Terre Farfensi. Terre Felici - Monteleone di Fermo, Belmonte Piceno e Servigliano

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COMUNE DI MONTELEONE DI FERMO

COMUNE DI BELMONTE PICENO

COMUNE DI SERVIGLIANO

Terre Farfensi. Monteleone di Fermo, Belmonte Piceno, Servigliano

Terre Felici Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale

Consorzio di Sviluppo Industriale d el Fermano

Il progetto si avvale del cofinanziamento della Regione Marche e del Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale


Testi: Adolfo Leoni Redazione: Ivano Bascioni, Marco Fabiani, Marco Rotoni, Giada Fiori, Silvia Liberini, Virginia Luchetti, Loris Germani, Alessandro Achilli Impaginazione, grafica, stampa: Promo Service - Grottazzolina Foto: Archivio Comune di Belmonte Piceno, Archivio Comune di Monteleone di Fermo, Archivio Comune di Servigliano, Sito Web Torneo Cavalleresco Castel Clementino Finito di stampare gennaio 2018 2


Terre farfensi. Terre felici. Abbiamo titolato così questa piccola guida per viandanti, pellegrini, cercatori di Bellezza. Persone. I monaci benedettini farfensi furono coloro che in queste contrade, prima di tutte Santa Vittoria in Matenano, portarono una rivoluzione: religiosa, sociale, economica. L’inizio l’abbiamo immaginato così…

Verso la fine di una giornata di ottobre una dozzina di uomini che portavano carichi molto pesanti si fermò al margine di una radura all’interno di una foresta, una foresta come tante, che si trovava nei pressi di un fiume, un fiume come tanti. Pioveva dal mattino, una pioggia pesante e fredda, e i vestiti, imbevuti d’acqua, pesavano sulle spalle di quegli uomini intirizziti, impauriti, affamati. Era quella la loro meta? E se non quella, quale, allora? Colui che sembrava essere la guida si guardò in giro, lasciò cadere a terra il sacco che aveva in spalla, salì a fatica su una collinetta scivolosa, scrutò davanti a sé e tutt’intorno a sé. La visuale era poca, ma sufficiente. Campi, alberi, selvaggina, acqua… Poi chiamò i fratelli, li raccolse tutti, attendendo anche il più stanco, il più vecchio, il più emaciato. Quando la comunità fu al completo, disse: «È ben questo il luogo che c’era stato annunciato. Credo che andrà bene per noi. E ringraziamo Iddio di averci permesso di arrivare fino a qui, sani e salvi». 3


Poi, insieme, così come avevano camminato, dormito, mangiato, sfidato il freddo, la fame, le fiere, così insieme s’inginocchiarono nel fango gelato e pregarono. E i loro inni si alzarono più alti delle brume della sera, più alti delle nebbie più fitte. Più oltre. Erano distanti dai villaggi, lontani da altri uomini… ma erano vicini a Dio. Erano in un paese sconosciuto e selvaggio, intricato e fosco… ma erano vicini a Dio. Erano, consistevano, vivevano. Sarebbero vissuti. Erano i Viventi.. In quel luogo dove s’installarono per la notte s’installarono per sempre. Mai più sarebbero tornati alle loro case. Anzi, alla loro casa. A quel monastero da cui erano partiti molto tempo prima. Erano monaci. Erano benedettini. La foresta aveva un nome, anzi, mille ne aveva. Anche il fiume aveva un nome, anzi ne aveva mille. Perché tutto ciò accadde, identico, lungo la Loira, in terra di Francia; lungo la Vistola, in terra Polacca; lungo il Boyne, in terra d’Irlanda; lungo il Tweed, in terra di Scozia; lungo il Pò, in terra d’Italia; lungo il Tenna, in Terra di Marca. Identico, sempre identico. Si moltiplicarono così i monasteri e l’Europa fu coperta da migliaia di stupende costruzioni bianche slanciate verso il cielo. Unica la regola, quella del padre Benedetto. Capitò qualcosa di molto simile anche sui nostri monti fatati. Stava finendo l’anno Ottocento. Da quattro secoli le insegne romane erano state poste in salvo a Bisanzio. L’impero di Roma era solo un lontano ricordo. Le grandi strade romane devastate, gli acquedotti distrutti, i campi incolti, bruciati o saccheggiati dalle invasioni di quelli che furono detti barbari. Né legge né ordine. Il comando al più forte. Era tempo di ferro ed era tempo di sangue.

Monteleone di Fermo 4


Là, oltre quella montagna dove si narrava di una donna leggendaria, c’era un’altra montagna e dietro ce n’era un’altra ancora. Uomini pii abitavano il monastero di Farfa. Uomini dediti alla preghiera e al lavoro… al lavoro e alla preghiera. Non era maledizione il lavorare, riempiva la vita di senso il pregare. L’uno e l’altro incessantemente. Qualcosa di nuovo e di sconvolgente. A chi poteva dar fastidio quella comunità? A chi, e soprattutto: perché? Ma ci sono domande che non andrebbero mai poste. Perché non trovano risposta adeguata: il male a volte prende il sopravvento nei cuori degli uomini così, all’improvviso, inspiegabilmente. Come se aleggiasse sempre su di noi, pronto a colpire. Come se permanesse dentro di noi, pronto ad erompere Da tempo quegli uomini pii avevano dovuto respingere gli assalti dei Saraceni, sempre più vicini, sempre più prossimi alla casa di Dio e alla casa dei suoi monaci. Una notte accadde che il monastero fosse ghermito dalle fiamme. Il monaco di guardia suonò furiosamente la campana. Era quella del pericolo imminente. «I Saraceni stanno dando l’assalto al monastero, sono quasi dentro le mura, hanno già bruciato i laboratori… difendiamoci, fuggiamo, difendetevi, fuggite». Sarebbe stata l’ultima battaglia. Quella decisiva. Ma quella volta i Saraceni non c’entravano proprio. Quella volta non c’entravano le soldataglie. Quella volta c’entrarono i cristiani, ladri… cristiani, nessun moro, nessun biondo dalla lunga barba. Gente del luogo, invece, gente di qualche villaggio vicino. Ladri, razziatori, violenti. Il male che aleggia… il male che erompe.

Belmonte Piceno 5


Le fiamme furono però le stesse di un attacco in grande stile e quando il sole tornò a splendere su Farfa, quel luogo non poteva più essere difeso. Fu allora che l’Abate prese la sua decisione. Forse la più dura della sua esistenza: abbandonare il monastero, andarsene altrove. Per sette anni Pietro I l’aveva difeso. Più volte aveva sconfitto gli invasori. Stavolta fratelli cristiani però lo avevano messo in ginocchio. Radunò i suoi monaci, Pietro I, raccolse il tesoro di Farfa, divise gli uni e l’altro in tre parti. Benedì tutti e spedì un gruppo a Roma e un altro a Rieti. Il terzo, di cui si mise a capo e con tutti i documenti dell’archivio, lo mandò verso nord-est. Verso i monti fatati. Correva l’anno 898 quando le genti del Piceno videro arrivare un gruppo di monaci Benedettini. Proveniva dalla Sabina. Erano Farfensi. Li guidava il loro Abate. C’erano nel fermano terre lasciate ai benedettini da alcuni nobil uomini. Le raggiunsero. Quindi, cercarono i luoghi più adatti per una nuova vita. Raggiunsero il Matenano, un luogo difendibile, una rocca naturale che s’ergeva sopra due valli boscose, ricche di animali e, soprattutto, ricche di acque. Sulla sommità del Matenano depositarono le spoglie della loro santa, Vittoria. Dal Matenano iniziarono una rivoluzione religiosa, civile, sociale, agricola. Una rivoluzione giunta sino a noi. Noi, uomini d’oggi. Noi che dopo mille illusioni, mille chimere, mille sogni tramutati in incubi, siamo tornati a cercare il senso delle cose. E pensiamo di trovarlo dove? Basterebbe voltarci un attimo, o alzare lo sguardo sulle nostre chiese, o guardare la geometria dei campi, o scrutare a fondo nel nostro cuore. Perché qui, come un marchio indelebile, qui, nel nostro cuore, c’è iscritto un senso dell’essere e del vivere, un’esperienza che viene, come da una catena ininterrotta di generazioni, da oltre un millennio Quell’Ora et Lege et Labora, anche se inconsapevolmente, è stata la nostra bussola, il sangue circolato nelle nostre vene, lo stesso nostro respiro.

Servigliano 6


INDICE

COMUNE DI BELMONTE PICENO SINDACO IVANO BASCIONI pag. 8 STORIE E PERSONAGGI FAMOSI SILVESTRO BAGLIONI pag. 9 GIUSTINA AGOSTINI SBAFFONI pag. 10 LEGGENDE DEL TERRITORIO IL TELAIO D’ORO pag. 11 USI COSTUMI E TRADIZIONI L’ANDAR PER ERBE E PER TRADIZIONI pag. 13 PIATTI E RICETTE ANTICHI pag. 15 IL FATTO LO SCUOLABUS pag. 16 TRADIZIONI CULINARIE FOCACCINE CON PESTO ALL’AGLIO ORSINO pag. 17 PATRIMONIO STORICO ARTISTICO CHIESA SANTA MARIA IN MURIS pag. 18 MUSEO ARCHEOLOGICO COMUNALE pag. 20 RICETTIVITÀ pag. 22

COMUNE DI MONTELEONE DI FERMO SINDACO MARCO FABIANI pag. 24 STORIE E PERSONAGGI FAMOSI PADRE PIETRO CONSOLINI pag. 25 IL CASO I VULCANELLI pag. 27 LEGGENDE DEL TERRITORIO LO SDRAGO pag. 28 INIZIATIVE LA CASA DEL PITTORE pag. 30 TRADIZIONI CULINARIE I VINCISGRASSI pag. 32 LA TRIPPA pag. 34 PATRIMONIO STORICO ARTISTICO CHIESA DELLA MISERICORDIA pag. 35 RICETTIVITÀ pag. 38

COMUNE DI SERVIGLIANO SINDACO MARCO ROTONI pag. 40 STORIE E PERSONAGGI FAMOSI AMERINDO CAMILLI pag. 41 LUIGI VECCHIOTTI pag. 42 GUIDO PACI pag. 44 USI COSTUMI E TRADIZIONI TERRE FARFENSI, TERRE FELICI pag. 45 LEGGENDE DEL TERRITORIO LA LEGGENDA DEGLI INSORGENTI pag. 46 USI E COSTUMI IL FIUME TENNA pag. 48 TRADIZIONI CULINARIE LA CUCINA NEL BORGO pag. 50 PATRIMONIO STORICO ARTISTICO PIAZZA ROMA pag. 51 CONVENTO SANTA MARIA DEL PIANO pag. 52 RICETTIVITÀ pag. 54 7


comune di BELMONTE PICENO

il sindaco:

IVANO BASCIONI

Belmonte Piceno Popolazione: 628 abitanti Superficie: 10,53 km² Densità: 59,63 ab./km² Piazza G. Leopardi n.6 63838 Belmonte Piceno (FM) tel: 0734/771100 fax: 0734/771291 info@comunebelmontepiceno.it comune.belmontepiceno@pec.it Eventi - Arriva la Befana! 6 Gennaio - Festa di Sant’Antonio 17 Gennaio - Polentata del giovedì grasso - Le erbe dimenticate (periodo estivo) - Festa di Santa Croce 1-2-3 Maggio - Le vie della musica serate estive - Domenica da Cani (dom. di estate) - Sagra della rana (1° w.e. di Sett.) - Il Paese dei Balocchi (sett./ott.) - Belmonte apre le porte al Natale 1ª domenica di Dicembre. 8

La domanda non è «perché venire a Belmonte Piceno, ma perché non venire a Belmonte Piceno?». È il sindaco Ivano Bascioni a capovolgere la domanda e dare la risposta: clima ottimo, paesaggio stupendo, enogastronomia eccezionale e buona vita di paese? Da qui si parte, dal «clima umano che non si riscontra nei centri maggiori, figurarsi nelle grandi città. È una sorpresa, ad esempio, trovare parcheggio facilmente. E poi c’è silenzio e c’è il rapporto tra la gente che è quello della solidarietà». Bascioni non lo dice ma pensa a «lu rrejutu» a quella solidarietà in campagna che portava i vicini a darsi una mano nei momenti di gran lavoro o di festa, o di situazioni incresciose. Cosa può ambire un turista se non ad una possibilità di avere tempo e modo per ritrovare se stesso, per starsene con se stesso. Non solo un nuovo turismo, ma un nuovo modo di pensare. Ma Ivano Bascioni non si ferma qui ed elenca le altre bellezze e possibilità del suo paese. Cita Santa Maria in Muris, più conosciuta come San Simone. Venne eretta sulle mura preesistenti dai monaci benedettini di Farfa. Si trova all’entrata del paese. Intorno c’erano oliveti e vigneti. È un luogo magico. C’è poi la Torricella con il suo parco naturale dove la flora gode di un microclima: una collina degradante a tre «gironi danteschi» usando un paragone con la Commedia dell’Alighieri. E ci sono le Morrecini, su un’altura lungo la strada per Grottazzolina, grossi ruderi di pietra arenaria, resti di un monumento funerario di epoca romana, risalente al I secolo dopo Cristo. Non è possibile dimenticare, in pieno centro storico, il Museo Archeologico Comunale, inaugurato il 4 ottobre del 2015, sede di una notevole raccolta di oggetti risalenti alla Civiltà Picena: gioielli, arredi, strumenti di uso quotidiano, dove l’ambra, che arrivava dal Baltico, primeggiava. È lo spaccato di un mondo. Bascioni ricorda gli scavi che portarono al ritrovamento delle necropoli picene e annuncia la riapertura di un cantiere «per portare alla luce nuovi tesori». Perché non venire allora nella Terra dei Piceni, nella Terra dei Farfensi?


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storie e personaggi Silvestro Baglioni, ovvero un genio, un uomo dai mille interessi, dalla curiosità spiccata, dalle competenze mediche e artistiche non comuni. La sua vita, iniziata a Belmonte Piceno nel 1876 (morì nel 1957), è quella di una ascesa senza presunzioni. Da figlio di un modesto agricoltore a docente universitario, a scienziato della fisiologia, a studioso di archeologia, musica e poesia.

SILVESTRO BAGLIONI

Come fisiologo «compì studi riguardo le proprietà del sistema nervoso centrale». Di lui si ricordano “Il metodo Baglioni” e “Il preparato centrale di Baglioni”. Ideò un nuovo apparecchio chiamato toracopneumografo per esaminare i movimenti respiratori nelle diverse zone del torace e dell’addome. Dopo la laurea, fu chiamato ad insegnare in Germania, all’università di Gottinga, come assistente del celebre professor Max Verwon che lo aveva avuto studente a Jena. A Napoli svolse studi e ricerche nel campo della fisiologia e dei centri nervosi degli animali marini. Passato all’Università di Sassari, si occupò di «tecniche della respirazione a fiato continuo che permise ai suonatori di strumenti a fiato di non interrompere il suono nel respirare». In Italia ebbe la cattedra nelle università di Napoli, Pavia e Sassari. Infine, per trent’anni fu docente a Roma. Numerosissime le sue pubblicazioni che, essendo poliglotta, redigeva direttamente nelle diverse lingue nazionali. Occupandosi anche di alimentazione, fu il primo a indicare le proprietà benefiche delle acque termali di Sarnano. I suoi interessi scientifici si allargarono anche alla estesiologia, elettrofisiologia, etmologia e psicologia. In campo musicale ideò una scala di quarti di tono rifacendosi a «un antico genere musicale greco che applicò all’enarmonium, uno strumento musicale a due tastiere da lui ideato». Tra le sette note e la poesia, musicò alcuni canti di Giacomo Leopardi. Amante, come dicevamo, di arte e archeologia, scoprì la grande necropoli picena di Belmonte di cui personalmente seguì gli scavi pubblicando i ritrovamenti.

Tra i più importanti lavori scientifici si ricordano: La fisiologia del midollo spinale allungato, ibid., IV (1905), pp. 384-437; L’azione fisiologica dell’urea sul cuore dei vertebrati, ibid.,pp. 481-492 (in coll. con G. Federigo); Il nesso tra le condizioni esterne e la forma e la funzione di alcuni organi nei pesci, II,Vescica natatoria, in Monitore zool. ital., XIX (1908), pp. 200-207; Azione di alcune sostanze chimiche sulle zone eccitabili della corteccia cerebrale del cane, in Arch. di fisiol., VI (1909), pp. 240-249; Sull’azione elettiva della stricnina su determinate parti del sistema nervoso centrale, in Arch. di farmacologia sperimentale e scienze affini, X (1911), pp. 204-206; Movimenti respiratori e fonazione, in Arch. Néerl. de Physiol. de l’Homme et des Animaux, VII (1922), pp. 484-487; Metodo per l’esame funzionale degli organi di senso dell’orecchio interno, in Rend. d. R. Accad. d’Italia, s. 7, I (1940), pp. 677-681. 9


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storie e personaggi

GIUSTINA AGOSTINI SBAFFONI

Specie negli anni Cinquanta e Sessanta, era un continuo pellegrinaggio verso la sua casa di campagna a Belmonte Piceno. E lei riceveva tutti e aveva una parola di conforto, una preghiera. Stiamo parlando di Giustina Agostini Sbaffoni (1882-1972). Dicevano che fosse una veggente, una guaritrice, una santa. Il dr Luigi Bertoni scrisse che «Nell’immediato dopoguerra, quando ancora Giustina non si conosceva, un signore di Grottazzolina si recò da Padre Pio per chiedere la grazia della guarigione di sua moglie affetta da una grave malattia. Quando il frate lo vide, prima ancora che egli profferisse parola, gli disse: “Perché vieni da me? Non lungi da casa tua c’è una donna che può presso Dio quanto me. Comunque va: tua moglie guarirà”». La notizia si diffuse. Giustina accoglieva le persone seduta dietro ad un piccolo tavolo collocato nella stalla. In mano aveva il rosario i cui grani scorrevano tra le dita, gli occhi fissi al cielo. Con l’altra mano toccava la parte malata. Come un radar, come una santa guaritrice. La ricordano come una donna molto religiosa. Mai che un soldo finisse nella sua tasca. Se qualcuno insisteva per un’offerta, Giustina la dirottava per il «restauro della chiesetta di Sant’Anna» o per quella della Madonna delle Grazie. «… nonno e nonna – spiegava Gaetano Sbaffoni, figlio di Giustina - mi raccontavano che la virtù di pregare per guarire e prevedere i fatti, l’aveva fin dalla nascita. Mi raccontavano che mamma era molto religiosa e voleva farsi suora; ma i suoi non vollero…». Quando arrivò «la “Spagnola” che mieteva moltissime vittime, soprattutto giovani, mamma allora si prodigava a visitare gli ammalati… Mi ricordo che quando parlavano di alcuni e di altri malati, lei diceva con sicurezza (e poi si avverava) i nomi di coloro che sarebbero morti nel giro di pochi giorni». Alla morte di suo marito, Giustina «diventò più religiosa ancora. Alla sera, chiusa nella sua cameretta, pregava in ginocchio. Quella sua virtù di impetrare guarigioni e di prevedere i fatti, lei l’attribuiva ad un dono di Dio. Otteneva con la preghiera le guarigioni».

La chiesetta di Sant’Anna restaurata dalle offerte raccolte dalla religiosa. 10


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leggende del territorio Il rumore soffocato iniziava in piena oscurità. Puntuale come sempre e cadenzato, si protraeva per l’intera notte. Era un tramestio di anni, di secoli e forse, come sostenevano alcuni, risalente addirittura a prima della nascita del Castello. Proveniva da lì, dalle Morrecini. Quei ruderi romani posti sulla sommità della collina dominavano la strada che da Belmonte porta a Grottazzolina. Ruderi oggi, ma un tempo importanti strutture sepolcrali. Sotto a quei pinnacoli si svolgeva un intrico di grotte e di cunicoli: quasi una città, sotterranea, lontana dalle nefandezze umane. Da una di quelle grotte, la più profonda sicuramente, emergeva il cigolio notturno. Sembrava la voce di un telaio all’opera, di un telaio d’oro, come si favoleggiava, che tessesse all’infinito la più sfarzosa delle tele. A chi appartenevano quelle mani? Qualcuno, sottovoce, parlava di Santa Polisia, figlia del prefetto romano Polimio, convertita al cristianesimo da Sant’Emidio, e già affaccendata su di un identico strumento sotto il monte dell’Ascensione. Altri, invece, ricordavano la vecchia signora di Ripalta, la “monaca” insomma, discendente di Carlo Magno, a cui Goffredo di Buglione, di ritorno dalle crociate, aveva affidato il telaio d’oro appartenuto alla moglie di Pilato. Tante volte, specie in estate, i più giovani del paese porgevano gli orecchi per cogliere il punto preciso da cui si dipartiva il suono. Mai erano riusciti ad identificare il luogo esatto. Sembrava che tutta la zona intorno alle Morrecini partecipasse del grande lavorio notturno. Di tanto in tanto, il terreno, dopo l’aratura, lasciava affiorare vestigia del passato e monete d’oro. Uomini diversi erano pronti a giurare di aver visto disseppellite non solo spade dorate ma, addirittura, un antico carro trainato da due mucche, l’insieme fuso nel prezioso metallo. Anche vasellame pregiato era stato rinvenuto. Ma la cosa più strana rimaneva la luce notturna. Come una fiaccola, si ergeva sulle Morrecini a notte fonda. Non era un lume e neppure un faro. Sembrava una torcia lasciata al vento per indicare una strada, per richiamare chi fosse fuggito o sperso nel cammino. Un tempo un giovane, narravano gli anziani, dopo mille peripezie e mille prove superate, s’era avvicinato una notte a quella fonte di luce. Sprigionava come un fuoco fatuo dalla

IL TELAIO D’ORO

Battesimo di Santa Polisia Ascoli Piceno - Palazzo dell’Arengo P.zza Arringo - Museo Comunale

Morrecini: Grossi ruderi cementizi di pietra arenaria, conglomerati di calce, rena e ciottoli di fiume, crollati uno a fianco all’altro, resti di un monumento funerario dell’epoca romana, costruito probabilmente attorno al I secolo dopo Cristo. I romani erano soliti costruire i monumenti funebri in alto, dove piede umano non potesse profanarli. Secondo la ricostruzione di alcuni studiosi, il monumento in questione aveva una struttura a torre ed era rivestito esternamente da marmi e cornicioni ornati; sulle facciate anteriori si iscrivevano epigrafi a gloria dei defunti, con segue a pag. 12 11


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leggende del territorio

IL TELAIO D’ORO continua da pag. 11 al centro una lapide più grande in onore di chi aveva fatto costruire il sepolcro. Data la monumentalità di questo complesso si può pensare ad un sepolcro collettivo, forse destinato a un gruppo familiare di alta estrazione sociale, che probabilmente aveva il controllo di tutto il territorio. Infatti il sepolcro è da mettere in relazione all’esistenza di una fitta rete abitativa, di cui si ha testimonianza nell’affioramento di resti visibile in alcune costruzioni vicine al fiume Tenna, dove furono trovati pezzi di travertino con scritte latine. La zona dei Morrecini era collegata al fiume da cunicoli sotterranei, ora crollati e gallerie murate ad arco, elementi che avevano acceso la fantasia popolare facendo pensare a tesori nascosti come oggetti d’oro a forma di animali e a un telaio d’oro che tesseva intrecciando fili dorati. (Isabella Cappella)

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terra proprio accanto ad una apertura tra le zolle. L’avventuroso vi si era ficcato dentro, lasciandosi guidare dal rumore ritmato del telaio. Per molti metri era disceso, scivolando come dentro ad un imbuto su misura. La luce in alto rischiarava un poco quelle viscere. Poi, giunto in fondo, la strada s’era fatta ampia e più forte il cigolio. Si poteva ora proseguire orizzontalmente, in piano, sino a raggiungere una grande voragine. Ai lati del camminamento, sulla pietra chiara, risaltavano incise alcune parole dal significato incomprensibile: una nenia antica da ripetere sull’orlo dell’abisso. Il nostro, disteso a terra, era avanzato carponi sin all’imbocco. Allora, una luce violenta l’aveva colto; poi, con la stessa rapidità, ogni cosa era tornata nella penombra, denotando maggiormente, giù nel fondo, un lontano, sfavillante, luccichio. Era il telaio d’oro in movimento. Ma chi fosse intento alla tela non fu possibile vedere. La terra iniziò a tremare e la bocca della fossa a richiudersi. Occorreva salmodiare quelle strane parole. Andavano pronunciate di filato. Ma la mente a quel punto si inceppò. Il giovane tentò di aprir la bocca, ma il suo era ormai solo un balbettio confuso. Il rumore del telaio intanto stava svanendo. E i muri intorno erano pronti a rovinare da un momento all’altro. La via a ritroso fu fatta in meno di un baleno. Fuori dalle Morrecini, a debita distanza da esse, l’uomo fermò la sua fuga disperata. Si distese sul terreno, madido di sudore. Tentò di far silenzio. Nell’oscurità, oltre al suo cuore, anche il telaio sconosciuto aveva ripreso a battere.


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usi, costumi e tradizioni Quando l’inverno stringeva la nostra popolazione e la campagna riposava avara, al momento, di frutta ed ortaggi, ci si sfamava con le erbe. Erbe trovate, secondo alcuni. Erbe dimenticate, per tanti. E “Le erbe dimenticate” è stata anche un’iniziativa proposta nel 2015 a Belmonte Piceno. Quali sono queste erbe, quali effetti benefici, quali le commestibili, come riconoscerle? La risposta è arrivata da un corso educativo. Gli appuntamenti proposti sono stati divisi in diversi argomenti miranti ad illustrare, ad esempio, «le proprietà medicinali, gli usi nelle tradizioni popolari e, ovviamente, i sapori delle erbe spontanee reperibili con facilità in qualsiasi terreno del circondario». La consulenza è stata affidata a specialisti che si sono avvalsi, non solo di lezioni teoriche, ma di un lavoro… sul campo, guidando camminate didattiche in mezzo alla natura. Questo ha permesso ai “corsisti” di conoscere da vicino, toccare e, a volte, cogliere, queste particolari erbe. Nel suo libro L’andar per Erbe la naturopata Gabriella Francesconi scrive che la ricerca delle erbe «può aiutare a rilassarsi, ad alleggerire la mente, a staccare la spina da una vita di impegni, a rigenerare mente e corpo» e ti fa «sentire in armonia con l’intero creato». Cambiando argomento, una delle feste religiose con ricadute nella vita quotidiana e soprattutto agricola è quella in onore di Sant’Antonio. La ricorrenza del protettore degli animali e dei contadini ricorre il 17 Gennaio. Ancora oggi, con una piccola ripresa negli ultimi anni, Belmonte Piceno si stringe intorno alla statua del Santo con una processione, al termine della quale il sacerdote benedice gli animali portati sul sagrato: cani, pecore, agnelli. Ad essere benedette sono anche le panette, in effetti dei panini che vengono poi donati a tutte le famiglie presenti. Un tempo le panette venivano portate a casa e distribuite agli animali. A proposito di animali e del loro governo, i vecchi contadini ricordano ancora una antica tradizione. È quella che riguarda la vigilia di Natale quando la stalla doveva essere pulita a lustro e gli animali fatti mangiare in abbondanza. Poi, la porta veniva serrata ancor meglio di altre volte e non la si poteva aprire prima del giorno successivo perché in quelle ore intorno alla «mezzanotte santa, quando il piccolo Bambino nasce» sarebbe

L’ANDAR PER ERBE E PER TRADIZIONI

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usi, costumi e tradizioni

L’ANDAR PER ERBE E PER TRADIZIONI continua da pag. 13

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accaduto un portento: mucche e vitelli avrebbero parlato tra loro, esattamente come qualunque altra persona. Notte d’incanti, notte di miracoli. Perché la notte de Natà, le bestie sa parlà. Un tempo molto in voga, in occasione della vigilia dell’Epifania, il cinque di gennaio, gruppi di suonatori si muovevano per la campagna al canto della Pasquella, un canto beneaugurante prosperità e novità di vita. Restando nel campo delle tradizioni religiose, una delle feste ancora molto sentite e partecipate è quella della Santa Croce. Cade il 3 maggio, ed è una ricorrenza antica. Si tratta di un frammento della vera croce dove fu giustiziato Gesù. Quella croce ritrovata sul Golgota dalla regina Elena, madre di Costantino, in un suo viaggio in Terrasanta nel quarto secolo dopo Cristo. Una processione si svolge lungo le vie del paese e, con la reliquia innalzata sopra il capo, il sacerdote benedice le campagne, il mare e la montagna lontani, e l’agglomerato urbano. Segno di una coesione tra cielo e terra. Per quanto riguarda i festeggiamenti, quelli civili iniziano invece il primo di maggio, festa dei lavoratori molto addolcita dalla ormai tradizionale sagra della Nutella e dolci tipici. Nei due giorni successivi, Belmonte Piceno si riempie di musica e giochi. Concludiamo questo succinto excursus riguardante usi e costumi con una iniziativa nata alcuni anni fa. Parliamo di Una domenica da cani. Una giornata dedicata ai migliori amici dell’uomo. La prima edizione si è svolta nel 2014, in una domenica d’estate e ha avuto come punto d’incontro il campo sportivo. L’obiettivo, secondo gli organizzatori, «è quello di far diventare la manifestazione un punto di riferimento per tutti i possessori di cani».


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usi, costumi e tradizioni Volete assaggiare un piatto diventato tradizionale a Belmonte Piceno? Allora, non resta che arrivare in paese il giovedì grasso. Perché ogni anno e in quel giorno, la piazza si trasforma in una sorta di grande tavolata della comunità dove tutti possono godere della profumata polenta, che mani esperte prepara fumante e ricca. La polentata è diventata tradizione oramai da 50 anni. In precedenza, la polenta era il cibo povero degli anni della guerra e delle carestie. Oggi è un cibo da festa e che fa festa. E, sempre legato al periodo di Carnevale, ci piace ricordare quei piatti tradizionali che andavano – e vanno ancora – sotto il nome di fritto de carnoà. Le donne di casa, sia nelle campagne che nel paese, ancora propongono e preparano la cicerchiata, le frittelle e le sfrappe. Sono le stesse donne che, qualche mese prima, in occasione del Natale, hanno approntato un caloricissimo fristingu,o frustingo o, ancora, pistringu (mai nome è stato più controverso), impasto di noci, fichi secchi, uva, arance, mandarini, scorza di limone, mandorle e pinoli. Gli ingredienti possono variare a seconda delle origini delle vergare, se a sinistra del fiume Tenna oppure a destra dell’Aso. Arrivando alle festività di Pasqua, i dolci tipici sono le ciammelle strozzose de Pasqua, li caciù de ricotta o de cascio, li maritozzi. Da qualche anno c’è stata la riscoperta, più nei ristoranti che nelle famiglie, de li frascarelli che sono, come racconta Franco Giampieri nel suo bel libro È cambiato lo munno, «piccoli grumi di farina e acqua, e un po’ di sale, conditi con sugo finto». Li hanno mangiati per decenni le donne che dovevano allattare, era anche il cibo dei tempi grami. Un piatto ritrovato è anche quello delle frittate di uova. Le si possono arricchire con germogli di vitalba, con punte di agli freschi, con le cipolle, il guanciale, i carciofi. I fagioli con le cotiche sono stati un altro piatto povero agli inizi, oggi è stato riscoperto, rilanciato e apprezzato. Ma volete conoscere il piatto più significativo di queste terre? Li vincisgrassi. Assaggiare per credere.

PIATTI E RICETTE ANTICHI

ciammelle strozzose

fristingu

cicerchiata 15


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IL FATTO

LO SCUOLABUS

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Don Milani ce l’ha insegnato: la scuola è importante, il borgo o il comune che la perdono sono destinati a inesorabile declino. Non si può lesinare su educazione ed istruzione. Dire scuola è dire bambino, allievo, studente, classe dirigente di domani. Occorre far di tutto per preservare le scuole nei paesi, dotarsi di strumenti idonei e di mezzi. Come un nuovo Scuolabus per il trasporto degli allievi. È la battaglia che sta conducendo l’amministrazione comunale chiamando a raccolta la comunità locale, gli amici, chi ha lasciato Belmonte Piceno ma sempre lo ha nel cuore. C’è bisogno di un pulmino, quello in uso è vecchio e decrepito. Va sostituito. Ne è stato individuato uno che fa alla bisogna. Ma occorrono soldi per acquistarlo. Il Comune non ne ha. È scattata allora una raccolta fondi cui tutti possono partecipare. Crowdfunding? Perché no! Così il progetto “Uno Scuolabus per Belmonte Piceno” è stato inserito sulla piattaforma Eppela. Dove si spiegano i motivi della raccolta. L’attuale Scuolabus risale al 1994 e ha superato i 400 mila chilometri. È dunque usurato ed anche piccolo rispetto al numero degli allievi che deve trasportare. «Inoltre – hanno scritto gli amministratori comunali – i bambini della scuola primaria stanno andando in un altro comune in quanto l’edificio scolastico è inagibile a causa del terremoto». Che si fa? Uno Scuolabus usato ma in buone condizione, come dicevamo, è stato individuato. È del 2009, il costo è adeguato e sostenibile. Ora occorre l’aiuto di tutti. Le famiglie si sono mobilitate e con esse anche le insegnanti che ne hanno parlato ai bambini invitandoli a fare disegni riguardanti il paese e il pulmino che si vorrebbe. Anche alcune associazioni di volontariato si sono mobilitate. Organizzeranno eventi per raccogliere fondi. «Mantenere attiva la scuola – scrivono gli amministratori significa mantenere vivo l’intero paese, cercando di evitare il lento declino che porta allo spopolamento della nostra quotidianità». Un appello. Di civiltà e di cultura. Perché i borghi sono la nostra stoffa, e i giovani il futuro.


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tradizioni culinarie

Focaccine con pesto all’aglio orsino TEMPO DI PREPARAZIONE: 1h + 30’’ per cottura al forno

PREPARAZIONE

INGREDIENTI

Versare la farina in una ciotola, con le mani formare un incavo; sbriciolare il lievito e versarlo nell’incavo con acqua tiepida. Incorporarvi mescolando un po’ di farina dal bordo; coprire e lasciar lievitare per 15 minuti a temperatura ambiente. Trascorso il periodo di lievitazione aggiungere l’acqua rimanente, 2 cucchiai di olio d’oliva e 1 cucchiaino di sale. Impastare il tutto per alcuni minuti fino ad ottenere una pasta morbida. Coprirla e lasciarla lievitare per circa 30 minuti a temperatura ambiente finché raddoppia di volume. Preriscaldare il forno a 180 °C. Stendere la pasta con il mattarello allo spessore di 1 cm sul piano di lavoro leggermente infarinato, quindi trasferirla su una teglia rivestita con carta da forno. Bagnare con 3 cucchiai di olio d’oliva e con la punta delle dita formare degli incavi nella pasta. Cospargere con il sale rimanente e cuocere la focaccia in forno per 25-30 minuti finché assume un colore dorato. Nel frattempo tostare senza grassi per 5 minuti le noci in una padella e metterle da parte. Per il pesto lavare l’aglio orsino, strizzarlo e tagliarlo a listarelle. Nel tritatutto tritare finemente l’aglio orsino e le noci mescolandoli con l’olio di oliva. Incorporare a questo composto il parmigiano grattugiato finemente e insaporire con sale e pepe. Estrarre la focaccia dal forno e lasciarla raffreddare su una griglia. Tagliarla a tranci e servirla con il pesto. Consiglio: La focaccia è buona anche con il pesto rosso che si ottiene sostituendo l’aglio orsino con i pomodori secchi.

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80 gr di farina 80 gr di farina integrale 10 gr di lievito di birra un cucchiaino di pesto di aglio orsino • un pizzico di zucchero, • sale qb, • olio extra vergine di oliva Ingredienti per il pesto: • 100 gr di foglie di aglio orsino, • 80 gr di pinoli, • 50 gr di parmigiano, • olio q.b., • sale e peperoncino q.b.

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patrimonio storico artistico

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Chiesa Santa Maria In Muris: Chiesa del X secolo costruita su i ruderi di un edificio romano dai monaci farfensi; particolarità della chiesa è la facciata a torre di vedetta che ne simboleggia la duplice funzione spirituale e difensiva.


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patrimonio storico artistico

Chiesa Santa Maria In Muris - interno 19


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patrimonio storico artistico

Museo Archeologico Comunale La mostra permanente del Museo Archeologico Comunale, inaugurata il 4 ottobre 2015, racconta la tortuosa storia dei reperti della necropoli attraverso documenti storici d’archivio e fotografie d’epoca, accompagnati da un inquadramento scientifico moderno che mette in rilievo le particolarità dei ritrovamenti belmontesi. 20


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patrimonio storico artistico

Museo Archeologico Comunale 21


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RICETTIVITÀ

B&B CASA MIRAMAR Via Marino Lucido 27 Belmonte Piceno Schwemmer Reinhold 349/5769905 B&B LA CASA DELL’ORTO Via Castellarso Ete 33 Belmonte Piceno David Madeleine/Anna Janet 0734/771311 CASA PER FERIE IL PICCHIO Via Tommaso Rubei Belmonte Piceno Comune 0734/771100 AGRITURISMO - RISTORANTE CASA DEL MIRTO C.da Colle Ete 33 Belmonte Piceno Loddo Leonardo 339/7623565 Pagina Facebook

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PALAZZO FERRINI

ORATORIO SANTISSIMO SACRAMENTO

S.P. 42

CHIESA MADONNA DEL ROSARIO

Via Tommaso Rubei

MUSEO CHIESA DI PALAZZO ARCHEOLOGICO S. SALVATORE DON. G. BOSCO COMUNALE

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Piane di Montegiorgio

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Belmonte Piceno

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Piane di Montegiorgio Grottazzolina

CHIESA DI S. MARIA IN MURIS


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il sindaco:

MARCO FABIANI

Monteleone di Fermo Popolazione 385 abitanti Superficie 8,21 km² Densità 46,87 ab./km² Via G. Garibaldi, 9 63841 Monteleone di Fermo (FM) tel. 0734/773521 fax. 0734/773522 comune@monteleonedifermo.com Eventi Festività della Madonna del Soldato, seconda domenica di Agosto Mostra Internazionale del Pittore (settembre) Sagra del Salmone (settembre) Pane&Olio Festival (novembre)

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Se domandate al sindaco Marco Fabiani il motivo per visitare e vivere a Monteleone di Fermo, lui risponde sicuro: «Perché qui, nel mio paese, la vita è buona e il panorama stupendo», aggiungendo poi che «c’è stato un ritorno all’agricoltura, alla riscoperta delle tradizioni». Così elenca anche il farro, i legumi, il miele, l’olio, la pasta… tutto quello che oggi le aziende agroalimentari producono con la qualità che le contraddistingue. Chiarisce che non si tratta di una novità, ma di un legame e una eredità lasciata dai Monaci benedettini farfensi, quelli dell’Ora, Lege et Labora. Quelli che, nel racconto del prof. Carlo Verducci, bonificarono acquitrini, abbatterono foreste, recuperarono «alla coltivazione terre sempre più estese». Il sindaco Fabiani non si ferma qui. Saliti sulla torre esagonale che campeggia sulla piazza e si erge sulle mura del castello, il primo cittadino vi spiega che i Piceni abitarono il borgo istallandosi sulla sommità delle collinette, che i romani vi costruirono ville nei luoghi più in basso (esiste la leggenda di Pompeo Magno, ed esiste la possibilità di trovare resti di costruzioni romane all’indomani dei prossimi scavi archeologici), che i Longobardi furono gli artefici di nuovo sviluppo passando il testimone ai Farfensi. Poi le vicende del libero Comune, i rapporti con Fermo e tante altre storie sino a noi. Il primo cittadino come guida ci indica le quattro chiese da visitare: San Marone, che è la parrocchiale, nella piazza bassa, costruita nel 1605 vicino al convento degli Agostiniani; la stupenda Madonna della Misericordia, in periferia, così chiamata per l’affresco omonimo, San Giovanni Battista che si trova poggiata sulle mura del castello, dall’originale portale in cotto, infine, la chiesa di campagna: Madonna di Loreto, eretta nel 1663, probabilmente lungo il cammino dei pellegrini alla volta della Santa Casa. Ma arrivare a Monteleone senza affacciarsi ai vulcanelli è perdere un’occasione. «Sono sei, - spiega il sindaco - si trovano lungo il percorso del fiume Ete e in questo momento vivono un periodo di attività».


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storie e personaggi Oggi a Monteleone di Fermo esiste nuovamente una via dedicata a padre Pietro Consolini. Dall’8 ottobre del 1932 aveva assunto un altro nome, Via Roma, ma recentemente ha ripreso il vecchio nome: Consolini. Era intitolata ad un personaggio nativo del paese: Pietro Consolini. Anzi: padre Pietro Consolini, perché era un religioso, un sacerdote. Meglio: uno, come ricorda il prof. Carlo Verducci, dei «discepoli più vicini e più fidati» di San Filippo Neri. La storia di Pietro Consolini inizia a Monteleone di Fermo il 25 novembre 1565, sua data di nascita. «È figlio di Vittorio, notaio, e di Santa Fortuna». Lo zio Stefano Massarini lo accoglie in casa sua a Roma per consentirgli di proseguire gli studi. Pietro non ha ancora vent’anni. Coincidenza non casuale, il Massarini è prelato a San Giovanni dei Fiorentini dove le funzioni di parroco, prima del trasferimento a Santa Maria della Vallicella, sono assolte da Filippo Neri. È la svolta! Il giovane rimane affascinato dal futuro santo. Lo sente parlare, lo vede pregare con una intensità quasi estatica, lo scorge in azione tra i bambini di strada e tra gli infermi, ne ama la disciplina, il rigore morale, ma anche la santa allegrezza e certe stramberie. Pietro comprende quale sia la sua strada. Chiede di entrare nella Congregazione dell’Oratorio istituita qualche tempo prima da San Filippo. Il 15 novembre del 1590 è ammesso nella fraternità dei preti e dei chierici secolari. Intanto «studia teologia dagli agostiniani e medicina all’università La Sapienza. Non consegue la laurea; – nota Verducci – ma è in grado, deceduto il santo, di sostenere in pubblici dibattiti il carattere non naturale delle palpitazioni del suo cuore e della rottura delle sue costole». Lo spirito del santo lo ha talmente pregnato da essere considerato, dopo la scomparsa di San Filippo Neri, «uno dei più autorevoli rappresentanti della seconda generazione filippina». È «elemento di continuità tra San Filippo Neri e i suoi seguaci fino alla metà del Seicento». Dal suo maestro, oltre ad una grande fede, ha tratto il comportamento semplice, l’amore per la musica, la sobrietà nel cibo. Pur non volendo mai apparire e tenendo un profilo molto basso come s’addice ad un uomo di Dio, «Gode dell’autorevo-

PADRE PIETRO CONSOLINI

San Filippo Neri: Firenze, 1515 Roma, 26 maggio 1595 Figlio di un notaio fiorentino di buona famiglia. Ricevette una buona istruzione e poi fece pratica dell’attività di suo padre; ma aveva subito l’influenza dei domenicani di San Marco, dove Savonarola era stato frate non molto tempo prima, e dei benedettini di Montecassino, e all’età di diciott’anni abbandonò gli affari e andò a Roma. Là visse come laico per diciassette anni e inizialmente si guadagnò segue a pag. 26 25


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storie e personaggi

PADRE PIETRO CONSOLINI continua da pag. 25 da vivere facendo il precettore, scrisse poesie e studiò filosofia e teologia. A quel tempo la città era in uno stato di grande corruzione, e nel 1538 Filippo Neri cominciò a lavorare fra i giovani della città e fondò una confraternita di laici che si incontravano per adorare Dio e per dare aiuto ai pellegrini e ai convalescenti, e che gradualmente diedero vita al grande ospizio della Trinità. Filippo passava molto tempo in preghiera, specialmente di notte e nella catacomba di san Sebastiano, dove nel 1544 sperimentò un’estasi di amore divino che si crede abbia lasciato un effetto fisico permanente sul suo cuore. Nel 1551 Filippo Neri fu ordinato prete e andò a vivere nel convitto ecclesiastico di san Girolamo, dove presto si fece un nome come confessore; gli fu attribuito il dono di saper leggere nei cuori. Ma la sua occupazione principale era ancora il lavoro tra i giovani. San Filippo era assistito da altri giovani chierici, e nel 1575 li aveva organizzati nella Congregazione dell’Oratorio; per la sua società (i cui membri non emettono i voti che vincolano gli ordini religiosi e le congregazioni), costruì una nuova chiesa, la Chiesa Nuova, a santa Maria “in Vallicella”. Diventò famoso in tutta la città e la sua influenza sui romani del tempo, a qualunque ceto appartenessero, fu incalcolabile.

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le amicizia del cardinale Federigo Borromeo, il quale, ancora vivo il Neri, gli fa ottenere la nomina di cappellano della Scala Santa». Tale nomina gli consente di ricevere il suddiaconato e una piccola rendita con cui vivere sino al resto dei suoi anni. All’interno della Congregazione oratoriana ricopre incarichi di primo piano: «Con altri tre padri nel 1609 è incaricato di aggiornare le costituzioni dettate da Filippo Neri». Svolge anche in qualità di maestro l’incarico di formare i novizi. Un impegno con i più giovani che assolve per 40 anni. Esercita anche «le massime funzioni di governo» reggendo la Congregazione come preposito dal 1611 al 1616 e dal 1629 al 1632, e come deputato (i sacerdoti oratoriani eleggevano quattro deputati che collaboravano con il preposito) dal 1620 al 1623 e dal 1638 al 1643. Il suo posto nella storia – secondo una ricostruzione della Treccani - «è affidato ai cinque anni in cui fu il bastone della vecchiaia di Filippo Neri, e alla quantità di fatti e aneddoti di cui si fece egli stesso relatore sulla vita dell’Oratorio, e di cui non bisogna sottovalutare l’importanza per il processo di canonizzazione del santo». «Non è dato sapere – segnala Verducci – se Pietro Consolini è tornato in qualche occasione a Monteleone. Di certo, rimane legato alla terra d’origine. Ancora nel Settecento, gli eredi, per incarico testamentario, con le rendite dei beni da lui lasciati, ogni anno fanno celebrare due messe all’altare della Madonna del Rosario, nella chiesa parrocchiale». Resta invece documentato il rapporto epistolare con padre Antonio Grassi, oratoriano, figura di riferimento dei “Filippini” a Fermo, conosciuto a Roma in occasione del Giubileo del 1625. Muore a Roma il 31 gennaio del 1643. La figura di padre Pietro e il suo stretto rapporto con San Filippo Neri potranno creare occasioni culturali e artistiche a Monteleone di Fermo e legami con Roma e altre città dove forte è stata la presenza dei “Filippini”.


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IL CASO Monteleone di Fermo è diventato famoso in Italia per il fenomeno dei vulcanelli che sono eruzioni di melma dal sottosuolo. Si tratta di eruzioni modeste e sporadiche nel tempo. In questi ultimi anni hanno manifestato una discreta attività. «Nella letteratura scientifica – si legge in un opuscolo del Comune – il fenomeno viene catalogato come vulcano di fango o cupola di fango e rappresenta una manifestazione delle dinamiche e degli equilibri che riguardano l’idrodinamica, la tettonica, la geomorfologia e la formazione e fuoriuscita dei gas naturali dal sottosuolo». I vulcanelli, che sono sei e si trovano lungo il fiume Ete, prendono il nome delle contrade dove operano: Santa Maria in Paganico, Valle Corvone, La Croce. Originale e attraente fenomeno, i vulcanelli sono stati valorizzati e tutelati dal Comune con il progetto regionale “Segni dell’Acqua” che ha visto insieme altri comuni del Fermano. «I lavori hanno riguardato la delimitazione delle zone interessate dai fenomeni e la creazione di aree protette con all’interno dei percorsi per poter osservare da vicino e in sicurezza i vulcanelli». Studenti, scolaresche, università, turisti, studiosi, sempre più numerosi arrivano a Monteleone di Fermo per vedere l’insolito fenomeno. «La loro attività può essere collegata sia agli eventi atmosferici, sia alle scosse di terremoto, e infatti, in concomitanza del terremoto dell’Aquila, tra il primo e il 9 giugno 2009, è stata registrata una significativa attività eruttiva». Il primo a studiare il fenomeno è stato negli anni Ottanta dell’altro secolo, il professor Bruno Egidi. Nei secoli passati l’eruzione di melma dei vulcanelli ha alimentato credenze popolari e leggende, una delle quali è legata all’esistenza di un drago dalle fauci di fuoco. La scienza ci spiega invece che siamo dinanzi «a formazioni sul terreno causate dalla secrezione endogena di acqua e gas in pressione, concomitanti a trasporto solido di argille fini». Ma lo stupore resta.

I VULCANELLI

Parco dei Vulcanelli di fango Sono sei, si trovano lungo il percorso del fiume Ete e in questo momento vivono un periodo di attività. Sono i vulcanelli di Monteleone di Fermo. Un fenomeno naturale di cui ancora si sa poco. Negli anni ’80, è stato Bruno Egidi il primo a studiare il fenomeno dei vulcanelli. Fino a poco tempo fa si pensava che il fango che esce dalle bocche, formato da gas (probabilmente metano e anidride carbonica) che risalendo dalla crosta terrestre si carica di argilla, fosse nocivo. Gli ultimi studi, però, scongiurano questa ipotesi e lasciano supporre che possa avere funzioni terapeutiche. Ad oggi c’è un vulcanello, sicuramente il più rappresentativo per la zona, non tanto per la sua attività recente, che negli ultimi anni è andata via via affievolendosi, quanto per quella passata che lo ha portato ad assumere dimensioni rilevanti e una forma caratteristica, per quanto variabile anche a causa delle annuali lavorazioni agricole; posizionato nel bel mezzo di un campo coltivato, appare, dalla strada che raggiunge la zona interessata, come una collinetta ormai ricoperta di vegetazione segue a pag. 28 27


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leggende del territorio

LO SDRAGO

continua da pag. 27 autoctona infestante come rovi e sterpaglie. Il deflusso del fango, scaturito dall’attività sedimentovulcanica, segue, in verità, due vie preferenziali colando, in parte verso il fiume lungo una fascia di circa cinque metri di larghezza e quaranta longitudinalmente, seguendo la linea di massima pendenza che separa la strada dall’Ete Vivo, e, in parte, verso il faggio che delimita il vulcanello procedendo poi verso il fossetto che ancora più a destra trasporta fango ed acque. Contemplato, sin dall’antichità, come misterioso ed affascinante evento naturale, ribattezzato con plurimi e curiosi appellativi in relazione alle leggende ed ai dialetti propri delle regioni che lo ospitano, il fenomeno del “vulcanismo sedimentario” 28

Il divieto era severissimo. Gli adulti non volevano sentir ragione. I ragazzi potevano, sì, giocare dappertutto tra quei campi, ma guai a loro se si fossero accostati al fossato di quella contrada di Monteleone di Fermo. Si raccontava di strane presenze in quei paraggi. Era un posto in effetti misterioso. Diversissimo dai dintorni. “Il regno incontrastato di un mostro”, sussurravano sottovoce i vecchi della zona. Vi si aggirava un essere spaventoso, a loro dire, una specie di drago dalle fauci fumanti. Era il Basilisco capace di aprir la bocca e di incendiare gli arbusti circostanti il rigagnolo d’acqua nel quale si celava. Strisciava con il ventre sostenendosi su otto o dieci zampacce storte munite di spesse e acuminate unghie. I diversi racconti lo descrivevano però alla stessa maniera: non molto lungo, dal corpo tozzo e squamoso, con una testa orrenda dal becco di rapace e una lunga coda da serpente. Il solo suo guardo era capace di uccidere un uomo. Di recente, nessuno l’aveva più visto, anche perché i contadini si tenevano ben alla larga da un simile posto. Lì in giro la terra non era coltivata. Vi cresceva una vegetazione intricata e lussureggiante. Gli aratri si fermavano più sopra, un poco per comodità, ma molto per paura. I nonni degli attuali nonni avevano sempre raccontato di continui brontolii, di volute di calore alte nel cielo, di piogge di fuoco nei dintorni. E di rumori sordi, come l’incedere cadenzato di un corpo enorme sul terreno. Una sera di novembre, mentre la famiglia se ne stava davanti al focolare intenta alla recita del rosario, il vecchio a lungo interrogato alla fine raccontò. Lo fece soprattutto per i più giovani, per intimargli i pericoli vicini. Aveva saputo da suo padre di un giovane agricoltore che stava arando il campo nei pressi del fossato. Il giovane conosceva le storie di quel luogo. Eppure quel giorno non volle farci caso. Spinse la coppia dei possenti buoi verso il basso, superando i gelsi di confine, sull’orlo del rigagnolo. L’aratro affondava più facilmente del solito nelle zolle, e le capovolgeva. Gli animali tiravano che era una meraviglia. Ancora qualche metro e la semina sarebbe stata quest’anno molto più estesa. All’improvviso, qualcosa di limaccioso cominciò a trascinare a sé i quadrupedi. Gli animali avevano messo le zampe in una sorta di fango, scivoloso, melmoso, che inghiottiva ogni cosa, lentamente,


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leggende del territorio inesorabilmente. Il contadino abbandonò l’aratro e tentò di portarsi dinnanzi, per scuotere le bestie. Raccolse la corda del giogo e tirò, strattonò, urlò imprecazioni. Anche i suoi piedi ora affondavano. Lasciò la cima, tentò di aggrapparsi al fogliame basso intorno. Più si muoveva e più andava a fondo. Già l’aratro era sprofondato, e gli animali erano coperti per oltre la metà. Chiamò aiuto, pregò, pianse. Inutilmente. Quella specie di sabbie mobili in breve bevve l’uomo, le bestie e lo strumento di lavoro, mentre su ogni cosa alitavano fiamme e vapore. I ragazzi erano rimasti impressionati dal racconto. Giurarono di non scendere mai verso il fosso. Ma il giorno successivo la curiosità l’ebbe vinta sulla paura. Quatti, quatti e stretti mano nella mano, scesero sino ai gelsi, si avvicinarono pancia a terra. Ed ecco, il brontolio. Si alzarono pronti alla fuga ma le gambe sembravano non reggerli più. Ricaddero come sacchi vuoti. Scrutarono allora meglio davanti a loro. S’aspettavano comparisse da un momento all’altro il drago fiammeggiante. Scorsero invece un piccolo promontorio di terra: un vulcano minuscolo che eruttava acqua e creta biancastra formando, a valle, uno strato di melma grigia e vischiosa. Forse lì sotto, addormentato e in letargo, risiedeva l’antico mostro delle storie paesane. Lo “Sdrago” delle leggende?

LO SDRAGO

rappresenta, probabilmente, il capofila di una folta schiera di ricchezze naturalistico-paesaggistiche. I vulcanelli di fango possono rappresentare, rispettivamente, la manifestazione in superficie di processi minori postvulcanici, in zone in cui il vulcanismo è estinto addirittura da 30 milioni di anni, così come essere la diretta conseguenza della risalita di gas . Per quel che riguarda il territorio italiano, le diverse manifestazioni del fenomeno risultano ricollegabili principalmente alla formazione, da depositi sotterranei di materiale organico, di gas naturale ed idrocarburi che, restando intrappolati in letti impermeabili di argilla, possono raggiungere pressioni considerevoli fin quando, intercettate vie di fuga attraverso fratture o zone ad argilla non consolidata, trascinano con sé il silt degli strati profondi investendo, talora, riserve di acque fossili e falde acquifere. 29


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INIZIATIVE

LA CASA DEL PITTORE

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Nei pressi del Municipio, prima di prendere la piccola salita per il Castello, sorge la Casa del Pittore. Un modo di dire? No! Un modo di fare. Intelligente. Aperto. Lungimirante. Cos’è? È una iniziativa presa ormai da qualche anno dal Comune, prima sotto l’amministrazione del sindaco Vittorio Paci, ora di Marco Fabiani. Aderendo alle sollecitazioni di due artisti: i maestri Sandro Trotti e Sandro Pazzi, e spinti dal prof. Carlo Verducci, le due amministrazioni hanno avviato un progetto specifico denominato proprio La Casa del Pittore. E di casa vera e propria si tratta, perché il Comune di Monteleone di Fermo ha individuato e messo a disposizione un’abitazione nel centro storico per «accogliere nel periodo estivo giovani artisti che vogliano sperimentare la forza evocativa del paesaggio delle Marche meridionali». «L’obiettivo – si legge in calce ad un recente bando - è quello di far conoscere alle nuove generazioni le Marche meridionali, proiettando anche nella contemporaneità la secolare vocazione artistica di questo territorio. Il soggiorno costituirà inoltre una stimolante occasione di scambio e di confronto tra i partecipanti sul piano culturale ed artistico». «I soggiorni si svolgeranno nei mesi di luglio e agosto, saranno gratuiti per vitto e alloggio. La residenza, che si trova nel centro storico del Comune di Monteleone, accoglierà ogni settimana due giovani artisti che si impegneranno a realizzare opere da lasciare al Comune». Un Comitato scientifico garantisce la qualità selezionando sedici artisti tra quanti hanno fatto domanda di partecipazione. Tutte le opere prodotte vengono esposte, nel mese di settembre, in una mostra allestita nelle sale della Sede Comunale. Gli artisti arrivano dunque in paese, lo girano, attraversano le campagne, guardano e gustano il panorama, si affacciano al belvedere, dialogano con i residenti. Quindi rielaborano il tutto secondo le proprie sensazioni e percezioni che, - e qui sta il bello - ogni volta, aiutano anche i cittadini a cogliere qualcosa di nuovo della propria terra. Sin dal primo anno l’iniziativa ha avuto successo richiamando artisti da tutto il mondo. E non per modo di dire. Quest’anno ad esempio la manifestazione, iniziata ai primi di luglio e terminata ai primi di settembre, è stata dedicata all’arte cinese interpretata dagli artisti Xie Hui, Sun Jing e Lan Zhou. Conseguenza de La Casa del pittore è il concorso artistico (nel


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INIZIATIVE 2017 c’è stata la prima edizione) destinato agli studenti (sia italiani che stranieri) delle Accademie delle Belle Arti italiane. Il concorso è stato vinto ex equo dalla romana Giada Bello e dall’iraniano Benjamin Zolfagari. Il tema di quest’anno girava intorno alla Torre civica e al lavoro nei campi. A Monteleone erano presenti, grazie all’interessamento dell’artista maceratese Alessia Cors, anche due artisti provenienti da Singapore: Sunar Sugiyou e Sarah Credo. Sempre sull’onda dell’arte, il sindaco Marco Fabiani sta pensando per l’estate al «Simposio di scultura», artisti all’opera. Una eco dell’ Art Basel di Basilea. Piccoli ma intraprendenti.

LA CASA DEL PITTORE

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tradizioni culinarie

I VINCISGRASSI I vincisgrassi: la ricetta classica Ingredienti: • lasagne all’uovo 500g • rigaglie di pollo 350g • sedano 1 costa • sale q.b. • polpa di carne di suino 200g • brodo di carne 200ml • cipolla 1 • passata di pomodoro 300g • pepe q.b. • polpa di carne bovina 200g • carote 1 • Parmigiano Reggiano grattuggiato 100g • olio extra vergine di oliva q.b. • pancetta 100g Preparazione 1- Per preparare i vincisgrassi, iniziate tagliando a listarelle la pancetta e in pezzi piccoli i vari tagli di carne: il maiale, il manzo e infine le rigaglie di pollo. 2- Tagliate finemente il sedano, la carota e la cipolla e metteli in una casseruola a rosolare per 5 minuti, con dell’olio extravergine d’oliva insieme alla pancetta. 3- Lasciate insaporire il tutto per qualche minuto quindi unite il manzo e il maiale e lasciate cuocere per una decina di minuti, fino a quando la carne raggiungerà un colorito bruno. Aggiungete la passata e aggiustate di sale e di pepe.

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Se alle nostre nonne e mamme (ancora qualcuna) dicessimo che i vincisgrassi sono una sorta di lasagne vi toglierebbero il saluto o vi colpirebbero di mestolo con il quale stanno girando il sugo assaggiato di tanto in tanto. Per cucinare ci vuole amore e tempo, come si dimostra con il gran film Il pranzo di Babette, quelle modalità culinarie che oggi sembrano non esserci più. Dunque, i vincisgrassi sono solo e soltanto vincisgrassi, quelli che rappresentano, pur con decine di modifiche, aggiunte e sottrazioni, il piatto identificativo delle Marche, specie del sud. La carne di manzo va mischiata con le rigaglie di pollo. Senza queste ultime i vincisgrassi sono un’altra cosa. C’è poi l’arduo quesito della besciamella. Metterla oppure no? La scuola tradizionale, tramandata da madre in figlia, dice sicuramente no! Il tocco cubico del vincisgrasso deve essere compatto, serrato, quasi da tagliare con il coltello (non lo fate, non è buona educazione). I palati “deboli” cercano invece qualcosa di più morbido. Ed ecco allora l’uso e l’abuso della besciamella. Tentiamo una ricetta? Tentiamo senza offendere la cultura culinaria delle nostre vergare. Ingredienti: carne di manzo, abbondanti rigaglie di pollo, passata di pomodoro, qualcuno mette carota, sedano e cipolla, aggiungere ottimo vino bianco, olio extra vergine di oliva, parmigiano e per il burro vedete voi.


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tradizioni culinarie Modus operandi? Eccolo: pulire le rigaglie, lavare tagliandole poi a dadini, tritare la carne, adagiare in un capace tegame cipolla eventuale pancetta già finemente tritate, inserire una noce di burro, un po’ di olio, e far soffriggere. Una volta che il tutto risulta dorato a sufficienza, è il momento di unire la carne tritata e le rigaglie. Cospargete con vino bianco sino a farlo evaporare. A questo punto va aggiunta la passata di pomodoro. Per il sale vedete voi con i vostri problemi di “pressione”. Il fuoco deve essere moderato. I tempi di cottura variano. Le specialiste indicano qualcosa di più dell’ora e mezza. Passato questo tempo, aggiungere i fegatini lasciando cuocere ancora per una decina di minuti. Le nonne che avevano più tempo consigliavano di preparare il ragù il giorno precedente… Che fare poi? Imburrare una pirofila, inserire le diverse sfoglie di pasta all’uovo precedentemente preparate e tagliate in pezzi rettangolari fatti bollire e asciugati su teli di lino, aggiungere il ragù, l’eventuale besciamella (umm), e tanto parmigiano. Cuocere il tutto in forno caldo a 180 gradi per mezz’ora. Dopo di che, togliere i vincisgrassi e lasciateli riposare. Più riposano più saranno squisiti. Il famoso Antonio Nebbia, dando alle stampe nel 1799 il celebre libro “Il cuoco maceratese”, prevedeva per i vincisgrassi l’uso dei tartufi, e solo essi. Quindi niente besciamella e niente rigaglie. Come dire: a ognuno il suo vincisgrasso.

I VINCISGRASSI 4- Aggiungete al sugo anche le rigaglie di pollo e mescolate con un cucchiaio di legno; coprite con un coperchio e lasciate cuocere per un’ora e mezza circa, girando di tanto in tanto e aggiungendo del brodo se il ragù dovesse seccarsi. 5- Il ragù dovrà essere ben cotto e addensato. 6- Una volta pronto il ragù potete assemblare i vincisgrassi in una pirofila dai bordi alti: ponete qualche cucchiaio di sugo sul fondo quindi foderate la teglia con un primo strato di lasagna, coprite con un cucchiaio abbondante di ragù e un cucchiaio di parmigiano grattugiato. 7- Continuate così fino a formare almeno una decina di strati (è una caratteristica del vincisgrassi) e terminate con uno strato di ragù e una manciata abbondante di parmigiano. 8- Cuocete in forno caldo a 180° per 30 minuti e tirateli fuori non appena si sarà creata una bella crosticina dorata sulla superficie.

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tradizioni culinarie

LA TRIPPA

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La trippa. Un tempo era cibo piuttosto comune nelle campagne e nei borghi. Cibo popolare e poco costoso. Oggi è diventato un piatto quasi di nicchia. Ci sono ristoranti e osterie tipiche che lo propongono. Il Comune di Monteleone di Fermo potrebbe farne una Denominazione Comunale, attestare cioè che proprio quel cibo è tradizione del luogo. Non perché a dieci, venti chilometri più in là, in altri paesi, la trippa non sia conosciuta, ma perché a Monteleone, sino ad una ventina di anni fa, forse più, esisteva una macelleria che della trippa era una specialista e si organizzava un’importante sagra di questo prodotto. La trippa può essere di maiale, manzo o vitello. È indispensabile che la trippa venga lavata e rilavata con acqua calda, raschiata con un coltello, meglio se piccolo e maneggevole, messa poi a lessare in una pentola riempita d’acqua e aromatizzata con agli vestiti, rametti di alloro e rosmarino, senza dimenticare qualche chicco di pepe e ovviamente sale. «A metà cottura (la vergara, ndr) – come racconta Ivana Rongoni Catalini nel libro Una madia nel cuore – la toglieva dal paiolo, la risciacquava con acqua e vino bianco, e una volta freddata, la tagliava a mo’ di fettuccine che metteva a rosolare in un grosso tegame dove era stato soffritto un battuto di lardo, aglio e maggiorana secca. Insaporita la trippa, si spruzzava di sale e di pepe, si profumava con un bel bicchiere di vino bianco e si portava a cottura aggiungendo acqua calda dove era stata diluita la conserva di pomodoro. Spento il fornello, si aggiungeva un bel pugno di formaggio pecorino, si mescolava ben bene e, fumante, si serviva a tavola». Quando la trippa non c’era, scrive ancora la Catalini, «la vergara preparava la frittata in trippa, cioè fettuccine di frittata cotte con lo stesso metodo, gli stessi aromi, i medesimi ingredienti della trippa». Realizzare una De.Co. riguardante la trippa sarebbe come dire: questo prodotto, tipico delle nostre terre, a Monteleone è un piatto storicamente accertato.


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patrimonio storico artistico

Chiesa della Misericordia È così detta per la presenza dell’affresco della Madonna della Misericordia sull’altare maggiore. Autorizzata nel 1526 dalle autorità ecclesiastiche, realizzata dal Comune sui resti di una chiesa romanica, è stata consacrata il 27 maggio 1543.

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patrimonio storico artistico

Chiesa della Misericordia 36


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patrimonio storico artistico

Chiesa della Misericordia 37


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RICETTIVITĂ€

Ostello Comunale Il Leone Via Bramante1 Monteleone di Fermo Comune di Monteleone di Fermo 0721/891631 www.emtour.it B&B Casa dei Nonni Via Madonna di Loreto 20 Monteleone di Fermo Verducci Luigi 347/4863464 www.lacasadeinonni.org COUNTRY HOUSE Casa Rossa Via Madonna di Loreto 4 Monteleone di Fermo Pagliuca Ferdinando 348/1710080 www.countryhousecasarossa.it APPARTAMENTI AMMOBILIATI AD USO TURISTICO Il Girasole Via Madonna di Loreto Monteleone di Fermo Yafrach Aharon 393/7095476 http://villagirasole.wixsite.com/villagirasoleitaly

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Pizzeria, Ristorante, Bar Belvedere Via G. Garibaldi n. 9 Monteleone di Fermo Dino Cordari 392/33039777 331/5924221 https://www.facebook.com/belvedere. monteleonedifermo Home Restaurant Fumèe Via Chiavanella, 1/b Monteleone di Fermo Giampaolo Verducci 377/4179575 https://festivalsalmone.wordpress.com/ home-restaurant-fumee/ https://www.facebook.com/homerestaurantfumeedigiampaoloverducci/


TORRE CIVICA

MUNICIPIO

CHIESA “SAN GIOVANNI”

CHIESA “SAN MARONE”

capoluogo

Centro Storico

Monteleone di Fermo

DIMORA STORICA

CHIESA “MADONNA DELLA MISERICORDIA”

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“C.E.A.” CENTRO DI EDUCAZIONE AMBIENTALE

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FONTE BERTONE

FONTE

CHIESA “MADONNA DI LORETO”

Contrada Madonna di Loreto

Serviglian


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il sindaco:

MARCO ROTONI

Anche il sindaco di Servigliano, Marco Rotoni, pone la stessa domanda: perché non venire a Servigliano quando…? E il suo «quando» è denso di risposte. A cominciare dall’impianto urbanistico. Servigliano è stata definita «città ideale» ed anche perfetta, per il «profilo attrattivo che avvolge e coinvolge il turista sin dal suo ingresso nella città di Virginio Bracci». Siamo nel Settecento. Ma poco oltre, Servigliano offre un’occasione irrinunciabile: «quella di attraversare il ‘900 visitando il campo di concentramento ed entrando nella “macchina del tempo” della ex stazione ferroviaria, oggi sede della Casa della Memoria, luogo evocativo e crocevia di storie che hanno contribuito a formare le coscienze di una comunità solidale». Non basta. Perché la cittadina è capace di un balzo nel tempo, ma a ritroso: sul finire del Medio Evo e all’alba del Rinascimento «Per gli appassionati di storie cavalleresche, - spiega ancora Rotoni - di dame e cavalieri, il dipinto medioevale del Torneo Cavalleresco di Castel Clementino, che si rappresenta nei giorni che precedono la terza domenica di Agosto, è un modo suggestivo per vivere la socialità della nostra cittadina animata e determinata ad offrire spunti e scorci emozionanti». E non basta ancora, perché «la cornice paesaggistica in cui Servigliano è immerso è di per sé bastevole ad offrire a qualsiasi viandante la motivazione speciale per fermarsi e ritemprare lo spirito. Passeggiare sotto al portico del convento dei Frati Minori Osservanti per poi intraprendere un cammino naturalistico lungo il Fiume Tenna e risalire la collina attraversando il “labirinto della Villa Belluco Castello” sullo sfondo dei monti Sibillini, è una cartolina unica della Marca Fermana».

Servigliano Popolazione 2.304 abitanti Superficie 18,49 km² Densità 124,59 ab./km² Piazza Roma, 2 63839 Servigliano (FM) 0734/750583 - 0734/750584 0734/710618 comune@pec.comune.servigliano.fm.it 40

Il sindaco indica «la forza attrattiva di questa terra rappresentata dalla capacità produttiva dei nostri artigiani e dei nostri agricoltori che esprimono in modo autentico tutta l’arte del saper fare e i valori assoluti delle nostre eccellenze, prodotti di qualità che non temono paragoni con altri distretti del mondo».


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storie e personaggi Amerindo Camilli è un’altra gloria di Servigliano dove nacque il 3 dicembre del 1879. Ancora giovane si trasferì a Roma per frequentare la facoltà di Lettere, laureandosi sotto la guida di Ernesto Monaci, noto filologo e critico letterario. L’attività lavorativa portò Camilli a cambiare spesso residenza. Fu insegnante al Ginnasio di Montecassino, fu poi impiegato della Tipografia popolare Cappelli di Rocca San Casciano (in provincia di Faenza) e revisore di varie case editrici. Nel 1941, si stabilì definitivamente a Firenze, dove si inserì nell’ambiente degli studiosi di linguistica e di letteratura. Lavorò nella redazione Lingua Nostra, Studi Danteschi e Rivista di letterature moderne e comparate; presso il Circolo linguistico e presso l’Accademia della Crusca, curando l’archivio di quest’ultima fino agli ultimi anni della sua vita. «Camilli fu esperto universalmente noto di fonetica, e consigliere dal 1912 fino alla morte dell’Associazione fonetica internazionale e in contatto col fonetista inglese Daniel Jones. Egli si occupò inoltre di filologia dantesca e di letteratura italiana antica, marchigiana in particolare». È ricordato anche per i suoi studi di dialettologia e grammatica italiana, di metrica latina, di filologia dantesca, di letteratura italiana delle origini. Strinse rapporti di amicizia con Benedetto Croce. Tra le sue opere più importanti, si ricordano Pronuncia e grafia dell’italiano, Grammatica italiana per la scuola media, Trattato di prosodia e metrica latina, Metrica italiana preletteraria, I fondamenti della prosodia italiana. Morì a Firenze nel 1960.

Amerindo Camilli

L’alba del codice vaticano reginense 1462 (335-344) Restituzione di un’antica ballata (295-296) La canzone marchigiana del «De vulgari eloquentia» (079-096) Il placito di Arechisi, giudice di Capua (183-188) Soqquadro : ma perché? c’è stato chi era favorevole all’eliminazione di tali residui grafici Sulla grafia di ognuno (2007) Sulla pronuncia di scervellarsi una nota di Piero Fiorelli al volume Pronuncia e grafia dell’italiano di Amerindo Camilli, Articolo davanti a parole straniere inizianti per w e sw 41


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storie e personaggi

Luigi Vecchiotti

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Servigliano ha un’anima musicale? Certo che sì. Almeno in alcuni dei suoi figli. Prendiamo ad esempio Luigi Vecchiotti che nasce nell’allora Castel Clementino l’11 maggio del 1804. I suoi genitori furono Sebastiano Angelo Clementi Vecchiotti e Angela Benedetta Jaffei. I cognomi tradiscono l’origine nobiliare della casata con un palazzo in pieno centro. Luigi respira il clima culturale della sua famiglia e dei salotti che padre e madre frequentano. Vorrebbero che il giovane si indirizzasse verso gli studi classici. Il ragazzo invece sente un trasporto per la musica. Compiuto il ciclo delle scuole primarie, Luigi si sposta a Fermo, presso il Collegio dei Filippini, per frequentare i corsi di Filosofia e musica sotto la guida del maestro Giuseppe Curcio che l’11 gennaio del 1800 era stato nominato maestro di cappella del Duomo di Fermo succedendo al maestro Giuseppe Giordani. La vocazione della musica cresce talmente tanto che a 18 anni si trasferisce a Bologna per seguire presso il Liceo filarmonico di Bologna le lezioni di padre Stanislao Mattei, frate francescano, compositore e gregorianista di vaglia. Nel 1825, alla morte del suo maestro, si trasferisce a Milano per diplomarsi al liceo musicale meneghino con il maestro Federici. «Due anni dopo – scrive Giovanni Martinelli nel bel libro 100 illustri personaggi del Fermano – scrisse l’opera buffa La fedeltà in pericolo che venne rappresentata… nel teatro Valle di Roma». Fu un successo. Eppure, Luigi Vecchiotti fa una scelta diversa: abbraccia la musica sacra, «ottenendo in quello stesso anno la nomina a maestro di cappella del Duomo di Urbino». Era il 1827. Nel 1834, sempre ad Urbino, convola a nozze con la figlia del marchese Antaldi e successivamente apre una propria scuola di musica, molto apprezzata e seguita. In una lettera, Gioachino Rossini così gli esprime la sua stima: «Io sono il Rossini del Teatro, Voi il Rossini della Chiesa». Nel 1841 Vecchiotti è chiamato a Loreto a dirigere la prestigiosissima cappella musicale del Santuario della Santa Casa. Tra i riconoscimenti, c’è anche quello del Papa. Pio IX lo nomina Cavaliere dell’Ordine di San Silvestro. L’ultima sua opera, dopo molte composizioni tra cui un trattato di armonia, fu la Grande Messa funebre. L’opera fu dedicata «ai caduti della battaglia di Castelfidardo, che, per una tragica


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storie e personaggi fatalità, - racconta Martinelli – venne eseguita per i suoi funerali. Morì difatti improvvisamente il 10 febbraio 1863. Le sue esequie a Loreto, nella cui basilica fu sepolto, e a Urbino, furono imponenti». «Purtroppo – spiega ancora Giovanni Martinelli – la riforma ceciliana dei primi del ‘900 mise al bando le sue composizioni, ma la sua opera gli sopravvisse e tuttora è al centro di nuova valorizzazione». Nel panorama della composizione lirica, Luigi Vecchiotti lascia l’opera Adelasia, che venne eseguita al teatro Valle di Roma nel 1831. Nella Basilica Lauretana, a ricordo del maestro di cappella, resta un suo semibusto con epigrafe.

Luigi Vecchiotti

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storie e personaggi

Guido Paci

Si dedicò allo sport dagli anni settanta, ottenendo due titoli italiani di bob (1974 e 1976) e una medaglia di bronzo nell’Europeo 1976. Nel ’76 Paci iniziò a correre in moto, dapprima con una Honda 500 nella categoria Derivate di Serie, per poi passare alla categoria Juniores nella quale vinse il titolo italiano della 500 nel 1979. Nel 1980 divenne Seniores e fece anche il suo debutto nel Motomondiale al GP delle Nazioni, terminando la gara della 500 al 13º posto. Il 1981 fu l’anno in cui ottenne i suoi migliori risultati iridati riuscì a classificarsi 11° e primo tra i piloti privati. La stagione ’82 ancora in sella alla Yamaha TZ 500. Nel 1983 fu ingaggiato dal team Honda Italia, che schierava la nuova Honda RS 500 R, derivate dalla NS 500 campione del Mondo con Freddie Spencer. Con la nuova moto Paci fu 8° al GP di Francia. Una settimana dopo il GP di Francia Paci corse la 200 miglia di Imola. Mentre si trovava al 5° posto, cadde in quella velocissima piega prima della Tosa ribattezzata, allora in modo non ancora ufficiale, Curva Villeneuve, urtando le balle di paglia che coprivano il muretto di cemento viste le gravissime lesioni riportate alla testa ed al torace, le cure si rivelarono inutili. 44

Ed ecco una gloria sportiva: Guido Paci. Paci nasce a Servigliano il 27 dicembre del 1949. Appassionato di moto e di velocità sin da ragazzo, si arruola nell’Aeronautica Militare entrando alla Scuola Sottufficiali Piloti e raggiungendo il grado di maresciallo. Compiuto l’addestramento, viene assegnato come pilota al 53º Stormo Caccia Intercettori con sede a Cameri. È negli anni Settanta del Novecento che si dedica con maggior tempo al suo sport preferito: la moto. Nel 1976 inizia la sua attività agonistica a cavallo di una Honda 500 nella categoria Derivate di Serie, per poi passare alla categoria Juniores. In questa categoria, nel 1979, vince il titolo italiano 500. L’anno successivo diviene Seniores e debutta nel Motomondiale al Gran Premio delle Nazioni. Si classifica al tredicesimo posto. Lo chiamano Pantera rosa dal colore della sua moto e Kojac per la calvizie. Il 1981 gli arride: si posiziona all’undicesimo posto «e primo tra i piloti privati, tanto da far affermare a Kenny Roberts “speriamo che nessuno affidi mai a Guido una moto ufficiale, altrimenti saranno dolori per tutti...”» Nel 1983 viene ingaggiato da Honda Italia. Una settimana dopo il GP di Francia, Paci corre la 200 miglia di Imola. Una caduta gli è fatale. «Quando volava con il suo F104 diceva di non accorgersi della velocità perché in cielo non aveva riferimenti, perché tutto era uguale. Solamente quando virava si rendeva conto di quanto fosse veloce. E Guido Paci… veloce lo era veramente. Con l’aereo e con la moto». Così lo ricorda la rivista on line Pianeta riders.it


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USI COSTUMI E TRADIZIONI Ed eccone un’altra prova legata ad un fatto civile e religioso, ed oggi anche sportivo: la cessione di un appezzamento da parte dei monaci benedettini, il ringraziamento di una comunità, una festa e un torneo: Il Torneo Cavalleresco di Castel Clementino. Ma andiamo con ordine. Era l’anno 1450 quando l’Abate di Farfa cedette alla comunità civica di Servigliano la Piana di San Gualtiero. Per festeggiare l’evento, la municipalità indisse grandi giochi. Si fa risalire a quel tempo il Torneo Cavalleresco di Castel Clementino che Servigliano ha voluto riprendere nel 1969 con la prima edizione in tempo moderno. Una rievocazione agostana molto attenta alla storia, in costume quattrocentesco che impegna i cinque rioni: Porta Marina, Porta Navarra, Porta Santo Spirito, Paese Vecchio, Rione San Marco, li mobilita, spande in città un sentimento religioso, un sano spirito di collaborazione prima e di competizione dopo, al momento della gara che è la Giostra dell’anello. Nei giorni della festa e della disfida, Servigliano assume un altro volto. I tamburi rullano, le chiarine squillano, le fiaccole illuminano la notte, nei rioni, contraddistinti dalle proprie insegne, si fa festa. Le vie sono percorse da genti, nei costumi che già fanno pensare al Rinascimento, realizzati nelle sartorie locali, riproduzioni attentissime tratte dai dipinti di artisti che hanno lavorato in questo lembo di terra, due fra tutti Carlo e Vittore Crivelli. I cinque rioni sfilano con le loro dame, gli armigeri, i nobili. Giunge l’Abate di Farfa. Si benedice la processione e il Palio. Si cena sotto la luna con i cibi del tempo che fu. E poi, l’altro momento molto atteso, la gara, i cavalli che scalpitano, le lance dei cinque cavalieri tese e pronte a centrare una serie di anelli. È La Giostra dell’anello fra i cavalieri rappresentanti i rioni. «Il Palio – scrive l’Ente Torneo - è l’oggetto della contesa. Fino al 2005 è stato dipinto da vari artisti (oggi, dai ragazzi delle scuole medie, ndr). Drappi più o meno appariscenti, quasi tutti di rara bellezza».

PORTA NAVARRA

PORTA MARINA

SAN MARCO

PAESE VECCHIO

SANTO SPIRITO

Terre Farfensi terre Felici

2001 2002 2003 2004 2005 1° ed. 2005 2° ed. 2006 1° ed. 2006 2° ed. 2007 1° ed. 2007 2° ed. 2008 1° ed. 2008 2° ed. 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017

Porta S.Spirito Porta Marina Porta S.Spirito San Marco Porta Navarra San Marco San Marco Porta Marina Porta Navarra San Marco Porta S.Spirito Porta Navarra Porta S.Spirito Porta S.Spirito Porta S.Spirito Paese Vecchio Porta Marina Porta Marina Paese Vecchio Porta Marina Paese Vecchio 45


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leggende del territorio

la leggenda DEGLI INSORGENTI

Clemente Navarra 46

Era l’alba del 28 maggio 1799. Un giorno che Castel Clementino non avrebbe mai più dimenticato. Lungo la piana solo silenzio di uomini; tanto, troppo, improbabile silenzio. Solo il fiume Tenna, fangoso e in piena, ruggiva contro gli argini. Anche i lupi, lassù sulla montagna tra Amandola e Santa Vittoria, avevano smesso la notte precedente di ululare alla nascosta luna di quella piovosa primavera. Gli Insorgenti erano all’erta dietro le mura di quel Borgo nuovo, costruito neppur vent’anni prima. Quell’immenso ristagno di voci li preoccupava. Continuavano a fissare l’altra riva del corso d’acqua, dalla parte del mulino. Il conte Clemente Navarra, di vedetta nell’alta torre del suo palazzo, era stato chiaro: i Francesi sarebbero arrivati da un momento all’altro. La cittadina era in pericolo, con essa le abitazioni basse degli artigiani e quelle fuori porta dei bifolchi, della gente qualunque o dei personaggi in vista, di chi, insomma, giacobino non fosse. Le giacche blu il giorno precedente avevano sfilato al Girfalco di Fermo per poi raggiungere rapidissime Querciabella, tra Belmonte e Montegiorgio, riposarsi un poco, e acquattarsi infine tra le selve dinnanzi a Castel Clementino. Non potevano tollerare che gli insorgenti si acquartierassero in un punto strategico della valle. Fossero restati in montagna, a Montegallo o Norcia, poco male. Ma a Castel Clementino, no! L’oscurità era calata in fretta complice quel cielo sempre più minaccioso di tempesta. Quel posizionarsi per sfuggire agli occhi dei rivoltosi riuscì utile al soldato Jean. Il suo zaino scoppiava. Tutto quel che nei giorni precedenti aveva potuto sottrarre dalle chiese, nelle povere o ricche abitazioni messe a ferro e fuoco dalla sua compagnia, lo aveva stipato lì dentro. Era il suo bottino e il suo avvenire. Un’assicurazione sul futuro. Ora però doveva nasconderlo. Non avrebbe così rischiato di perderlo nello scontro, e lo zaino sarebbe servito per altri nuovi oggetti. Contò cento passi dal mulino; non visto, scavò una buca in direzione di una frondosa roverella. Gli occorsero pochi minuti: la terra era molle per l’acqua di quei giorni. Da lì a poco iniziarono gli spari. Più giù, là dove il fiume batte contro l’irto scoglio della Castelletta, una trentina di uomini impegnavano le truppe di Bonaparte. Anzi, dritto sullo scoglio, un giovane nell’uniforme candida dei Borboni sfidava con la sua sparuta pattuglia gli invasori francesi. Una sfida che aveva


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leggende del territorio del temerario. Ma passò poco tempo che quel corpo cadde colpito nelle acque furenti. Lo trassero a riva, i suoi uomini, che subito tornarono indietro, tra le mura. Luigi era il nome del caduto e Navarra il cognome, il figlio del Tenente Generale. Queste cose Jean non le sapeva. Sentì invece l’ordine d’attacco. Corse leggero sotto il tiro dei “cafoni”. Si fermò soltanto per inastare la baionetta. La prima porta del paese si frantumò sotto i colpi del cannone. Agli Insorgenti non restò che ritirarsi verso monte, verso Santa Vittoria in Matenano, lasciando sul campo morti e feriti. Jean era soddisfatto, la giornata di battaglia stava già per concludersi. Forse un nuovo bottino avrebbe riempito il suo zaino. Una sola cosa non sapeva: che il tesoro da lui sepolto era già passato in altre mani. Il suo vangare attorno alla quercia era stato notato da un insorgente che, complici le tenebre, l’aveva recuperato e portato altrove. Poi, durante la battaglia, quel “ cafone” era stato colpito. Ucciso, forse per mano dello stesso Jean, trascinava con sé nella tomba il segreto recente di un sogno che svaniva nell’alba di Castel Clementino.

la leggenda DEGLI INSORGENTI

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USI E COSTUMI

Il fiume Tenna Lo ’rlaa li pagni Presentazione del Carro della Contrada S. Stefano (‘Nzegna...) Vurrio ‘rrecordà a’ ste persone, un tempu lontanu, quanno lu fiume, li fossi , le sorgendi, era ‘na ricchezza pe’ Fallerone. ...ce lo scimo scordato, co’ lo dialetto che parlimo sci e no, l’italiano pure, va a fasse vinidì pure lu fiume. Tenna è pienu de zuzzo, li fossi Dio ce ne scampa , le fonde ‘rremmandate da li rui, le sorgendi ’nze sà mango che è e ’ddo stà. Allora a stà jende de lo Piano jiè vinuta la mende de favve penzà. Chiudete l’occhi metteteve a sognà. Ero piccola ma il ricordo del carro, questo carro che andava al fiume colmo di panni da lavare, .è forte in me. L’acqua limpida del Tenna e il suo rumore tra le pietre. Il vociare delle donne, i tonfi dei panni, i canti; di qua e di là del fiume. Quasi un battibecco fra fra due paesi (Falerone, Servigliano) . “..’rsegavano”, battevano, torcevano; sotto il sole cocente, la gonna tirata su da un lato, “lu zinale” i piedi nudi in mezzo all’acqua cristallina.Quanta fatica, quanto sudore! Fino alle ultime ore del giorno. Dopo un bagno, ognuno tornava verso casa; con il carro, il carretto, le canestre grondanti in testa, ed anche se si doveva risalire dopo una giornata intera giù Tenna. ognuna era. serena e soddisfatta, le mani ai fianchi per aiutarsi con il passo, qualche parola,qualche invidia , qualche pettegolezzo e l’indomani un’altra giornata di duro lavoro.

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Il fiume Tenna è lì. Sotto l’ex convento dei Frati Minori Osservanti. Le donne andavano con le ceste dei panni da lavare. C’erano sassi su cui poggiare vesti e lenzuola, c’era la cenere per fare il bucato, c’era il sapone di casa da passar sopra e ripassare su tovaglie e federe. Il tutto poi finiva in acqua, tenuto per un capo, e voltato e rivoltato perché il fiume portasse via ogni traccia. Le ragazze stendevano al sole i panni da curare, da sbiancare. Ed il corredo andava sbiancato come se il bianco desse più valore al telo, che diventava camicia, abito, lenzuolo, secondo l’abilità delle giovani mani. Il fiume Tenna era ricco di pesce: dalle anguille ai gamberi di fiume. Lo si pescava con il tramaglio. Oppure con la bilancia, o ricorrendo al canneto dove far confluire i pesci, o, ancora, con il forchettone. Ma il Tenna era anche un fiume strano, carico di suggestioni già dai luoghi che attraversava. Nasceva sotto il monte Sibilla, scorreva lungo l’Infernaccio dove risuonavano le parole di Cecco d’Ascoli: «L’ho detto, l’ho insegnato, lo credo». Qualcuno così descriveva il fiume: «Le sue acque erano cristalline. I pesci vi sguazzavano talmente numerosi che li si poteva catturare a mani nude. La vegetazione cresceva rigogliosa e intricata. Le querce, i lauri, i gelsi, i salici, e poi i rovi e le edere onnipresenti nascondevano animali d’ogni specie. Se piccoli, se ne sentiva il frusciare ovattato; altrimenti, il rumore si faceva fragoroso e a volte impressionante. Il fiume Tenna ricordava Tinia, lo Zeus degli Etruschi. Da quei Monti Sibillini scendeva sino al Mare nostrum. Ad ogni uomo


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USI E COSTUMI incontrato sulle rive, la sua voce sussurrava di Alcina, la sacerdotessa, o di coloro che l’avevano preceduta sulle balze incantate. Bastava saper porgere l’orecchio e il fiume avrebbe rivelato ogni storia cui era stato a volte spettatore, a volte attore principale. L’acqua scorreva veloce giù dalla montagna. Alcune svolte costringevano il Tenna ad uno spumeggiante duello con le rocce. Più tranquillo diventava lungo la piana, come un tono pacato per presentarsi dignitosamente al mare». Una notte di una ventina di anni fa, circa trecento persone si ritrovarono sul greto del Tenna per un incredibile evento. Come se il fiume raccontasse loro le gesta degli Insorgenti e la morte del giovanissimo Luigi Navarra. Come se la storia di oltre due secoli fa; il dramma di Castel Clementino, riprendesse contorni più nitidi. Fu la Fata del fiume a parlare: «Un’onda, quest’oggi, s’è infranta sullo scoglio più avanti del vecchio molino. Nell’urto, uno scrigno s’è aperto: lo scrigno di tanti ricordi, serbato nel cuore profondo del fiume. Ne è emersa un’immagine ingiallita dal tempo che scopre il volto d’un giovane: un giovane bello, un giovane fiero. Un ragazzo di questo paese». Fino a circa un secolo fa, una processione dal fiume raggiungeva le mura di Servigliano, in ricordo del sacco, di Luigi, di quanti combatterono i francesi per la libertà.

Il fiume Tenna Il Tenna nasce nel comune di Montefortino (FM) e attraversa le Marche meridionali e più specificamente la Val Tenna. Il suo corso segna per un tratto il confine tra la provincie di Macerata e quella di Fermo. La sorgente è fra le pendici del Monte Bove Sud e quelle delle Porche di Vallinfante, nel comune di Castelsantangelo sul Nera, nascono i vari rami che confluiscono nella sorgente (detta anche Capotenna) posta fra il Monte Priora e Monte Sibilla, nel cuore dei Monti Sibillini, compresi nell’appennino umbro-marchigiano. Il fiume sfocia nel Mare Adriatico, tra la frazione Marina Faleriense di Porto Sant’Elpidio e Lido San Tommaso di Fermo, dopo un percorso di 70 km.

Fiume tenna. Archivo storico 49


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tradizioni culinarie

la cucina nel borgo

Cappelletti in brodo

Spaghetti con il tonno

Baccalà al forno

Pizza con le noci 50

Difficile trovare a Servigliano una tradizione culinaria diversa da quella dei borghi vicini. I piatti sono molto simili in queste vallate. Se esiste qualche minima differenza è dettata dall’interpretazione delle cuoche di casa. Allora, abbiamo deciso di riproporre il rito culinario dei giorni di Natale: la cena della vigilia, il pranzo del 25. Com’era un tempo e come, in qualche modo, resiste oggi. Ci affidiamo in parte alle memorie di Giovanni Miconi, attingendo al suo recente libro Il nostro passato. Dunque, la vigilia: «Anche le famiglie più povere facevano in modo che non mancasse nulla a tavola, perché quella sera nessuno doveva andare a letto con la fame… In tutte le case il pasto era abbondantissimo: c’erano verdure di tutti i tipi, fritte con la pastella, alici, pesce prevalentemente di fiume, baccalà cotto in vari modi, ceci, fagioli… Il pasto terminava con vari dolci, compresa la pizza con le noci». Altre famiglie segnalavano invece gli spaghetti con il tonno, il pesce arrosto con contorno di gobbi o cardi saltati in padella, “lu pistringu” e “lu serpe” di Falerone. Prima di prendere la forchetta in mano, il “capo di casa” gira il piatto oppure alza il tovagliolo trovandovi adagiate le letterine di Natale, le promesse e i ringraziamenti di figli e nipoti. Una tradizione che resiste. Per il giorno di Natale, non potevano e non possono mancare i cappelletti in brodo di cappone o gallina, i vincisgrassi, le carni varie arrostite, il fritto all’ascolana, e per finire ancora “lu serpe” e “lu pistringu”. Ma c’è un’altra storia che va raccontata. Non solo le persone mangiano meglio a Natale. Anche gli animali debbono essere accuditi con gran cura, specie nel giorno della vigilia. Perché un fatto strano, vertiginoso, incredibile, accadrà nella stalla allo scoccare della mezzanotte santa. È in quel momento che gli animali parleranno tra di loro, usando quasi un linguaggio umano. Forse ricorderanno che i loro antenati, in una grotta fredda, furono gli unici ad accogliere e riscaldare il piccolo Gesù.


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patrimonio storico artistico

Piazza Roma L’assetto urbano della cittadina riprende l’antico sistema organizzativo romano costituito da cardi e decumani. Il cardo che unisce Porta Clementina (o Porta Marina) a Porta Pia, è l’asse che attraversa da nord a sud la cittadina. Il decumano invece, tagliando la cittadina da est ad ovest, è l’asse che da Porta Santo Spirito (o porta di Amandola) conduce alla Collegiata di San Marco. Nel punto in cui le due direttrici si incontrano, si apre la piazza del paese: Piazza Roma. 51


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Convento Santa Maria del Piano Il convento è un edificio a due piani con chiostro, situato lungo la strada che da Fermo conduce ad Amandola. La sua costruzione venne completata nella prima metà del secolo XVII.


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Convento Santa Maria del Piano 53


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RICETTIVITÀ Ristorante, hotel, catering “San Marco” da Zenà Via Garibaldi n. 6 Servigliano Cristian Cordari 0734/750761 www.hotelristorantesanmarco.it/ www.facebook.com/sanmarcozena/ B&B Angela Garden c.da San Pietro Pozzuolo Servigliano 331/3008889 www.angelagarden.it Ristorante, Country House, Relax Villa Funari Via della Repubblica 18 Servigliano Smerilli Stefania e Annamaria 0734/750114 333/7206051 www.villafunari.it www.facebook.com/VillaFunari/ Agriturismo Cascina degli Ulivi C.da Commenda 4 Servigliano Angelini Marinucci Aldo 0734/710235 338/7094170 www.cascinadegliulivi.com

Wine Restaurant Bar Pane & Vino Via 24 Maggio, 28 Servigliano Davide…? 0734 759851 https://www.facebook.com/Pane-eVino-392803340899676/ Pizza al Taglio, Bar, Rosticceria, Ristorante Il Quadrifoglio via Enrico Mattei n°2 Servigliano Simona e Manlio 0734/710375 www.facebook.com/ilquadrifoglio. servigliano/ Pizza al taglio La Piazza Via XXIV Maggio n. 2 Servigliano Cheti Granatelli 328.2870767 Pizzeria Ristorante Re Leone Via Palmiro Togliatti n. 2 Servigliano Teresa e Ylenia 334/1056626 0734/750959 www.facebook.com/releoneservigliano Bar e pizza al taglio Pizza & Coffe Via Romolo Governatori Servigliano Paola Ercoli 333/6794438 www.facebook.com/Pizza-Coffee-536014613190735/ Bar, Ristorante Bar Petrelli Corso Navarra n. 41 Servigliano Sandro Paci 347/1811866 www.facebook.com/pg/barpetrelli/ about/?ref=page_internal

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EX STAZIONE - MUSEO “CASA DELLA MEMORIA” EX CAMPO DI PRIGIONIA - “PARCO DELLA PACE”

FONTE DEI CAVALLI

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COLLEGIATA “SAN MARCO” MUNICIPIO PALAZZI SIGNORILI

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Zona Castello di Belluco

RUDERI DELL’ANTICO CASTELLO DI SERVIGLIANO

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CHIESA “SANTA MARIA DELLE PIAGGE”

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FONTE

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ANTICA FONTE CON LAVATOIO

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EX COMPLESSO MONASTICO “SANTA MARIA DEL PIANO”

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VILLA BRANCADORO E CHIESA

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CHIESA “LA MADONNETTA”

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Consorzio di Sviluppo Industriale d el Fermano

Presidenza del Consiglio dei Ministri

Dipartimento della GioventĂš e del Servizio Civile Nazionale

Il progetto si avvale del cofinanziamento della Regione Marche e del Dipartimento della GioventĂš e del Servizio Civile Nazionale

FERMO

Belmonte Piceno

Servigliano

Monteleone di Fermo

Belmonte Piceno

Servigliano

Monteleone di Fermo

COMUNE DI MONTELEONE DI FERMO

Via G. Garibaldi 9, 63841 Monteleone di Fermo (FM) tel. 0734.773521 fax. 0734.773522 www.comune.monteleonedifermo.fm.it comune@monteleonedifermo.com

COMUNE DI BELMONTE PICENO

COMUNE DI SERVIGLIANO

Piazza G. Leopardi n.6 63838 Belmonte Piceno (FM) tel: (+39) 0734 771100 fax: (+39) 0734 771291 www.comunebelmontepiceno.it info@comunebelmontepiceno.it

Piazza Roma, 2 63839 Servigliano (FM) 0734.750583 - 0734.750584 0734.710618 www.comune.servigliano.fm.it comune@pec.comune.servigliano.fm.it


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