 1749 ed il 1758, con il contributo della popolazione e secondo il progetto redatto molto probabilmente dal capomastro Silvestro Gugliara, nativo di Caltagirone ed autore anche del progetto per la Chiesa dell’Addolorata di Niscemi. Questi nel suo stile si ispirava alle architetture di Rosario Gagliardi, tanto che da più parti è stata avanzata l’attribuzione al ben più famoso architetto Siracusano. In epoca recente la chiesa è stata notevolmente trascurata tanto da necessitare di un radicale intervento di restauro delle strutture, soprattutto della volta, della copertura e delle strutture murarie. Così, con un finanziamento dell’Assessorato regionale ai lavori pubblici e sotto la sorveglianza della Soprintendenza ai beni culturali ed ambientali, sono stati eseguiti opportuni lavori di rifacimento del tetto, di riparazione del portale principale e della finestra soprastante e di consolidamento delle murature. É stato inoltre realizzato un sistema di drenaggio nel lato orientale per preservare le fondamenta dall’umidità. All’interno sono stati restaurati gli stucchi e le pitture che decorano la chiesa. Nella cripta sono stati inoltre restaurati il pozzo e l’altare, rifatto l’intonaco e sostituito il pavimento. Dopo questa serie di lavori, protrattisi per alcuni anni, la chiesa è stata riaperta al culto il 27 marzo 1991 dal Vescovo di Piazza Armerina, Mons. Vincenzo Cirrincione, continuando così ad essere meta di ininterrotti pellegrinaggi da parte dei fedeli di Niscemi, particolarmente devoti alla Madonna.


Descrizione edificio: La chiesa è ad una sola navata di forma ellittica, leggermente allungata. Si tratta di una struttura che, per la perizia e l’abilità tecnica con cui fu realizzata superando la forte irregolarità del terreno e convogliando le vene d’acqua, che altrimenti avrebbero potuto minare la stabilità della fabbrica, può definirsi un capolavoro di idraulica e di statica. Il complesso architettonico appare molto elegante perchè completamente isolato. La facciata, in stile barocco, è realizzata interamente in pietra squadrata e presenta una coppia di lesene composite, su basamento, lungo gli angoli. Queste sostengono la trabeazione soprastante ed inquadrano il portale in pietra e la finestra, con l’icona della Madonna, riccamente decorati da paraste, trabeazione e volute. Fig. 2 Vista dell’interno Sopra l’ordine gigante di lesene imposta la struttura del campanile, su attico e affiancata da volute, che costituisce in alto il coronamento del prospetto. All’interno la chiesa è dotata di tre altari, in marmi policromi, dedicati alla Madonna del Bosco, quello maggiore, a San Giovanni Neupomaceno, quello di destra, e a San Benedetto, quello di sinistra. Gli altari laterali sono arricchiti dalla presenza di quadri ad olio di discreta fattura. Le decorazioni pittoriche del tempio, in finto marmo, furono eseguite dal pittore di Caltagirone Giuseppe Barone nel 1927. Questi, su incarico del procuratore Luigi Malerba, eseguì anche le quattro grandi pitture che raffigurano la guarigione di un bambino moribondo, una processione implorante la pioggia, una scena di terremoto, la desolazione e le preghiere in tempo di siccità. L’artistico lavoro del pittore di Caltagirone però è stato cancellato dai recenti lavori di restauro dell’edificio ed al loro posto oggi si trovano dipinti di fattura grossolana. Sulla volta venne dipinto invece un grande affresco raffigurante il trionfo di Maria nella Gloria del cielo. La cripta sottostante è invece costituita da una sola stanza coperta da una volta a quattro vele. Conserva al suo interno il pozzetto con la vena d’acqua in cui venne ritrovato il sacro velo con l’immagine della Madonna. Vi si trova anche un altare in marmi policromi sopra il quale è stato affrescato un dipinto raffigurante la Madonna che tiene in braccio Gesù Bambino, con nella mano sinistra una sfera che rappresenta il mondo. Sulla volta della cripta sono state dipinte figure di dottori della chiesa ed altri disegni ornamentali. Nel locale adiacente alla chiesa viene custodito il trono portatile, tutto in oro zecchino, fatto costruire a Napoli nel 1830, con il quale ogni annosi porta in processione la sacra immagine della Madonna.


Altare della Madonna del Bosco (Altare Maggiore)

L’altare si trova entro il maggiore delle tre absidi che definiscono il particolare impianto della chiesa, rialzato rispetto alla quota del pavimento da tre gradini con i bordi in marmo Rosso di San Vito Lo Capo. In alto è sormontato da un dipinto ad olio, inserito in una nicchia ad arco, raffigurante il velo con la sacra effige della Madonna, con in braccio Gesù Bambino, tra figure di angeli. Al di sotto della tela, sempre all’interno della nicchia, si trova una specie di armadio in legno con sportelli dove si conserva il sacro velo con l’immagine della Madonna. L’altare ha forme tipicamente barocche. La mensa ha andamento concavo, con ai bordi elementi aggettanti a forma di volute, riccamente decorati da sculture a rilievo e tarsie in marmi policromi. Anche il paliotto è decorato da tarsie in marmi policromi, mentre cornici dalle forme complesse e fastosamente ornate da foglie e volute, realizzate a rilievo nel marmo bianco, inquadrano il motivo centrale, simile ad una sorta di urna sporgente, con figure di angeli ed articolato disegno di ispirazione naturalistica. All’interno di questo motivo ornamentale troviamo un medaglione ovale con una pregevole tarsia marmorea ispirata alla leggenda del ritrovamento della sacra immagine, raffigurante il velo con la Madonna, il pastore inginocchiato ed il bue, che secondo la leggenda rinvenne il velo. Nella parte alta invece il tabernacolo, simile ad un tempietto, con originali paraste a forma di esse e trabeazione curvilinea, è inserito al centro di tre gradini digradanti, decorati da semplici tarsie in marmi colorati.


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Altari di San Giovanni Neupomaceno e di San Benedetto

Si tratta di due altari identici nelle forme, nelle dimensioni e nel tipo di pietre ornamentali colorate utilizzate. Sono collocati nelle absidi laterali, sopraelevati da due gradini in marmo Rosso di San Vito Lo Capo, e differiscono tra loro solamente per la figura del Santo realizzata a rilievo entro il medaglione centrale del paliotto. Non abbiamo notizie storiche precise relativamente alla data di realizzazione degli altari ed alle maestranze che li eseguirono, ma probabilmente si tratta di opere realizzate nel secolo XVIII. Quello di destra è consacrato a San Giovanni Neupomaceno, mentre quello di sinistra è dedicato a San Benedetto. Sopra entrambi gli altari sono presenti dei dipinti ad olio di modesta fattura e raffiguranti sempre i due Santi, inseriti dentro nicchie ad arco con cornici in stucco. Gli altari sono realizzati in marmo bianco, con vivaci tarsie in marmi policromi, e sono costituiti in basso da una mensa sporgente, con ai bordi delle paraste che inquadrano il paliotto. Ai fianchi della mensa piccoli elementi a forma di voluta chiudono orizzontalmente la composizione. Si caratterizzano per le ricche decorazioni a rilievo del paliotto rettangolare, di tipo barocco, ispirate a motivi naturalistici, con volute, foglie e movimentate forme concavo-convesse, che inquadrano l’articolato medaglione centrale. Nella parte alta invece troviamo tre gradini porta candele marmorei e digradanti, decorati da intarsi in pietre ornamentali colorate dalla forma rettangolare allungata.


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Altare della Madonna

L’altare è collocato nella cripta, situata al di sotto della chiesa della Madonna del Bosco, nel luogo in cui ancora oggi si conserva il pozzetto con la vena d’acqua in cui venne ritrovato il sacro velo con l’immagine della Madonna. Proprio di fronte alla cupoletta marmorea che custodisce l’acqua del pozzetto, ritenuta miracolosa, fu realizzato un altare dalle forme barocche, con mensa marmorea in basso e ricca decorazione in stucco, con paraste, volute e cornice curvilinea nella parte alta. Al centro della composizione si trova un dipinto raffigurante la Madonna con in braccio Gesù Bambino, che regge nella mano sinistra una sfera rappresentante il mondo. L’altare ha piccole dimensioni ed è costituito da una mensa in marmo bianco con paliotto rettangolare, inquadrato ai lati da paraste. Sopra la mensa si trovano tre semplici gradini porta candele, privi di tabernacolo. L’intera opera è decorata da tarsie in marmi policromi di tipo geometrico e da complessi rilievi scultorei il cui motivo ornamentale si ispira a quello di altri paliotti simili, presenti a Niscemi nella Chiesa Madre e nella Chiesa di San Giuseppe. É probabile quindi che tutti questi altari siano stati realizzati dalle medesime maestranze e nello stesso arco di tempo. Al centro del paliotto è stato realizzato un medaglione, dalle forme rotondeggianti, con all’interno la figura della Madonna con Gesù Bambino, realizzata a rilievo. Tutto intorno il rilievo marmoreo si caratterizza per la presenza di volute e di foglie.


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Chiesa di San Giuseppe

Fig. 1 Prospetto Principale

UBICAZIONE

: Sorge nei pressi della piazza principale del paese, in via V. Crescimone

DATAZIONE

: Secolo XVIII (1째 chiesetta - edicola votiva) Inizio del secolo XIX (edificio attuale)

COMMITTENZA: Devozione popolare AUTORE

: Ignoto

BIBLIOGRAFIA : Giuliana G., 1967, p. 214 Marsiano A., 1995, p. 89; pp. 122-123 Pepi S., 1996


Breve cenno storico: La chiesa di San Giuseppe è tra le più recenti di Niscemi e tra le poche a non essere il frutto della ricostruzione post - terremoto, che riguardò gran parte dell’edilizia religiosa cittadina nel secolo XVIII. La sua realizzazione nelle forme attuali sarebbe avvenuta intorno agli anni 18151818, grazie al contributo del popolo, non lontano dalla piazza principale del paese (Piazza Vittorio Emanuele III), e quindi dalla Chiesa Madre e dal Palazzo Comunale. Altre ipotesi storiche tendono invece a retrodatare l’edificio, collocandone la costruzione intorno agli ultimi decenni del secolo XVIII. Da alcuni documenti del secolo XVIII si desume comunque che il quartiere in cui oggi sorge la chiesa veniva già allora denominato San Giuseppe, ed inoltre una via era sicuramente dedicata al Santo. É probabile quindi che, pur non esistendo ancora la chiesa, in questo luogo si trovasse già nel XVIII secolo una cappella, o edicola, o tabernacolo, dedicato al Santo, e che successivamente sia sorta la chiesa in luogo della precedente cappella votiva. Il 14 ottobre 1908 la chiesa di San Giuseppe fu eretta parrocchia succursale della Matrice, dal momento che questa da sola era insufficiente a soddisfare i bisogni religiosi di una popolazione notevolmente accresciuta di numero. Nell’ottobre del 1919 divenne parrocchia autonoma ed il 1° dicembre del 1948 ottenne il riconoscimento civile. Abbiamo notizia del fatto che nel 1932 venne effettuata una decorazione molto semplice di tutto l’intereno, mentre i locali della sacrestia furono rimodernati, allargati ed utilizzati per la costruzione della casa canonica. Nei decenni successivi la chiesa rimase a lungo trascurata per cui, a causa del deterioramento delle strutture e degli apparati decorativi, si rese necessario un ampio lavoro di ristrutturazione dell’edificio. I lavori di restauro furono iniziati nel 1986 grazie all’attività del parroco don Giuseppe Giugno, il quale raccolse presso i fedeli la somma necessaria. Furono così realizzati il consolidamento delle strutture murarie e i restauri dell’interno, con un discutibile intervento di risistemazione degli altari, del pavimento e delle decorazioni.


Descrizione edificio: Si tratta di una piccola chiesa a navata unica, con impianto rettangolare e coperta da una volta a botte con vele sulle finestre. La facciata, molto semplice, ha un ordine gigante di paraste binate, su alto basamento, che sostengono il coronamento, costituito dalla trabeazione, su cui impostano la torre con il campanile e quella con l’orologio, entrambe ornate da lesene. La composizione si chiude con una sorta di timpano triangolare che imposta sulle due torrette, congiungendole tra loro. Il motivo centrale del prospetto è costituito dall’artistico portale, con paraste e timpano triangolare, e dalla finestra ad arco, posta in asse con il portale stesso. L’interno è illuminato da cinque finestre, Fig. 2 Vista dell’interno di cui due sul lato destro e tre su quello sinistro. É caratterizzato da un ordine di lesene composite che sostengono una trabeazione, con cornice sporgente, che percorre tutto il perimetro della chiesa. La cornice, in forte aggetto, è addirittura percorribile, grazie anche alla presenza di una ringhiera in ferro. Lo spazio del presbiterio, di forma rettangolare e leggermente sopraelevato rispetto alla navata, è sottolineato da due setti murari sporgenti e coperto da una volta a padiglione con vele decorate da lacunari. Le lesene, nelle pareti della navata, inquadrano le nicchie ad arco che contengono gli altari laterali marmorei. Vi sono nel tempio cinque altari, compreso quello maggiore dedicato a San Giuseppe. Il loro aspetto odierno è tuttavia il frutto di una recente risistemazione, eseguita nel corso dei lavori di restauro dell’edificio del 1986. In questa occasione fu rifatto anche il pavimento e rinnovate tutte le decorazioni, per cui l’interno oggi ci appare fortemente differente da quello che doveva essere in origine. Gli altari della parete di destra, in marmi policromi, sono dedicati a San Giovanni Maria Vianney, prima dedicato a San Sebastiano Martire, e all’Annunziata. Quelli lungo la parete di sinistra, sempre in marmi policromi, sono invece dedicati alla Madonna di Fatima, prima intitolato a San Giacomo, ed al Cuore di Gesù. Un soppalco dietro la porta di ingresso della chiesa sostiene un piccolo organo. Al centro del soffitto inoltre troviamo affrescato un dipinto raffigurante la Sacra Famiglia con San Giuseppe, la Madonna e Gesù Bambino in una bottega da falegname.


Altare di San Giuseppe (Altare Maggiore)

Si tratta in realtà di un paliotto rettangolare originariamente facente parte di un altare marmoreo completo, probabilmente del secolo XVII, collocato all’interno della stessa chiesa di San Giuseppe, oppure proveniente da un altro edificio religioso. Oggi il paliotto è inserito all’interno di una cornice in marmo bianco di recente realizzazione, e funge da mensa per le celebrazioni eucaristiche che si svolgono nel tempio. Fu collocato in questa posizione in occasione dei lavori di restauro delle strutture e di risistemazione degli interni della chiesa, eseguiti nel 1986. La cornice marmorea è caratterizzata da piccole e semplici volute laterali a sostegno della mensa soprastante. Il paliotto invece, dalle forme tipicamente barocche, presenta una ricca decorazione eseguita, secondo la tecnica a mischio, inserendo le lastre in marmi policromi entro incavi ricavati nella pietra bianca. Al centro il simbolo della croce, in pietra gialla, è circondato da un complesso disegno di ispirazione naturalistica, simmetrico, con volute, foglie e forme concavo-convesse. Le pietre ornamentali che decorano la lastra rettangolare si caratterizzano per la vivacità dei colori. Si tratta in questo caso di alcuni tra i marmi colorati più diffusi in età barocca e più utilizzati in questo genere di opere, ovvero il Libeccio di Trapani, il Rosso di Francia, il Giallo di Castronovo ed il Nero Portoro.


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Altare dedicato al Cuore di Gesù

L’altare è il secondo della parete di destra della navata, rispetto all’ingresso principale, posizionato all’interno di una nicchia ad arco. Probabilmente in origine costituiva l’altare maggiore della chiesa, collocato sulla parete di fondo del presbiterio, dove oggi si trova un altare marmoreo di recentissima fattura. L’aspetto attuale dell’altare risale al 1986, quando furono eseguiti i lavori di restauro della chiesa e di risistemazione di tutti gli altari dell’edificio. In quella occasione alcuni antichi elementi in marmo, che costituivano originariamente un altare del secolo XVIII, sono stati inseriti entro un nuovo disegno architettonico, con l’aggiunta di nuovi elementi marmorei. Possiamo dividere così l’altare in due parti. La parte inferiore è costituita da una antica mensa con paliotto, decorato da intarsi in marmi policromi, e paraste ai bordi, che faceva parte di un precedente altare. La parte superiore, con il tabernacolo, è invece quella di recente realizzazione, dalle forme semplificate e lineari. La mappatura dei litotipi presenti è stata eseguita solo sulla parte più antica. Come detto precedentemente il paliotto è ornato da una decorazione a mischio nella quale sono prevalentemente usate pietre rosse e verdi. Il medaglione centrale contiene all’interno il simbolo della croce, mentre complesse cornici in leggero rilievo, con volute e linee concave alternate a linee convesse, costituiscono il motivo decorativo del paliotto.


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PIAZZA ARMERINA

Chiese con altari in marmi policromi 1. Cattedrale di Maria SS. Delle Vittorie 2. Chiesa di San Rocco (Fundrò) 3. Chiesa di Santo Stefano 4. Chiesa di San Giovanni Evangelista


Chiesa di Maria SS. delle Vittorie (Chiesa Cattedrale)

Fig. 1 Prospetto Principale

UBICAZIONE

: Prospetta su di una piazza, detta Piazza Duomo, su cui si affacciano anche il Palazzo Vescovile e il Palazzo Trigona della Floresta

DATAZIONE

: MetĂ del secolo XIV (primo edificio) Secolo XVII-XVIII (edificio attuale)

COMMITTENZA: Barone Marco Trigona e la moglie Laura de Assoro (edificio attuale) AUTORE

: Orazio Torriani, architetto (progetto originario) A. Buonamici, L. De Luca, A. Di Benedetto, G. La Rosa (realizzazione progetto del Torriani) F. Conti, G. Serafini, F. Battaglia (cupola)

BIBLIOGRAFIA : Ragona A. Giuliana G., 1967, pp. 56-59 Contrafatto A., 2000, pp. 39-50


Breve cenno storico: L’attuale Chiesa Cattedrale di Piazza Armerina sorge sul luogo in cui precedentemente si trovava l’originaria Chiesa Madre della città, realizzata nel XIV secolo e sempre dedicata a Maria SS. Delle Vittorie. Il precedente tempio, con impianto basilicale a tre navate, era stato innalzato dopo il miracoloso rinvenimento dell’immagine sacra della Madonna delle Vittorie, avvenuto in occasione della tremenda peste del 1348. Dell’edificio trecentesco non rimane più nulla, tranne la maestosa torre campanaria, realizzata in due riprese nel 1517 (parte inferiore) e nel 1578 (parte superiore), e l’arco della Cappella Trigona, scolpito da Antonio Gagini nel 1594 e rimontato nella nuova costruzione a decorazione del battistero. La prima Chiesa Madre fu infatti demolita per fare posto all’edificio odierno, in modo da adempiere alle volontà del Barone Marco Trigona e della moglie Laura de Assoro, i quali avevano elargito alla loro morte una rilevante somma per l’edificazione di un più sontuoso tempio, nel quale anche essere sepolti. Nel testamento si nominava la Chiesa Madre erede universale del patrimonio del Barone e veniva dato incarico a dei Fidecommissari di eseguire l’incarico testamentario. Come voleva il testatore nell’anno stesso della sua morte (1598) i Fidecommissari invitarono alcuni famosi architetti a fornire dei progetti per la nuova chiesa. Tra i primi ad esprimersi sulla nuova costruzione abbiamo Francesco Zaccarella e Giulio Lasso, quest’ultimo architetto regio di Palermo ed autore dei Quattro Canti. Entrambi gli architetti avrebbero fornito, in occasione delle loro visite a Piazza, dei progetti ai quali però non fu dato seguito, anche a causa della lentezza ed incompetenza dei Fidecommissari. Fu lo stesso Vicerè, informato di ciò, ad inviare un uomo di fiducia, Cataldo Fimia, giudice della Gran Corte, affinchè sovraintendesse all’attività dei Fidecommissari. Lo stesso Fimia fece venire da Messina i valenti architetti Natale Masucci, Giovanni Maffei e Simone Gullì. Questi approntarono un loro progetto che, una volta approvato dal Fimia e dai nobili locali, si iniziò ad eseguire nel 1605, affidando la direzione dei lavori al Maffei. La pianta della nuova costruzione era basilicale, ampia e spaziosa e si estendeva attorno alla vecchia chiesa lasciandola all’interno. Il nuovo tempio aveva un orientamento opposto rispetto a quello oggi esistente. I lavori però si fermarono ben presto, nel 1609, quando erano ancora state solo realizzate le fondazioni di tre lati. Ripresi nel 1621, dietro i suggerimenti dell’architetto gesuita Tommaso Blandini di Mineo, e secondo il progetto Maffei-Masucci-Gullì, i lavori furono nuovamente interrotti fino al 1627, quando venne incaricato della direzione della fabbrica l’architetto romano Orazio Torriani, allievo di Domenico Fontana, chiamato dal nuovo Vescovo di Catania Mons. Innocenzo Massimi, anche egli romano. Il Torriani ridisegnò la pianta ristabilendo il vecchio orientamento con il prospetto principale rivolto ad occidente. Il nuovo progetto prevedeva la realizzazione di un edificio di tipo basilicale, ad una sola navata e con cappelle laterali tra loro comunicanti. La direzione dei lavori, secondo il progetto dell’architetto romano, fu affidata a Gian Maria Cappelletti, che rimarrà in carica fino al 1632, ed al


messinese Giovan Giacomo Costa. Morto il Cappelletti, i Fidecommissari chiamarono a dirigere i lavori l’architetto lucchese Francesco Buonamici. Questi guidò la fabbrica per ventitre anni, lasciando l’incarico nel 1657. Il Buonamici, pur adeguandosi alla pianta progettata dal Torriani, modificò il disegno iniziale trasformandolo nelle linee attuali. Suo successore fu il capo maestro locale Leonardo de Luca, abile scalpellino, cui si deve anche la scultura del portale principale del nuovo tempio con colonne tortili riccamente ornate. Il De Luca diresse i lavori del Duomo di Piazza fino al 1666, anno in cui, per mancanza di fondi, la costruzione fu sospesa. Si riprese a costruire solo nel 1705, seguendo i disegni del Buonamici, Fig. 2 Vista del portale di ingresso revisionati dall’architetto catanese Alonzo Di Benedetto, incaricato dal Vescovo di Catania Mons.Andrea Riggio. La costruzione del prospetto della chiesa nel 1719 era giunto all’altezza dove ora si trova l’epigrafe. A dirigere i lavori di intaglio e di muratura troviamo il maestro messinese Giuseppe La Rosa, che li portò a compimento nel 1740. Nei due anni successivi furono realizzati i lavori di decorazione dell’interno e il 22 ottobre 1742 il Vescovo di Siracusa Don Matteo Trigona consacrò il tempio. Rimaneva però ancora da realizzare la cupola. Fu dato incarico nel 1758 di preparare i disegni esecutivi sui progetti del Torriani e del Buonamici all’ingegnere Don Francesco Conti. I lavori iniziarono nel 1760 sotto la guida dell’architetto catanese Giuseppe Serafino. La nuova costruzione però si fermò al tamburo. Ad ultimare l’opera provvide qualche tempo dopo l’architetto catanese Francesco Battaglia che modificò il progetto iniziale della cupola innalzando ulteriormente il tamburo. Lo stesso Battaglia diresse i lavori portandoli a compimento nel 1768. Ultima opera architettonica realizzata nella chiesa è stata nel 1881 l’inserimento delle scalinate, che danno accesso al portale di ingresso, su progetto dell’architetto locale Giuseppe Giunta Bartoli.


Descrizione edificio: L’edificio, con il prospetto principale rivolto ad occidente, ha impianto basilicale a tre navate, divise da pilastri, e profondo transetto. Le navate ed il transetto sono coperte da volte a botte mentre una imponente cupola su pennacchi sferici si innalza in corrispondenza dell’incrocio della navata con il transetto. All’esterno la facciata si articola su due livelli, raccordati da volute, caratterizzati dalla presenza di due Fig. 3 Vista dell’interno ordini di paraste in pietra squadrata, dalle linee semplici ed aderenti al linguaggio aulico del manierismo architettonico romano della fine del ‘500. La composizione è impreziosita dalla presenza di un portale in pietra, con colonnine tortili riccamente decorate, opera dello scultore locale Leonardo de Luca, e di una grande finestra rettangolare posta in asse con il portale. Su un fianco del prospetto, ed in parte inglobato in questo, troviamo il maestoso campanile a torre, retaggio dell’edificio precedente, dalle forme gotico-catalane nella parte bassa e cinquecentesche nei due livelli più alti. All’interno coppie di paraste corinzie inquadrano le arcate, che separano le navate, e sostengono la trabeazione e la cornice al di sopra della quale si trovano le aperture, che illuminano lo spazio centrale, e la volta a botte lunettata di copertura. Le pareti sono ornate da stucchi realizzati dal maestro siracusano Gaetano Signorelli nel 1870, in sostituzione delle decorazioni preesistenti. Sulla destra dell’ingresso, appena entrati si può ammirare l’arco in alabastro che inquadra il fonte battesimale, opera di Antonuzzo Gagini della fine del Cinquecento. L’opera faceva parte della cappella Trigona, presente nella vecchia Matrice e fu ricollocata in questo luogo dopo la costruzione del nuovo tempio. Tra i numerosi dipinti che la chiesa possiede ricordiamo la pala dell’Assunta, realizzata dal pittore fiorentino Filippo Paladini nel 1612, e la tela raffigurante il Martirio di Sant’Agata, attribuito al pittore veronese Jacopo Ligozzi che lo avrebbe realizzato nei primi anni del secolo XVII. Di grande interesse artistico è la croce lignea dipinta, opera della fine del XV secolo ed attribuita all’artista convenzionalmente noto come “Maestro della Croce di PiazzaArmerina”. L’altare Maggiore, in pietre dure, fu eseguito dal maestro palermitano Filippo Pinistri su disegno dell’architetto Giuseppe Venanzio Marvuglia, pure palermitano. Altri altari in marmi policromi di età barocca decorano gli altari laterali. Il Tesoro del tempio possiede inoltre numerose e preziosissime opere di oreficeria ed argenteria tra cui la custodia argentea della Madonna del Vessillo, datata al 1627.


Altare di San Bartolomeo (Altare Famiglia Trigona)

L’altare è posizionato nella navata di destra (rispetto all’ingresso) ed è il secondo di questo lato, immediatamente prima dell’ingresso laterale e del transetto. Si tratta di una intera parete rivestita da marmi policromi dai colori vivaci e realizzata nella seconda metà del secolo XVIII per volontà della Famiglia Trigona. É dedicato a San Bartolomeo Abate e costituito da una mensa centrale, sovrastata da una grande pala raffigurante il Santo, con cornice in marmo nero Portoro e bianco, inquadrata da una struttura architettonica, con semicolonne su basamento, che sostengono la trabeazione conclusiva. Al centro della trabeazione troviamo inoltre un grande stemma con sotto l’iscrizione relativa alla dedica ed alla committenza dell’opera. L’altare vero e proprio, sopraelevato da un gradino con i bordi in marmo rosso di San Vito Lo Capo, ha mensole inclinate con volute che inquadrano la parte centrale, caratterizzata da un elemento scultoreo in aggetto, dalle forme rotondeggianti e decorato da rilievi scultorei a motivo floreale. Le pietre ornamentali colorate sono inserite entro un telaio in marmo bianco di Carrara. I due gradini sopra la mensa invece contengono una serie di reliquie di Santi, custodite dentro piccole nicchie chiuse da vetri. Proprio per sottolineare la presenza di tali tesori i gradini sono stati rivestiti con pietre dure e diaspri, riservate sempre alle parti più rilevanti della composizione, perchè considerate più preziose e di maggiore pregio artistico.


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Altare dell’Assunta

L’altare occupa la parete del transetto di destra, rispetto all’altare maggiore, ed è collocato, sopraelevato dalla quota del pavimento della chiesa da quattro gradini, entro un ampio recinto costituito da una balaustra marmorea. É sovrastato dalla grande pala raffigurante la Madonna Assunta, opera del famoso pittore fiorentino Filippo Paladini, che la dipinse nei primi anni del secolo XVII. Alla base dell’altare è incisa una iscrizione contenente probabilmente informazioni sull’esecutore dell’opera, sul committente e sulla sua datazione. Tuttavia tale iscrizione è di difficile decifrazione ed inoltre incompleta in seguito ad un non perfetto rimontaggio dei vari elementi marmorei che costituiscono la struttura. L’altare infatti non era originariamente situato in questo luogo, ma vi fu collocato solo in seguito, quando la chiesa Madre fu finalmente ultimata nel secolo XVIII. L’opera è costituita, secondo quella che è la tecnica a marmi mischi, da un supporto in marmo bianco di Carrara inciso, per accogliere le lastre di marmi policromi, e riccamente scolpito. Ha grandi dimensioni ed una originale forma convessa entro cui si innesta nella parte centrale la mensa, con ricco paliotto rettangolare decorato da rilievi scultorei. Nella parte superiore troviamo tre gradini con al centro il tabernacolo affiancato da volute. Ancora più in alto poi, quale elemento di chiusura della composizione, è collocata una elegante struttura, simile ad un tempio ad impianto circolare, con colonne libere che sostengono la trabeazione ed il baldacchino conclusivo.


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Altari: S.Antonio,Annunciazione, Signore della Pietà, S. Filppo

Si tratta di quattro altari posizionati lungo le navate laterali. Tre si trovano nella navata di sinistra (Annunciazione, Signore della Pietà, S. Filippo) ed uno invece in quella di destra (S.Antonio), rispetto alla porta di ingresso principale. Sono tra loro identici nelle forme e dimensioni, differendo solo in alcuni piccoli dettagli, e tutti arricchiti dalla presenza in alto di dipinti settecenteschi di buona fattura, posti entro cornici in marmo nero Portoro. Pur non conoscendone la data di realizzazione è probabile che siano databili al secolo XVII. Altrettanto probabile è che siano appartenuti ad altri edifici religiosi, oppure alla precedente chiesa Madre trecentesca, e ricollocati in questo luogo solo in seguito all’ultimazione della nuova chiesa Madre. Sono costituiti in da una struttura in marmo bianco di Carrara incisa per fare posto alle lastre in marmi policromi che impreziosiscono e ravvivano la composizione (in alcuni casi si tratta di marmi antichi di reimpiego provenienti dalla Villa del Casale). La parte centrale della mensa è in aggetto, caratterizzata da forme rotondeggianti, dovute all’andamento concavo - convesso della composizione, e da uno stemma o medaglione centrale rotondo, dalla ricca cornice. Ai fianchi dell’altare troviamo mensole inclinate ornate da volute. Sopra la mensa si trovano due gradini porta candele originariamente inquadrati da due piccoli vasi marmorei, oggi presenti solo in uno degli altari e mancanti negli altri. Solo uno degli altari è dotato di un piccolo tabernacolo ligneo, mentre un altro presenta una sovrastruttura in legno contenente l’effige del Signore della Pietà


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Chiesa di San Rocco (Fundrò)

Fig. 1 Prospetto Principale

UBICAZIONE

: La chiesa prospetta sulla Piazza Garibaldi, annessa all’edificio che oggi ospita il Palazzo Comunale (ex convento dei frati benedettini)

DATAZIONE

: Prima metà del secolo XVII

COMMITTENZA: Ignota AUTORE

: Ignoto

BIBLIOGRAFIA : Contrafatto A., 1999, pp. 106-108 Pirri R., 1733, pp. 1217-1224


Breve cenno storico: Le notizie relative alle vicende storiche e costruttive della chiesa di San Rocco sono pochissime e tali da consentire solo di tracciare un breve profilo cronologico dell’edificio. La chiesa è stata realizzata a partire dal 1613 ai piedi della salita che conduce alla Cattedrale, nel cuore politico e religioso della città vecchia. Qui infatti si trova il vecchio Palazzo Comunale, oggi sede museale, ed il nuovo Palazzo Comunale, nei locali dell’ex convento dei Padri Benedettini, mentre sempre nelle vicinanze troviamo il collegio dei gesuiti, con la chiesa di Sant’Ignazio, ed il convento dei Domenicani, oggi sede del seminario diocesano. Fu nel 1622 che la chiesa venne affidata ai Padri Benedettini, provenienti dalla abbazia di Fundrò, i quali ottennero di stanziarsi in questo luogo per costruire il loro nuovo convento. Il convento che prima occupavano, situato nel feudo di Fundrò, tra PiazzaArmerina ed Enna, e più volte oggetto di contesa tra le due città, era infatti andato distrutto in seguito ad un incendio. I frati allora, abbandonato l’antichissimo monastero, citato anche dallo storico netino Rocco Pirri nella sua “Sicilia Sacra” con il nome di Santa Maria di Fundrò, decisero di stabilirsi in città. La chiesa, dedicata a San Rocco, proprio perchè affidata ai frati dell’abbazia di Fundrò, cominciò ad essere chiamata dalla popolazione “Fundrò” e tutt’oggi conserva questa denominazione presso i fedeli.


Descrizione edificio: La chiesa è ad una sola navata coperta da una volta a botte. Il prospetto principale si presenta dalle linee tipicamente barocche, caratterizzato da una muratura in laterizio contenuta entro due possenti cantonali in pietra squadrata a forma di lesene su alto basamento, e chiusa da un semplice timpano triangolare. Su un fianco della facciata sorge inoltre la torre campanaria, adiacente al monastero, con aperture ad arco in Fig. 2 Vista dell’interno sommità. L’elemento di maggiore interesse della composizione è costituito però dal monumentale portale in pietra, posto al termine di una ripida scalinata e sormontato da una finestra rettangolare, collocata in asse con esso. La porta di ingresso ad arco infatti è affiancata da coppie di paraste su basamento dalla forma inusuale e dalle ricche decorazioni a rilievo. Decorazioni a rilievo sono presenti anche sugli stipiti della finestra soprastante, caratterizzata dalla continuità strutturale con il portale a cui è collegata da una cornice rettangolare, fiancheggiata da volute e guglie. Quello che maggiormente colpisce è l’evidente sproporzione sia dimensionale che formale tra il portale e gli altri elementi della facciata. L’interno è scandito dalla presenza di un ordine di paraste leggermente aggettanti che inquadrano le nicchie ad arco, contenenti i quattro altari marmorei della navata laterale tra loro identici. L’ordine architettonico si chiude con una pesante trabeazione, con cornicione aggettante, su cui imposta la volta a botte di copertura della navata. La zona del presbiterio, sopraelevata rispetto alla navata, è separata da questa da pilastri sporgenti, che sostengono l’arco trionfale, e da una balaustra marmorea. L’abside che conclude l’impianto del tempio , così come tutta la chiesa, è decorato da stucchi e contiene l’altare maggiore in marmi policromi. La chiesa custodisce inoltre alcuni buoni dipinti del 1600 ed una madonna marmorea proveniente probabilmente dall'antica Fig. 3 Vista del portale di ingresso sede dei frati Benedettini.


Altare Maggiore

L’altare, di grandi dimensioni, occupa la parete principale dell’abside maggiore, posto alla base della nicchia, decorata da una ricca cornice in stucco con dorature, contenente una statua della Madonna con in braccio Gesù Bambino. É sopraelevato rispetto al pavimento dell’abside da tre gradini in marmo rosso di San Vito Lo Capo ed ha andamento leggermente concavo. É realizzato interamente con uno tra i più decorativi e famosi marmi siciliani utilizzati in età barocca, ovvero il Libeccio di Trapani. Il basamento e le cornici che marcano i vari livelli della composizione sono invece realizzati in un marmo giallo proveniente da Castronovo di Sicilia. L’altare ha una mensa dall’andamento concavo, con ai lati mensole con volute ed una urna aggettante nella parte centrale, dalla forma rotondeggiante. Qui troviamo anche un elemento scultoreo in marmo bianco, raffigurante delle teste di angeli avvolte da una nube, ed un tondo ornato da un frammento di marmo Verde antico, di reimpiego e probabilmente proveniente dalla Villa Romana del Casale. Ai fianchi della mensa due corpi laterali chiudono la composizione orizzontalmente e sostengono assieme a questa la struttura soprastante, costituita da tre gradini, di cui quello centrale notevolmente più alto degli altri due. Al centro, nella parte alta, è posto poi il tabernacolo a forma di tempietto, con paraste a sostegno della trabeazione e dell’elemento concavo che funge da coronamento dell’altare lungo il suo asse di simmetria verticale.


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Chiesa di Santo Stefano

Fig. 1 Prospetto Principale

UBICAZIONE

: La chiesa prospetta sulla Piazza Umberto I, di fronte alla Commenda dei Cavalieri di Malta ed al Teatro Garibaldi.

DATAZIONE

: Seconda metĂ del XVI secolo

COMMITTENZA: Ignota AUTORE

: Ignoto

BIBLIOGRAFIA : Giuliana G., 1967, p. 64 Contrafatto A., 1999, pp. 97-101


Breve cenno storico: La chiesa di Santo Stefano sorge nei pressi della antica porta orientale della città, detta porta di San Giovanni, di fronte alla duecentesca Commenda dei Cavalieri di Malta. Il culto del Santo fu introdotto a Piazza Armerina alla fine del secolo XVI e proprio nelle vicinanze della odierna chiesa sorgeva a quel tempo un oratorio dedicato al Protomartire Stefano. La costruzione dell’edificio attuale fu iniziata negli ultimi anni del Cinquecento e portata a termine entro il primo decennio del secolo successivo. Tuttavia già cinquant’anni più tardi, intorno al 1660, la struttura era interessata da nuovi lavori di ampliamento ma anche di abbellimento dell’interno, grazie alla realizzazione di affreschi e stucchi dorati. Sempre in questo periodo la chiesa si arricchì del prospetto attuale, ultimato poco dopo con la realizzazione della struttura del campanile, in pietra intagliata. Nel 1742 così il rinnovato edificio fu inaugurato solennemente alla presenza dell’Arcivescovo Matteo Trigona. Nei primi anni del XVIII secolo due facoltose famiglie, appartenenti alla nobiltà locale, promossero la costruzione di due altari nella chiesa, collocati nella navata, dedicati a San Gregorio Magno e al Crocifisso. Il primo fu voluto dalla famiglia Barabba, mentre il secondo dalla famiglia Solonia. Nuovi lavori interessarono l’edificio e le sue immediate vicinanze nel 1854. In quella occasione infatti fu ricostruito il prospetto nord della chiesa e fu demolita la porzione di muro, appartenente alla cinta difensiva della città medievale, che faceva ad angolo con la porta di San Giovanni. Per colmare il notevole dislivello esistente tra l’ingresso principale del tempio ed il piano stradale fu realizzata nel 1880 l’imponente scalinata in pietra arenaria. Sempre in quell’anno la facciata si arricchì di un nuovo portale in pietra e dell’orologio comunale, posto sopra il portale ed in asse con questo. La chiesa fu dichiarata parrocchia nel 1951. Dopo questa data abbiamo inoltre notizia di alcuni restauri, avvenuti nel 1954, che interessarono in piccola parte l’edificio religioso ma soprattutto gli adiacenti locali parrocchiali.


Descrizione edificio: La chiesa è ad una sola navata coperta da una volta a botte lunettata. Il prospetto principale si presenta semplice nelle linee e caratterizzato da una muratura in laterizio contenuta entro due cantonali in pietra squadrata a forma di lesene su alto basamento. Questi sostengono la trabeazione su cui si innalza la struttura del campanile, in pietra intagliata, costituita da tre aperture ad arco, inquadrate da paraste ed affiancate da volute di raccordo con la facciata, ed abbellita da guglie e pinnacoli. Al termine della ripida scalinata si trova poi l’elegante portale in pietra, che costituisce l’ingresso principale all’edificio, con paraste corinzie che sostengono una cornice dalla forma arcuata. Sopra il portale è stato collocato Fig. 2 Vista dell’interno nel 1880 l’orologio comunale. All’interno l’edificio colpisce per la ricca decorazione a stucco, che ricopre ogni spazio delle pareti e della volta, ed i vivaci colori pastello che assieme alle dorature impreziosiscono la composizione secondo un gusto tipicamente barocco. La navata è ritmata dalla presenza di un ordine di paraste corinzie leggermente aggettanti che sostengono la trabeazione ed inquadrano delle nicchie ad arco entro cui sono collocati glia altari laterali. Sopra la cornice imposta poi la volta di copertura, con lunette, per ospitare le aperture, ed unghiature. Questa è riccamente decorata da affreschi e stucchi raffiguranti soprattutto motivi floreali. Lo spazio del presbiterio, separato dalla navata da una balaustra marmorea e leggermente sopraelevato rispetto alla navata stessa, è definito da quattro pilastri angolari su cui impostano gli arconi della cupola su pennacchi sferici. Sulla parete di fondo del presbiterio si trova inoltre collocato il ricco altare maggiore in marmi policromi. Sul lato opposto risalta invece una imponente porta lignea, ornata da pitture e rilievi, di chiara matrice barocca. Nella navata si trovano anche, contenuti entro le nicchie arcuate, i quattro altari laterali dedicati a Santo Stefano, San Gregorio Magno, San Biagio e al Crocifisso.


Altare Maggiore

L’altare, di grandi dimensioni, è collocato sulla parete di fondo del presbiterio, sopraelevato rispetto alla quota del pavimento della chiesa da tre scalini in pietra grigia. La sua realizzazione, avvenuta probabilmente nel secolo XVII, è legata alla committenza della ricca e nobile famiglia Trigona, come ci testimonia una breve iscrizione incisa nel marmo, sul lato sinistro dell’altare. Realizzato in marmo bianco di Carrara, secondo la tecnica a marmi mischi, è arricchito da pietre ornamentali colorate dai vivaci colori, ed ha forme tipicamente barocche, per il dinamismo, il movimento e la ricchezza decorativa che le contraddistingue. La composizione infatti è caratterizza dall’andamento curvilineo dei suoi elementi, dall’alternarsi continuo di forme concave e convesse, di sporgenze e rientranze. La mensa è affiancata da due corpi laterali convessi, con mensoloni sporgenti, ed è sormontata da un piccolo tabernacolo, con volute laterali e timpano triangolare, e dai tre gradini porta candele. In alto l’altare si chiude con una struttura a forma di tempio, con impianto circolare, caratterizzata dalla presenza di colonnine libere in marmo policromo che sostengono la trabeazione e le volute conclusive. Tale coronamento però non è oggi visibile in quanto nascosto dalla struttura lignea, in finto marmo, che costituisce la nicchia che contiene la statua di Gesù.


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Altare di Santo Stefano

Si tratta del secondo altare della parete di destra della navata, rispetto all’ingresso principale. Non conosciamo la data di realizzazione dell’opera, nè quali furono le maestranze o l’artista che lo eseguì, tuttavia possiamo pensare che l’altare risalga al secolo XVIII, realizzato nel corso dei lavori di abbellimento dell’interno della chiesa, contemporaneamente agli altri altari laterali, commissionati dalle nobili famiglie piazzesi dei Barabba e dei Solonia. Ha un disegno architettonico complesso, dal momento che occupa l’intera parete della nicchia ad arco che lo contiene. Al di sopra dell’altare vero e proprio infatti troviamo una nicchia, contenente la statua del Santo, inquadrata da paraste che sostengono un frontone curvo. Il tutto è riccamente rivestito da marmi policromi, per lo più brecciati, ed ornato da dorature. Nella parte bassa l’altare ha forme semplici. É realizzato in marmo bianco di Carrara con intarsi in pietre colorate, dalle tonalità prevalentemente violacee, e brecciate. La mensa è sporgente e presenta ai bordi due mensole inclinate con volute, che inquadrano il tondo centrale. Ai fianchi della mensa troviamo due piccoli corpi laterali di forma quadrata, mentre in alto i due gradini, di cui il secondo notevolmente più alto, costituiscono una sorta di attico, chiuso da un semplice coronamento dalle forme arrotondate, posto al centro della composizione, lungo il suo asse di simmetria verticale.


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Chiesa di San Giovanni Evangelista

Fig. 1 Prospetto Principale

UBICAZIONE

: Si affaccia sul largo omonimo, nei pressi della chiesa dei Teatini (San Lorenzo) e della Torre del Padre Santo

DATAZIONE

: Seconda metĂ del XIV secolo (monastero e primo oratorio dedicato a San Giovanni) Seconda metĂ del XVI secolo (edificio attuale)

COMMITTENZA: Florenzia Caldarera, nobile piazzese (monastero ed oratorio) Fulgentia Li Gregni, abadessa (edificio attuale) AUTORE

: Ignoto

BIBLIOGRAFIA : Giuliana G., 1967, pp. 65-66 Contrafatto A., 1999, pp. 83-86


Breve cenno storico: La chiesa di San Giovanni Evangelista sorge presso un complesso che, oltre alla chiesa, comprende anche un monastero (oggi ostello della gioventù), fondato nel 1361 per volontà della nobildonna Florentia Caldarera. Questa trasformò la sua casa in monastero di suore benedettine con annesso un oratorio dedicato già allora a San Giovanni. Dopo circa due secoli, l’abadessa Fulgenzia Li Gregni fece trasformare l’oratorio in refettorio, avendo deciso di erigere ex novo una chiesa da dedicare sempre al Santo. I lavori iniziarono nel 1550 e si protrassero a lungo durando fino al 1615, quando, essendo abadessa suor Ottavilla Torricella, furono ultimati e la chiesa aperta al culto. Nel 1721 suor Angelica Cremona fece decorare l’interno dell’edificio con un sontuoso ciclo di affreschi, un nuovo pavimento e delle dorature, inoltre fece costruire all’esterno un campanile. Per gli affreschi ci si rivolse al pittore fiammingo Guglielmo Borremans, il quale vi lavorò, assieme ai suoi allievi, ricoprendo interamente le pareti e le strutture di copertura con pregevoli dipinti raffiguranti scene di vita di santi benedettini. Nel 1785 dobbiamo registrare un avvenimento traumatico per l’edificio. In quell’anno infatti si verificò un incendio che distrusse diverse tele, che allora decoravano la chiesa, e l’altare Maggiore. Quest’ultimo fu ricostruito, in forme più ricche e sontuose, nel 1792 da maestranze catanesi. Nel 1902, avendo il Vescovo M. Palermo ricevuto in eredità dalla Baronessa Carmela Trigona Geraci una somma di denaro da destinare per il bene morale delle fanciulle della città, fece aprire nel monastero una casa delle figlie di Maria Ausiliatrice. Furono così avviate la scuola materna, le scuole elementari, l’oratorio festivo e la scuola di ricamo. Da alcuni anni la struttura, completamente rinnovata, ospita invece l’ostello della gioventù.


Descrizione edificio: La chiesa sorge sul piano del Padre Santo, sul quale si affaccia con due portali laterali, realizzati nel secolo XVIII, che guardano a sud. Proprio il fianco sud della chiesa costituisce il prospetto esterno principale dell’edificio, dal momento che questo sugli altri lati è chiuso dalle strutture del monastero e dal tessuto edilizio circostante. All’esterno quindi i due portali in pietra rappresentano l’unico elemento decorativo di una facciata altrimenti anonima e che contrasta fortemente con il ricchissimo ed ornatissimo interno dal gusto tipicamente barocco. L’edificio all’interno è a navata unica, coperta da una volta a botte lunettata con la zona del presbiterio, alla quale si accede attraverso un arco trionfale a tutto sesto, staccata dalla navata per Fig. 2 Vista dell’interno mezzo di pilastri aggettanti e sormontata da una cupola affrescata. Le pareti della navata sono caratterizzate dalla presenza di nicchie ad arco che contengono sul lato nord gli altari laterali, mentre su quello sud gli ingressi sulla piazza. Il tutto è inserito entro una finta struttura architettonica con paraste corinzie dipinte a sostegno della trabeazione con cornice aggettante. Al di sopra della cornice troviamo l’imposta della volta con le aperture, che illuminano la sala, inserite entro le lunette della copertura. Ogni angolo dell’interno è ricoperto da pregevoli affreschi attribuiti a Guglielmo Borremans ed ai suoi allievi, rappresentanti scene relative alla vita monastica dei Santi Benedettini. Nella cupola è dipinto il mistero dell'Eucarestia, nelle pareti laterali dell'altare maggiore è rappresentata la Natività a sinistra e l'Epifania a destra. Nella volta è rappresentata al centro l'Immacolata, mentre le lunette e i piloni della cupola presentano figure di donne che simboleggiano le virtù. La parete di fronte il grande altare maggiore, in marmi policromi e con statue in marmo bianco di Carrara, è interamente occupata da una ricca Fig. 3 Vista dell’affresco centrale della volta opera di G. Borremans cantoria in ferro battuto dorato.


Altare Maggiore

L’altare, imponente per le dimensioni e per il disegno architettonico, occupa quasi interamente la parete di fondo del presbiterio, sopraelevato rispetto alla quota del pavimento da tre gradini in marmo grigio. Fu realizzato tra il 1792 ed il 1793 dai fratelli Marino, artisti provenienti da Catania, dopo che, a causa di un incendio avvenuto nel 1785, il precedente altare maggiore era andato distrutto. Ha forme sontuose, ma semplici e lineari. É costituito prevalentemente da marmi policromi dai toni verdi e gialli, e caratterizzato da un ricco apparato scultoreo in marmo bianco di Carrara. Pregevoli sono infatti le due statue marmoree, sedute sulle volute sporgenti ai lati, che rappresentano le allegorie della Fede, a sinistra, e della Innocenza, a destra. La composizione si articola in tre livelli, con andamento piramidale: la parte bassa, con al centro la mensa di forma rettangolare affiancata ai lati da semplici corpi laterali, che sostengono le volute sporgenti su cui siedono le sculture; il piano contenente il tabernacolo, con timpano curvo ed affiancato da volute, chiuso orizzontalmente dalle due sculture e caratterizzato da un alto attico; il grande tempio curvo su basamento, con colonne, timpano curvo spezzato e cupola conclusiva, che inquadra la statua del Cristo, posta entro una nicchia. La zona del tabernacolo è impreziosita dalla presenza di intarsi realizzati con pietre ornamentali di maggiore pregio, quali diaspri ed alabastri.


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PIETRAPERZIA

Chiese con altari in marmi policromi 1. Chiesa di Santa Maria Maggiore (chiesa madre) 2. Chiesa del SS. Rosario 3. Chiesa di Santa Maria di Ges첫


Chiesa di S.Maria Maggiore (Chiesa Madre)

Fig. 1 Prospetto Principale

UBICAZIONE

: Sorge lungo la salita che porta al Castello di Pietraperzia, sulla via Tortorici

DATAZIONE

: Secolo XIV (1° Chiesa Madre) Prima metà del secolo XVI (riedificazione) Fine del secolo XVIII (seconda riedificazione)

COMMITTENZA: Giovanni Antonio Barrese, Signore di Piatraperzia (1° Chiesa Madre) Matteo Barrese, Marchese di Pietraperzia (1° riedificazione) AUTORE

: Pietro Trombetta, architetto (2° riedificazione)

BIBLIOGRAFIA : Padre Dionigi, 1776, pp. 244-250 Giuliana G.., 1967, p. 228 Guarnaccia L., 1978 Guarnaccia - Viola, 1993, pp. 113-125 Marotta F., 1999, vol I, pp. 93-98 Marotta F., 1999, vol II, pp. 83-106


Breve cenno storico: Le vicende storiche della Chiesa Madre di Pietraperzia sono alquanto complesse e caratterizzate da continue ricostruzioni ed ampliamenti della struttura iniziale. Possiamo infatti affermare che quello attuale è il terzo edificio realizzato sul sito in questione, nei pressi del castello feudale, o addirittura il quarto se è vero che la prima chiesa sorse al posto di un tempio che alcuni storici farebbero risalire all’età bizantina. Le prime, frammentarie, notizie ci parlano di una chiesa realizzata all’inizio del secolo XIV, su di una precedente moschea o chiesa di età bizantina, e voluta dal barone Giovanni Antonio Barrese, Signore di Pietrapezia. Di questa chiesa rimane oggi la struttura al di sotto della zona presbiteriale, attuale chiesa della Cateva. Quando, agli inizi del XVI secolo, il tempio trecentesco cominciò a minacciare rovina, il Marchese Matteo Barrese si impegnò nella realizzazione di un nuovo e più grande edificio, sempre nel medesimo sito e secondo lo stesso orientamento. Intorno al 1539 così sorse una nuova struttura, sopraelevata rispetto alla precedente che diveniva adesso cripta, al di sotto del presbiterio. Il nuovo tempio nei progetti del Marchese doveva fungere da mausoleo di famiglia, e fu per questo che fece collocare qui (nella zona del presbiterio) alcune delle sepolture dei suoi avi e la propria (mausoleo marmoreo realizzato nel 1523 da Antonello Gagini ). Negli anni successivi la chiesa si arricchì di pregevoli opere d’arte di scultura e pittura come i portali di ingresso all’edificio in marmo bianco, realizzati da Antonello Gagini sempre nei primi decenni del 1500, e la pala d’altare raffigurante l’Incoronazione della Vergine, opera del famoso pittore fiorentino Filippo Paladini dei primi anni del 1600. Dopo quasi tre secoli dalla costruzione della chiesa cinquecentesca, a causa di nuovi cedimenti strutturali e per soddisfare le esigenze di una popolazione divenuta sempre più numerosa, si decise di intraprendere la realizzazione di un ulteriore e più grande edificio. L’idea di costruire un tempio più grande e maestoso è degli ultimi anni del secolo XVIII. I lavori infatti cominceranno intorno al 1792, anche se solo a partire dal 1800 procederanno in maniera spedita. La nuova struttura venne terminata intorno alla metà del XIX secolo e fu realizzata grazie al sostegno economico di numerosi cittadini di Pietraperzia. L’incarico progettuale, attraverso un concorso, fu affidato a Pietro Trombetta, architetto di Caltanissetta ed allievo del Marvuglia; mentre della esecuzione delle strutture fu incaricato il maestro muratore Paolo Varrica, nativo di Palermo. Il Trombetta pensò ad un maestoso tempio ad impianto basilicale, orientato in maniera differente dal precedente, con cupola e prospetto esterno, in stile neoclassico, dotato di pronao e torre campanaria. Tuttavia l’esterno è rimasto incompleto dal momento che non furono mai realizzati il pronao ed il campanile. Gran parte delle opere d’arte contenute nel tempio cinquecentesco furono ricollocate nella nuova chiesa, che si era a sua volta arricchita di stucchi, pitture e dorature; ma, con la demolizione della struttura preesistente molto andò anche distrutto ed irrimediabilmente perduto.


Descrizione edificio: Il tempio che noi oggi ammiriamo è il risultato dell’ultima riedificazione ed ampliamento dell’edificio avvenuti nei primi decenni del secolo XIX su progetto dell’architetto nisseno Pietro Trombetta. La chiesa odierna è di tipo basilicale, a tre navate e con cupola all’incrocio dei bracci dell’impianto a croce latina. Le sue tre navate sono coperte da delle volte a botte, ornate da lacunari, poggianti su pilastri. La navata centrale si caratterizza perchè sopraelevata rispetto alle laterali, in modo da ricevere direttamente la luce dalle aperture che possiede. Un abside, di forma rettangolare, costituisce la terminazione del l’edificio, affiancato ai lati da due cappelle con altari. La facciata in stile Neoclassico fu Fig. 2 Vista dell’interno disegnata dallo stesso Trombetta e realizzata in conci di pietra arenaria. É caratterizzata da tre ingressi, di cui quello centrale maggiore, posti al termine di una scalinata che costituisce il sagrato. La partizione architettonica è semplice e lineare con delle paraste, appena accennate, ad organizzare lo spazio e sostenere la trabeazione del primo livello e l’attico soprastante. Su questo imposta poi la struttura a tempietto con paraste, finestra semicircolare e timpano triangolare che chiude la composizione. Tuttavia il prospetto non fu ultimato dal momento che il progetto originario prevedeva anche un pronao con colonne e timpano triangolare davanti l’ingresso principale, ed una torre campanaria sul fianco della chiesa. Dell’interno si è già accennato in precedenza per quel che riguarda le sue caratteristiche principali. Le navate sono tra loro divise longitudinalmente da cinque pilastri per lato collegati tra loro da archi a pieno sesto sopra cui corre il cornicione. Ancora più in alto sono collocate le aperture, di forma rettangolare, che Fig. 3 Sarcofago marmoreo di Dorotea Barresi illuminano la navata centrale. della fine del XVI secolo


Ai pilastri che sostengono i pennacchi della cupola sono poggiate inoltre delle colonne in stile corinzio (quattro per pilastro) sormontate dalla trabeazione e poi dalla cupola. Tutti gli stucchi che decorano l’interno furono realizzati prima della metà del secolo XIX da Giuseppe Gianforme di Catania ed Antonio Dell’Orto di Palermo, su disegno dell’architetto Lo Piano di Caltanissetta. Entrando dalla porta centrale, a destra e a sinistra, si vedono due splendidi mausolei marmorei. Uno è opera di Antonello Gagini e realizzato nel 1523 per contenere le spoglie del Marchese Matteo Barrese. L’altro invece, di autore ignoto, fu realizzato nel 1582 per contenere le spoglie di P i e t r o B a r r e s e , P r i n c i p e d i Fig. 4 Monumento funebre di Pietro Barrese, Pietraperzia. Principe di Pietraperzia, del 1582 Nella navata di sinistra, appena entrati, si scorge invece, addossato alla parete, il sarcofago di Dorotea Barrese, in marmo Rosso di Levanto. Fu fatto realizzare dal figlio Fabrizio Branciforti, Principe di Butera, così come aveva fatto per il padre Giovanni IV Branciforti, sepolto in un sarcofago molto simile nella chiesa del Carmine di Mazzarino. Tra le opere scultoree presenti nella chiesa meritano di essere ricordati i tre portali marmorei opera di Antonello Gagini che costituivano gli ingressi dell’edificio cinquecentesco. Questi, demolito il vecchio edificio per fare posto alla nuova struttura nel XIX secolo, furono smontati e ricollocati nel nuovo Tempio. Uno è collocato nei pressi dell’ingresso sulla destra ed inquadra il fonte battesimale. Gli altri due invece si trovano all’interno di una delle cappelle che affiancano l’abside maggiore. Numerosi sono anche i dipinti posseduti dalla chiesa che impreziosiscono i vari altari. Tra questi particolarmente importante è la pala situata dietro l’altare Maggiore raffigurante l’Incoronazione della Vergine, opera del pittore manierista fiorentino Filippo Paladini. Questi in quegli anni era attivo in questa area al servizio di Fabrizio Branciforti ed ottenne la commissione della tela per la Chiesa Madre di Pietraperzia dalla moglie di Fabrizio, Caterina, nei primi anni del 1600(il dipinto fu probabilmente realizzato nel 1604).


Altare di San Francesco di Paola

Si tratta del terzo altare della navata laterale destra, rispetto alla porta di ingresso principale, impreziosito da una tela e da una statua lignea raffiguranti il Santo. Oggi è in precarie condizioni di conservazione e mancante di alcuni frammenti delle lastre in marmi policromi che lo decorano, tanto da lasciare intravedere la struttura in arenaria sottostante che costituisce l’ossatura dell’altare. É probabile che questo altare sia tra quelli citati nei documenti relativi al contratto per la realizzazione di tre altari in marmi policromi nella chiesa Madre, stipulati nel 1792, quando si intraprese la realizzazione del nuovo tempio. L’altare risalirebbe quindi agli ultimi anni del XVIII secolo, opera dei maestri marmorari catanesi Tommaso e Rosario Privitera, rispettivamente padre e figlio. Nel contratto sono citati anche i nomi dei marmi da utilizzare e le caratteristiche e dimensioni degli altari. Si dice inoltre che questi verranno realizzati secondo il disegno fornito da Domenico Carbonaro, catanese. Le forme dell’altare sono lineari e rivelano il già avvenuto mutamento di gusto artistico verso composizioni sobrie e caratterizzate da figure geometriche semplici. É costituito da una mensa leggermente avanzata di forma rettangolare, con pilastrini agli angoli a forma di paraste. Questi inquadrano il motivo centrale del medaglione scolpito, in marmo bianco e giallo. Al di sopra della mensa troviamo i due gradini, con la parte centrale leggermente aggettante, di cui il secondo è notevolmente più alto del primo, tanto da costituire un vero e proprio attico.


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Altare dell’Addolorata

L’altare è posizionato nella parete di fondo del transetto di destra, rispetto all’ingresso principale, ed è molto simile, per la forma, il tipo di marmi policromi utilizzati e la loro disposizione all’interno della composizione, all’altare di San Francesco di Paola, presente lungo lo stesso lato della chiesa. Sarebbe anche questo opera dei marmorari catanesi Tommaso e Rosario Privitera, realizzato alla fine del secolo XVIII, e citato nel contratto stipulato nel 1792, quando fu innalzata nelle forme odierne la nuova chiesa Madre. L’altare quindi è caratterizzato dalla semplicità e linearità delle forme, privo di decorazioni sovrabbondanti e costituito dalla mensa rettangolare sporgente, con piccole paraste ai lati e medaglione scolpito al centro, sormontata dall’attico, costituito da due gradini, di cui il secondo notevolmente più alto. Rispetto all’altare di San Francesco di Paola però abbiamo in questo caso un tabernacolo marmoreo, avente la stessa altezza dell’attico. Posto in posizione centrale, lungo l’asse di simmetria verticale della composizione, ha la forma di un tempietto con paraste affiancate da volute, a sostegno della trabeazione, che ne costituisce il coronamento. Sopra il tabernacolo è stata collocata una statua raffigurante la Madonna Addolorata, mentre la parete è anche arricchita dalla presenza di un dipinto di discreta fattura. L’altare oggi è in non perfetto stato di conservazione, soprattutto nella parte bassa.


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Chiesa del Rosario

Fig. 1 Prospetto Principale

UBICAZIONE

: Si affaccia su una piazzetta, Piazza G. Matteotti (ex Piazza del Rosario), che costeggia la via Tortorici, che sale verso la Chiesa Madre ed il Castello

DATAZIONE

: Edificio esistente giĂ nei primi anni del secolo XVI

COMMITTENZA: Ignota AUTORE

: Ignoto

BIBLIOGRAFIA : Padre Dionigi, 1776, pp. 252-255 Giuliana G.., 1967, p. 230-31 Guarnaccia - Viola, 1993, pp. 77-79


Breve cenno storico: Pochissime e frammentarie sono le notizie sulla Chiesa del Rosario. Risulta pertanto difficile risalire a date certe cui legare le vicende costruttive dell’edificio. Padre Dionigi da Pietraperzia, nel suo testo di storia locale, riferisce che la chiesa in questione avrebbe sostituito un precedente edificio intitolato alla SS.Annunciata La chiesa della SS. Annunciata, secondo lo storico pietrino, sarebbe tra le più antiche del paese, assieme alla Chiesa Madre, e a sua volta sarebbe sorta in sostituzione di un’altra chiesa, ancora più antica, detta dell’Annunciata Vecchia. Tuttavia di questo edificio, preesistente alla odierna chiesa del Rosario, non sappiamo niente altro. Sappiamo invece che nei primi anni del secolo XVI il Marchese Matteo Barrese prese la chiesa sotto la sua tutela, favorendola con abbondanti donazioni al fine di stanziarvi i Padri Domenicani. Nel 1521 infatti questi prendono possesso della chiesa e vi fondano accanto il proprio convento (oggi sede comunale). É probabile che il Marchese in questa occasione, oltre a favorire la venuta dei Padri, abbia anche ristrutturato il tempio. Di questo però non abbiamo alcuna conferma, anche se in alcuni testi di storia locale si dice che il Marchese nel 1521 fece erigere la chiesa affidandola ai Padri Domenicani. Negli anni successivi la chiesa continuò a godere del favore e della generosità della famiglia Barrese. I successori di Matteo infatti più volte effettuarono donazioni in suo favore. L’edificio divenne inoltre il luogo preferito dalla nobiltà e dalla borghesia locale per collocarvi le proprie sepolture. Anche se non esistono notizie di ciò è probabile che la struttura abbia subito un totale rinnovamento nel secolo XVIII assumendo l’aspetto attuale. Il prospetto esterno e l’interno infatti rispecchiano schemi e motivi tipici di quel periodo. Oggi la chiesa, chiusa al culto, è pericolante ed in attesa di un restauro che ne conservi le strutture e gli apparati decorativi.


Descrizione edificio: La particolarità della chiesa risiede principalmente nel suo impianto a croce greca. L’edificio infatti presenta una pianta centrale con tre absidi semicircolari e ingresso lungo gli assi principali. L’abside posto davanti all’ingresso è quello principale e contiene l’altare Maggiore, in marmi policromi, dedicato alla Madonna del Rosario; i due absidi laterali, invece, contengono due splendidi altari in stucco dalla complessa struttura architettonica, caratterizzata dalla presenza di colonne tortili. Lo spazio centrale è definito dai quattro pilastri che sostengono la struttura della cupola su pennacchi sferici decorata da stucchi che riproducono il tipico disegno a cassettoni digradanti. La facciata, a differenza dell’interno, è Fig. 2 Vista dell’interno (abside destro) semplice e caratterizzata da pochi elementi di rilievo in pietra squadrata inseriti in una muratura in conci irregolari. I cantonali in pietra sostengono il timpano triangolare, mentre lo spazio centrale è occupato dal portale e più in alto dalla finestra rettangolare. Nel suo disegno ricorda molto quella della chiesa di Santa Maria di Gesù, sempre a Pietraperzia, e molte altre presenti nell’area e realizzate intorno ai secoli XVII e XVIII. L’interno, oggi in cattivo stato di conservazione, è interamente decorato da stucchi e pitture a motivi floreali su un fondo azzurro. Nonostante molte opere pregevoli siano scomparse la chiesa possiede ancora alcune tele ottocentesche di autore ignoto e degli affreschi, raffiguranti la Vittoria di S. Pio V e Santa Caterina, ormai in rovina. Meritano di essere menzionate anche le Fig. 3 Particolare della struttura della statue lignee della Madonna del Rosario, cupola del ‘600, e di S. Vincenzo Ferreri.


Altare della Signora del Rosario (Altare Maggiore)

L’altare si trova all’interno dell’abside maggiore dell’edificio, a pianta centrale a croce greca, proprio di fronte all’ingresso principale. É notevolmente sopraelevato rispetto alla quota del pavimento dell’edificio, posto in cima a cinque scalini in marmo rosso di San Vito Lo Capo. Non si hanno notizie precise su quest’opera, di discrete dimensioni, che però e tipicamente barocca nelle forme e databile al secolo XVII. In alto l’altare è sormontato da una nicchia riccamente ornata da stucchi raffiguranti un tendaggio. Altre due nicchie, più piccole, sono simmetricamente collocate ai lati della nicchia centrale, in posizione leggermente più bassa. L’altare vero e proprio ha una struttura in marmo bianco di Carrara, decorata dalla presenza di marmi policromi. Ha forme concavo - convesse ed è quindi caratterizzata da continui aggetti, sporgenze e rientranze. La mensa ha agli angoli delle mensole inclinate a forma di voluta che inquadrano il motivo scultoreo centrale, leggermente aggettante, dalle forme rotondeggianti, e dalla decorazione di ispirazione naturalistica. É affiancata da corpi laterali terminanti con volute e decorati da paraste leggermente sporgenti. Nella parte alta troviamo quattro gradini porta candele, digradanti verso l’alto e ornati da intarsi in marmi policromi, con al centro un tabernacolo riccamente decorato e dall’articolato motivo architettonico. Questo infatti ha la forma di un tempietto con paraste, affiancate da volute, che sorreggono la trabeazione ed il timpano curvo.


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Chiesa di Santa Maria di Gesù

Fig. 1 Prospetto Principale

UBICAZIONE

: Si affaccia sulla Piazza Vittorio Emanuele

DATAZIONE

: Seconda metà del XVII secolo (edificio attuale)

COMMITTENZA: Ignota

AUTORE

: Luca Valera, maestro muratore

BIBLIOGRAFIA : Padre Dionigi, 1776, pp. 255-261 Giuliana G.., 1967, p. 232 Guarnaccia - Viola, 1993, pp. 65-69 Marotta F., 1999, vol I, pp. 83-89 Parr. di S. Maria di Gesù, 2001, pp. 7-44


Breve cenno storico: La chiesa di Santa Maria di Gesù fu edificata nello stesso luogo in cui sorgeva precedentemente la chiesa di Maria SS. Delle Grazie, che Fra’ Dionigi, storico locale, dice essere stata molto antica e tra le prime realizzate a Pietraperzia, ma di cui non si sa niente altro. La storia di questo edificio è legata alla presenza a Pietraperzia dei Frati Minori Riformati a partire dalla prima metà del secolo XVII. Questi infatti, giunti in città, ottennero di stanziarsi presso la chiesa di Maria SS. Delle Grazie e di fondare qui il loro convento. Le notizie relative a questi avvenimenti sono più precise ed attendibili, per cui sappiamo che i frati, giunti in paese intorno al 1635 su richiesta del clero pietrino, e per interessamento di Margherita D’Austria, detentrice del feudo, usufruirono già nel 1636 di una cospicua donazione a loro favore per la realizzazione del loro convento. Donna Francesca Santigliano e Maria Santigliano, sorelle e nobili di origine palermitana ma residenti a Pietraperzia, infatti lasciarono la somma di tremila e seicento ducati al fine di realizzare il convento dei Frati Francescani Riformati, i quali avrebbero così potuto occuparsi della cura delle anime e dell’amministrazione dei sacramenti. Nel 1637 troviamo i frati già intenti nella realizzazione della nuova struttura, dotata anche di selva. Ultimato il convento si passò al rinnovamento della chiesa e così l’edificio fu riedificato nelle forme attuali intorno alla fine del secolo XVII. L’opera fu materialmente realizzata dal maestro muratore Luca Valera. Fu in occasione di questo rinnovamento della struttura che questa assunse la nuova denominazione di Santa Maria di Gesù. Alcune fonti tuttavia farebbero risalire la riedificazione dell’edificio nelle forme attuali al 1772. Il convento, nel corso della sua storia ospitò personaggi illustri come Fra’Giuseppe da Avola, le cui spoglie sono custodite presso la chiesa stessa e morto nel 1647 in fama di santità, Fra’Giuseppe Giappano, anche egli famoso per miracoli e profezie, e lo storico Fra’ Dionigi da Pietraperzia, autore di uno dei più importanti ed antichi testi di storia locale alla fine del secolo XVIII. I frati rimasero operanti fino alla emanazione del decreto di soppressione dei beni ecclesiastici nel 1866. Alcuni frati comunque continuarono ad occuparsi della chiesa e della cura dei fedeli. Quando nel 1929 si pensò di erigere a Pietraperzia una nuova parrocchia, dal momento che la sola Chiesa Madre non era più sufficiente, si decise che questa sarebbe dovuta nascere presso la chiesa di Santa Maria di Gesù. L’edificio però versava allora in pessime condizioni per cui era prima necessario restaurarlo. Iniziarono così una serie di opere di risistemazione e rinnovamento delle strutture, nonchè di abbellimento del tempio, che si conclusero nei primi anni ‘50 del Novecento. Nel luglio del 1951 la chiesa viene finalmente riaperta al culto ed il 7 ottobre dello stesso anno viene proclamata parrocchia.


Descrizione edificio: La chiesa di Santa Maria di Gesù è a navata unica coperta da una volta a botte. Il prospetto esterno si presenta semplice e realizzato secondo uno schema architettonico molto diffuso in questa area. La struttura muraria in conci irregolari è contenuta tra due cantonali in pietra squadrata aventi l’aspetto di paraste su piedistallo. Questi sostengono direttamente il timpano triangolare che chiude in alto la facciata. Risaltano inoltre il portale e la finestra centrale, posizionata al di sopra del portale, quali unici elementi di preziosità della composizione, realizzati anche questi con conci squadrati e, nel caso del portale, caratterizzati da elementi decorativi come le paraste e la lapide marmorea su cui è riportata una Fig. 2 Vista dell’interno iscrizione. Anche l’interno è molto semplice. Il suo aspetto attuale deriva dai lavori di restauro realizzati nel corso del Novecento. Questi hanno sostanzialmente modificato l’originaria conformazione della navata dal momento che il pavimento è stato rinnovato, il cornicione della volta abbassato, demolito il coro dei frati, rimossi i 4 altari laterali marmorei e risistemato l’altare Maggiore. Quest’ultimo oggi si presenta tra due colonne corinzie che sostengono un frontone triangolare e che fanno da cornice alla statua della Madonna Immacolata del secolo XVIII, posta dentro una nicchia. L’altare è in marmi policromi, anche questo risalente al secolo XVIII e, prima di essere posizionato in questa posizione, collocato in una delle cappelle laterali. La chiesa possiede inoltre alcuni quadri Fig. 3 Crocifisso ligneo forse opera di Fra’ del XVIII e XIX secolo di discreto valore, Umile da Petralia tra cui due dipinti del Vaccaro.


Altare del Crocifisso (Altare Maggiore)

L’altare occupa la parete di fondo del presbiterio, posto alla base della decorazione a stucco che contiene la statua settecentesca della Madonna Immacolata. É racchiuso ai lati entro le due colonne che sostengono il frontone triangolare della struttura ornamentale a forma di tempio. É inoltre leggermente rialzato rispetto alla quota della pavimentazione del presbiterio da due gradini marmorei di recente realizzazione. L’altare era inizialmente collocato lungo la navata laterale, assieme ad altri quattro, probabilmente dello stesso tipo. Questi furono smontati durante uno dei numerosi restauri che hanno interessato l’edificio in tempi recenti. Fu nel intorno al 1950 che l’altare marmoreo venne sistemato al centro del presbiterio, dove oggi lo vediamo, ed in quella occasione fu interessato anche da aggiunte, modifiche e sostituzioni. É un opera realizzata nel secolo XVIII, affine per il disegno architettonico e le decorazioni del paliotto ad altari dello stesso genere realizzati nella Sicilia orientale in quel periodo. L’altare ha una mensa rettangolare, affiancata ai lati da semplici volute, ed una struttura superiore, sempre rettangolare, decorata da lastre in marmi policromi di due differenti colori che si alternano tra loro, con al centro il tabernacolo a forma di piccolo tempietto. Spiccano all’interno della composizione, realizzata in marmo bianco di Carrara, il ricco paliotto a marmi mischi, con decorazione scultorea in leggero rilievo, di ispirazione naturalistica, e pietre ornamentali dai vivaci colori.


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RIESI

Chiese con altari in marmi policromi 1. Chiesa Santuario di Santa Maria SS. Della Catena (chiesa madre)


Santuario di Maria SS. Della Catena (Chiesa Madre)

Fig. 1 Prospetto Principale

UBICAZIONE

: Si affaccia sulla Piazza Garibaldi, al termine del Corso Vittorio Emanuele

DATAZIONE

: Prima metà del secolo XVIII

COMMITTENZA: Bartolomeo de Moncajo, Marchese di Coscoquela; Don Clemente e Don Biagio Vignuales, Procuratori generali AUTORE

: Giuseppe La Rossa, architetto (progetto originario) Francesco Alajmo (prospetto esterno e decorazione dell’interno)

BIBLIOGRAFIA : Testa G., 1981, pp. 187-252; p. 377


Breve cenno storico: La Basilica Santuario di Maria SS. Della Catena è senza dubbio la chiesa più importante di Riesi, per la grande devozione dei cittadini nei confronti della Madonna della Catena, Patrona della città (il cui culto sarebbe stato introdotto dalla famiglia Ventimiglia, proprietaria un tempo del feudo), e perchè rilevante dal punto di vista architettonico ed artistico. Abbiamo notizia però che la prima chiesa avente tale titolo fu realizzata nel 1629, prima ancora che sorgesse il paese, in un luogo differente da quello attuale. Se pur molto piccola e dalle forme povere era sufficiente a soddisfare le esigenze religiose dei pochissimi contadini che vi risiedevano intorno. Con la fondazione nel 1647 della città per volontà del Barone Pietro Altariva, possessore del feudo, la chiesetta, divenuta chiesa Madre, fu sicuramente ristrutturata ed abbellita. Tuttavia ben presto risultò insufficiente per una popolazione che era in continuo e rapido aumento. Il centro del nuovo paese inoltre andava sempre più spostandosi dall’originario nucleo di case dal quale aveva avuto origine e dove si trovava la chiesa per cui si decise di realizzarne una nuova, più grande, in un differente sito, trasferendovi il titolo e le prerogative di chiesa Madre e Parrocchiale. Il nuovo edificio sorge così intorno al 1678 e, sempre modesto nelle forme e nelle dimensioni, era dotato di campanile e all’interno di quattro altari, oltre quello maggiore. Solo agli inizi del secolo XVIII e per volontà del Marchese Don Bartolomeo de Moncajo si inizia la costruzione dell’edificio che oggi ammiriamo, sorto in un sito ancora differente dai precedenti e secondo programmi ben più ambiziosi. Il primo progetto di basilica a tre navate fu avviato nel 1720 e si deve all’architetto messinese, ma risiedente ed attivo a Piazza Armerina, Giuseppe La Rossa. Nel 1722 tuttavia si verificò un primo crollo che mandò in rovina le strutture fino ad allora realizzate. Furono avviati così i lavori di ricostruzione, sempre affidati al La Rossa a cui però furono affiancati due religiosi catanesi: fratello Pasquale, igegnere, e fratelloAntonio, capo mastro. I nuovi lavori procedevano comunque a rilento ed inoltre nel 1731 i nuovi feudatari, Antonio Pignatelli e Maria Francesca de Moncajo, decisero di abbandonare il progetto a tre navate. Ma il 16 ottobre 1731 si verifica un nuovo crollo. Il la Rossa viene nuovamente interpellato e redige una perizia del danno con il preventivo di spesa per la riparazione dell’edificio e la sua ultimazione. Recuperata la somma necessaria i lavori riprendono spediti e nel 1732 il Tempio, non ancora ultimato viene aperto al culto. Una lapide all’interno della chiesa ci racconta di un ulteriore ed improvviso crollo avvenuto nel 1734 che avrebbe reso necessari nuovi lavori di ricostruzione sotto la supervisione di Don Clemente e Don Biagio Vignuales, Procuratori generali per conto dei feudatari, e con l’apporto di un nuovo architetto palermitano di nome Francesco Alajmo. Finalmente nel 1747 l’edificio è ultimato ed alla presenza del Vescovo di Siracusa, Mons. Matteo Trigona, il 9 Maggio la chiesa viene solennemente consacrata ed innalzata a Basilica, consacrandola anche ai due Santi Martiri San Clemente Papa e Santa Sabina. Le opere di decorazione degli interni furono realizzate negli anni immediatamente successivi.


Descrizione edificio: Nonostante il progetto originario prevedesse la realizzazione di una basilica a tre navate l’edificio attuale si presenta a navata unica con impianto a croce latina caratterizzato da un ampio transetto su cui si affacciano le due cappelle e l’abside che chiudono la costruzione. La facciata principale, che prospetta sulla piazza principale del paese (su cui sorge anche il palazzo del signore feudale), fu costruita su disegno di FrancescoAlajmo. Si tratta di una struttura semplice e sobria priva di decorazioni appariscenti, ma armonica. Il portale, incorniciato da paraste su piedistallo che sostengono la trabeazione, è sormontato dallo scudo con le armi dei baroni feudatari che costituisce l’unico elemento di preziosità della facciata. Ancora più in alto si trova poi una larga finestra rettangolare ed appena sopra il cornicione ed il timpano triangolare che chiude il tutto e che trova sostegno agli angoli su delle doppie lesene di ordine dorico. Accanto alla facciata, leggermente arretrata rispetto a questa, Fig. 2 Vista dell’interno sorge la torre campanaria con pilastri rettangolari e semplici feritoie per la luce, dotata di un orologio a doppio quadrante. L’interno aggi ci appare fortemente alterato nelle sue cromie originali a causa di un recentissimo intervento di ridipintura delle pareti e delle volte. L’opera di decorazione degli interni fu affidata nel 1751 allo stesso Francesco Alajmo, artista eclettico, oltre che architetto, e abile stuccatore il quale realizzò tutte le opere in stucco e le sculture presenti nell’edificio, come le statue di Santa Sabina e di San Clemente oppure i medaglioni dei dodici Apostoli del soffitto ed i bassorilievi ai lati della cupola raffiguranti i quattro Evangelisti. La chiesa inoltre si riempì di affreschi e quadri. Anche questi risalgono al 1751 e sono tutti opera dello stesso artista: il palermitanoAgostino Gambino. Inizialmente si pensò solo alla decorazione della volta centrale e laterale. Furono realizzati così gli affreschi aventi come tema guida le Storie della Vergine tra cui la Natività di Maria SS. e la Presentazione di Maria. Successivamente allo stesso pittore palermitano vengono commissionati otto dipinti ad olio da collocare negli altari della navata, ricavati all’interno degli archi presenti tra un pilastro e l’altro. Tra questi ricordiamo la Madonna della Provvidenza, la Madonna del Purgatorio, la Madonna del Carmine, S. Eligio, S. Rosalia che intercede per la peste di Palermo. Di pregevolissima fattura sono poi gli altari in marmi mischi collocati nell’abside maggiore e nella cappella del SS. Sacramento, realizzati da maestranze palermitane intorno al 1747, ed il seicentesco Crocifisso situato nella cappella dedicata al ricordo dei caduti in guerra e sul lavoro.


Altare del SS. Sacramento

L’altare è posizionato sulla parete di fondo della cappella del SS. Sacramento, situata sulla sinistra del presbiterio. É sopraelevato rispetto alla quota del pavimento da due gradini in marmo bianco, di recente realizzazione, e si presenta sormontato da una complessa struttura lignea, avente la forma di un tipico prospetto di chiesa barocca, dall’andamento concavo e con colonne libere a sostegno del fastoso coronamento. Simile all’altare maggiore, anche se di dimensioni minori, fu realizzato anche questo da maestranze palermitane intorno al 1747. Si tratta sempre di una pregevole opera a marmi mischi e tramischi, dal ricchissimo apparato scultoreo, eseguita su un supporto in marmo bianco di Carrara entro cui sono state realizzate le complesse tarsie in pietre ornamentali colorate. La mensa sorge su di una sorta di basamento interamente intarsiato con motivi naturalistici. É inquadrata da due grandi mensole leggermente inclinate a forma di volute e ornate da teste di angeli. La parte centrale invece è tripartita e caratterizzata da tre medaglioni scultorei dalle sinuose forme di ispirazione naturalistica, con ovale al centro decorato da una pietra di colore azzurro. La parte superiore, costituita da due semplici gradini in marmo rosso, e i fianchi arretrati dell’altare sono delle aggiunte recenti alla composizione, frutto di una risistemazione dell’opera, eseguita sicuramente durante gli ultimi anni in occasione dei lavori di restauro che hanno interessato l’intero edificio religioso.


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I MATERIALI LAPIDEI ORNAMENTALI NEGLI ALTARI DELLE CHIESE DELLA DIOCESI DI PIAZZA ARMERINA REALIZZATI TRA IL XVI ED IL XVIII SECOLO

CONCLUSIONI

IUAV - Istituto Universitario di Architettura di Venezia Corso di Laurea in Storia e Conservazione dei beni architettonici ed ambientali

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I MATERIALI LAPIDEI ORNAMENTALI NEGLI ALTARI DELLE CHIESE DELLA DIOCESI DI PIAZZA ARMERINA REALIZZATI TRA IL XVI ED IL XVIII SECOLO

Come abbiamo avuto modo di vedere in precedenza, i contatti e gli scambi culturali tra le grandi città della costa, molto ricche e fortemente ricettive nei confronti delle nuove tendenze artistiche provenienti dal continente, ed i centri dell’entroterra erano frequenti ed hanno portato ad una diffusione capillare dei temi e dei motivi tipici dell’arte barocca, anche nei paesi apparentemente più isolati e di secondaria importanza; tanto che anche in questi troviamo spesso presenti opere ed artisti di primo piano all’interno del panorama artistico siciliano. Le grandi città di Palermo e Trapani, per quel che riguarda la Sicilia Occidentale, di Messina, Catania e Siracusa, per la parte Orientale, fungevano quindi da poli di riferimento culturale ed artistico presso i quali attingevano tutte le cittadine ed i paesi che gravitavano nell’ambito geografico dell’una o dell’altra città, oppure che avevano con queste rapporti di tipo economico o politico. Nel caso dei centri della Diocesi di Piazza Armerina la maggiore vicinanza geografica con l’area sud-orientale dell’isola ha fatto sì che più forti fossero i contatti con le città di Catania e Siracusa, grazie anche alla appartenenza, fino ai primi anni dell’Ottocento, dei paesi oggi facenti parte della circoscrizione religiosa piazzese alle Diocesi appunto di Siracusa e di Catania, e grazie anche alla vicinanza con la città demaniale di Caltagirone, completamente sotto la sfera di influenza della città etnea. La maggior parte delle opere d’arte prodotte nella diocesi di Piazza Armerina in età barocca sono quindi riconducibili all’ambiente artistico catanese, dal momento che da questo ambito il più delle volte provenivano gli artisti e le maestranze esecutrici. Ciò è vero soprattutto per quel che riguarda la produzione legata all’utilizzo di pietre ornamentali colorate. Nella diocesi infatti, come in tutta la Sicilia orientale, non ebbe grande diffusione la decorazione a mischio, estesa alle intere pareti degli edifici religiosi, tipica invece della

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città di Palermo, ed anche di quella Trapani, dove gli esempi di questo tipo di composizione ornamentale sono numerosissimi1. Il tema della decorazione con pietre colorate, in forme complesse e sfarzose, fu tuttavia recepito anche dagli artisti della parte orientale dell’isola, se pur in maniera più sobria e contenuta. Si preferì infatti realizzare altari marmorei, di ogni forma e dimensioni, piuttosto che rivestire intere pareti con complicate tarsie. L’esistenza di alcuni documenti d’archivio relativi alla stipula dei contratti di realizzazione di tali altari tra la committenza ed i marmorari ci ha permesso di osservare come molto spesso questi ultimi siano catanesi, chiamati con le loro botteghe ad operare anche nei centri dell’entroterra per soddisfare una ricca committenza, costituita quasi esclusivamente dalla potente aristocrazia feudale e dagli ecclesiastici. Abbiamo notizia quindi della presenza della bottega dei Marino, famosa famiglia catanese di marmorari, presso la città di Piazza Armerina per la realizzazione del grande altare maggiore della chiesa di San Giovanni Evangelista, commissionato nella seconda metà del Settecento2. Il famoso architetto catanese Andrea Amato è inoltre il progettista della cappella marmorea della Madonna della Visitazione, nel Duomo di Enna, unico caso nella diocesi di struttura architettonica le cui pareti sono interamente rivestite da una ricca decorazione a marmi mischi3. Catanese è anche Domenico Viola, maestro marmoraro autore dei tre altari della chiesa dell’Addolorata presso Niscemi4; e sempre da Catania giungono Vincenzo Bonaventura e Benedetto Giuffrida, allievi di Andrea Amato, e suoi collaboratori nel corso dei lavori di realizzazione della cappella della Madonna del Duomo di Enna, che eseguirono alla fine del

1

S. PIAZZA, op. cit DEMETRA società cooperativa a.r.l. (a cura di), op. cit. 3 A. RAGONA, op. cit., pp. 28-29 4 P. R. CINCOTTA – C. PEPI, Niscemi, Tesi di Laurea, rel. Prof. E. Guidoni, Università degli Studi di Palermo, a.a. 1979-80, p. 65 2

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secolo XVIII il pavimento marmoreo del Duomo stesso della città e gli altari della chiesa di San Marco Le Vergini, sempre ad Enna5. Ricordiamo infine i fabri marmorarrii catanesi Tommaso e Rosario Privitera, autori di tre altari marmorei della chiesa Madre di Pietraperzia6. Anche nel caso di molti altri altari, soprattutto delle città di Niscemi, Enna, Mazzarino e Gela, nonostante non esistano testimonianze documentarie, sembra certa la loro realizzazione da parte di maestranze dell’aera etnea, data l’affinità stilistica delle composizioni con simili opere situate in ambito catanese e siracusano. Generalmente si tratta di altari dalle dimensioni contenute, aventi forma semplice di tipo rettangolare, ma caratterizzati da ricchi paliotti, con al centro medaglioni o stemmi, ornati da fini tarsie in marmi policromi e da rilievi scultorei a motivo floreale. Non mancano tuttavia esempi di altari di dimensioni maggiori e caratterizzati da forme complesse ed articolate, con aggetti, linee curve, concave e convesse, volute sporgenti e tabernacoli a forma di tempietto. Abbiamo già accennato inoltre alla presenza di una intera cappella nel Duomo di Enna sfarzosamente rivestita da marmi policromi e da rilievi scultorei in marmo bianco di grande valore plastico, opera di uno degli architetti più importanti del barocco catanese. Tuttavia, dal momento che il potere politico e di governo di questi territori era nelle mani della nobiltà feudale, e poiché questa spesso risiedeva ed aveva contatti con la città di Palermo, capitale dell’isola e sede del Parlamento del Regno, di cui molti dei nobili stessi facevano parte, nei centri dell’entroterra siciliano facenti parte della Diocesi di Piazza Armerina giungevano anche influssi artistici provenienti dalla parte occidentale dell’isola.

5

R. LOMBARDO, La chiesa ed il monastero di San Marco le Vergini di Enna, tra storia, arte, devozione, Assoro (EN), 1999, pp. 71-72 6 F. MAROTTA (a cura di), Saggi e documenti riguardanti la storia di Pietraperzia, Vol. I, Enna, 1999, pp. 93-98 IUAV - Istituto Universitario di Architettura di Venezia Corso di Laurea in Storia e Conservazione dei beni architettonici ed ambientali

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Queste influenze riguardarono quasi esclusivamente l’ambito pittorico, tanto che la maggior parte delle tele delle chiese della diocesi commissionate in questo periodo provengono da botteghe di artisti palermitani, il più delle volte seguaci della maniera di Pietro Novelli, famoso pittore palermitano, oppure della scuola del Borremans, pittore fiammingo attivo nei primi anni del Settecento a Palermo, ma anche in molti centri dell’entroterra, tra cui Enna e Piazza Armerina7. Per quel che riguarda gli altari sappiamo che quelli della chiesa Madre di Riesi furono realizzati da maestranze palermitane, ed infatti si caratterizzano per una esuberante decorazione a mischio con motivi ed intrecci a carattere floreale, medaglioni, volute e putti, unici per le loro forme nell’ambito del territorio della diocesi di Piazza Armerina. Venendo invece a trattare dei litotipi con i quali gli altari della diocesi sono stati decorati dobbiamo rilevare in generale la presenza di pochi tipi di marmi colorati, sempre ricorrenti in quasi tutti gli altari rilevati probabilmente perché utilizzati da maestranze itineranti e che si passavano i materiali. Sul supporto di base in marmo bianco di Carrara infatti ritroviamo quasi sempre marmi di importazione quali il Rosso di Francia, il Verde di Calabria (oppure Verde Alpi) ed il Nero Portoro. Frequente è anche, se pur in maniera minore rispetto ai marmi precedentemente citati, l’utilizzo di altre pietre di importazione come il Broccatello di Spagna, le Brecce Medicee, il Rosso ed il Verde di Levanto, il Giallo ed il Pavonazzetto di Siena, a testimonianza degli intensi rapporti commerciali esistenti tra le città portuali siciliane e la penisola italiana, soprattutto la toscana, ma anche i maggiori porti europei. La presenza di tali pietre negli altari delle chiese dell’entroterra siciliano è indice inoltre della abbondante quantità di queste che fu importata e della loro grande diffusione in tutta l’isola.

7

G. DI MARZO, op. cit.

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N° DI ALTARI IN CUI IL LITOTIPO E' PRESENTE

ROSSO DI LEVANTO 55

VERDE DI LEVANTO

50 VERDE DI CALABRIA

45 40

VERDE ALPI

35

GIALLO DI SIENA

30

PAVONAZZETTO DI SIENA

25 BRECCIA DI SERAVEZZA

20

BRECCIA MEDICEA

15 10

ALABASTRO DI PALOMBARA

5

NERO PORTORO

0 LITOTIPI

NERO ASSOLUTO

N° DI ALTARI IN CUI IL LITOTIPO E' PRESENTE

Figura 1 Diagramma di utilizzo dei marmi provenienti dall’Italia peninsulare.

ROSSO DI FRANCIA

55 50

FIOR DI PESCO

45 40

IASSENSE

35 30

VERDE ANTICO

25 20

BRECCIA DI SCIRO

15 10

BROCCATELLO DI SPAGNA

5 0 LITOTIPI

LAPISLAZZULO

Figura 2 Diagramma di utilizzo dei marmi provenienti da località estere.

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Tra i marmi siciliani invece grande utilizzo fu fatto del Libeccio di Trapani e del Giallo di Castronovo per la realizzazione dei rivestimenti e delle tarsie che decorano gli gran parte degli altari, mentre in piccole quantità furono adoperati anche gli alabastri calcarei, probabilmente provenienti dall’area palermitana. In pochi casi sono stati adoperati dei diaspri, che sono tra le pietre ornamentali più preziose, colorate ed originali che siano state estratte in Sicilia, e solamente in piccole lastre, collocate generalmente nei pressi dei tabernacoli degli altari, a sottolineare così con la loro preziosità l’importanza del contenuto del tabernacolo stesso. Tra quelli individuati abbiamo i Diaspri Rosso e Giallo di Giuliana ed il Diaspro di Santa Cristina Gela, presso Piazza Armerina, mentre il Diaspro di Cammarata è stato rinvenuto a Niscemi.

N° DI ALTARI IN CUI IL LITOTIPO E' PRESENTE

LIBECCIO DI TRAPANI 55

ROSSO DI SAN VITO LO CAPO

50

ROSSO FIORITO DI SAN MARCO D'ALUNZIO GIALLO DI CASTRONOVO

45 40

GRIGIO DI BILLIEMI

35 30

ROSSO MONTECITORIO

25

ALABASTRO CALCAREO

20

DIASPRO GIALLO DI GIULIANA

15 10

DIASPRO ROSSO DI GIULIANA

5 0 LITOTIPI

DIASPRO DI SANTA CRISTINA GELA DIASPRO DI CAMMARATA

Figura 3 Diagramma di utilizzo dei marmi provenienti da cave siciliane.

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I marmi rossi di San Vito Lo Capo e Taormina ed il Grigio di Billiemi hanno trovato invece maggiore applicazione per la realizzazione di pavimentazioni, scalini e basamenti degli altari, balaustre e sarcofagi. Per quanto riguarda i sarcofagi in particolare, oltre a numerose realizzazioni tardo- cinquecentesche in marmo bianco, con frammenti di marmi policromi di forma geometrica inseriti in incavi ricavati sulla loro superficie, ne esistono tre esempi nella diocesi eseguiti interamente utilizzando una unica varietà di pietra ornamentale colorata, uno in marmo Rosso di San Marco D’Alunzio, a Mazzarino (Chiesa del Carmine), un altro in marmo Verde di Levanto, a Pietraperzia (Chiesa Madre), ed infine uno in marmo Nero Portoro, presso Piazza Armerina (Cattedrale); imponenti per le dimensioni e di grande effetto cromatico grazie alle loro originali ed uniformi colorazioni. La presenza nel territorio della diocesi della Villa del Casale, importante monumento di età romana venuto alla luce presso Piazza Armerina, riccamente decorata da marmi policromi e da pavimenti a mosaico, ha reso possibile nei secoli scorsi la pratica del riuso dei materiali della villa stessa, ed in particolare delle pietre ornamentali, i cui frammenti sono stati in parte utilizzati per la decorazione dei sarcofagi cinquecenteschi, di cui prima si parlava, e degli altari marmorei dei secoli XVII e XVIII8. In particolare nella città di Piazza Armerina, presso la chiesa Cattedrale, sono stati individuati in alcuni degli altari laterali frammenti di Fior di Pesco, e di Verde Antico, ovvero marmi di età romana riutilizzati dai marmorari in età barocca. Altri esempi di questo genere riguardano Enna, dove nella cappella della Madonna del Duomo ritroviamo il Verde Antico ed il marmo Iassense Brecciato; Pietraperzia, con piccoli frammenti di Breccia di Sciro nell’altare Maggiore della chiesa di Santa Maria di Gesù; ed infine ancora

8

B. PACE, op. cit., p. 24

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Piazza Armerina, con frammenti di Verde Antico usati nell’altare maggiore della chiesa di San Giovanni Evangelista.

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BIBLIOGRAFIA

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Siciliano:

Architetti,

urbanistica,

Giuffré M., “L’architettura del ‘700 in Sicilia”, Palermo, 1997 Giuliana G., La Diocesi di Piazza Armerina. Note di religione, storia, arte e folklore su: Piazza Armerina, Enna, Gela, Aidone, Barrafranca, Butera, Mazzarino, Niscemi, Pietraperzia, Riesi, Valguarnera, Villarosa, Scuola Tipografica <<Città dei Ragazzi>>, Caltagirone, 1967 Le arti decorative del ‘400 in Sicilia, Messina, 1982 Librando V., Aspetti dell’architettura barocca nella Sicilia Occidentale, Catania, 1977 Menichella A., Sicilia Barocca, Milano, 2002 Minissi F., Aspetti dell’architettura religiosa del Settecento in Sicilia, Roma, 1958 Nobile M.R., Un altro Rinascimento: architetti, maestranze e cantieri in Sicilia, Benevento, 2002 Pirri R., Sicilia Sacra, I, Palermo, 1733 Policastro G., Catania nel ‘700. Architettura, scultura, pittura, musica e teatri, Catania, 2000 Regione Siciliana, Le arti in Sicilia nel ‘700, Palermo, 1991 Sarullo L., Dizionario degli artisti Siciliani, (Architettura,Pittura, Scultura), Palermo, 1993 Wittkover R., Arte ed architettura in Italia 1600-1750, Torino 1972 b) Opere specifiche relative ai singoli paesi della Diocesi di Piazza Armerina • AIDONE

Aidone, opuscolo a cura del Comune di Aidone, s.i.d. Aidone, opuscolo a cura di F.Nicotra, s.i.d.

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Kalos – luoghi di Sicilia. Aidone - Morgantina, Collana monografica a cura di Guido Valdini, supplemento al n°3 (anno 9), Maggio - Giugno 1997 Mazzola G., Storia di Aidone, Catania, 1913 Raffiotta S., Guida alla città di Aidone ed agli scavi di Morgantina, Aidone (EN), s.i.d. • BARRAFRANCA

Sac. Giunta L., Brevi cenni storici su Barrafranca, Caltanissetta, 1928 Licata S.-Orofino C., Barrafranca. Storia, tradizioni, cultura popolare, Enna, 1990 Licata S.-Orofino C., Un paese dell’entroterra siciliano: Storia, tradizioni, cultura, Caltanissetta, 1984 Vicari G., Guida alle principali chiese di Barrafranca ed ai loro tesori nascosti, Caltanissetta, 1984 • ENNA

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Rosso Di Cerami M., Il Tempio di Santa Maria Maggiore in Enna, Tesi di Laurea, Università degli studi di Catania, Facoltà di Lettere, A.A. 1944-45, Relat. Prof. S. Bottari Severino C., Enna: la città al centro, Roma, 1996 Sinicropi E., Enna nella storia,nell’arte,nella vita, Palermo, 1963 Vetri P., Storia di Enna, Palermo, 1981 • GELA

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• NISCEMI

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DEMETRA società cooperativa a.r.l. (a cura di), Monumenti di Piazza Armerina, Vol. I, Piazza Armerina (EN), 1989 Diocesi di Piazza Armerina, (CT), 2000

Evento Giubileo. Itinerari, Caltagirone

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Autori Vari (a cura del Sac. Filippo Marotta), Saggi e documenti riguardanti la storia di Pietraperzia, Enna, 1999 Ciulla M., Rinasce la Matrice. Disegni e vicende storiche sulla Matrice di Pietraperzia, edizione a cura del Comitato Parrocchiale per le migliorie della Matrice, Pietraperzia, s.i.d. Fra’ Dionigi, Storia di Pietraperzia, a cura del Comitato Culturale di Pietraperzia, Caltanissetta, 1979

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Guarnaccia L., La Chiesa Matrice di Pietraperzia, Pietraperzia, s.i.d. Guarnaccia L.-Sac. Viola S., Guida ai monumenti ed ai luoghi storici di Pietraperzia, Pietraperzia, 1993 Santa Maria di Gesù. Storia di una parrocchia in cammino, opuscolo realizzato in occasione del 50° anniversario dell’istituzione della parrocchia, Pietraperzia, 2001 • RIESI

Butera L., Uomini, fatti e aneddoti nella storia di Riesi, Caltanissetta, 1983 Ferro S., Storia di Riesi, Caltanissetta, 1930 Distretto scolastico n° 11, I luoghi della memoria. Conoscenza e valorizzazione dei centri storici di Mazzarino, Riesi, Sommatino, Caltanissetta, 1999 Testa G., Riesi nella storia, Palermo, 1981

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I MATERIALI LAPIDEI ORNAMENTALI NEGLI ALTARI DELLE CHIESE DELLA DIOCESI DI PIAZZA ARMERINA REALIZZATI TRA IL XVI ED IL XVIII SECOLO

BIBLIOGRAFIA GENERALE SUI MARMI

AA.VV., Marmi antichi, Roma, 1989 Bellanca A., Marmi di Sicilia, Palermo, 1969 Blanco G., Le pietre ornamentali in Architettura, Roma, 1993 Blanco G., Pavimenti e rivestimenti lapidei: selezione , posa in opera e restauro delle pietre ornamentali, Roma, 1991 Boscarino S., La Sicilia ed i marmorari toscani, in Catalogo della Mostra <<Firenze e la Toscana dei Medici nell’Europa del Cinquecento: Il potere e lo Spazio. La scena del Principe, Firenze, 1980 Calvino F., Lezioni di litologia applicata, Padova, 1967 Chiello G., I materiali lapidei ornamentali negli interni delle chiese barocche di Catania, Tesi di Laurea, Istituto Universitario di Architettura di Venezia, A.A. 1995-96, Relat. Prof. L. Lazzarini Gnoli R., Marmora romana, Roma, 1988 La Duca R., Ricerca, criteri e metodi per lo studio dei monumenti storici in relazione all’impiego dei marmi e delle pietre, in “Marmo Tecnica Architettura”, VI, 1965, pp. 5-24 Lazzarini L.- Evangelista P., La Collezione ex Kircheriana di diaspri siciliani del Museo di Mineralogia alla <<Sapienza>>, su “Marmi antichi II” in “Studi Miscellanei” n°31, Roma, 1996 Mattias P., Minerali e rocce, Roma, 1991 Montana G.-Gagliardo Briuccia V., I marmi e i diaspri del Barocco Siciliano: Rassegna dei materiali lapidei di pregio utilizzati per la decorazione ad intarsio, Palermo, 1998 Pensabene P., Marmi antichi : problemi di impiego, di restauro e di identificazione, Roma, 1985 Pensabene P., Marmi antichi2 : Cava e tecnica di lavorazione, provenienze e distribuzione, “Studi Miscellanei”, n°36, Roma, 1998 Piazza S., I marmi mischi delle chiese di Palermo, Palermo, 1992 Pieri M., I marmi d’Italia, Graniti e pietre ornamentali, Milano, 1964

IUAV - Istituto Universitario di Architettura di Venezia Corso di Laurea in Storia e Conservazione dei beni architettonici ed ambientali

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I MATERIALI LAPIDEI ORNAMENTALI NEGLI ALTARI DELLE CHIESE DELLA DIOCESI DI PIAZZA ARMERINA REALIZZATI TRA IL XVI ED IL XVIII SECOLO

Pieri M., I marmi esteri, Milano, 1952 Pieri M., Marmologia, Dizionario di marmi e graniti italiani ed esteri, Milano, 1966 Pieri M., Pigmentazioni e tonalità cromatiche nei marmi, Milano, 1957 Pirrello A., La decorazione a mischio in Palermo nei secoli XVII e XVIII, Palermo, 1935 Rockwell P., Lavorare la pietra. Manuale per l’archeologo, lo storico dell’arte e il restauratore, Roma, 1989 Rodolico F., Le pietre delle città d’Italia, Firenze, 1953 Tamburello G., La grande decorazione in marmi a colore delle chiese di Palermo nel XVI e XVII secolo, in Pamormus, I, 3-4, 1920

IUAV - Istituto Universitario di Architettura di Venezia Corso di Laurea in Storia e Conservazione dei beni architettonici ed ambientali

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CATALOGO DEI LITOTIPI RILEVATI


INDICE DELLE SCHEDE DI ANALISI DEI MARMI

Marmi siciliani

Marmi Esteri

Scheda 1 – Libeccio di trapani

Scheda 25 – Rosso di Francia

Scheda 2 – Rosso di San Vito Lo Capo

Scheda 26 – Fior di Pesco

Scheda 3 – Rosso di San Marco D’Alunzio

Scheda 27 – Iassense

Scheda 4 – Rosso di Taormina

Scheda 28 – Verde Antico

Scheda 5 – Giallo di Castronovo

Scheda 29 – Breccia di Sciro

Scheda 6 – Grigio di Billiemi

Scheda 30 – Broccatello di Spagna

Scheda 7 – Rosso Montecitorio

Scheda 31 – Lapislazzulo

Scheda 8 – Alabastro Calcareo

Marmi non identificati (n.i.)

Scheda 9 – Diaspro Giallo di Giuliana

Scheda 32 – n.i 1 / n.i. 2

Scheda 10 – Diaspro Rosso di Giuliana

Scheda 33 – n.i. 3 / n.i. 4

Scheda 11 – Diaspro di Cammarata

Scheda 34 – n.i. 5 / n.i. 6

Scheda 12 – Diaspro di Santa Cristina Gela Marmi dell’Italia Peninsulare Scheda 13 – Rosso di Levanto Scheda 14 – Verde di Levanto Scheda 15 – Verde di Calabria Scheda 16 – Verde Alpi Scheda 17 – Giallo di Siena Scheda 18 – Pavonazzetto di Siena Scheda 19 – Breccia di Serravezza Scheda 20 – Breccia Medicea Scheda 21 – Alabastro di Palombara Scheda 22 – Nero Portoro Scheda 23 – Nero Assoluto Scheda 24 – Marmo di Carrara lunense


LIBECCIO DI TRAPANI

Scheda n° 1

CODICE MARMO

: LT

NOME PIU’ USATO

: Libeccio antico di Trapani

SINONIMI

: Diaspro tenero di Sicilia

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Calcare varicolore a struttura pseudo - brecciata

DESCRIZIONE

: Roccia brecciata costituita da elementi angolosi o porzioni di colore variabile da bianco - giallognolo a rosaceo, circondati da una matrice rossastro - bruna a causa della presenza di ossidi di ferro e alluminio

LOCALITA’ DI CAVA

: Custonaci - Trapani

EPOCA D’USO

: Dal Rinascimento in poi; soprattutto in età Barocca

TIPOLOGIA D’USO

: Colonne, pavimentazioni, gradini, balaustre, lastre parietali, decorazioni ad intarsio

BIBLIOGRAFIA

: Bellanca A., 1969, p. 19 Pieri M., 1966, p. 343 Montana G.- Gagliardo Briuccia V., 1998, p. 67 Chiello G., 1996


ROSSO DI SAN VITO LO CAPO

Scheda n° 2

CODICE MARMO

: RSV

NOME PIU’ USATO

: Rosso di San Vito lo Capo

SINONIMI

: Rosso Fiorito di San Vito, Rosso San Vito, Rosso di Contorrana

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Calcare compatto

DESCRIZIONE

: Fondo rosso scuro a pigmentazione ematitica con venature e chiazze bianche di calcite

LOCALITA’ DI CAVA

: San Vito Lo Capo – Trapani

EPOCA D’USO

: Dal Rinascimento in poi

TIPOLOGIA D’USO

: Pavimentazioni, lastre di rivestimento

BIBLIOGRAFIA

: Pieri M., 1966, p. 522 Bellanca A., 1969, pp. 25-26; p. 3 Montana G.- Gagliardo Briuccia V., 1998, p. 57 Chiello G., 1996


ROSSO DI SAN MARCO D’ALUNZIO

Scheda n° 3

CODICE MARMO

: RSM

NOME PIU’ USATO

: Rosso Fiorito di San Marco D’Alunzio

SINONIMI

: Rosso Fiorito, Pietra di S. Marco D’Alunzio

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Calcare

DESCRIZIONE

: Pietra rosso scura attraversata da una fitta rete di venature bianche di calcite spatica. Presenta talvolta struttura brecciata con elementi di colore rosso cupo e grigio

LOCALITA’ DI CAVA

: San Marco D’Alunzio – Messina

EPOCA D’USO

: Dal Rinascimento in poi

TIPOLOGIA D’USO

: Pavimenti, lastre di rivestimento, decorazioni ad intarsio, balaustre

BIBLIOGRAFIA

: Pieri M., 1966, p. 527; p. 545 Bellanca A., 1969, p. 134 Montana G.- Gagliardo Briuccia V., 1998, p. 58 Chiello G., 1996


ROSSO DI TAORMINA

Scheda n° 4

CODICE MARMO

: RT

NOME PIU’ USATO

: Rosso di Taormina

SINONIMI

: Marmor Tauromenitanum (varietà rossa)

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Calcare cristallino

DESCRIZIONE

: Colore di fondo rosso scuro attraversato da vene bianche di calcite spatica. Talvolta presenta una struttura pseudo-brecciata con elementi di colore rosso chiaro, rosso scuro, grigio e giallo

LOCALITA’ DI CAVA

: Taormina – Messina

EPOCA D’USO

: Conosciuto dai romani. Nuovo utilizzo a partire dal Rinascimento e soprattutto in età Barocca

TIPOLOGIA D’USO

: Pavimentazioni, lastre di rivestimento

BIBLIOGRAFIA

: Pieri M., 1966, p. 141; p. 521 Bellanca A., 1969, p. 156 Lazzarini L., 1986, p. 97 Montana G.- Gagliardo Briuccia V., 1998, p. 58 Chiello G., 1996


GIALLO DI CASTRONOVO

Scheda n° 5

CODICE MARMO

: GC

NOME PIU’ USATO

: Giallo di Castronovo

SINONIMI

:/

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Calcare compatto

DESCRIZIONE

: Pietra il cui colore va dal giallo oro al giallo chiaro con plaghe rosa pallido. È sovente attraversata da sottili venature e macchie bianche di calcite spatica

LOCALITA’ DI CAVA

: Castronovo di Sicilia - Palermo

EPOCA D’USO

: Dal secolo XVI in poi

TIPOLOGIA D’USO

: Balaustre, pavimenti, cornici, decorazioni ad intarsio

BIBLIOGRAFIA

: Bellanca A., 1969, pp. 98 - 100 Pieri M., 1966, p. 214 Montana G.- Gagliardo Briuccia V. , 1998, p. 59 Chiello G., 1996


GRIGIO DI BILLIEMI

Scheda n° 6

CODICE MARMO

: GB

NOME PIU’ USATO

: Grigio di Billiemi

SINONIMI

: Pietra di Billiemi, Marmo di Bellolampo

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Calcare fossilifero

DESCRIZIONE

: Fondo grigio scuro con plaghe di materiale fine di colore nero o giallastro. Presenta anche venature e concrezioni biancastre costituite da calcite spatica

LOCALITA’ DI CAVA

: Billiemi, Bellolampo – Palermo

EPOCA D’USO

: Dal Rinascimento in poi

TIPOLOGIA D’USO

: Pavimentazioni, colonne, scalinate, architravi, stipiti e sculture in genere

BIBLIOGRAFIA

: Pieri M., 1966, p. 63 Bellanca A., 1969, pp. 111-114 Montana G.- Gagliardo Briuccia V., 1998, pp. 60-61 Chiello G., 1996


ROSSO MONTECITORIO

Scheda n° 7

CODICE MARMO

: RM

NOME PIU’ USATO

: Rosso Montecitorio

SINONIMI

: Rosso Kumeta, Brecciato Kumeta, Pietra di Piana dei Greci

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Calcare fossilifero compatto

DESCRIZIONE

: Pietra dal colore di insieme rosso scuro, con macrostruttura nodulare e ricco di diverse varietà di fossili. Viene cavata anche una varietà a struttura brecciata

LOCALITA’ DI CAVA

: Piana degli Albanesi – Palermo

EPOCA D’USO

: Dal XVII secolo in poi

TIPOLOGIA D’USO

: Colonne, pavimentazioni, rivestimenti parietali

BIBLIOGRAFIA

: Bellanca A., 1969 Montana G.- Gagliardo Briuccia V., 1998, p. 55


ALABASTRO CALCAREO

Scheda n° 8

CODICE MARMO

: AC

NOME PIU’ USATO

: Alabastro calcareo

SINONIMI

:/

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Alabastro calcareo

DESCRIZIONE

: Pietra semitrasparente a bande stratificate di differente colore, dal bianco-giallastro al marrone, più o meno scuro

LOCALITA’ DI CAVA

: Marettimo – Trapani; Monte Pellegrino, N’Serra – Palermo

EPOCA D’USO

: Molto utilizzato nel corso del secolo XVII

TIPOLOGIA D’USO

: Lastre di rivestimento degli altari, piccoli oggetti ornamentali, piccole colonnine

BIBLIOGRAFIA

: Bellanca A., 1969 Chiello G., 1996 Montana G.- Gagliardo Briuccia V., 1998, pp. 70-71


DIASPRO GIALLO DI GIULIANA

Scheda n° 9

CODICE MARMO

: DiGg

NOME PIU’ USATO

: Diaspro giallo di Giuliana

SINONIMI

: Diaspro fiorito di Giuliana

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Diaspro p. d.

DESCRIZIONE

: Diaspro giallo a struttura radicellare con venature bianco-grigiastre

LOCALITA’ DI CAVA

: Giuliana - Palermo

EPOCA D’USO

: Dal Rinascimento in poi, soprattutto in età barocca

TIPOLOGIA D’USO

: Decorazioni dei paliotti e dei tabernacoli degli altari

BIBLIOGRAFIA

: Evangelista P.- Lazzarini L., 1915 Montana G.- Gagliardo Briuccia V., 1998, p. 78


DIASPRO ROSSO DI GIULIANA

Scheda n° 10

CODICE MARMO

: DiGr

NOME PIU’ USATO

: Diaspro Rosso di Giuliana

SINONIMI

: Diaspro fiorito di Giuliana

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Diaspro p.d.

DESCRIZIONE

: Diaspro rosso a struttura radicellare con venature bianco-grigiastre

LOCALITA’ DI CAVA

: Giuliana - Palermo

EPOCA D’USO

: Dal Rinascimento in poi; soprattutto in età Barocca

TIPOLOGIA D’USO

: Decorazioni dei paliotti e dei tabernacoli degli altari

BIBLIOGRAFIA

: Evangelista P.- Lazzarini L., 1915 Montana G.- Gagliardo Briuccia V., 1998, p. 78 Chiello G., 1996


DIASPRO DI CAMMARATA

Scheda n° 11

CODICE MARMO

: DiC

NOME PIU’ USATO

: Diaspro di Cammarata

SINONIMI

:/

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Diaspro p.d.

DESCRIZIONE

: Diaspro dal fondo rosso cupo a struttura radicellare con venature e plaghe dal colore bianco – azzurro

LOCALITA’ DI CAVA

: Cammarata - Agrigento

EPOCA D’USO

: Dal Rinascimento in poi; soprattutto in età Barocca

TIPOLOGIA D’USO

: Decorazioni dei paliotti e dei tabernacoli degli altari

BIBLIOGRAFIA

: Evangelista P.- Lazzarini L., 1915 Montana G.- Gagliardo Briuccia V., 1998, pp. 78-79


DIASPRO DI SANTA CRISTINA GELA

Scheda n° 12

CODICE MARMO

: DiSc

NOME PIU’ USATO

: Diaspro di Santa Cristina Gela

SINONIMI

:/

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Diaspro p.d.

DESCRIZIONE

: Diaspro avente struttura radicellare o radicellareagatata con colorazione di insieme rosso cupo e/o giallastra, talvolta con sfumature verdi

LOCALITA’ DI CAVA

: Santa Cristina Gela - Palermo

EPOCA D’USO

: Dal Rinascimento in poi; soprattutto in età Barocca

TIPOLOGIA D’USO

: Decorazioni dei paliotti e dei tabernacoli degli altari

BIBLIOGRAFIA

: Evangelista P.- Lazzarini L., 1915 Montana G.- Gagliardo Briuccia V., 1998, pp. 78-79


ROSSO DI LEVANTO

Scheda n° 13

CODICE MARMO

: RL

NOME PIU’ USATO

: Rosso di Levanto

SINONIMI

: Rosso Levanto Antico, Rosso Deiva

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Oficalce

DESCRIZIONE

: Fondo rosso cupo sanguigno tendente al violaceo con plaghe di colore verde scuro-nerastro e venature bianco-giallastre di calcite fittamente ramificate

LOCALITA’ DI CAVA

: Chiavari, Levanto, Deiva – La Spezia

EPOCA D’USO

: Dal XVII secolo in poi

TIPOLOGIA D’USO

: Piccole lastre, rivestimenti parietali e pavimentali, specchi di altare, decorazioni ad intarsio

BIBLIOGRAFIA

: Pieri M., 1966, p. 523 Lazzarini L., 1986, p. 97 Montana G.- Gagliardo Briuccia V., 1998, p. 72 Chiello G., 1996


VERDE DI LEVANTO

Scheda n° 14

CODICE MARMO

: VL

NOME PIU’ USATO

: Verde di Levanto

SINONIMI

: Verde Framura, Verde Deiva

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Oficalce

DESCRIZIONE

: Fondo verde cupo con plaghe di colore rosso scuronerastre, scarsamente accennate, e venature biancogiallastre di calcite fittamente ramificate

LOCALITA’ DI CAVA

: Chiavari, Levanto, Deiva – La Spezia

EPOCA D’USO

: Dal XVII secolo in poi

TIPOLOGIA D’USO

: Piccole lastre, rivestimenti parietali e pavimentali, specchi di altare, decorazioni ad intarsio

BIBLIOGRAFIA

: Pieri M., 1966, p. 523 Lazzarini L., 1986, p. 97 Montana G.- Gagliardo Briuccia V., 1998, p. 72


VERDE DI CALABRIA

Scheda n° 15

CODICE MARMO

: VC

NOME PIU’ USATO

: Verde di Calabria

SINONIMI

: Verde di Gimigliano

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Oficalce serpentinoso

DESCRIZIONE

: Pietra dal colore d’insieme verde scuro e plaghe verde pallido e venature bianco-giallastre fittamente ramificate costituite da calcite spatica

LOCALITA’ DI CAVA

: Amantea, S. Mango D’Aquino – Cosenza Gimigliano - Catanzaro

EPOCA D’USO

: Dal Rinascimento in poi

TIPOLOGIA D’USO

: Colonne, rivestimenti parietali e pavimentali, specchi d’altare e balaustre, decorazioni ad intarsio

BIBLIOGRAFIA

: Pieri M., 1966, p. 630 Montana G.- Gagliardo Briuccia V., 1998, pp.73- 74 Chiello G., 1996


VERDE ALPI

Scheda n° 16

CODICE MARMO

: VA

NOME PIU’ USATO

: Verde Alpi

SINONIMI

: Verde Issogne, Verde Chatillon, Verde S. Maria, Verde Champdepraz

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Oficalce serpentinoso

DESCRIZIONE

: Colore d’insieme verde cupo tendente al bluastro con plaghe di colore verde scuro e bianco-giallastro

LOCALITA’ DI CAVA

: Issogne, Chatillon, Champdepraz – Val D’Aosta

EPOCA D’USO

: Dal Rinascimento in poi

TIPOLOGIA D’USO

: Colonne, rivestimenti parietali e pavimentali, specchi d’altare e balaustre, decorazioni ad intarsio

BIBLIOGRAFIA

: Pieri M., 1966, p. 626 Lazzarini L. , 1986, p. 100 Montana G.- Gagliardo Briuccia V., 1998, p. 74 Chiello G., 1996


GIALLO DI SIENA

Scheda n° 17

CODICE MARMO

: GS

NOME PIU’ USATO

: Giallo di Siena

SINONIMI

:/

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Calcare compatto a grana fine

DESCRIZIONE

: Pietra dal colore d’insieme giallo ocra caldo, con sfumature giallo cupo e giallo pallido e macchie grigio biancastre

LOCALITA’ DI CAVA

: Montagnola Senese – Siena

EPOCA D’USO

: Poco usato in età romana. Cavato nuovamente a partire dal Rinascimento

TIPOLOGIA D’USO

: Pavimentazioni, rivestimenti parietali, modanature

BIBLIOGRAFIA

: Pieri M., 1966, pp. 346-347 Montana G.- Gagliardo Briuccia V., 1998, p. 73 Chiello G., 1996


PAVONAZZETTO DI SIENA

Scheda n° 18

CODICE MARMO

: PS

NOME PIU’ USATO

: Pavonazzetto di Siena

SINONIMI

: Broccatello di Siena

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Calcare compatto a grana fine

DESCRIZIONE

: Fondo colore giallo dorato con macchie e venature a reticolo scuro violaceo fittamente ramificato

LOCALITA’ DI CAVA

: Montagnola Senese – Siena

EPOCA D’USO

: Dal Rinascimento in poi

TIPOLOGIA D’USO

: Lastre di rivestimento, modanature, balaustre

BIBLIOGRAFIA

: Pieri M., 1966, pp. 346-347; p. 215 Montana G.- Gagliardo Briuccia V., 1998, p. 73 Chiello G., 1996


BRECCIA DI SERAVEZZA

Scheda n° 19

CODICE MARMO

: BrS

NOME PIU’ USATO

: Breccia di Seravezza

SINONIMI

: Breccia di Seravezza antica

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Metabreccia

DESCRIZIONE

: Cemento viola scuro con clasti bianchi, rossi, rosati, verde pallido o gialli. Si differenzia da quella Medicea perché maggiormente brecciata e per la minore presenza di cemento viola scuro

LOCALITA’ DI CAVA

: Seravezza – Lucca (Alpi Apuane)

EPOCA D’USO

: Conosciuta dai romani. Fu cavata diffusamente dal XVI secolo in poi.

TIPOLOGIA D’USO

: Colonne, rivestimenti parietali e pavimentali, specchi d’altare e balaustre, decorazioni ad intarsio

BIBLIOGRAFIA

: Pieri M., 1966, p. 70 Gnoli R., 1988, pp. 240–241 Lazzarini L. , 1986, p. 98 Chiello G., 1996


BRECCIA MEDICEA

Scheda n° 20

CODICE MARMO

: BrM

NOME PIU’ USATO

: Breccia Medicea

SINONIMI

: Breccia di Stazzema

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Breccia metamorfica (metabreccia)

DESCRIZIONE

: Cemento viola chiaro con clasti bianchi, rossi, rosati, verde pallido o gialli. Si differenzia da quella di Serravezza per la minore presenza di cemento viola scuro

LOCALITA’ DI CAVA

: Monte Corchia, Stazzema – Lucca (Alpi Apuane)

EPOCA D’USO

: Conosciuta dai romani. Fu cavata diffusamente dal XVI secolo in poi.

TIPOLOGIA D’USO

: Colonne, rivestimenti parietali e pavimentali, specchi d’altare e balaustre, decorazioni ad intarsio

BIBLIOGRAFIA

: Pieri M., 1966, p. 73 Lazzarini L., 1986, p. 98 Chiello G., 1996


ALABASTRO DI PALOMBARA

Scheda n° 21

CODICE MARMO

: AC

NOME PIU’ USATO

: Alabastro di Palombara

SINONIMI

: Alabastro di Palombara antico

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Alabastro calcareo

DESCRIZIONE

: Pietra avente tessitura stratificata con fondo bianco oppure giallo e macchie variabili sia per la forma che per i colori

LOCALITA’ DI CAVA

: Jano di Montaione - Firenze

EPOCA D’USO

: Dal Rinascimento in poi

TIPOLOGIA D’USO

: Paliotti e rivestimenti degli altari, pavimentazioni di lusso, scultura

BIBLIOGRAFIA

: Gnoli R., 1988, pp. 225–226 Pieri M., 1966, p. 7 Chiello G., 1996


PORTORO

Scheda n° 22

CODICE MARMO

: NP

NOME PIU’ USATO

: Portoro

SINONIMI

: Nero di Portovenere

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Calcare carbonioso con venature limonitiche

DESCRIZIONE

: Fondo nero assoluto con vene e noduli di colore giallo oro o rossicci più o meno brecciato

LOCALITA’ DI CAVA

: Portovenere, Monte Castellana – La Spezia

EPOCA D’USO

: Dal tardo Rinascimento in poi; soprattutto in età Barocca

TIPOLOGIA D’USO

: Specchiature d’altare, modanature, decorazioni ad intarsio

BIBLIOGRAFIA

: Pieri M., 1966, pp. 473 - 474 Lazzarini L., 1986, p. 94 Montana G.- Gagliardo Briuccia V., 1998, p. 74 Chiello G., 1996


NERO ASSOLUTO

Scheda n° 23

CODICE MARMO

: NA

NOME PIU’ USATO

: Nero Assoluto

SINONIMI

:/

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Calcare carbonioso e bituminoso

DESCRIZIONE

: Pietra dal fondo nero uniforme

LOCALITA’ DI CAVA

: Varie località del veronese

EPOCA D’USO

: Usato a partire dalla seconda metà del ‘400 in poi

TIPOLOGIA D’USO

: Zoccoli degli altari, rivestimenti di balaustre, lastre ed intarsi pavimentali, modanature

BIBLIOGRAFIA

: Lazzarini L., 1986, pp. 93–94 Pieri M., 1966, pp. 15–16 Chiello G., 1996


MARMO DI CARRARA LUNENSE

Scheda n° 24

CODICE MARMO

: MCL

NOME PIU’ USATO

: Marmo di Carrara

SINONIMI

: Marmo Lunense

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Marmo p.d.

DESCRIZIONE

: Marmo cristallino a struttura saccaroide dal colore bianco candido

LOCALITA’ DI CAVA

: Massa Carrara – varie località delle Alpi Apuane

EPOCA D’USO

: In epoca romana a partire dal I sec. a.C. Nuovamente usato dal Rinascimento in poi

TIPOLOGIA D’USO

: Pavimentazioni, mense, predelle, telai di contenimento dei marmi mischi, statuaria

BIBLIOGRAFIA

: Pieri M., 1966, p. 359 Pieri M., 1957, p. 82 Gnoli R., 1988 Lazzarini L., 1986, p. 93 Chiello G., 1996


ROSSO DI FRANCIA

Scheda n° 25

CODICE MARMO

: RF

NOME PIU’ USATO

: Rosso di Francia

SINONIMI

: Rosso Linguadoca

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Calcare compatto a pigmentazione ematitica

DESCRIZIONE

: Fondo rosso acceso vivace, un po’ tendente al sanguigno su cui spiccano macchie e fioriture di calcite dal colore bianco

LOCALITA’ DI CAVA

: Aude - Francia

EPOCA D’USO

: Periodo romanico (Francia) Periodo Barocco (Italia e resto d’Europa)

TIPOLOGIA D’USO

: Balaustre, pavimenti, decorazioni parietali, decorazioni ad intarsio, colonne

BIBLIOGRAFIA

: Pieri M., 1952, p. 60 Pieri M., 1966, p. 532 Lazzarini L., 1986, p. 97 Chiello G., 1996


FIOR DI PESCO

Scheda n° 26

CODICE MARMO

: FP

NOME PIU’ USATO

: Fior di Pesco

SINONIMI

: Marmor Chalcidicum

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Calcare cataclastico

DESCRIZIONE

: Toni pavonazzi con vene e frammenti tra loro intrecciati e sovrapposti dal colore talvolta bianco o bianco grigiastro ma più spesso rosa chiaro, rossi o violetti

LOCALITA’ DI CAVA

: Eretria (Calcide) – Grecia

EPOCA D’USO

: Largamente utilizzato dai romani. Nuovo utilizzo quale materiale di reimpiego in età Barocca

TIPOLOGIA D’USO

: Colonne, pavimentazioni, rivestimenti parietali, specchiature, tarsie marmoree

BIBLIOGRAFIA

: Pieri M., 1966, pp. 184-186 Gnoli R., 1988, pp. 232-235 Lazzarini L., 1986, pp. 97-98


IASSENSE

Scheda n° 27

CODICE MARMO

: IA

NOME PIU’ USATO

: Marmo Iassense

SINONIMI

: Marmo Cario, Cipollino Rosso

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Calcescisto a pigmentazione ematitica, talora passante a breccia metamorfica

DESCRIZIONE

: Fondo rosso sangue o pavonazzo a struttura microcristallina con macchie piccole ed oblunghe generalmente di colore bianco

LOCALITA’ DI CAVA

: Iaso - Turchia

EPOCA D’USO

: Utilizzato dai romani sicuramente a partire dal III sec. d.C. ; fu tra le pietre favorite dai bizantini Successivamente lo troviamo usato solo come materiale di reimpiego

TIPOLOGIA D’USO

: Lastre di rivestimento parietale, sarcofagi, tessere musive, piccole colonne

BIBLIOGRAFIA

: Lazzarini L., 1986, p. 97 Pieri M., 1966, p. 370 Marmi Antichi (AA.VV.), 1989, p. 289


VERDE ANTICO

Scheda n° 28

CODICE MARMO

: VAN

NOME PIU’ USATO

: Verde Antico

SINONIMI

: Marmor Thessalicum, Marmor Atracium

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Oficalce del Cretacico

DESCRIZIONE

: Pietra compatta a grana fine dal colore verde vivace e caratterizzata da macchie di colore verde scuro, nero e bianco

LOCALITA’ DI CAVA

: Larissa (Tessaglia) – Grecia

EPOCA D’USO

: Usato a partire dalla Tarda età Imperiale (Imperatore Adriano) e cavato in grande quantità in età bizantina

TIPOLOGIA D’USO

: Colonne, pavimentazioni, rivestimenti parietali, modanature

BIBLIOGRAFIA

: Pieri M., 1966, pp. 626-627 Gnoli R., 1988, pp. 165-166 Lazzarini L., 1986, p. 99 Chiello G., 1996


BRECCIA DI SCIRO

Scheda n° 29

CODICE MARMO

: BrSc

NOME PIU’ USATO

: Breccia di Sciro

SINONIMI

: Breccia di Settebasi, Marmor Scyrium

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Breccia fortemente metamorfosata

DESCRIZIONE

: Fondo pavonazzo con numerosissime macchie di forma allungata e di dimensione variabile per lo più di colore bianco, ma anche rosso e giallo

LOCALITA’ DI CAVA

: Skyros– Grecia

EPOCA D’USO

: Importata gia nel primo secolo a.C. dai romani, fu largamente utilizzata fino all’epoca tardoantica. Nuovo utilizzo quale materiale di reimpiego in età Barocca

TIPOLOGIA D’USO

: Colonne, pavimentazioni, rivestimenti parietali, specchiature, tarsie marmoree

BIBLIOGRAFIA

: Pieri M., 1966, pp. 564-565 Gnoli R., 1988, pp. 232-235 Lazzarini L., 1986, p. 98


BROCCATELLO DI SPAGNA

Scheda n° 30

CODICE MARMO

: BS

NOME PIU’ USATO

: Broccatello di Spagna

SINONIMI

:/

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Calcare fossilifero a Rudiste del Cretacico

DESCRIZIONE

: Fondo picchiettato di piccolissime lumachelle. La sua tonalità è giallo dorata con cemento calcareo giallo bruno e rosso vinoso piuttosto vivace.

LOCALITA’ DI CAVA

: Tortosa – Spagna

EPOCA D’USO

: Tarda età Imperiale. Cavato nuovamente a partire dalla fine del XVI secolo, soprattutto in età Barocca

TIPOLOGIA D’USO

: Cornici, rivestimenti parietali e pavimentali, decorazioni ad intarsio

BIBLIOGRAFIA

: Pieri M., 1966, p. 79 Lazzarini L., 1986, p. 98 Gnoli R., 1988, pp. 210-211 Pensabene P., 1998 Montana G.- Gagliardo Briuccia V., 1998, pp. 72-73


LAPISLAZZULO

Scheda n° 31

CODICE MARMO

: LA

NOME PIU’ USATO

: Lapislazzulo

SINONIMI

:/

CLAS.NE PETROGRAFICA

: Lazurite impura

DESCRIZIONE

: Pietra lucida dal colore blu intenso ed uniforme

LOCALITA’ DI CAVA

: Afganistan

EPOCA D’USO

: Dal IV millennio a.C. fino ai nostri giorni

TIPOLOGIA D’USO

: Lastrine di rivestimento, tessere pavimentali, decorazione dei paliotti

BIBLIOGRAFIA

: Lazzarini L., 1986, p. 98 Chiello G., 1996


MARMI NON IDENTIFICATI

Scheda n° 32

Gela – Chiesa di San Giuseppe (PP. Agostiniani) - Altare del Crocifisso Barrafranca – Chiesa di San Francesco - Altare del Crocifisso

CODICE MARMO

: n.i. 1

DESCRIZIONE

: Pietra brecciata dal colore di fondo giallo dorato con elementi di varia forma e dimensioni di colore bianco

Enna – Chiesa Santuario di San Giuseppe - Altare Maggiore

CODICE MARMO

: n.i. 2

DESCRIZIONE

: Pietra brecciata dal colore di fondo viola chiaro, con elementi di varia dimensione e forma di colore bianco giallognolo e con inserti di calcite bianca


MARMI NON IDENTIFICATI

Scheda n° 33

Niscemi – Chiesa Santuario della Madonna del Bosco - Altari laterali

CODICE MARMO

: n.i. 3

DESCRIZIONE

: Pietra violacea con striature generalmente di colore bianco oppure viola scuro fra loro parallele

CODICE MARMO

: n.i. 4

DESCRIZIONE

: Pietra dal colore di insieme rosso violaceo con venature ramificate di colore bianco oppure bianco grigiastro


MARMI NON IDENTIFICATI

Scheda n° 34

Niscemi – Chiesa di Santa Maria dell’Itria - Altare della Madonna del Carmelo

CODICE MARMO

: n.i. 5

DESCRIZIONE

: Pietra brecciata dal colore di fondo rosso cupo con elementi di varia dimensione e dalla forma per lo più rotondeggiante di colore bianco

CODICE MARMO

: n.i. 6

DESCRIZIONE

: Pietra brecciata dal colore di fondo rosso – arancio con elementi generalmente di piccole dimensioni di colore bianco


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