Capitolo 1
I
l Palazzo viveva. Grande e solido come un generale, era di marmo e di ottoni. Di ferro e di vetro. Le porte lucide. Le
guide, verdi in primavera e rosse d’inverno, gli riscaldavano un poco i vecchi scalini. L'ascensore partiva con un lamento e con un sospiro di sollievo si fermava ai piani. Noi eravamo bambini, e lo abitavamo con le nostre famiglie. Prima di noi c'erano stati altri bambini, altri ne sarebbero venuti dopo. Il tempo e la memoria. Ma noi, allora, vivevamo un presente eterno e la memoria non ci insidiava. Non potevamo usare quell'ascensore, né camminare sulle guide. Avevamo magliette a righe rosse e blu quando arrivava il caldo e cappotti troppo grandi quando c'era freddo. Molti di noi avevano delle scarpe alte e nere che dovevano dissuadere i nostri piedi dall'andare in dentro, o in fuori, o un po' di qua e un po' di là. Dovevano insegnarci a camminare dritti, insomma, “sulle strade della vita”. Erano gli anni ‘50, c'era ancora da sognare . Noi bambini facevamo parte di quel sogno delle nostre famiglie, ed eravamo destinati a deluderlo. C'eravamo io, Daniela, Rosalba, Patrizia, Claudio, un Carlo che restò poco, Rocco, Maurizio. Riccardo e Rossana che erano i figli dei portieri, fratelli fusi insieme da un segreto banale, poi tragicamente svelato. Tutti avevano dei fratelli, tranne me. E mi sarebbe piaciuto. Ma mi sarebbe piaciuto davvero?
Non parlavamo di quello che ci succedeva a casa, ma il Cortile del Palazzo lo echeggiava, portando discussioni, risate o scapaccioni giĂš dal primo piano fino all'ultimo e ritorno. I muri respiravano. I tubi erano vene. E quando, in tutte le case, alla stessa ora, si accendevano le luci, era come se il Palazzo avesse un brivido lungo la schiena. A quell'ora si cenava, assonnati, le gambe pendoloni. E "togli il gomito dalla tavola: chĂŠ, ti pesa la testa?" era un ritornello per tutti. La minestra, lo stracchino, gli sfilatini nel cestino del pane, una mela. Noi bambini non si poteva parlare a tavola, e se ne avessero trovato il modo, non ci avrebbero neppure fatto ascoltare. Non che ci fosse molto da imparare da quella generazioni di padri preoccupati e di madri afflitte, ma come pensavano che saremmo diventati intelligenti? E infatti molti di noi non lo sono diventati. Altri sĂŹ, ma per disperazione. Dopo quel Carosello che ci avrebbe perseguitato per tutta la vita, finendo per diventare una memoria di tutti e non solo nostra, come sarebbe stato giusto, si andava a letto. Con la mela sullo stomaco. Le case, le nostre case, a quei tempi erano monumenti alla nostalgia. C'era un po' di tutto, perchĂŠ non si buttava niente.
C'erano, spesso, anche i nonni. Noi eravamo figli di gente "perbene�, gente che poi avrebbe fatto un po' di soldi. Chi piÚ chi meno. Avevamo salotti pomposi, freddi in ogni stagione, perchÊ non ci si entrava mai. Grandi divani a fiori, il pianoforte arrampicato sul muro e umiliato da ninnoli, lampadari tintinnanti, tappeti, austere marine alle pareti, ritratti di damine o pastorelle, trine sparse. Avevamo cucine grandi, con il tavolo dal piano di marmo e le sedie di legno. Avevamo lo scaldabagno a gas. Sicuro quanto una bomba a mano, ma lo avevamo. Sapevamo che altri bambini, in altri Palazzi, si lavavano con l'acqua fredda. Al pensiero, ne provavamo un brivido, immergendoci nel caldo bagno del sabato sera. CosÏ come rivolgevamo un pio pensiero ai bimbi poveri, addentando la pastarella con la panna della domenica. Spesso si divideva la camera da letto con qualcuno della famiglia. I piÚ fortunati avevano i fratelli, altri un nonno vedovo o una zia. Ognuno di noi bambini pensava che la notte degli altri fosse assai migliore.
Facevamo le elementari, e i nostri quaderni avevano un odore buono di bambini puliti e di merenda. Andavamo tutti nella stessa scuola di suore dietro l'angolo, accompagnati dai nonni o dalle cameriere. Quei cappotti troppo grandi ci impedivano di correre, ma a quell'ora del mattino non ne avevamo neppure troppa voglia. Ancora calducci di letto arrancavamo, appesi a mani adulte. Quell'oggetto tessuto con sadismo che chiamavano "passamontagna�, ci regalava l'aria paffuta e il mal di testa. Eravamo tutti contenti quando il Palazzo ci riprendeva. Contenti ed affamati. Come per un segno convenuto, i fiocchi dei grembiulini si arrovigliavano da un lato, i calzettoni calavano, il passamontagna scendeva a metà fronte: e si poteva correre. Nella zona franca tra il ritorno da scuola e il pranzo, il Palazzo doveva sopportarci nel grande atrio. Accanto alla scalinata dell'ingresso c'erano scivoli naturali che sembravano creati apposta per dei bambini.
La naturale tendenza dei Grandi a rovinarci i giochi, invece, li aveva ispirati a metterci dei grossi vasi in fondo. CosĂŹ bisognava gettarsi di lato giusto alla fine di quella piccola vertigine, prima di travolgerli. Meglio uno scalino nel fianco che una madre arrabbiata. Ci facevamo male spesso, giocando. PiĂš spesso di quanto le nostre famiglie ritenessero opportuno per dei bambini "perbene". A sentir loro le ginocchia sbucciate spettavano di dritto ai figli degli operai e i bozzi in testa a quelli dei contadini.
Capitolo 2 Noi Giocavamo con una certa serietà. Conte e cantilene erano parole che rotolavano insieme alla palla, erano intessute nella corda che ci faceva saltare. Mai ne avremmo messo in dubbio il valore magico. La Regola. Ambarabbàcicciccoccò tre civette sul comò che facevano l'amore con la figlia del dottore il dottore s'ammalò ambarabbàcicciccoccò E a chi toccava toccava. Era Rosalba che insegnava a tutti le parole magiche. Era più grande? Non ricordo. Era sicuramente più vecchia. E già studiava, già faceva i compiti con la pedanteria dei figli dei poveri che devono riscattare tutta la famiglia. Rosalba si allenava a fare “la moglie e la madre esemplare” come si legge sulle tombe di tante povere donne. Se avessi voglia di cercarla, oggi, sono certa che la troverei con l'aria placida delle mucche che hanno dato molto.
Quelle mucche che hanno un nome e che i bambini dei fattori dovrebbero per correttezza chiamare "mamma". Anche Patrizia era un po' vecchia. Però si vedeva che scalpitava. Le facevano lavare i piatti dopo pranzo, ma sbrigava in fretta quella faccenda che doveva ricordarle d'essere una femmina, e poi faceva altro. Spesso ci scambiavamo dei libri. A lei li passava sua sorella, una ragazzona che morì presto e improvvisamente. Nel tempo, furono libri disegnati, poi di favole, poi i Salgari, poi i Delly rosa che parlavano d'amore. Arrivammo fino a un Pavese, ma di nascosto. Patrizia abitava proprio davanti a me. Sarà funzionaria di qualche ministero, un gradino avanti ad altri, tanto per gradire. Riccardo e Rossana abitavano nel seminterrato. Un passo dall'inferno, avevano finestre alte che incorniciavano un mondo di scarpe, ruote e cani. Sempre insieme, non credo d'averli mai considerati come due persone distinte. Parlavano in dialetto umbro, se parlavano. Nemmeno quando si ruppe un braccio in tre punti Rossana disse molto. Avevamo fatto una catasta di mattonelle, pezzi di legno e cartoni. Ogni volta aggiungevamo uno strato di qualcosa e vinceva chi sapeva arrampicarsi e poi saltare giù. Rossana volò giù pesante e si accartocciò sul suo braccio. Seduta in terra, in mezzo al nostro Cortile, sollevò perplessa un braccio che le pendeva dove non avrebbe dovuto. Arretrammo tutti con orrore. Lei sgranò gli occhi sul fratello, e quello chiamò: “Oh, Mà!". La madre arrivò, ci maledisse e la portò via.
Casca il mondo casca la terra e tutti giù per terra Rocco e Maurizio erano amici. A me piaceva Maurizio, ma io piacevo a Rocco. Una tragedia. Non lo sapevamo, ma già' prima dei 10 anni stavamo facendo le prove generali per i 20, i 30, i 40...
Maurizio era alto, per la sua età. Dai colletti delle sue camicie saliva un odore di saponetta e aveva le orecchie sempre pulite. Era gentile e attento a non sporcarsi . Sarà uno di quei manager con la ventiquattr'ore, quei maschi carini da bambini e sciapi da adulti.Facile che abbia detto qualche volta ”Lei non sa chi sono io!”.
Rocco portava maglioni che odoravano dell'ultimo pranzo, i capelli avevano vortici creati dal cuscino, e parlava, si muoveva, gridava troppo. Suo fratello già' lavorava. Era come Rocco, solo più grosso. Rocco lo riconobbi anni dopo in una manifestazione del PCI dal vortice nei capelli e da quel modo di muoversi come su un ring. Sorrisi dentro, ma non lo salutai. Carlo era un bambino grasso. Nel Palazzo abitò pochi anni, il tempo di ingrassare un altro po' e arricchire la nostra fantasia stimolandoci ad inventare nomi nuovi per chiamarlo. Cicciabomba cannoniere ogni passo fa tre pere Non era simpatico, Carlo, ma perché avrebbe dovuto? La sua stessa carne non era buona con lui. Il padre era un medico famoso e lui se ne vantava. Naturalmente a noi non importava nulla di cosa facesse suo padre, e Carlo ci restava male. Era l'unico che scendeva in Cortile con la merenda. La madre lo guardava dalla finestra , lui ogni tanto si sentiva silenziosamente chiamato, e alzava la testa. Quando andò via, suonò alla mia porta per salutarmi. Era sudato, emozionato. Non capivo, non m'importava. Non mi sarebbe mai mancato. Mi regalò un diario con un lucchetto per farsi ricordare. E fu il mio primo diario. Di femmine se ne intendeva: aveva tre sorelle belle floride, il ritratto della salute. Sarà medico anche lui.
Claudio era il più grande. Mani lunghe. Ci passammo tutte per quelle mani, anni dopo. Il nostro segreto. Aveva due fratelli fidanzati. Claudio ci raccontava quello che facevano con quelle ragazzette che vedevamo arrivare la domenica con i fiori per la futura suocera. Aveva dato una fine al nostro essere donne: entro i 25 anni , matrimonio o convento. Dopo non saremmo più servite a niente. Non poche angosce provocò quella sua certezza, a noi piccole femmine. Farà il venditore di qualcosa. Uno di quelli che raccontano le barzellette . E poi c'era Daniela. Comparve all'improvviso dietro i vetri del secondo piano, in quell'appartamento lasciato vuoto per tanto tempo. Alzai gli occhi e la vidi. Mi sembrò subito bellissima. Anche gli altri smisero di giocare e guardarono in su. Lei non ci sorrise, e anzi lasciò vuota la finestra, ritirandosi come fanno gli animali dentro il guscio. La sera i suoi genitori scesero a casa nostra per conoscere i miei nonni. La mia era la famiglia più anziana del Palazzo e le era riconosciuta una certa autorevolezza. Non era raro che quelli delle altre case venissero a chiedere un consiglio a mio nonno o a fare una confidenza alla nonna. Daniela mi fu presentata come "la mia nuova amica". Veniva dall'America, parlava male italiano, ma aveva i capelli biondi e gli occhi verdi, come le bambole migliori. Ne fui tragicamente conquistata. A diciotto anni saremmo andate a vivere insieme e poi avremmo litigato, giurandoci un odio eterno. Un giuramento non mantenuto, ma sarebbe stato meglio, perché ci diventammo invece indifferenti.
Capitolo 3 Io
Quello che mi rendeva diversa dagli altri bambini era non avere la mamma. Lei abitava nei sospiri della mia famiglia e nei bisbigli dei Grandi intorno a me. Sempre presente, ma se la cercavo non c'era mai. CosĂŹ, non ero spesso di buonumore. Vivevo con i nonni, due zie, mio padre qualche volta, una tata che si chiamava Adele e un'altra, che venne dopo, che si chiamava Lucia. Ho amato Adele e odiato Lucia. Ho continuato ad odiarla e non credo di avere mai smesso. Mia nonna era il manovratore. Aveva un cuore stracciato e il sangue le scoppiava fuori dal naso ogni volta che si agitava. E si agitava spesso. Aveva le gambe enormi, e le vene che le andavano su per i polpacci come dei pitoni. Anche le braccia aveva enormi. D'estate mi diceva di mettere le
mani sotto le sue maniche, se volevo sentire il fresco. Era vero: lÏ era fresco. Malgrado i suoi poteri, però, era sempre triste. Piangeva mentre cucinava, mentre cuciva, mentre mangiava, mentre pregava. Io allora andavo tra i divani del salotto e la finestra, dove tutti facevano finta di non trovarmi. Un' isola. Uno spazio dimenticato dai Grandi, tra le tende. Se alzavo gli occhi vedevo un pezzo di cielo e la luce aveva dentro polvere d'argento. Mio nonno era basso. Quando cominciarono a cadergli i capelli si rasò completamente. Si rasava ogni mattina, facendosi la barba, come se il suo viso e la sua testa fossero un' unica cosa. Probabile fosse vero: a 13 anni era partito da un cucuzzolo molisano, clandestino su un piroscafo per l'America. Solo. Se non avesse avuto testa, e se non avesse saputo sorridere, e mostrare i denti, non ce l'avrebbe fatta. Invece era diventato ricco e due volte l'anno partiva per Buenos Aires per controllare "gli affari". Faceva l'orefice, lavorava in casa. In piccole scatole aveva pietre di tutti colori e nascondeva l'oro in panni neri. Io so riparare gli orologi, lui mi ha insegnato. E mi faceva guardare quando le signore venivano a farsi bucare le orecchie.
Aveva una pistola con un ago da una parte e un sughero dall'altra. In mezzo ci andava il lobo. Lui sparava. Usciva una goccia di sangue e poi si sentiva l'odore dell’alcool. “Non è niente, passa subito". Io mi sentivo le ginocchia molli, e credo anche la signora . A casa mia si parlava un po' argentino e un po' italiano. Quando cominciai ad andare a scuola c'erano delle cose di cui non sapevo il nome in italiano e mi offendevo se non mi capivano. A casa, però, rifiutavo di parlare quella lingua che li univa tutti con un filo celeste, e credo fu una delle prime cause di quegli sguardi che ancora oggi mi sento addosso. Sembrava si chiedessero da dove venivo. Certo pensavano che se anche mia nonna aveva chiuso le porte alla famiglia di mia madre che, per suoi imperscrutabili e mai contestati motivi, tanto poco le piaceva, qualche contaminazione c'era stata. Non era stata abbastanza veloce. Ero una mulatta: né di qua né di là. Ma vivevo di qua. Le zie erano molto diverse tra loro. Ogni tanto si picchiavano in silenzio in fondo al corridoio. Se le davano e si graffiavano, ma quella lotta tra erinni
si svolgeva come in un acquario. Se mia nonna le sentiva, dava loro il resto. Mio nonno, invece, poteva anche passargli accanto senza dire una parola. Credo che il contendere fosse mio zio, quello che poi sposò felicemente la più bella. Una usciva e comprava per tornare e trionfare: “Ora ho tutto!", l'altra suonava il pianoforte, disegnava, leggeva, scolpiva. Una era sveglia, l'altra come appannata. Ma non si poteva mai dire di sapere cosa avessero in mente tutte e due. Avevano i pensieri come gomitoli impicciati e nulla era mai come sembrava, nulla sembrava ciò che era. Un linguaggio sotterraneo scorreva come un fiume tra i piatti dei nostri pranzi, scivolava denso tra le stanze della nostra casa mentre vivevamo la vita di ogni giorno. Da tutto questo mio padre era escluso. Fratello subìto, che si doveva amare ad ogni costo. Non che se ne sia mai accorto.
Io ero proprietà di Aurora. Un corpo bellissimo, un viso adunco. Mento, naso, fronte: tutto sporgeva. Si protendeva in avanti come se avesse bisogno di più aria . Non so come e quando si firmò questo contratto, ma nessuno lo mise mai in discussione. Nemmeno Agar, che doveva occuparsi di me quando lei non c'era. Nemmeno mio padre. Perche’ lui era sfasato. Viveva sorridendo, con l'aria del pugile che si chiede come mai non lo fanno più salire sul ring. Non c'era possibilità di entrare in quel suo bozzolo di dolore e la farfalla non è mai riuscita ad uscire. La morte di mamma era un labirinto a forma di “perché" e lui ci girava dentro. Era bello, gentile, aveva altre donne, aveva il suo lavoro che rendeva tutti fieri delle cose straordinarie che faceva venir fuori dai mattoni e dagli spazi. Aveva me. Ma non gli bastavo. Odiavo quella mamma che mi dicevano "in viaggio", e che ci aveva condannati a sentimenti tanto complessi quanto mediocri. A cinque anni sapevo leggere e scrivere, le mie zie mi avevano insegnato. Scrivevo a mia madre delle lettere che poi non sapevo dove spedire. Proprio quando pensavo di essere finalmente riuscita a raccontarle tutto. Mio padre mi abbracciava troppo forte. Ma guardava me e vedeva mia madre. Io lo sapevo. Ero piccola, ma lo sapevo. Perché lui piangeva: e perché doveva piangere se io ero viva?
Sapevo una cosa, come si sanno le crudeltà essenziali: se io fossi morta mio padre non avrebbe sofferto per me nello stesso modo. Aveva già avuto il suo danno. Bisogna diffidare di chi è stato danneggiato, così nel profondo e improvvisamente. Anche nelle sue ultime notti bisbigliava: ”Dodo, soffoco...”, e secondo me lei era lì. Era sempre stata lì, con quel suo diminutivo piccolo piccolo, che io non avevo mai pronunciato, e che tra le stelle spediva me. Astralmente esclusa.
Capitolo 4 Il cortile
Mia nonna non voleva che io giocassi con gli altri bambini. Mia zia o mio padre mi facevano scendere in Cortile appena lei prendeva sonno dopo il pranzo. La siesta. Dovevo risalire in casa al primo cenno dalla finestra: “Ancora cinque minuti" non lo potevo dire. Salivo i gradini di corsa e mi infilavo nella porta che qualcuno mi lasciava semichiusa. Avevo l'impressione che mia nonna sapesse bene, cosĂŹ come sapeva tutto, di quei giochi rubati. Lei diceva che gli altri bambini erano depositari di molte malattie: se mi veniva un raffreddore o il mal di stomaco era il suo trionfo: “Sei andata in cortile...". Il Cortile si era formato tra il nostro Palazzo e un altro. Noi bambini avevamo sulla testa da una parte le finestre delle nostre case, dall'altra quelle di famiglie estranee. Non c'erano bambini dell'altro palazzo tra noi. Anche perchĂŠ i suoi abitanti non possedevano quel futuro a rate che noi eravamo per i nostri padri: erano tutti Vecchi. E come tutti i vecchi, cattivi. Era un quadrato grigio come i topi che lo abitavano. Probabilmente non era mai stato spazzato e bastava
cadere e poi guardarsi i palmi delle mani (se si era stati tanto accorti da metterle in avanti prima di cadere) per accorgersene. Ma i muri avevano i segni della palla : erano nostri. Il primo che arrivava in Cortile dopo pranzo, guardava in su. Qualcuno si sarebbe affacciato, qualcuno sarebbe arrivato. “Che facciamo?”. I giochi erano sempre quelli. Il più amato era "buzzico rampichino", e cioè correre, che era il gioco principe. C'era uno che doveva acchiappare tutti, ma non poteva farlo se chi correva trovava un modo qualsiasi per sollevarsi da terra. E non doveva toccarla. Io sapevo restare in bilico su un barattolo di vernice. I maschi sapevano appendersi a dei ganci infissi nei muri, che chissà a cosa servivano. Le femmine sapevano restare sul bordo di un gradino con la perizia di un geco. Carlo non sapeva fare quasi nulla, né correre né acchiappare. Ma era un buon esploratore: la sua pancia ci apriva la strada. Nel Cortile, infatti, c'erano due porte. Una era la porta della Fontana, l'altra quella che portava alle scale dell'altro palazzo. La Fontana ci era vietatissima. C'erano quattro enormi vasche piene d’acqua, dove pare che i bambini annegassero come niente. Le cameriere ci andavano a lavare le lenzuola, i panni grandi. Non aveva finestre: solo acqua e topi. Ci attirava come la grotta di Alì Babà. Aprivamo la porta e chiamavamo i bambini annegati: “ehi, scemi, avete imparato a nuotare?”. Si rideva sonoro, solo con la bocca, perché i bambini perbene sanno sempre quando fanno qualcosa di male, anche se la fanno lo stesso. Ogni tanto una delle vasche rigurgitava un po' d'acqua o gorgogliava, e ci sembrava una risposta terrificante.
L'altra porta del Cortile si apriva sulle scale dell'altro palazzo.
Quello dei Vecchi. Rocco si metteva sotto alla tromba delle scale ,prendeva fiato e poi tirava fuori un urlo da Tarzan. Era quello con la voce piÚ forte: credo avesse gia' tempeste ormonali tra le corde vocali e il pisellino. Appena sentivamo aprirsi le porte dei Vecchi "Che c'è, che è stato?!" scalpicciavamo veloci insieme ai topi nella nostra parte di Palazzo. I Vecchi non ci amavano e noi non amavamo loro. Tra le cantilene di Rosalba e gli urli di Rocco ("dai, fallo ancora!" E lui prendeva fiato...) abitavamo nel Cortile fino a quando non faceva troppo freddo d'inverno e non calava il sole d'estate. Le gatte venivano a partorire in uno sportellino arrugginito dove c'erano i contatori del gas e noi gli portavamo pane e latte. Ci passavamo di mano in mano quei gattini mosci che non sapevamo accarezzare, mentre la madre ci guardava con il muso appuntito e gli occhi sgranati. Non stava tranquilla, e aveva ragione.
Ogni tanto il Cortile ce l'occupavano. C'erano due giorni ogni qualche mese in cui veniva un uomo con uno sgabello ed un panchetto. Le donne gli portavano i materassi. Lui li scuciva, tirava fuori i bioccoli di lana indurita e li metteva sul panchetto. Passava su quel pasticcio una tavola piena di ganci, che teneva con due manici forti: stra-stra-stra-stra la lana respirava. Si metteva intorno a lui come una nuvola di crema. Stra-stra-stra-stra lavorava in silenzio quell'omino. Non c'era permesso parlare con lui. Dicevano che era uscito di prigione. Per noi tutti quelli che erano stati in prigione erano degli assassini. Non conoscevamo altri motivi per i quali doverci andare. Guardavamo dunque quell'assassino dalle finestre, mentre la lana gli raccontava delle nostre notti. Una volta Daniela gli parlò dalla finestra. Lui rispose in un dialetto stretto. Daniela ce le prese da sua madre. Quando tutto fu finito le chiedemmo cosa gli aveva chiesto, ma lei fu misteriosa: “Non posso dirlo...".
Era dunque complice di un assassino. Ci sembrò, a noi tutti, il segno di un grande coraggio e anche Rocco la guardò con rispetto, mentre Carlo la giudicava come avrebbero fatto sua madre e suo padre. Anni dopo, mentre trasportavamo in una casetta di Campo De' Fiori i nostri materassi, le chiesi cosa le avesse detto l’assassino: “E che ne so? Mica l'ho capito..."
Capitolo 5 Lucia
Ero l'unica ad avere una tata. Lucia venne a svegliarmi una mattina, materializzata al posto di Adele (la mia pelosa Adele, che odorava di torte e sapone da bucato!) Questa era un'estranea. Parlava strano, la seguii per fame. Era quasi nana, e tentava di sollevarsi con una torre di capelli e con tacchi che le facevano somigliare i piedi a zoccoli di vitello. In mezzo ,tra capelli e zoccoli, c'era una donna compressa e non buona. Veniva dalla Puglia dei paesi, ma era stata qualche anno in Argentina. Cosa che convinse subito mia nonna a prenderla. Mia nonna aveva lasciato in Argentina un suo grande amore, e si circondava di tutto ciò che potesse ricordarle il sacrificio di aver dovuto sposare mio nonno. Lui, quell'altro, si fece prete, e per mia nonna fu immediatamente mito. Lucia accompagnava spesso noi bambini a scuola o dove dovevamo andare.
Ci faceva sciamare fuori dal Palazzo, ma non era più alta di noi. Aveva un fidanzato che si chiamava Vittorio e che la faceva patire. La domenica, prima di uscire con lui, passava le braccia sul fornello, per bruciare i peli. Si arricciolavano e cadevano, lasciando per la cucina l'odore di un pollo mal spennato fatto arrosto. Usciva con mia gioia. Cominciammo male. Quella prima mattina lei mi mise davanti una tazza di latte. Io non bevevo latte, lo sapevano tutti. Non glielo dissi nemmeno, troppo occupata a esplorare il bizzarro esemplare che era. Però, visto che insisteva, e anche con suoni duri, mi disinteressai e presi le campanelline di ceramica che mia nonna mi lasciava sul tavolo della cucina ogni mattina. Per svegliarla quando mi svegliavo. Din din din Lucia fu rapida: afferrò le campanelline , aprì la finestra e le gettò in Cortile. S'infransero. Restai a bocca aperta. Chi era quella donna? Ero ancora a casa mia? Gridai, chiamai. Lucia chiuse la porta della cucina. Parlava, ma non la capivo. Presi il bicchiere di latte e fui rapida anch'io: s'infranse accanto alle campanelle. Qualcuno apparve: “Lasci , faccio io...". Allora sapevano! Io e Lucia stavamo in mezzo alla cucina, misurandoci, piccolissime, come due titani pieni di rabbia. Restò con noi fino a quando non me ne andai di casa, a 18 anni. Si era sposata, aveva avuto un bambino, ma ogni mattina tornava nel Palazzo per svegliarmi e farmi la colazione.
Un rito d'odio. E non si odia mai per caso, mai chi non ci odia egualmente, anche se in forme amorose. Lucia faceva la spia. Noi bambini non le dicevamo mai niente, ma lei scopriva sempre tutto. E lo diceva a mia nonna. Di lì le informazioni passavano alle mamme degli altri. E gli altri se la prendevano con me, ma io non riuscivo a farla cacciare. Lucia era come una cozza attaccata allo scoglio di mia nonna. Mi prendeva in giro per Maurizio. Ci chiamava "i fidanzati”. E noi che neppure ci guardavamo per non arrossire... Sembrava leggerci nel cuore l'inconfessabile: "Rocco, ti devi trovare un'altra fidanzata: questa si sposa con Maurizio". Rideva, stracciando i patti d'amicizia che c'erano tra noi bambini, che non eravamo più angeli, ma non ancora diavoli. Dovevamo sembrarle dei bambini fortunati. E lo eravamo. Ma fino a quando lei non arrivò, non sapevamo che questo fosse male. Non sapevamo che l'invidia portasse jella, fino a quando Riccardo e Rossana non cominciarono a fare le corna ogni volta che vedevano Lucia. Cominciammo a farle tutti, e ci sentimmo un po' più sicuri. Cominciammo a farle tutti, e ci sentimmo un po' più sicuri. "Vuoi sapere cosa faccio con Vittorio?" mi chiese una volta, mentre lei
stirava e io facevo i compiti. Certo che volevo saperlo. A 8 anni sono cose che interessano sicuramente più che a 20. Mi ritrovai con la sua lingua in bocca e le mani dove mia nonna non voleva neppure che mi lavassi troppo a lungo. "Se lo dici finisci alla Chaqarita " mi disse. La Chaqarita è il cimitero di Buenos Aires. L'idea di ritrovarmici all'improvviso, trascinata dentro la terra, via veloce nello spazio e nel tempo, mi fece tacere. Mi faceva vedere spesso cosa faceva con Vittorio. Io lo facevo vedere a Daniela. Lei ad una sua cugina. Finché sua madre non la scoprì. “Chi ti ha insegnato queste cose?!”, ma Daniela non era una spia. Anche quella volta ce le prese. Ce le prendeva sempre. E poi la madre veniva da mia nonna a dire che non sapeva come fare con quella figlia. Le mostrava i palmi delle mani arrossate: “Questo per picchiarla!", e voleva essere compatita. Un giorno eravamo tutti a pranzo. C'erano le seppie ripiene e Lucia le servì. Mio padre disse che il tale si era fidanzato. "Allora le mettela lingua in bocca" dissi io. Gelo. Tutto fermo. Mio nonno sorrideva, gli altri no. Rimasi con la bocca piena. Lucia guardò mia nonna e mia nonna tirò fuori una voce da arma da taglio: "Lucia, dopo venga da me". Si entrava nella stanza di mia nonna raramente, e se ne usciva, se se ne usciva ,con qualche problema in più. Era la coscienza a risentire di quelle visite al tempio, dove mia nonna era insieme sacerdote e vestale delle Regole della Vita. Rimasero chiuse in quella stanza per due ore. Mio padre non
andò neppure a fare la siesta, scappò via in fretta, ché qualcosa a che vedere con Lucia ce l'aveva pure lui. Le zie mi guardavano: forse sapevo più di loro? Non avevano vigilato abbastanza su di me? Mio nonno ronfava sulla poltrona del salotto. Quando vide Lucia che usciva dalla stanza di mia nonna con gli occhi rossi, chiese: “Ma oggi niente caffè?" Lucia rimase. Non si sa come né perché. Ma rimase. Con più potere di prima. Aveva suonato di mia nonna corde misteriose. Se anche mio nonno e i suoi figli avessero saputo dove erano nascosti in lei Comprensione e Perdono, sarebbero vissuti con meno affanno.
Capitolo 6 L'asiatica
Per un po' di mesi il Cortile restò vuoto. Noi bambini eravamo malati, avevamo l'asiatica. Un'influenza fetente, che ci aveva spalmato nei letti senza voglia di sorridere. Proibito alzarsi, ma non ce l'avremmo nemmeno fatta. Nelle stanze in penombra avevamo l'aria adulta dei bambini che soffrono. La sorella di Patrizia si arroventò di febbre fino a morire e fu paura. I Grandi camminavano in punta dei piedi ed erano dolenti. Dalla mia stanza sentivo il campanello della porta, bisbiglii, parole, toni alterati. I Grandi del Palazzo complottavano contro la morte, facevano piani per salvarci. C'era un medico, dovevamo chiamarlo "zio Giorgio", che ci curò con iniezioni e sciroppi. Curava tutti. Prendeva l'ascensore e andava all'ultimo piano, poi scendeva. Casa per casa, da noi che non sapevamo se essere contenti o no di quelle sue visite. Ogni iniezione ci portava un pupazzetto montato sul legno, con
le giunture legate da un filo: spingendo un bottoncino sotto al pezzo di legno, i pupazzetti piegavano la testa e le ginocchia. Quando venni fuori da quella tempesta di lenzuola, sulla testiera del letto avevo decine di giraffe, clown, cagnolini. Mia nonna sedeva accanto a me su una poltrona. Faceva il tombolo con rocchetti d'avorio gonfi di filo bianco che le volavano tra le dita tic tic titic tic tic titic Conservo quei centrini di febbre e angoscia. Dormo ancora nelle lenzuola di lino con le ferite di quei ricami d'ingegno. I pensieri di mia nonna diventavano angeli e farfalle, fiori e geometrie tic tic titic tic tic titic Ipnotizzava la morte, le ingarbugliava i progetti che aveva su di me avvolgendola in trine delicate e invincibili. Gorgogliavano, nelle loro vasche, i bambini annegati. Ma noi non morimmo. Scendemmo invece dai letti con le gambe magre e gli occhi cerchiati di scuro. Mio padre, felice, mi diceva: "Fammi vedere i muscoli!" e io gonfiavo, fiera, un toracetto da due lire.
Non so quanto durò, ma fu il tempo necessario a perdere la prima elementare. I più forti di noi cominciarono ad andare a trovare gli altri, accompagnati dai genitori. Eravamo diventati tutti come più timidi. Sapere che non eravamo immortali ci aveva fatto perdere il tono stridulo della voce. Ci appoggiavamo ai grandi, li abbracciavamo forte, ché non ci lasciassero andare. Languidi, lasciavamo che ci ingozzassero di zabaione e carne di cavallo. Nessuno bussò alla porta di Patrizia. Non uscivano rumori da quella casa, come se si fossero tutti ritirati nel fondo di qualche stanza segreta. Il Palazzo proteggeva il dolore di quella famiglia rendendo opachi gli ottoni della loro porta e più forte, più scuro, il legno. Quando i muri del Palazzo ci portarono l'eco delle botte che Daniela aveva ricominciato a prendere dalla madre, ci considerammo tutti guariti. Durante la nostra assenza i topi avevano occupato il Cortile. Uno, con dei grossi denti gialli, non scappava se gli correvamo addosso urlando, per cacciarlo via. Si accostava un po' di più al muro, ma non abbandonava la postazione. Doveva essere un vecchio topo, un veterano di chissà quante guerre.
Grosso e sporco, aveva la coda larga due dita delle nostre e lo sguardo fiero. Gli altri topi erano meno tenaci, si lasciavano spaventare. Non li rispettavamo, cosĂŹ vincerli era piĂš facile. Claudio aveva trovato una scopa di saggina nel ripostiglio delle scale e riusciva a farne fuori anche tre, prima di tornar su a casa per la merenda. Li spingeva contro il muro, gli faceva leva con la scopa, li faceva volare in aria e poi gli dava un colpo secco. Morti o tramortiti, li prendeva per la coda e li mostrava a noi bambine. Faceva il gatto. Rocco e Maurizio non lo sopportavano, forse ne erano gelosi. Ogni tanto si picchiavano, infatti, e per dei motivi che noi femmine giudicavamo assolutamente sciocchi. Invece no: erano degli ottimi motivi . L'avremmo capito qualche tempo dopo. Ci abituammo al vecchio topo. Ogni tanto attraversava il Cortile, passandoci tra le gambe tranquillo. Sarebbe stato facile dargli un calcio, ma non osavamo. E poi, che male ci faceva? Abitava il Palazzo sicuramente da piĂš tempo di noi. Lo vedevamo sparire nella fessura della porta che portava alle vasche: non aveva paura nemmeno dei bambini annegati. Rocco gli portava dei pezzi di formaggio. Riccardo e Rossana riuscivano a toccarlo mentre lui, con la testa piegata di lato, pronto a mordere, subiva quella gentilezza di cui non sentiva il bisogno. Rosalba e Daniela, per una volta d'accordo (non si piacevano: l'idea che l'altra fosse stupida travasava in loro come in vasi comunicanti) dicevano che ci saremmo sicuramente presi una malattia a trattare con quell'animale. Quando sentiva che eravamo in Cortile sbucava e ci guardava serio. Secondo me pensava.
Gli venivano in mente delle cose che gli facevano fremere i baffi e arricciare il pelo sulla schiena. Schioccava la lingua e sospirava. Quante mogli, quanti figli gli avevano ucciso? Forse talmente tanti da fargli credere che non valesse più la pena di voler bene a qualcuno. Cominciai a odiare Claudio anch'io, ma questo non m'impedì , a 13 anni, di salire all'ultimo piano con lui. Una volta chiesi a suor Caterina , mani secche e unghie bianche, se gli animali erano intelligenti. Lei disse che no, assolutamente no: vivevano d'istinto. Solo gli uomini pensavano. Non le credetti, naturalmente. Anche perché avevo fatto la stessa domanda a mio zio Duilio, e lui mi aveva detto il contrario. Che sì, erano intelligenti e qualche volta più degli uomini. Con il tono di quando era necessario comunicarsi cose sconvenienti, a casa dicevano che mio zio era comunista. Ma a me piaceva lo zio, e anche quei suoi amici con occhi vivaci . Volevo dunque diventare comunista anch'io. Lo confidai a Rocco e lui aderì in modo entusiasta a quel progetto. Lo trasformammo subito in un segreto tra noi : io non lo dissi a Daniela, né lui a Maurizio. Per un tacito accordo noi bambini non parlammo del topo ai grandi. Non parlammo nemmeno degli altri topi, veramente. Quelli morti li facevamo sparire tirandoli su una tettoia dove erano già finite molte delle nostre palle. Un cimitero colorato per esserini grigi. Chissà che avrà pensato la persona che ha pulito quella tettoia. Perché qualcuno, prima o poi, l'avrà pulita. O forse no. E lì sopra ci sono ancora le nostre palle e i nostri topi.
Capitolo 7 La terrazza
C'era un altro posto a noi vietato. Ci si arrivava per una scala stretta, due piani più in su di dove si fermava l'ascensore. Per andarci bisognava rubare la chiave che nelle nostre case tenevano nel cassetto della cucina. Era la Terrazza. Una grande, accecante Terrazza. Non c'erano topi, ma uccelli e ragnetti rossi. Un altro pianeta. Correva lungo tutto il Palazzo, più alta di tutte le altre. Ci prendevamo per mano e guardavamo in basso: non c'erano bordi, non c'era protezione né salvezza, se avessimo voluto fare gli scemi. Sotto, il viale diventava corto e la gente era talmente piccola che non si capiva se erano uomini o donne, altri bambini o cosa. Indicavamo questo e quello: il vento ci ributtava in bocca le parole, e allora si stava zitti. Carlo si teneva lontano da quel precipizio e ci chiamava. La sua paura attirava i nostri scherzi in modo naturale. A turno uno di noi si nascondeva e faceva un urlo lunghissimo. Gli altri: “Oddio!! E' caduto, è caduto!!".
Allora Carlo ci raggiungeva sul bordo, pronto ad aiutare, poveretto, bianco come il pavimento della Terrazza. Ci credeva sempre. Guardava giÚ, e il morto resuscitava alle sue spalle. Carlo si offendeva e bisognava andarlo a riprendere mentre scendeva le scale con i cosciotti che strusciavano tra loro e gli facevano le gambe a ics. Non ci si sarebbe aspettato da lui che sapesse tutte le parolacce che ci dedicava in quelle occasioni. Sulla Terrazza le cameriere stendevano i panni. Ma nella parte coi bordi, dove andare era troppo facile. Noi bambini non ci salivamo spesso perchÊ non ci si poteva giocare a nulla. C'era troppo vento, troppo sole. Si stava sui bordi della nostra Terrazza tenendosi per mano, come si sarebbe stati poi nella vita. Si stava lÏ a viversi il tempo immobile tra il volare e il restare. Il cuore ubriaco e le gambe ferme. L'amore e la paura, il rischio e l'aria pura. Molti amori, molte emozioni e scelte mi hanno riportato alla Terrazza. La mano di Maurizio e quella di Rocco che tenevano la mia. Per tenermi o accompagnarmi? Chi lo sa qual è il confine tra protezione e prigione. Non ce lo chiedevamo allora, ce lo siamo chiesti raramente dopo. Gli amori, gli amori accecanti come la Terrazza, hanno continuato a sospendermi tra il vuoto e il volo.
Il portiere Era una bella giornata, una domenica tranquilla. Daniela era venuta a casa mia dopo pranzo e stavamo preparando Raggio di Luna per il suo matrimonio. Mio padre mi aveva regalato una bambola nera, vestita da squaw. Lui diceva che i neri erano come noi. E che anche gli spazzini erano come noi. Che dovevo giocare con tutti e rispettare tutti. Non credo che lo pensasse veramente, ma quella doveva essere la mia educazione. Un'educazione "moderna", come tutto quello che gli piaceva: moderno, appunto. Il signor Antonio, portiere del Palazzo e padre di Riccardo e Rossana, suonò il campanello e chiese di parlare con mia nonna. Il filtro umano Lucia, cane da guardia per vocazione, gli rispose che riposava. Allora il signor Antonio ripiegò su mio nonno, poi su mio padre. Ma tutti riposavano la domenica pomeriggio, dopo le penne al sugo, il pollo arrosto, le pastarelle. Lucia fu spiccia: doveva bruciarsi ancora i peli delle braccia e il suo cattivo fidanzato l'aspettava già all'angolo della strada. Il portiere insisteva. Noi bambine ci affacciammo alla porta, incuriosite. Non alzava mai la voce quell'uomo piccolino. Per un minuto Raggio Di Luna fu dimenticata ai suoi sogni nuziali. Il signor Antonio non era rosso come al solito, ma bianco, e sembrava più magro. Smise di insistere all'improvviso. Da allora chiunque smetta di parlare all'improvviso mi mette in allarme, come se cominciasse a parlare da un'altra parte, dentro di sé, senza che io possa sentire, sapere. Ho paura dei silenzi che ci nevicano addosso quando le cose finiscono.
Lucia chiuse la porta e noi tornammo a istruire Raggio di Luna su come si comportava una buona moglie. Avevo convertito Daniela allo spazio sotto le finestre, e anche quella domenica eravamo in un'isola tra tende e polvere. Era bella la luce che entrava, una luce da giorno di festa. Era bella Raggio di Luna con il suo vestito di pelle e le trecce lucide. Era bella Daniela con i suoi ricci biondi e gli occhi verdi . Ci fu un'ombra. Ed eravamo tanto immerse nella luce che ci voltammo verso i vetri, stupite dalla sfrontatezza di un improvvisa nuvola. Ma non era una nuvola. Era un uccello nero, grande. Era il signor Antonio che si teneva i lembi del grembiule nero e veniva giÚ con le gambe aperte, come la coda di un rondone. "Vola..." disse Daniela. "Cade..." dissi io. In quei due verbi c'era tutto quello che ci avrebbe unito per tanti anni, e poi separato. Ci fu uno scricchiolio, un silenzio e un urlo. E poi il rumore che fa la gente quando, insieme, si trova ad affrontare la morte, la paura, l'incidente, la violenza, la tragedia, il delitto, l'ingiustizia o quello che invece crede lo sia. Gli stessi rumori da quando è nato il l'incidente, la violenza, la tragedia, il delitto, l'ingiustizia o quello che invece crede lo sia. Gli stessi rumori da quando è nato il
mondo. Ci sarà stato un signor Antonio davanti a qualche caverna, alla corte di Macbeth o a quella del Re Sole. Dovunque, comunque e chiunque, la colonna sonora della sua piccola disgrazia è suonata sempre allo stesso modo. Perché il portiere del Palazzo fosse venuto giù i grandi sembravano saperlo. E anche Riccardo e Rossana. La portiera, invece, continuò a piangere un "perché? perché?" anche al funerale. Mia nonna sibilò un "perché!" che, facendosi largo col suo punto esclamativo tra i punti interrogativi della portiera, sbaragliò ogni dubbio sul chi avesse la colpa del volo del signor Antonio. Qualche tempo dopo quel che rimaneva dei portieri tornò in Umbria. Ne arrivarono di nuovi, giovani e senza bambini. Con Riccardo e Rossana ci salutammo a monosillabi, c'era dolore nel sapere che non ci saremmo visti più. Vedendomi triste , con la sensibilità da ramarro che l'animava, Lucia mi disse: “Meglio che non ci stanno più quelli. I figli delle persone perbene non frequentano i figli delle puttane". Ci chiedevamo, noi bambini, cosa facessero le puttane. Un pomeriggio venne in Cortile il fratello di Rocco e ce lo spiegò. Ci disse anche che la storia di Riccardo e Rossana era molto triste, perché la madre, quando riceveva i "clienti", li faceva uscire da casa. Loro e il marito che, ci disse, guadagnava troppo poco. Maurizio, col suo collo pulito, chiese come le sapeva, lui, quelle cose. "Eh. Ci sono andato" gli rispose. I maschi cominciarono a ridacchiare, mentre noi femmine ci guardammo senza sapere se dovevamo farlo anche noi o no.
Capitolo 7 Dall'altro palazzo
Un pomeriggio, era quasi Natale, uno dei Vecchi scese nel Cortile. Noi avevamo una media di 9 anni per uno e ce ne stavamo seduti stretti su alcune cassette a prenderci un raffreddore e a raccontarci delle balle. Il vecchio aprì la porticina del Cortile e ci guardò. "Volete vedere il mio presepio?". Ci raccomandavano sempre di chiedere il permesso per ogni cosa. Ma la situazione richiedeva indipendenza e coraggio: non c'era tempo per mamme, tate, nonni. Seguimmo il vecchio per scale sconosciute. Più grandi, più pulite. Nel mezzo, sospeso, un ascensore tutto di vetro che ancora oggi, chissà perché, naviga in verticale tra i miei sogni e i miei incubi . Il vecchio non parlava . Forse aveva paura che saremmo scappati se lo avesse fatto. Non sapeva che non ce ne saremmo andati nemmeno se si fosse trasformato in un drago. Era un'avventura, e a 9 anni di media, a un'avventura non si rinuncia mai. Entrammo dunque nella casa del vecchio, dove c'era anche una vecchia. Tende di velluto rosso separavano le stanze. Piccolo gruppo compatto, passammo un ingresso, un salotto, una camera da pranzo. Il vecchio ci guidava, la vecchia ci seguiva. Sospesi tra loro come un pensiero . Lui aprì una porta e tutti sgomitammo un po' per vedere. L'intera stanza era stata trasformata in un mondo piccolissimo ma perfetto. Betlemme o Lilliputh che fosse, restammo senza fiato e senza palpebre.
"Entrate. Si può camminare su quest'erba e arrivare alla capanna”. Il vecchio era felice e spiava la nostra meraviglia. Camminavamo tra statuine senza espressione. C'era la guardiana delle oche, il venditore di vino, il pastore, il bambino che correva, la pecora spersa, il cane con la lingua rossa, il mendicante, il suonatore, la coppia di innamorati, il mercante di stoffe, galline in quantità, casette illuminate con dentro un tavolaccio e un camino, alberelli, colline, un’ erbetta secca e morbida dove centinaia di persone di cartapesta arrancavano. Ci trovammo davanti ad una madonna sorridente e preoccupata, che fissava la mangiatoia vuota. Carlo si lasciò sfuggire l'estro del silenzio: “Dov ’é?!" disse puntando il suo dito grasso tra Maria e Giuseppe. Il vecchio lo guardò male: “Non sai che Gesù arriva solo la notte di Natale?
Come fa a stare qui se ancora non è nato?". Schiacciante. Lo guardammo con ammirazione: dunque era proprio lì, nella casa del vecchio, nel Palazzo accanto, che nasceva Gesù Bambino! "...e poi verranno i re Magi. Ma impiegheranno qualche giorno: il viaggio è lungo...Volete una cioccolata?" .Ci voltammo verso la vecchia, ricordandoci all'improvviso che eravamo dove non dovevamo essere. Non si accettano dolci da uno sconosciuto. Maurizio disse che si doveva tornare a casa: “grazie, buonasera... "Eravamo tutti talmente educati...
Nessuno disse al vecchio che aveva fatto un gran bel lavoro e che l'avremmo ricordato per tutta la vita, ma lui aveva un'ultima sorpresa, che accese con un interruttore e un'aria di trionfo. Dalla montagna di carta e muschio zampillò una cascata di acqua vera, che si trasformò in ruscello e poi in un lago poco più in là dei nostri piedi. Sorrideva, il vecchio. Lo guardai, riconoscendolo. E dovette riconoscermi anche lui, perché fummo poi amici per tanti anni. Senza tempo e senza età, si può. Si può essere e sognare, specchiandosi in laghetti d'acqua di rubinetto, dando un'anima alla cartapesta e togliendola a bambini grassi che non sanno vedere. Mentre scendevamo per le scale Rocco e Maurizio fecero colare il terrore nelle orecchie di Claudio e Carlo. Parlando piano piano, ma non troppo piano, dicevano che avevano visto muoversi il pastorello. E anche la guardiana delle oche..."Ci hanno lasciato andare... Meno male! Hanno avuto paura che ci sarebbero venuti a cercare, per questo non ci hanno trasformato come hanno fatto con tutti quei poveretti...". Strizzarono l'occhio a noi femmine, ma Rosalba, evidentemente, non lo notò, perché cominciò a correre insieme a Claudio e Carlo, chiamando la madre con voce piagnucolosa. Dovemmo fermarci per il troppo ridere. Chi ride di venerdì piange di domenica, diceva mia nonna. Ma era venerdì e piangemmo tutti quel giorno stesso. Lucia si era affacciata e non ci aveva visto nel Cortile. Era scattata una caccia al bambino che aveva coinvolto fino alla seconda generazione i nostri parenti. Urlando, correndo, svenendo e palpitando, ci avevano cercato in ogni angolo del Palazzo. Anche in quelli nostri, segreti. "Allora li conoscono..."mi fece notare qualche giorno dopo Rocco.
Erano i tempi in cui più si parlava di dischi volanti, e l'ipotesi che fossimo stati rapiti dai marziani non fu tralasciata. Qualcuno si affacciò tremando sulle vasche, qualcun altro andò ad accecarsi sulla Terrazza. Setacciati il Cortile e le tane dei topi, svegliati i gattini nello sportellino del gas, sbaragliata la nostra organizzazione di cassette e barattoli, buttati all'aria i cartoni che ci riparavano dalla pioggia. Furono vandali. Quando ci rimaterializzammo in Cortile fummo presi e sbatacchiati come tappetini prima di essere riportati a casa. Dove ci aspettava il classico "resto" (..."poi a casa ti do il resto!") . Non si é mai scoperto perché , dopo uno spavento e un lieto fine, i genitori sentissero l'insopprimibile istinto di riempire i figli di botte. Allora tanto valeva farsi male da soli... Non ce le prese solo Daniela, quel giorno, anche se ce ne prese sicuramente più di noi. Il vecchio venne casa per casa dopo cena. Si scusò. Era stata colpa sua, disse. Scoprii che era considerato "una persona importante" e tutti i Grandi si affrettarono a minimizzare. A scusarsi per il disturbo che avevamo potuto dargli. Che non doveva preoccuparsi. "Per caso danno fastidio quando giocano nel Cortile ?" "Macché, macché”. Il vecchio chiese a mio padre se qualche volta potevo andare da lui a tenergli compagnia, che gli avrebbe fatto piacere. Aveva scelto me e Rocco, ma Rocco finì per non venire. Un peccato. Perse tutta la collezione di Topolino, dal primo numero, rilegata in rosso. Le diapositive con gli animali tropicali. Il gioco del tappeto volante nel lungo corridoio e tra le tende di velluto. Le bottiglie da riempire d'acqua "a chi fa prima".
Le mille e mille storie che il vecchio sapeva. La cioccolata densa , che lasciava i baffi, della vecchia. I racconti che il vecchio voleva sentir nascere, e piÚ erano bizzarri e piÚ si divertiva. Un giorno mi fece trovare una macchina da scrivere, dei fogli, una bella matita blu: "Scrivi le tue storie. Poi le leggeremo insieme". E mi sfoderò la vita.
Capitolo 8 Le macchine Parcheggiato sul viale, proprio davanti al Palazzo , c'era buona parte dell'orgoglio dei nostri padri. Una in fila all'altra , stavano automobili lucide , che anche dopo anni non perdevano l' odore della benzina e della plastica delle foderine. Erano quasi tutte 600, tranne la 1400 del padre di Carlo e quella del mio. Bianche o grigie, avevano però il colore virtuale delle penne dei pavoni. Erano il riscatto di anni di tram. Tram per ovunque, anche per andare al mare. Con le macchine i padri andavano al lavoro, e poi tornavano a casa. Le guidavano sentendosi Nuvolari, le posteggiavano con l'aria di chi le aveva sempre possedute. La domenica caricavano sogno su sogno e portavano la famiglia in gita. Intorno a Roma era un cantiere, ma c'erano ancora tanti prati. Si andava dopo il pranzo, portando anche i nonni. Noi bambini si stava sulle ginocchia di qualcuno, e dopo tre curve e quattro semafori si aveva già voglia di vomitare. Quando si arrivava si facevano schioccare copertine scozzesi nell'aria, facendole planare su erba vergine. Si tiravano fuori dalle borsette i thermos col caffè caldo. La macchina in un posto da poterla tenere d'occhio, i padri accendevano le radioline per
ascoltare le partite, le donne chiacchieravano tra loro, e noi facevamo corse da pinguini. Goffi, coi nostri passamontagna e i cappotti troppo grandi, ci ubriacavamo subito di sole. Erano ancora anni in cui i genitori ci dicevano di respirare forte, perché l'aria era “buona" e ci faceva bene. Spesso le famiglie del Palazzo facevano gite insieme, perché in fondo ogni Palazzo era una comunità. Non che le famiglie si amassero, ma il cattolicesimo di quei tempi dava una mano alla convivenza. Dove non arrivava la simpatia, soccorreva la tolleranza. Al ritorno, avevamo della città una visione che mai più avremmo avuto. Sdraiati sulle ginocchia di qualcuno, insonnoliti e intorpiditi dal sole che ci aveva picchiato in testa, sapevamo di tetti e mansarde, croci, balconi, comignoli, pali, ultimi piani, cornicioni, terrazze. Soprattutto conoscevamo l'intrico di fili neri, di snodi e scintille , che guidava il percorso dei tram. Quei tram sgangherati che tanto avevano fatto patire i nostri padri, fatti col ferro e col legno. Vecchio ferro e vecchio legno, che producevano insieme un rumore vecchio, ancora oggi inconfondibile nel ricordo, che era come una carica di armature vuote. La Circolare. Ci si andava a destra e a sinistra della città. In dentro e in fuori. Ci si reggeva ai tubi di metallo e li si sentiva vibrare. Mai andare nel mezzo, dove la pedana girava nelle curve, e non c'erano appoggi: "stai qui, stai seduta, stai buona". A noi bambini perbene piaceva andare in macchina. E comunque era meglio che andare in Vespa, come i bambini poveri, incastonati
tra mamma e papà. Chissà se anche loro si addormentavano, cullati dai sanpietrini e dalle buche della Roma del dopoguerra. Noi ci addormentavamo, e il rientro in casa era "in braccio". "Stai diventando pesante..." dicevano col fiatone salendo le scale E in quel "pesante" c'era, con poche variabili, l'ineluttabilità del crescere. Saremmo stati sempre più pesanti, per i nostri genitori e per noi stessi.
Mio padre, prima di morire, diventò leggero. Si diventa leggeri da vecchi. Forse per potersene andare più in fretta. Come quei viaggiatori che ho sempre invidiato, che partono con una borsina e senza ansie. Si torna leggeri. Con le ossa vuote da uccello. Le persone che stanno per morire si asciugano e scoloriscono.
Il naso di mio padre, così aristocratico nella maturità, era un becco trasparente. E gli occhi chiusi, come quelli di un neonato che dorme. Ma non è vero che i morti "sembra che dormano": sono bucce senza respiro. Gli dicevo: vai, sereno. Volevo dargli coraggio mentre mi nasceva la paura nello stomaco. Paura che facesse un gran sospiro, e tornasse indietro a soffrire. Che mi chiedesse ancora "perché?". Restare lì con lui o scappare? Coi morti non si sa mai che fare. "Che devo fare, ora, con te? Bisogna lavarti? Farti benedire? Vestirti? Vegliarti? Spegnere la luce e andare via? Andare via e lasciartela accesa? Parlarti? Perché non mi hai mai detto quello che dovevo fare?"
Mio padre non me lo diceva mai cosa dovevo fare. Ma lo pensava, e se non lo facevo si arrabbiava. Anzi, si offendeva. Mi insegnò però a guidare che ancora non arrivavo a vedere fuori. Andavamo a Ostia, sul piazzale, e lui mi prendeva sulle sue ginocchia. Mi dava il volante: "Di qua...di là...cambia la marcia..." . In città mi insegnò “la legge del pirolo”. E cioè: quando tutte le macchine si
aggrovigliano in qualche piazza o in qualche via, bisogna superarle dall’esterno. Mai finire nel centro, mai, si resta impigliati come una mosca nella ragnatela. La legge del pirolo va bene anche con la gente che parla troppo o pensa troppo male. Via andare. Superare. Dimenticarla. Fermarsi, invece, si doveva davanti alle palle colorate che sbucavano dai marciapiedi. Fermarsi subito, perché ”dietro ogni palla c’è un bambino”. Quando si viaggiava, io e mio padre eravamo un team perfetto: cambiavo le marce appena sentivo che la sua gamba si muoveva per schiacciare la frizione. Strano che non ci abbiano mai arrestato.
Capitolo 9 Le donee
Le donne belle erano rare . Attrici , ballerine, indossatrici o mogli di onorevoli. Non che fossero toniche, come le donne di oggi che fanno ginnastica, sono figlie di donne che hanno fatto danza, e mangiano sano. Ma, insomma, era un piacere guardarle e annusarle. Non avevano rattoppi sul golfino, calze con rigolini di smagliatura, gonne impataccate. Le piĂš stravaganti si depilavano perfino, ed erano lisce . Donna Letizia le avrebbe volute tutte cosĂŹ, e tutte la leggevano, ma poche seguivano i suoi consigli. Ogni sabato veniva a trovare mia nonna una signora bella e tintinnante. Aveva bracciali ed orecchini e collane, un profumo forte di tuberosa. Nilde. Ero contenta di vederla e di annusarla. Anche mio nonno, che di solito si rintanava in altre stanze durante le visite delle amiche di mia nonna, era contento di vederla. Nonna tirava fuori il servizio da tĂŠ con il bordo d'oro, piazzava le figlie a suonare il piano e andava in cucina a preparare tartine. Un sabato volli far vedere alla signora Nilde un nuovo gioco, un palombaro che scendeva nell'acqua tra bollicine. Dove l'avevo lasciato? Nella vasca, naturalmente. LĂ dove Lucia aveva messo a bagno le lenzuola della settimana, senza badare che il mio palombaro potesse esserne infastidito. CosĂŹ cominciai a cercarlo tra le lenzuola
e la lisciva. E caddi dentro. Un attimo, e le lenzuola mi avevano avvolto e tirato sotto. Non riuscivo a venir fuori e bevevo acqua, notti agitate e lisciva. Probabilmente stavo morendo. Strana sensazione, come di sonno invincibile. Qualcosa mi tirò su : il braccio peloso di Lucia "Scema, mi vuoi far licenziare?!" Mi ritrovai sul mio letto, tutti i Grandi intorno, anche la signora Nilde che mi accarezzava. "Il palombaro..." le dissi, e lei, "poverina, delira!" Anni dopo mio nonno, ormai svaporato, confidò a suo nipote Alessandro (che ero sempre io ma lui non mi vedeva più né come femmina né come nipote) che uno stupido incidente domestico aveva interrotto il suo solito cincischiare sotto le gonne della signora Nilde, dietro alle spalle delle figlie che suonavano il piano, l'orecchio teso a sentire se mia nonna tornava con le tartine e il té. Alessandro ne sentì parecchie di quelle storie, riallacciando così i suoi ricordi con quelli del nonno e di tutta la famiglia Anche mio padre amava le donne. Anzi, ne era ossessionato. In uno schizzo del suo amico Amerigo Tot , un'enorme vagina, la dedica è "il tuo inferno".
Per incontrare i suoi diavoli si vestiva con la cura di un torero. Nella sua stanza aveva un armadio disegnato da lui, con tanti piccoli cassetti: una camicia, un golf morbido, tre cravatte, i suoi fazzoletti bianchi che bisognava stirare e piegare sempre allo stesso modo. Nel portagioie che era stato di mia madre teneva i gemelli, e certe stanghette d’osso che infilava nei colletti per farli stare dritti. Mia nonna mi permetteva di entrare nella sua stanza per la vestizione, ma solo se lui era già abbastanza vestito. “Sei ‘abbastanza ‘ vestito?” chiedeva da dietro la porta. Mi sedevo allora sul suo letto e imparavo che si poteva mettere insieme il celeste con il verde, ma mai, mai il rosa col marrone. Che il blu era elegante, il nero troppo austero. Lo scozzese andava bene solo se piccolo e discreto. Che le stoffe dovevano essere morbide. Che bastava un gioiello, uno solo, come il suo anello di onice con un brillantino nel mezzo. Che i vestiti dovevano essere spazzolati e le scarpe lucide. Mai patacca doveva macchiare il nostro onore. Il mio colore preferito doveva essere il rosso, perche’era il colore dell’allegria e io dovevo essere allegra e appassionata, anche se non ne avevo affatto voglia. Ero una bambina piuttosto malinconica e solitaria, e quando incontravo altri bambini o li sottomettevo o non mi interessavano. Non era il rosso il mio colore. Guardavo papà, seduta sul suo letto, annodata nella gelosia. Guardavo con occhi di strega delusa. Nessuna parola, nessun avvento, avrebbero potuto trattenerlo, tenerlo lontano da una donna che in quel momento gli piaceva. Lui indossava la sua maschera in silenzio con gesti che potrei ripetere. Le donne ne erano incantate, e anch’io. Ogni tanto mi sorrideva: “Pallino, tanto sei tu la fidanzata di papà...”
Ci facevamo l’occhietto, come mi aveva insegnato, complici. Complici di niente, perchè non gli credevo. Papà raccontava molte bugie, non era mai fino in fondo sincero e mai, però, fino in fondo bugiardo. Aveva una sua verità, come tutti, e ci disegnava sopra. Bene, come sapeva disegnare lui. Fece n’uocchio a zennariello a lo sparuto nnammuratiello... “Metti il profumo a papà”. Sempre lo stesso profumo, che ogni tanto sento entrando a casa mia, che prima era sua. "ciao papò", gli dico, e mi viene da sorridere. Non se ne va. Non se ne andrà mai. Teneva il suo filtro d'amore in bottigliette di vetro colorato e lo travasava con imbuti piccolissimi, poi riavvitava un tappo che finiva con un palloncino legato ad una nappina. Appena papà era pronto lo dovevo pettinare e dirgli che gli volevo bene: “Quanto?” “Tutto”, dovevo dire.
Quando quei temporali di profumo , fruscii e bugie finiva, varavo mio padre verso le sue serate complicate. Infatti attirava una donna e subito aveva il problema di allontanarla. Cosa che faceva versandole nel cuore una pozione bollita con i sensi di colpa, me, mia madre, sua madre, le sorelle, le responsabilità, il lavoro, il dolore, i “non posso” che le faceva dannare, sesso ma solo con amore, amore ma solo senza sesso, la religione e la rabbia verso Dio, quindi ancora sensi di colpa, il doversi salvare da tutto, la paura della morte ma non di morire, la solitudine voluta, o subita, o cercata, l’incommensurabile profondità del suo essere altrove, la superficialità e il troppo rigore, l’assenza di un progetto, il desiderio del progetto, la negazione del progetto... Molti uomini della mia vita erano semplici, ma io ho continuato a credere che fossero creature complesse, scardinando così amori che avrebbero potuto essere maestosi e invincibili come la semplicità stessa. Aveva solo donne belle, papà E le donne belle erano guardate con sospetto. In qualsiasi film, in qualsiasi libro, si poteva ben vedere quanto fossero cattive d’animo e che brutta fine fosse loro riservata. Se si pentivano forse potevano salvarsi. A patto che morissero, naturalmente. Io e Daniela volevamo diventare belle. E anche speciali. C’erano pomeriggi nei quali noi femmine si pianificava il futuro con l’attenzione di un ragioniere. C’erano bambini nei progetti delle altre, né io né Daniela, invece, ne parlavamo mai. E non ne abbiamo avuti. Mia zia Aurora aveva idee confuse sulla femminilità, ma le piaceva stare con noi a parlare di quando saremmo state donne. Pur non affrontando mai il drago, il sesso,
ci aveva terrorizzato e incuriosito con la storia delle mestruazioni. Erano un grumo di dolore, si’, ma anche il Segno. La femminilità. Noi non si era convinte per quella faccenda del dolore, ma un giorno decidemmo che era ora di averle. Serviva sangue? Daniela si fece un taglio sul braccio, asciugammo il sangue con le nostre mutandine e le portammo come un trofeo da mia zia. Eravamo troppo piccole per avere le mestruazioni, ma lei aveva del tempo un senso vago. Ci fece molte feste. E com’era strano che proprio noi, così amiche, le avessimo avute nello stesso giorno. E come eravamo fortunate. E come sarebbe cambiata la nostra vita! Tanto entusiasmo mia zia pensò di dividerlo con la mamma di Daniela, che invece aveva del tempo e delle cose una visione precisa. Daniela restò in castigo un bel po’, senza scendere in Cortile né potermi parlare. I tubi del riscaldamento del nostro salotto mi portavano gli urlacci che sua madre faceva nel loro. Le parole non si capivano, si perdevano nell’acqua calda, ma i toni erano indimenticabili. C’erano mamme che avevano un codice segreto per parlare ai figli, e anche quando li rimproveravano, il codice traduceva le cose cattive in buone. Gli schiaffi, così come arrivavano così ripartivano. Solidi e bollenti come ghiaccio, si scioglievano dopo poco in uno sguardo, una merenda, una carezza . Quel codice la mamma di Daniela non era riuscita a trovarlo, ed i suoi schiaffi erano di pietra. I tubi mi portavano una voce di strega. “Fatti gli affari tuoi” mi diceva Lucia vedendomi attaccata a qualche termosifone. E li faceva diventare miei, perché andava da mia nonna e le diceva che ascoltavo di nascosto quello che
succedeva di sopra. Era cosa da punizione e mia nonna aveva fantasia per le punizioni. Ero terrorizzata da un crocefisso che era nella sua stanza, gli occhi rovesciati all’indietro, la bocca aperta, chiodi enormi nelle mani e nei piedi. E infatti:”Vai nella mia stanza, spegni la luce, chiudi la porta. Voglio sentirti dire: non ascolterò mai più quello che non devo sentire. Trenta volte.”.
Piangere era solo perdere tempo. Andavo, che se l’avessi potuta ammazzare l’avrei fatto, e in mezzo alla stanza buia sfidavo la statua insanguinata. Mi sembrava di odiarla tanto che poi me ne pentivo. E non sapevo più se dovevo chiedere perdono a Gesù, a mia nonna, alla madre di Daniela o alla vita stessa per occuparne indegnamente un posto. Nemmeno mia nonna aveva trovato il codice segreto. Per quella storia delle mutandine macchiate mia nonna sfregiò l’anima di mia zia Aurora con poche parole:
”Da quando sai tanto bene essere una donna da insegnarlo alle bambine?”. Mia zia, ogni mattina non si riconosceva nello specchio, appuntita com’era. La nonna l’aveva addestrata ad una scialba illibatezza mentale che le faceva chiasso dentro e non la faceva esistere con armonia. Aveva uomini segreti, uomini sposati, o che si sposavano mentre stavano con lei. Bisogna essere molto soli e disperati per farsi sudare addosso da persone inutili. Era davvero sfortunata in amore. Uno dei suoi fidanzati le morì tra le braccia proprio a casa nostra. Eravamo tutti a cena, e lui era venuto a prenderla per portarla al cinema. Entrò per salutare. “Scusate..” disse, poi sbiancò e cadde. Non seppi mai se si era scusato per aver interrotto la nostra cena o per essere venuto a morire nel nostro salotto. La storia delle mestruazioni fece il giro delle famiglie del Palazzo, che a nessun’altra bambina venisse in mente di fare una scemenza come quella mia e di Daniela. Le altre femmine, ci isolarono. Noi avevamo fretta di crescere, e quella fretta era peccato. Minacciavamo il giusto scorrere del loro tempo. Perché è vero che il Tempo ha le sue regole e chi non le conosce perde la partita. Non so se io e Daniela abbiamo perso la nostra, ma valeva comunque la pena di essere giocata. Mentre loro si apparecchiavano un futuro da nani da giardino, polvere e gesso, noi ne sognavamo uno da fontane.
Capitolo 10 La coperta
Una vecchia coperta militare entrò a far parte dei nostri giochi. Infeltrita e marrone ci seguiva come l’abito smesso di un fantasma barbone. Facevamo con lei un gioco che ci liberava farfalline nello stomaco e ci imburrava le ginocchia. Funzionava che uno di noi “usciva” , in tre o quattro ci si infilava sotto la coperta e si faceva, intrecciandosi, un mucchio indistinto di carne e vestitini. Quelli che restavano fuori si nascondevano. Poi si chiamava chi era uscito, che doveva indovinare chi c’era sotto la coperta. Ci metteva sempre un bel po’. Tra noi e il sesso c’era ancora molta lana, ma avevamo capito che era una faccenda da prendere con affannosa calma. L’indovino toccava da sopra, ma sotto, per non farlo indovinare, noi ci si mutava in bizzarre forme. Ma ha poi una forma, il sesso? Sotto la coperta le mani di Maurizio erano timide, ma andavano dritte dove la sua curiosità le portava. Rocco dava baci ruvidi e veloci, con labbra dure. Claudio ci si metteva addosso, pesante, e s’immobilizzava. A Carlo avevamo proibito di giocare. Noi bambine non ci toccavamo mai. O almeno non tutte insieme. Erano pomeriggi che ci restituivano alle nostre case con la testa vuota.
Si giocava in Cortile, proprio sotto gli occhi di qualsiasi mamma si affacciasse. La coperta sparì come si era materializzata. Questioni di “igiene”, dissero i Grandi. Troppo vecchia, troppo sporca. Capii che la questione non era solo di igiene quando dissi a Lucia:”...Allora dacci una coperta pulita” e lei rispose :”E certo! Ma che ti credi, di insegnare ai culi come si caca?”. Altri giochi avremmo inventato e, saggi, non più in Cortile. Ma la coperta...ah, la coperta... Nemmeno la penombra dei nostri salotti in estate ci avrebbe mai regalato lo stesso batticuore.
En avant! C’è un quadro di Chagall che mi ricorda gli anni in cui crescemmo. ”En avant!” si chiama, appunto. Un uomo lungo, con i pantaloni a quadrettoni e i guanti verdi spicca un salto nel cielo. Ha i capelli poggiati sul capo come un elmo, e il sorriso tranquillo di chi va cercando libertà. Modugno cantava Volare, e io rivedevo il quadro che mio zio mi aveva mostrato su uno dei suoi libri delle meraviglie. Noi , come piante acquatiche, venivamo su in lunghezza. Tutti tranne Carlo, che lievitava. Avevamo forse dieci, undici anni ,e gli anni ‘60 scivolavano fuori dal tempo. Credo fossimo convinti che lo facessero per noi. Per farci un piacere.
Avevamo il Mottino, i bicchieri infrangibili, i giocattoli di plastica, Corso Francia illuminato nuovo nuovo per le Olimpiadi, gli spray di quasi tutto, i flipper, i juke box. I vecchi ottoni del Palazzo erano lucidati col Sidol, una delle prime puzze che ricordo. Nelle nostre case sbarcavano frigoriferi panciuti, e lavatrici rumorose. Cucine smaltate di celeste, con l’ormai inutile sportelletto per la carbonella, sparivano mentre eravamo a scuola. Al loro posto trovavamo delle scatolone di metallo che occupavano la metà del posto. Sulla parete restava il segno di un muro ben nutrito dal grasso e dal sugo dei nostri pranzi e delle nostre cene . Avevamo la televisione. Cioè, avevo la televisione. La si guardava tutti insieme, anche con i vicini di casa, scardinando l’ossessione di mia nonna per sedie, divani, centrini, servizi buoni, cucchiaini d’argento, soprammobili e quant’altro potesse impolverarsi per poi essere spolverato. “Ogni cosa a suo posto, un posto per ogni cosa”, diceva, ma non era mica vero. C’è gente che un posto dove stare non l’ha mai trovato. E comunque la vita ti mette in disordine. “Anche stasera siamo venuti a disturbare”. I vicini si facevano sempre più arditi, non aspettavano inviti. Non si faceva in tempo a socchiudere la porta che si sogliolavano per entrare. A volte era piacevole, altre meno. Noi bambini si doveva andare a letto, si sa, dopo Carosello. Ma quasi tutti riuscimmo a conquistarci le ore del Musichiere , di Lascia o raddoppia , di Sanremo, Canzonissima, Campanile sera...Ogni tanto noi del domani avevamo delle visioni, tipo Celentano. O anche Perry Mason. O quei bambini americani che potevano tenere gli animali in casa e bevevano ettolitri di latte. Il latte non mi riguardava, ma arrivava in casa dentro bottiglie di vetro grasse e forti come lavandaie, col tappo di stagnola rosso se
era magro, bianco se era intero. Che orrore. Gli altri bambini se lo dovevano assorbire come spugne. Si diceva “fa le ossa”. ..Non credo ci sia stata una generazione più storta e con schiene più fantasiose.
In quegli anni cambiarono anche le merende. Le fette di pane e burro con lo zucchero o col sale, le marmellate saporose, i pomodori estivi, lunghi e rossi, che ci colavano giù per il gomito al primo morso, la ricotta mischiata col cacao, l’arancio condito con l’olio, il mezzo sfilatino con la ventresca, pane e uva, la pizza bianca col formaggino Mio...Tutta quell’arte cercata nella dispensa sparì. C’erano invece dei blocchetti di gelatina di cotogne , i Fruttini, involtati in carta trasparente .Da questa non ci si liberava per pomeriggi interi . Era appiccicosa, di una tenacia che non ho più ritrovato in nulla, nemmeno negli amanti più ostinati o nelle persone che ti vogliono essere amiche per forza. Poi comparvero i biscotti. Biscotti a colazione, merenda, e a cena come dolce. Erano da 2, da 7, da 10. Si distinguevano cioè dal tempo massimo di
immersione nel caffellatte prima del disfacimento. Prima che si dovesse andarli a cercare col cucchiaio dentro la tazza. Si tiravano su che non avevano piÚ niente di terreno. Mangiarli secchi secchi non era consigliabile: per loro composizione e natura, si accomodavano sul palato e lÏ si sistemavano per la notte. Si vedevano bambini ruminare come lama tibetani. E fu in quegli anni che il Cortile diventò stretto.
Capitolo 11 La prima bicicletta
Potevamo andare su e giù per il marciapiede del viale. Fino all’angolo del Palazzo e ritorno. E piano. E sotto gli occhi di Lucia. Fu un difficile permesso da strappare. Più difficile ancora non girare l’angolo, ché c’erano le sirene a chiamarci di là. Poi un giorno Rocco gridò: ”Chi è comunista venga con me!” Mi ricordai del nostro giuramento e lo seguii. Col cuore in gola pedalavamo sul marciapiede straniero. Altri portoni, altre finestre con panni colorati stesi al sole, e cani, persone, odori diversi, diversi bambini, una fontanella con l’acqua che scorreva... Pedalare, dare calci ai confini. Gridava al cielo, Rocco, come fanno i maschi giovani. Il mondo ci entrava negli occhi, non lo riconoscevo , ne avevo paura. “Dove andiamo? ”gli chiesi.
”Facciamo il giro: non si può tornare indietro”. Imparai così che si può fare un giro intorno a tutto. E che indietro, comunque, non si torna. Avevo fiducia in Rocco. Ho sempre avuto più fiducia negli uomini che nelle donne, chissà perché. Motivo non ce n’è davvero. Ma il mondo protetto e perverso delle donne non mi è mai parso tanto vitale come quelle urla da sciocco guerriero. Quando sbucammo dall’altro angolo, scampanellando, erano passati pochi, formidabili minuti. Sulle biciclette, piedi a terra, gli altri ci aspettavano in silenzio. Era la nostra infanzia, erano i nostri amici, ma dietro l’angolo c’era l’altrove dove sempre avremmo cercato di andare. “Si può fare”, dicemmo. Si può fare tutto. Lucia non si era accorta, o forse non le era convenuto. C’era il suo fidanzato a trovarla, se avesse dato l’allarme della nostra fuga, avrebbe dovuto venirci a cercare. Solo giorni dopo , però, decidemmo per un altro giro. Portammo con noi Maurizio e Patrizia. Erano eccitati e contenti. Ma i comunisti restavamo noi, Rocco ed io. Noi i primi, che c’entrava il comunismo? Tutto, credo. Se per Itaca volgi il tuo viaggio, fa voti che ti sia lunga la via, e colma di vicende e conoscenze. Non temere i Lestrigoni e i Ciclopi o Posidone incollerito: mai troverai tali mostri sulla via, se resta il tuo pensiero alto, e squisita
è l’emozione che ti tocca il cuore e il corpo. Né Lestrigoni o Ciclopi né Posidone asprigno incontrerai se non li rechi dentro, nel tuo cuore, se non li drizza il cuore innanzi a te. (Itaca, Kavafis) Quando il fidanzato di Lucia non c’era, lei stava sul portone con gli occhi anche sulla nuca, come le creature mitologiche. Gli altri bambini prendevano le botte, in questi casi. Le prendevo anch’io se mi punivano mia nonna o le zie . Papà, invece, faceva la faccia severa e non mi guardava, che era peggio. Mi scoppiavano dentro i mal di stomaco imperiali e la testa mi si rompeva. Stavo tanto male che la famiglia si mobilitava con pezze fredde e borse calde. Vomitavo il veleno dell’abbandono finché mio padre non veniva a” vedere come stavo”. Io facevo finta di nulla, lui pure, e il castigo era dimenticato. Far finta di nulla era il nostro modo per non lasciarci andare, per tenere le funi che legavano le nostre esistenze senza la mamma. Quando si ammalò far finta di nulla non si poteva. Mi tendeva la mano e non potevo lasciarla a galleggiare tra tutte le promesse non mantenute che abitavano lo spazio tra il suo letto e la mia sedia. “E’ dura da scorticare questa coda”, diceva. Mio padre la vita se l’era mangiata come fosse un animale. L’aveva fatto apposta. Non si risparmiava niente, così, mi confidò un giorno, si arriva ad essere tanto malmessi che se ci si ammala, si muore in fretta. Non è vero.
Capitolo 12 La morte appunto...
Fu invece mia nonna ad andarsene velocemente. Aveva sempre tanta gente intorno, ma quella mattina era sola. “Che vuoi per pranzo?” mi aveva chiesto mentre andavo a scuola. Fettine panate, naturalmente. Con i piselli? Piselli e patate fritte. Era l’ultimo giorno di scuola, un giorno caldissimo di giugno. E io ero passata in seconda elementare su un cocchio trionfale di consonanti, vocali e poesie idiote. Mio nonno mi fece una sorpresa e venne a prendermi a scuola. Era simpatico. “Una grattachecca prima di pranzo?”. Vietatissimo, quindi irresistibile. Ci fermammo al chiosco in fondo al viale , con l’ombra più fresca e profumosa di menta. Anche lui con la cannuccia, facevamo gorgoglianti schifezze nei pesanti bicchieri di vetro. Ci guardava sorridendo la donna del chiosco, con grandi tette e orecchini d’oro. Le invidiavo le tette, gli orecchini e anche il chiosco. E quel modo di trattare il ghiaccio da
padrona, strofinandogli la schiena con una specie di paletta affilata. Gli sciroppi che aveva alle sue spalle avevano un becco generoso che s’infilava nei nostri bicchieri colmi di diamanti, facendoci esplodere dentro colore e sapore. Anche mio nonno sorrideva alla donna. Era raro che non sorridesse a una donna. I galli alzano le piume e gli uomini sorridono. Mi teneva per mano, mentre tornavamo a casa .Me la lasciò sulla porta, per cercare le chiavi. Scivolai dentro e li vidi subito. Piselli. Erano in fuga dalla porta della cucina. Un esercito scompaginato. Un esercito di disertori. Mi affacciai alla porta della cucina, incuriosita da quel disordine che mia nonna non avrebbe mai permesso. Una sedia rovesciata. Lei era ammucchiata sotto al tavolo, e teneva ben stretta tra le braccia la pentola dove stava sgranando i piselli. Accanto al fornello, le fettine già impanate. Mi avevano regalato un profumino. Corsi a prenderlo , m’infilai sotto al tavolo , cercai di farglielo annusare. Era tanto grande che non si poteva abbracciarla tutta, la nonna. Quando mi teneva in braccio sparivo nella sua carne. Le accarezzai il viso e la testa, dolcemente, si appoggiò alla mia spalla. Era, quella, una posizione nuova dell’affetto, e lo stupore per un attimo si sostituì alla paura. Ma non rispondeva, la chiamavo e non diceva niente. Mi liberai del peso e uscii da sotto al tavolo . Avevo dei numeri di telefono: potevo chiamare mio padre, se ne avevo bisogno. In qualsiasi momento. Quello era un momento. Ma non riuscivo a infilare il dito nel disco del telefono, me lo ricordo bene. Tremavo, come se le anime che s ‘erano venute a prendere mia nonna mi scuotessero per le spalle: ”Inutile. Lasciala a noi. Vivi più in là.”
Mio padre in ufficio non c’era. Lasciai detto che ero io, e che era morta la nonna. Uno dei tanti piattini di cicuta che gli ho preparato, lo volessi o no. Ma un altro numero, presto. La zia Aurora, al lavoro anche lei. Tremavano pure le mie corde vocali, come un’arpa suonata. Lei c’era. Mi disse che veniva subito, e di non tornare di là. Cosa che feci, invece. Guardavo la nonna sotto al tavolo. E la guardava mio nonno, che s’era preso una sedia e le si era seduto accanto. Me la mostrò: ”vedi tu, che mi doveva capitare?”. Gli uomini, a volte, sono così. La nonna aveva il mio profumino appoggiato sul grande seno, la testa ancora piegata di lato. Piselli qua e là che le macchiavano di verde l’eterno vestito di seta nero .Le si era alzato e le lasciava scoperte le gambe. Cercai di tirarlo giù, ma si lacerò sotto le mie dita, netto e veloce. rip Che non è mai un “riposa in pace”. E’ uno strappo. La nonna andava in pezzi, e un pezzo di noi andava via con lei. Nulla sarebbe stato come prima, e anche i sentimenti ,tutti i sentimenti che lei aveva ricamato tra noi della casa, si strapparono col suo vestito. Arrivò gente. Uomini del Palazzo, padri. Tirarono fuori la nonna da quella tana indecorosa dove le era capitato di morire. La trasportarono sul gran letto dei nonni. La casa si era popolata di persone mugolanti. C’era l’odore delle tragedie casalinghe. Le famiglie del nostro Palazzo e di quello dei Vecchi attraversavano le stanze della nostra casa, consolando . Noi bambini eravamo tristi. Ci sballottavano, ovunque eravamo un impiccio. La nonna se ne stava grandiosa e tranquilla con un rosario che le si era avviticchiato tra le dita. Dalle sue orecchie erano spariti i due
brillanti di sempre. Chiesi a Lucia come mai ... Ma sei proprio una bambina cattiva! Tua nonna è morta e tu pensi ai suoi brillanti...” Io no, non ci avevo pensato fino a quel momento in cui m’era sparito dagli occhi il bagliorino che ero abituata a vedere intorno alle guance di mia nonna, però qualcun altro della famiglia ci aveva pensato, evidentemente. Magari mugolando, per carità, ma doveva aver considerato che la nonna era stata tanto buona nella vita da non aver certo bisogno di pagare a Caronte il passaggio...
Così la donna cannone quell’enorme mistero volò tutta sola dentro un cielo nero nero s’incamminò...
Rocco mi chiese se mi dispiaceva per la nonna. Non sapevo rispondere. E ancora oggi non saprei dire. Ricordo tante cose di lei, i pettinini d’osso che metteva tra i capelli, il disegno delicato dei suoi vestiti enormi, anche la sua dentiera coi denti piccoli piccoli. Ma non ricordo le mie lacrime per lei. Piansero sicuramente le altre bambine, credo più per tutto lo spettacolo che il Palazzo allestì in onore della Morte: il nero e l’oro dei paramenti, le corone dei fiori dal puzzo insopportabile per il portone mezzo chiuso, il librone in fondo alle scale, dove chi veniva a trovare mia nonna lasciava un pensiero, un nome. Piansero, credo, perché vedevano piangere i Grandi. Ma io, a mio padre che piangeva, ero abituata. E anche adesso un uomo che piange non mi commuove né mi pare eccezionale.
Capitolo 13 Dopo
Cambiarono molte cose. Mio padre andò via da casa. Una zia si sposò. L’altra potè finalmente portare a casa una bizzarra creatura di vent’anni, una donnona assai bella, ma che tracannava gin e fumava come un portuale. Mia nonna, quando ancora c’era, l’aveva bandita dalla sua vista, ma ormai…Mia zia l’aveva conosciuta anni prima, al ritorno da un viaggio a Londra dove aveva incontrato l’uomo della sua vita. Scrisse una lunga lettera per raccontare di com’era felice, di quanto desiderasse dei bambini con quest’uomo,
di quando e come si sarebbe trasferita per iniziare la sua nuova vita. La lettera la lesse papà, commuovendosi, davanti a tutta la famiglia riunita intorno al tavolo del salotto buono. Mia nonna, per nulla commossa, rispose con un telegramma:”Dimentica di avere una madre”. Così dopo qualche giorno mia zia tornò a Roma, più appuntita che mai. Le si leggeva negli occhi la vendetta. Che infatti fu puntuale: Bruna, la donnona. Un’amicizia sconveniente che tutti, tranne mia nonna, facevano finta di non considerare. Bruna abitò con noi per quattordici anni. Dopo le prime schermaglie di gelosia, l’accettai come una sorella . Le volevo molto bene e mi rivolgevo a lei per ogni mio guaio. Mi difendeva, mi sgridava, mi aiutava. Mi era complice. Quando se ne andò anche mio nonno, e rimanemmo in tre nel grande appartamento del Palazzo, Bruna diventò sostanzialmente l’uomo di casa. Si sposò anche Lucia, col suo cattivo fidanzato, il futuro cattivo marito. Continuava a venire da noi, però: arrivava al mattino e andava via il pomeriggio, lasciando sui fornelli pasti troppo salati, o troppo sciapi, o troppo vendicativi. Mio nonno fu, a poco a poco, strappato alla ragione. Cominciò ad avere idee strapazzate. Frullati di ricordi. Lo sistemavano tra noi bambini, affidandocelo, e lui restava immobile per ore a guardarci giocare . Per molti anni ancora ebbe occhi gentili . A volte si alzava all’ improvviso con l’aria di chi doveva andare. “Dove vai, nonno?” “Eh, l’America. Gli affari...”
E bisognava riprenderlo, metterlo a sedere, raccontargli delle storie per distrarlo da tutte quelle persone che si sentiva intorno. Ma a volte era lui che distraeva noi. Restavamo incantati dalle discussioni tra fantasmi. Senza accorgerci, muovevamo la testa da mio nonno all’angolo con cui dialogava. Aspettavamo le risposte. Ci ritrovavamo a sorridere o ad aggrottarci secondo i toni della discussione. I migliori marinai della nave della follia sono i vecchi e i bambini. Ci sono rotte dove i Grandi non si avventurano, nemmeno quando sono pazzi.
Lucia spiava :”...tutti scemi qua...”. Dalla morte della nonna aveva artigliato la nostra casa, e non c’era cassetto in cui sapessimo cosa c’era dentro davvero. Le stanze erano diventate grandissime. Ma non silenziose, per via di tutta la gente che mio nonno invitava. Lui era sempre molto elegante e ormai portava il borsalino anche in casa, benché facesse segno di toglierlo ogni volta che vedeva una donna, vera o immaginaria che fosse. La cosa di cui sono sicura è che non invitò mai, mai, mai la nonna. Lo prese invece una certa frenesia sessuale, una continua memoria di seni e di sederi, che lui descriveva a noi bambini con uno schioccar di lingua e un certo sorriso.
Fino a quando non si volle considerarlo capitolo chiuso, gli fu lasciata una qualche autonomia e una dignità d’azione. Così permettevano che mi portasse a fare “un giretto”. Invece andavamo lontano. Mi portava da certi suoi amici, certi anziani che erano stati a lungo giovani. Giocavano con le carte napoletane e spesso dividevano col nonno quei ricordi di seni e di sederi. Imparai così che i vecchi non invecchiano e che il passare degli anni non li rende quasi mai più saggi o più rispettosi del tempo e della vita. Imparai anche che quando i vecchi cominciano a ridere non si sa mai dove vanno a parare: se continuano a ridere o si perdono a piangere. Non lo sanno nemmeno loro. Il nonno cominciò a darmi nomi diversi dal mio. Poi, una volta ero una femmina, altre un maschio. Avevo identità diverse. Maria, per esempio. Maria La Banca, mi chiamava. Solo trent’anni dopo quei pomeriggi di stupori, visitando il paese dove lui era nato, scoprii che Maria La Banca era esistita davvero. Era la figlia di un notaio che abitava proprio davanti alla casa dei bisnonni. Una bambina che era stata sua amica e , forse, il suo primo amore. Penso che l’abbia dovuta lasciare per andare in America, solo e clandestino. Come poi era rimasto per sempre. Accettai il nome come un segreto tra me e mio nonno. Incredibile quanti segreti debbano tenere i bambini. Mentre il nonno s’indaffarava con vasi e fiori, giravo per il Verano leggendo di abbandoni e lacrime. Imparai a conoscere tutti i traditori, tutta la gente che se n’era andata all’improvviso, lasciandosi alle spalle inconsolabili e disperati. Scoprii che anche la mamma abitava lì, quello era stato il suo famoso viaggio.
Un posto dove si poteva arrivare con il tram numero 11. E che io ero tra i traditi. Incontravamo spesso una signora ancora giovane, che aveva però i capelli così bianchi da essere azzurri. Andava a trovare il marito, un certo Aldo. Una grande tomba barocca, per due. La signora aveva fatto aggiungere il suo nome a quello del marito. C’erano le date di nascita e il signor Aldo aveva anche quella della morte. Di lei, invece, restava sospesa una nascita che senza il marito sembrava un fregio d’inutilità. Anna, si chiamava, e aveva intorno una solitudine densa. Era così distante che se mi faceva una carezza, non sentivo la sua mano. Poco tempo fa mi è capitato di passare davanti a quel monumento al dolore. La data della morte, sotto ad “Anna” non c’era ancora. Spero solo si sia data pace, ché pensarla soffocata dalla densità del nulla per più di cinquant’anni mi toglie il respiro.
Chissà cosa ne è stato di lei. Certo è che un giorno é nata, il resto è caso, e cioè un modo rassicurante di anagrammare il caos. Dicono che morire sia naturale. Forse. E’ restare che a volte diventa artificioso . Non c’è da confondere il bisogno di bere e mangiare e amare per una naturale accettazione della morte. O una ripresa della vita. Certe vite non riprendono. La morte di chi ci è caro , di chi abbiamo molto amato o molto odiato, è come una bomba lanciata in mezzo ad un mercato. Ciò che siamo stati va a finire su una natura che arriva in città col camion e che, nel viaggio , ha perso profumo e sapore.
Capitolo 14 In casa e non solo
Anche nelle altre case del Palazzo cambiavano le cose, e noi bambini non ci vedevamo più tanto spesso. Maurizio cambiò scuola. Carlo andò via. Rosalba spigò dalla sera alla mattina, e i vestiti le si appendevano a due nocciolini che aveva all’altezza delle tette . Inoltre si sistemò tra noi tutti un sentimento che credemmo nuovo: l’antipatia. Così, senza apparente motivo, ma con l’ineluttabilità che non bisogna perdere mai di vista, alcuni di noi si diventarono insopportabili . E non sempre nello stesso momento, non sempre reciprocamente. Cosa che ci impastava lo stomaco di tristissima sorpresa ,facendoci anche piangere. Non erano anni in cui i bambini potessero piangere impunemente. In casa, dopo avere escluso un attacco di acetone, ci avrebbero detto di non essere noiosi, di non fare i capricci, che non volevano “sentire volare una mosca”. Fuori casa, gli amici ci avrebbero preso in giro. Le lacrime potevano essere segno di paura, mal di pancia o mancanza di vitamina B, ma non gli si riconosceva il diritto alla malinconia.
Avevamo tutto, che ci mancava? Per chi era uscito dall’inferno, come i nostri genitori, il purgatorio era un paradiso. Insomma, cominciammo a non incontrarci più tutti insieme. Io continuai a giocare con Daniela e con Rocco, ma Maurizio preferiva Patrizia (ah!) anche a Rocco. Rosalba stava per conto suo, coi suoi nocciolini. Claudio volteggiava su tutte noi con lo sguardo da lupo cattivo: non mi sarei più fidata a stare con lui sotto la vecchia coperta. Per fortuna proprio in quel periodo cominciammo ad andare in vacanza. Si lasciava la casa fasciata in bianchi lenzuoli e si andava negli alberghi. Al mare, in montagna. Chi poteva permettersi “la villeggiatura” era tra gli eletti di quello scampolo di anni ‘50. I preparativi per le estati che dovevano garantirci la salute per tutto l’inverno erano estenuanti per noi bambini. Ci prendevano e ci misuravano mezzo guardaroba. Pomeriggi interi di costumi e magliette e calzoncini e cappellini, per poi scoprire che bisognava ricomprare tutto. In canotta e mutandine bianche, pizzicoso il tutto, si stava in piedi davanti a tutta la famiglia, arruffati da tutto il mettere e levare. Questo dalla testa, quello da sotto. Bottoni che tiravano. Colli inespugnabili . “Ma come c’entravi l’anno scorso?!” si domandavano i Grandi. Era un mistero anche per noi, che guardavamo quella roba come un serpente guarda la pelle che si è lasciato indietro. Ma non si buttava nulla: si passava a chi aveva figli più piccoli, o ai fratelli minori. Uno stesso copricostume
viveva molte estati e vedeva molti mari. Il mio maglione rosso che faceva le scintille quando lo levavo, ha continuato a farle anche per i miei cugini e poi chissà per chi altro. Sono sempre stata convinta, però, che le scintille più luminose le abbia fatte per me. Prima le nostre estati erano ai giardinetti, tra la giostra e l’asinello, tra il gelato e una barchetta di carta malfatta da far scivolare nei rigagnoli di Villa Borghese. Viaggi brevi e melmosi, che finivano su un fianco e in un accartoccìo. Come le avventure di una sera che partono col vestito stirato e finiscono che lo devi rilavare. Che tristi pomeriggi, peggio che andare al Verano. Ai giardinetti ci andavo con mia zia Aurora, che mi spariva dietro a qualche appuntamento segreto. La vedevo con qualcuno e lei mi diceva che no, non c’era nessuno, che me l’ero sognato. E comunque non dovevo dirlo alla nonna, ché sennò pensava che ero pazza e si preoccupava.
Sì, la zia Aurora Non so se pensarla con amore o con rabbia. Ci sono persone che sembrano venire al mondo in maniera funzionale a qualcun’ altra, come per colmare il vuoto creato da un’emergenza. Quando morì mia madre mi misero tra le sue braccia di ventenne nubile. Fu come un "pensaci tu" che dovette sembrarle una condanna a non avere più tempo per pensare a se stessa. Ci si dimentica spesso delle persone alle quali si è chiesto un grande sacrificio, ed è un’ingiustizia. Un’offesa agli affetti. Un tradimento a l’essere eticamente “per bene” cui buona parte della nostra generazione ha dedicato se stessa. Considerare , con banale cinismo, che la coerenza è la maledizione delle teste piccine, non aiuta. Soprattutto quando la memoria si fa prepotente e gonfia il petto:“esisto!” ci sibila dentro una voce sdegnata, e bisogna starla a sentire. Era una donna teatrale, passionale. Piangeva, strillava, si buttava per terra, picchiava coi pugni, per sfogare le ingiustizie che le urgevano dentro (anche me picchiava, accidenti, per poi chiedermi scusa in ginocchio e farmi promettere che non l'avrei detto a papà), sveniva, prendeva mille medicine, gridava di voler morire e un attimo dopo cinguettava le canzoni che andavano allora, ballando da sola per il corridoio di casa. Capii, dopo tanti anni, che mia nonna
era sempre tanto severa con lei per tenerla a bada e proteggerla come una bambina. Io e Bruna avevamo paura delle sue scenate. Guai a non farle trovare pronto in tavola, ma guai anche a farglielo trovare: nel primo caso "non sono una serva", nell'altro "non servo più a niente". Guai a svegliarla se dormiva, guai a lamentarsi per qualcosa, guai a non farle festa quando tornava dal lavoro, ma guai anche a fargliene troppa:"Togliti, non mi toccare!" In casa, a mano a mano che la gente se ne andava o moriva, si chiudevano le tante stanze. Partito per il suo viaggio col tram 11 mio nonno, noi tre si viveva tra cucina, camera mia, camera loro, bagno. Qualche volta, se veniva qualche loro amico, aprivamo il salotto, ma io non ci entravo, perché da lì si andava nella camera che era stata di mio padre, e lui non c’era. Si mangiava poco a casa, si mangiava soprattutto male. Se Lucia non cucinava i suoi piattacci, c’erano solo panini. Imparai a farmene di spettacolari, a strati. Li chiamavo “i superpanini” e tentavo di farli assaggiare a Daniela e Rocco che rifiutavano educatamente, vedendo spuntare dalla ciriola prosciutto spalmato di marmellata, melanzane e arance, cosce di pollo, pasta avanzata…Adoravo i miei panini. Non erano buoni, solo il simbolo che avrei potuto farcela anche da sola . Ma di mia zia ho anche ricordi di grande dolcezza. Mi insegno’ a leggere, mi comprava i libri ( Salgari, Jerome K.Jerome, Cronin...), mi curava quand’ero malata, mi teneva la mano quando tremavo di paura e non sapevo perche’. Lei mi insegno’ ad ascoltare la musica.
Suonava il piano benissimo mentre io , malgrado le lezioni, producevo all'esterno le stesse disarmonie che avevo dentro. La sera, fin da piccolissima, mi portava nei locali dove si suonava il jazz e dove io mi addormentavo beata. Conosceva i musicisti e loro, continuando a suonare, le facevano un cenno con la testa vedendola arrivare. Sapeva di molte cose, aveva un’intelligenza crudele, intuizioni saettanti, ma a volte diventava ottusa. Anche lei non veniva a capo delle sue disarmonie. Una volta provai a chiamarla mamma e lei si rivolto’ cattiva: "avevi una mamma, non c'è più. Io non sono tua madre". Ci restai malissimo e non ci provai più. Eravamo in una cartoleria, mi stava comprando dei quaderni a bolli blu e bianchi, matite colorate, la gomma per cancellare. La stessa che avrei voluto usare per far sparire lo sguardo stupito della commessa, che passava da me a lei. Chissà come avrebbe raccontato quel piccolo dialogo a cui aveva assistito. Mi vergognai sia per me che per mia zia e quando uscimmo dal negozio rifiutai di darle la mano. Però era lei che mi accompagnava alle festine, mi portava al cinema, ai balletti che mi
piacevano tanto, a teatro, al cinema dell'ultimo spettacolo che a quei tempi cominciava a mezzanotte. Aveva una 500 celestina che guidava assai male, con Bruna accanto che continuamente le diceva di voler guidare lei, che non voleva morire giovane. Litigavano. Litigavano spesso, ma Bruna poi cedeva e chiedeva scusa anche se aveva ragione. Mio padre ne era molto geloso di zia Aurora, perché con lui invece non volevo andare da nessuna parte. Una bugia che gli raccontavo, naturalmente: con lui sarei andata sulla Luna e anche su Marte. E ritorno. A volte, raramente, papà ci portava fuori. Giri in centro. I due fratelli , i miei amati, camminavano lontani e io restavo in mezzo, tra loro, perché non volevo che dando la mano all'uno, l'altro si offendesse. Ogni tanto Zia Aurora "esagerava", come i Grandi sussurravano, e mio padre le pagava la clinica per la cura del sonno. Dopo una quindicina di giorni poi, mi spediva con lei in qualche posto per la convalescenza. Per me erano vacanze fuori stagione. Una fu speciale: Taormina. Scoprii di amare la Sicilia, quel paese morbido, i dolci di pasta di mandorle, il blu più blu, il verde più verde. Mia zia era un po' rimbambita dai medicinali, ma senza Bruna. Io e lei da sole, a fare colazione con la marmellata di arance che lei mi spalmava su fette di pane caldo, e ad andare al mare quando ancora non ci andava nessuno perché faceva freddo. Leggevamo, inventavamo canzoni, andavamo al ristorante, a comprare cose
inutili che, una volta tornate nel Palazzo, sarebbero finite in fondo ad un armadio. Quando rinasceva dalle sue "esagerazioni" era molto giocosa. Ma non si sapeva mai quando avrebbe smesso di giocare.
Capitolo 15 Le vacanze, si diceva.
C’era l’acqua, c’erano i sassi, i prati, i boschi, i fiori, c’era la vita d’albergo con i camerieri e le stanze rifatte, altri amici. C’era mio padre che si fidanzava ovunque come un marinaio. C'erano donne con una riga sugli occhi e il golfino sulle spalle, e uomini in calzoncini corti coi calzini e i sandali. C'erano cose da scoprire, come la nebbia che ci faceva scomparire. Cose diverse da assaggiare e ,semmai, mangiare. C'era la Coca Cola, il flipper, il biliardino ("Non girare! Non vale"), il trovarsi in mezzo al prato con un temporale. C’era che si doveva imparare a nuotare, o a sciare, o a conoscere animali terribili o bavosi o volanti. Si doveva dimostrare di essere educati, bravi a scuola, fiduciosi nel futuro, coraggiosi e anche vivaci , di spirito e di corpo. La mia famiglia passava il mese di agosto al Terminillo, in un tornado di bagagli. Un luogo non lontano, ma il viaggio in macchina era attraversamento di un deserto. Si arrivava sfilacciati, lo stomaco rivoltato come un calzino, la testa dondolante.
Mi davano la xamamina per il mal d’auto ma la vomitavo molto prima di Rieti. “Vieni davanti”, diceva allora mio padre, e mentre tutti i Grandi si stringevano dietro, io mi allungavo sul grande sedile accanto a lui, la testa appoggiata alle sue gambe, e anche se stavo meglio, facevo finta di stare ancora male.
All’arrivo c’erano bambini nuovi, anche di altre città. Ci si annusava come cani. La danza delle simpatie e delle ostilità era ancor più fatale. Con naturalezza si formavano gruppi che erano in realtà vere e proprie bande, più compatte di un esercito, con regole, capi e vittime. In ogni spazio aperto si giocava alla guerra, come per la memoria di una ferita infetta. In sostanza c’erano gli amici e c’erano i nemici. A Terminillo ci si perdeva nei boschi e si organizzavano, contro la banda nemica, battaglie a colpi di cacca di mucca. Ma avevamo anche bastoni, e sassi, e imparavamo a parlare con le parole dei cattivi. Solo da cattivi, infatti, avevamo capito che potevamo non mangiare quel piattino di vita scialba che i Grandi ci mettevano sotto al naso.
Una vita di messe, vestitini buoni e buoni sentimenti, di convenzioni che dovevano ancorarci ad un’esistenza tranquilla, che dovevano farci sentire l’appartenenza ad un popolo che non voleva piu’ aver fame. Durante le vacanze assaggiavamo una libertà che poi non avremmo mai smesso di inseguire. Così correvamo. Il palpito dell’essere rincorsi e del riuscire a scappare. L’emozione di acchiappare il nemico e gridare vittoria. E avremmo continuato a correre , anni dopo, contro il potere e contro l’altra banda. Ma noi avevamo ragione, ne sono convinta ancor più oggi, alla luce abbagliante dei bui misteri d’Italia. Noi bambini nati in anni dimessi , entrando in quelli del boom, sapevamo già molti segreti, e li avremmo riconosciuti con certezza assoluta tra le bugie dei potenti anche da adulti. I vestiti della nostra generazione erano troppo larghi o troppo stretti. Erano troppe le cose da fare e troppe quelle da non fare, troppi i lacci con i quali i Grandi imbrigliavano la nostra fantasia. Troppa la loro smania di diventare, di avere, sembrare “di più”. Nel tempo le loro commedie ci sarebbero sembrate patetiche, o anche odiose. Non riconoscere l'autorità dei nostri padri e delle nostre madri ci avrebbe portato a non riconoscere alcun potere.
I bambini dell’altra banda, invece, accettavano la banalità e la trasformavano in arroganza. Sarebbero stati palazzinari in ogni professione, volgari ed eterni, fieri del non sapere. Noi volevamo, ci spettava, un mondo diverso e una vita migliore. Non era chiedere tanto. Abbiamo provato ad avere l’uno e l’altra, ma spesso per cercare di aver l’uno si perdeva l’altra e viceversa. La spiccata attitudine che dimostravo per la disobbedienza, conquistata anche durante quelle vacanze in cui mi trasformavo in una creatura piuttosto selvaggia, convinsero mio padre a mandarmi in una scuola per signorine. Fu iscritta anche Daniela. E proprio lì perfezionammo la nostra dedizione al disincanto. Era una scuola dove si andava con la divisa. Mio zio Duilio quando mi vide la prima volta con la gonna , il golfino blu e i calzettoni bianchi mi disse: ”ecco, così sembri proprio un’orfanella. Togliti sta roba!” Ma non si poteva. Me la toglievo appena tornavo a casa, infilandomi i jeans dell’estate e vecchi maglioni di mio padre. I n quella scuola la divisione per bande era netta: ricchi, poveri, intelligenti, imbecilli, buoni, cattivi…Non si studiava nulla, anche perché il nostro futuro era di femmine borghesi e gravide: meno sapevamo, più facile sarebbe stato controllarci. Io e Daniela fumammo la nostra prima sigaretta nel parco della scuola a nove anni, imparammo l’ipocrisia, l’invidia, la gelosia, la malignità e anche a come difenderci da tutta quella spazzatura . Imparammo pure a dire molto bene le bugie. Tra i soldatini in gonna a pieghe si salvavano poche ragazzine e con loro stabilimmo solidi patti di solidarietà , simili a quelli che tanti anni dopo stabilimmo con altre donne, pensando insieme di cambiare gli uomini e noi stesse.
Capitolo 16 I ritorni e le partenze.
Al ritorno a Roma c’erano scampoli di vacanza. Papà portava me e Daniela sulla sua Giulietta Sprint bianca come due signorine delle sue. Si andava al Kursaal di Ostia, che compariva all’improvviso in fondo alla strada con la sua enorme ruota di trampolini impossibili. Avevamo costumini colorati con il pezzo di sopra, volants, fiocchi e sandali di legno col tacchetto. Avessimo potuto portarli anche d’inverno! Com’eravamo carine, e civette! Le prime creme solari che arrivavano dalla Francia avevano la stessa consistenza delle meduse e un odore di olio caldo dal quale non ci si liberava facilmente. Come della sabbia in fondo al letto. E’ certo che Lucia facesse apposta a non toglierla. Al mattino chiedeva “dormito bene?” col tono limonoso di chi al mare non era stata portata. Tra le cose migliori dell’estate c’era il tornare nel Palazzo, e raccontarla. Condita. Stare a sentire le balle degli altri e fare “boom!” ”No, giuro, è vero!”. E giù pacche sulle spalle, ché a una certa età non si sa come stare vicini e si diventa maneschi. Ogni esperienza tagliava i fili che legavano uno all’altro e noi stessi all’infanzia. Ci saremmo rincontrati, poi, in altri occhi e in altre
vite. Pallide ripetizioni. Echi. Un’appartenenza da giacca troppo stretta per essere rassicurante e calda, ci avrebbe accompagnato. Crescevamo. Il Palazzo invecchiava, e non erano più lucidi i suoi ottoni, né sembrava forte il suo legno, s’impolverava il marmo. Avremmo potuto salvarci con un balzo se mai ci fosse capitato di cadere in una delle sue vasche : era tempo di cercare altri pericoli. Nei segni che lasciavano i nostri racconti sui visi degli altri era ormai rivelato ( e con quale dolore !) chi di noi avrebbe avuto l’abitudine al niente e chi avrebbe, invece, continuato a viaggiare. ...Fa voti che ti sia lunga la via e siano tanti i mattini d’estate che ti vedano entrare (e con che gioia allegra!) in porti sconosciuti prima. Fa scalo negli empori dei Fenici per acquistare bella mercanzia madrepore e coralli, ebani e ambre, voluttuosi aromi d’ ogni sorta, quanti più puoi voluttuosi aromi... (Kostantin Kavafis) Da ogni vacanza tornavamo cambiati. Più alti, più agili, più belli, sì. Ma la bellezza tendeva tranelli
S’avanza uno strano soldato Crescevo. Tutti i Grandi mi dicevano come sarei diventata bella, e quanti cuori avrei spezzato, e quanto gli uomini avrebbero dovuto proteggersi da me. E ci credevo. Mi mettevo davanti agli specchi e f facevo le mosse che vedevo fare al cinema alle dive. Ore e ore, anche se nelle orecchie mi era rimasta la voce di mia nonna che mi avvertiva: ”Se ci si guarda troppo allo specchio esce il diavolo”. E uscì. Mentre mi ammiravo vidi improvvisamente l’Imperfezione. Pendevo un po’ da una parte, come fossi su una barca e cercassi di mantenere l’equilibrio. Per caso raccontai durante un pranzo di quella leggera pendenza e subito mi acchiapparono e mi esaminarono accuratamente. Bisbigliavano, i Grandi, come ogni volta che erano preoccupati. Quando mi dissero che dovevamo andare da un dottore che non era il solito zio Giorgio ebbi paura. E ne avevo tutte le ragioni. Funzionò così: dopo avermi maneggiato, il Professorone mi affidò a due uomini grossi che mi presero per le mani e per i piedi. Tiravano e torcevano, mentre un altro uomo rollava il mio corpo dal mento ai fianchi con bende ghiacciate. Era gesso. Il dolore
arrivò subito, fortissimo. Il Professorone disse: “quarantotto ore e poi ti giuro che passa”. Vero. Passò il dolore e mi ritrovai in una bianca armatura, con l’animo di una tartaruga rovesciata sulla schiena. Una schiena anni 60 che mancava di calcio, di latte, di vitamine e si era aggrovigliata. Anche lei, come me, cercava di sfuggire alle situazioni prestabilite, ai binari arrugginiti del dopoguerra. Finirono i giochi. Mi muovevo pesante in un presente nel quale non riuscivo ad immaginare un futuro. Potevo guardare in alto ma non di lato, non in basso. Quella prigione bianca era tagliente e prepotente. “Che c’è lì che mi fa male?” ”Niente, niente” mia zia e Bruna spalmavano balsami dove l’armatura si poggiava, lasciando solchi rossi. Sulla pelle i segni passarono, ma mai, mai si cancellarono quelli del mio orgoglio, della delusione profonda che avevo inflitto a tutta la famiglia. Me lo disse papà: “Devi essere forte: non sarai più bella come lo era tua madre”. Colpita, affondata, muta. Il gesso mangiava la mia carne morbida di ragazzina, già pronta, invece, per le prime carezze. Mi mangiava sogni, fantasie e pazienza.
Nella mia scuola per signorine, però, la mia armatura diventò molto popolare. La diversità ancora una volta mi aveva raggiunto. Invitarmi a una festina, approntare la casa per accogliere lo strano soldato che guardava in alto, accompagnarmi, guidarmi, imboccarmi, essere mie amiche, diventò un prestigio. Loro, così dritte e pettinate, si confidavano con me come se fossi la statua di un dio cui rivolgersi. Le maestre più severe sdilinquivano. Anche il prete che ci confessava ogni martedì mi lasciò stare. Perfino Lucia mi rispettava. Comandavo e ubbidiva. Mio nonno, già confuso di suo, quando ci incontravamo in casa lasciava il passo alla strana creatura che ero. Forse vedevano nei miei occhi il Diavolo dello specchio. Infatti, incattivivo. Sbaglia chi pensa che soffrendo si diventa buoni. Daniela e gli amici di sempre evaporarono. Gli strani soldati devono imparare subito che fanno spavento, ma era così doloroso che mi ritrovai con una corazza fuori e una dentro. Il mio odio per tutti quelli che mi abbandonavano si spalmò come burro sul pane caldo. Tagliai gli ormeggi anche con quel padre piangente e irraggiungibile: capii, finalmente, che non ero io a non poterlo raggiungere, ma lui che non voleva farsi prendere. Fu una grande liberazione. Che andasse, dunque. Io avevo altro da fare nella mia cella bianca: in bizzarre posizioni leggevo e studiavo. Ascoltavo tanta musica. Malmessa fuori, miglioravo dentro. Passarono otto mesi. A scuola fui promossa, naturalmente. Le amiche dritte e pettinate partirono per le vacanze ed io tornai dal Professorone. Con grandi forbici tagliò la mia fortezza, di nuovo mi esaminò. oi andò a parlare con mio padre e con mia zia
nell’altra stanza. Sentivo “Purtroppo…operazione…forse…”. Al posto della mia I pendente c’era ora una S. L’Infanzia aveva lasciato il posto alla Solitudine.
“No!” gridai e tutti mi guardarono. Ero una cosetta nuda, con i seni che non erano riusciti a uscire, magra, pelosa, i capelli stopposi per tutto lo shampoo secco usato in quei mesi. Anch’io li guardai: “Giuro che mi ammazzo” il Diavolo fissò mio padre e sibilò: ” tu sai che lo faccio!”. Colpiti, affondati, muti. Ci accordammo io e il Professorone, per una gabbia di ferro che potevo togliere la notte. Dovevo andare a nuotare tutti i giorni. “Per quanto tempo?” chiesi. ”Se tu fossi un uomo ti direi finché non ti cresce la barba”. Accettai: ero così leggera quel giorno, come una donnina di Chagall tendente al cielo. Così iniziò la mia adolescenza umida. Nuotavo e nuotavo, il Diavolo di fianco. La gabbia era sopportabile per me e anche per gli altri.
Ricomparve Daniela, ricomparvero Rocco e Maurizio. Perdonai tutti, perché tanto non m’importava più di loro. Le maestre severe mi chiedevano dolcemente e continuamente come mi sentissi. Rispondevo che avevo l’iniziale del mio nome sulla schiena, la S di Serena, e che mi sarebbe andata peggio se mi fossi chiamata Edith, o Alessandra, o Helga. ”Chouette… !” dicevano facendomi una carezza. Non le volevo più vedere. Dissi a casa che intendevo cambiare scuola, andare dove andavano “tutti”. Perché, dissi guardando mio padre: “Se non posso più essere speciale come la mamma, mi devo mischiare”. Colpito, affondato, muto, papà m’iscrisse al mio amato liceo Tasso.
Capitolo 17 Il Tasso e oltre
Ecco dov’erano i ragazzi e le ragazze con gli occhi brillanti! Gli occhi brillanti abitati da intelligenza ed ironia che avevano gli amici di mio zio Duilio ora erano anche quelli dei miei amici. Ero finalmente a casa. In quel Liceo, li', c’erano le persone che mi sarebbero state accanto per tutta la vita, lì i miei maestri, il primo amore, la libertà che regala il sapere. Uscivo dal Palazzo di corsa, la mattina, per entrare al Tasso. Due grandi portoni, tra un pianeta e un altro.
Prendevo l’autobus numero 4, che era una scuola di vita. Imparai a dare i pestoni a chi mi toccava il sedere, a fare sempre il biglietto, anche se non c’era il controllore perché così era giusto, a guardare un’umanità’ che nemmeno sapevo esistesse. Si stava stretti e caldi in inverno, stretti e sudati in estate. Me ne sentivo parte. Avevo un posto nel mondo, e la certezza che il mondo fosse mio.
C’erano tante cose da fare, tante persone da conoscere, tanto da studiare, soprattutto per me che venivo da una scuola di ovatta. Era il 1965, l’America iniziava i bombardamenti in Vietnam, ma apriva anche il Piper: divisa tra indignazione e minigonne cercavo una via di mezzo. Guardavo Daniela ancora con la sua divisa e la strapazzavo. “Ma come fai?!” Lei si ribellava a tutto quel blu impelagandosi in un amore sciocco: Claudio mani lunghe, che di lei non valeva un ricciolo biondo. Con gli altri ci sorridevamo estranei. Com’erano diversi ormai i miei amici! Decisi, e nessuno ebbe a ridire, che avrei mangiato fuori a pranzo, invece di tornare a casa da scuola. Una volta ero stata con mio padre da Cesaretto, in via della Croce, una trattoria con cinque tavoli da sei. Ci si sedeva dove c’era posto. Conquistata da un lindo disordine, andavo lì. Finalmente mangiavo cose buone e soprattutto coltivavo l’arte dell’incontro. In quella trattoria c’erano altri occhi brillanti, e che occhi! Pasolini, Flaiano, Maccari, pittori sgualciti, attori falliti e non, giornalisti. Ero la più piccola: coccolata, difesa, educata. Eravamo tutti legati da un filo rosso e potente: la solitudine. Perché quando si decide di mangiare da soli, si è soli davvero.
Alla fine del mese papà passava a pagare, senza una parola. Erano anni bellissimi, mi vestivo con gli abiti usati che compravo al mercato americano di via Sannio, fumavo le Diana, e mi godevo l’adolescenza, un po’ piangendo e un po’ ridendo. Non ero l’unica a cercare un senso: tutta una generazione bolliva e scalpitava. Quando Franca Viola, nella mia e sua Sicilia, mandò a quel paese il suo rapitore rifiutando il matrimonio riparatore, si capì bene che era primavera. A Milano La Zanzara, giornale del Liceo Parini, fece un’inchiesta sulla posizione della donna nella società e la generazione precedente ne fece un dramma. Caterina Caselli cantava come risposta: ”Nessuno mi può giudicare”, leggera.
La mia carriera scolastica non era eccezionale, ma nemmeno disastrosa. Con i compagni si stava molto insieme a studiare, chiacchierare, progettare, amoreggiare. A casa stavo poco. Zia e Bruna si occupavano di mio nonno che non si decideva a morire. Un giorno trovai un biglietto, c’era scritto che partivano per il sabato e domenica e che avrei dovuto pensarci io. Lui mi guardò:
“Alessandro, ci facciamo una pasta?” mi disse. Feci quello che sapevo, che avevo visto fare a Lucia. Ne venne fuori un qualcosa che ci mangiammo insieme al tavolo di marmo della cucina. Mio nonno rideva. “che c’è?” “non sai cucinare…” “Ora si va a letto…” “Pipì”. Caspita, questa non me lo aspettavo. Bisognava fargliela fare e poi lavarlo. Ci sono delle cose che è strano dover fare. Strano toccare un corpo che seppur amato, non si conosce per nulla né si vuole conoscere. Quelle due avrebbero potuto almeno insegnarmi, prepararmi. Ma lo feci. Poi spogliai mio nonno e lo misi a letto. “tu non mi vuoi bene!” lacrime agli occhi, perché aveva l’Alzheimer ma mica era scemo, l’avevo sballottato, maneggiato con rabbia “Certo che te ne voglio, tantissimo!” Era vero. Spensi la luce, andai nella mia stanza e dopo pochi minuti me lo ritrovai davanti. Tutto vestito, cappello compreso. “pipì” disse. Si ricominciò daccapo. “ora si dorme!” “Alessandro, si va a mangiare al ristorante?”
“è notte, dormi” Dieci minuti ed eccolo lì: ”andiamo?” Ricordai che c’erano delle medicine da dargli se era agitato, ma quante pasticche? Decisi una. No, due. Quando vidi che se l’era fatta sotto decisi per quattro. Gli rimboccai le coperte: “Vedrai che ora andrà meglio”. Si addormentò di botto. Dormiva così profondamente che pensai di prendere la vespetta e raggiungere i miei amici ad una festa. Tornai verso le 3 del mattino e vidi che le finestre di casa mia erano tutte accese. Sulla facciata del Palazzo risplendevano come un guaio grosso. Quattro pasticche erano troppe. Lucia era passata a vedere come me la cavavo, ma io non c’ero e mio nonno, seppur pulito e a letto, non si riusciva a svegliare. Telefonò a mio zio, che chiamò il dottore. Erano tutti lì ad aspettarmi. “Be’? Manca qualcun altro? Non l’avete una casa?” Spavalda. Ma mio zio mi conosceva bene, non disse nulla, e pochi minuti dopo, una volta soli, piangevo disperata abbracciandolo. Nonno si riprese ma non me lo affidarono più completamente.
Capitolo 18 Sessantotto e dintorni Gli anni cominciarono a fare come il mare coi granchietti: ogni onda ci spingeva un po’ più in là, verso quello che chiamavamo ancora futuro, ma era già presente. Ero innamorata di un ragazzo con occhi fantastici che cercava di ordinarmi la vita. Studiava con me, mi portava al cinema Nuovo Olimpia tutti i pomeriggi e anche in un sottotetto che dividevamo con altri compagni del Tasso. Il primo grande amore. Quando mi tradì, capii che i grandi amori valevano sì la pena di essere vissuti, ma facevano molto male. Lui e i suoi occhi tornarono, io iniziai a sfuggirgli come un’anguilla. Mi rintanavo tra le molle di una vecchia poltrona del Folk Studio di Via Garibaldi, ad ascoltare il jazz che mia zia mio aveva fatto scoprire. Quando papà mi disse che o mi comportavo in maniera decente (quale fosse, non me lo disse mai) o non mi avrebbe più dato un soldo, cominciai a lavorarci: cassa e bar. La mattina a scuola. Amici, amore e musica: che c’era di più? Tantissimo: c’erano i nemici. Il ’68 arrivò, ci sommerse e ci cambiò per sempre. Nemico era l’Autorità’ in tutte le sue forme.
Nemica la guerra in Vietnam. Nemica l’organizzazione del lavoro nelle fabbriche che rubava agli operai la mente e la vita. Nemica la borghesia che si era pasciuta nel boom economico mentre la maggior parte dell’Italia restava contadina, arretrata nell’istruzione, quindi senza speranza. Nemico era per le donne l’uomo che le teneva in casa a far figli e badare a casa e anziani. Nemico il Pregiudizio contro gli omosessuali, i diversi colori della pelle, le altre religioni. Nemici, soprattutto, i fascisti, nostalgici o nuove leve che fossero. Quelli che “Vengo a scuola per studiare, io, non per fare politica!” e che ora siedono in tutti i rami del Parlamento, o che “penso con la mia testa, non mi faccio strumentalizzare!” e ancora oggi a pensare non hanno imparato. Avremmo pagato col sangue la convinzione di essere i Migliori. Il Potere avrebbe messo bombe sulle nostre strade. Ci avrebbe confuso mescolando tra noi quelli che chiamavamo “compagni che sbagliano” ed erano invece solo assassini. Ci avrebbe foderato le menti di eroina e bucato con aghi avvelenati la pelle che usavamo per fare l’amore con gioia e libertà.
Eravamo una marea vivente senza alcuna smania di potere. Le nostre esperienze volevamo fossero etica collettiva: questo significava “lottare”. La nostra battaglia culturale aveva anche aspetti materiali e si capì subito il 1° marzo ’68 alla facoltà di Architettura di Valle Giulia: botte e botte. Ma già a maggio tutte le università italiane, esclusa la Bocconi, erano occupate e noi studenti marciavamo accanto agli operai. Mio padre insegnava a Ingegneria, gli studenti l’avevano contestato in molte occasioni e nelle rare volte che ci s’incontrava, guardava anche me con ostilità. “Che vuoi fare della tua vita” mi chiese un giorno. “Non te ne occupare” gli risposi ”finisco scuola e me ne vado. Trovo un lavoro e m’iscrivo a Sociologia.”. Non so se mi prese sul serio, ma avrebbe dovuto, perché avevo le idee molto chiare, anche se la vita me le avrebbe spettinate per bene. Nonno prese un raffreddore e se ne andò col tram 11 in una settimana. Io studiavo per gli esami di maturità e proprio allora Bruna decise di scappare. Mi svegliò all’alba e mi disse che sarebbe sparita, mi diede un indirizzo ma mi chiese di non darlo a zia. “se hai bisogno mi chiami…” mi disse “tranquilla, tra poco vado via anch’io. Buona fortuna”
Cominciò l’inferno in casa. Zia immaginava che io fossi complice di quella fuga, così me la trovavo seduta sul mio letto di notte, che piangeva e mi supplicava di dirle dov’era. “ma ti pare che se lo sapevo non te lo dicevo?!” mentivo. Sì, ero complice. Capivo Bruna e stavo dalla sua parte. Ogni tentativo di mia zia per rintracciarla fallì. Fallirono anche i tentativi di suicidio, le scenate che lei faceva ai loro amici e gli interrogatori ai quali mi sottoponeva. Bruna mi chiedeva al telefono ”ce la fai?” ed io le rispondevo di sì. La rassicuravo: “sai com’e’ fatta, non voleva morire davvero”. Arrivò un’estate bollente, e il giorno degli esami. A sentirmi venne un De Gregori magro come un levriero e ancora sconosciuto, con la mia amica Patrizia, alla quale avrebbe dedicato Rimmel. Quando i professori la finirono di farmi domande e fui promossa, ce ne andammo a mangiare a Trastevere. Tornai a casa tardi e quella volta zia ci aveva provato con più sentimento. Non respirava. Chiamai l’ambulanza, e subito dopo mio zio. “Vieni, io me ne vado. Zia ha preso molte pasticche e non so se ce la fa”. Ce la fece. Me lo disse mio zio che l’aveva portata, appena dimessa, a casa sua. Le due sorelle, le mie zie, si ritrovarono insieme in una stessa casa e facevano scintille. Mio zio disse però che io avevo bisogno di riposare: le avrebbe tenute a bada. Come aveva fatto Bruna, gli chiesi di non dire a zia dov’ero, ma gli lasciai l’indirizzo di una comune di compagni che mi avrebbe ospitato.
Saggiamente mio zio estese la mia raccomandazione anche a papà, rassicurandolo però che stavo bene. Si diventava maggiorenni a 21 anni e me ne mancavano un paio: non voleva che mio padre mi scatenasse dietro le forze armate. Per qualche mese zio Duilio fu l’unico contatto con la mia famiglia. Facevo molti lavori, quelli di allora: baby sitter, mezza giornata in un negozio di ceramiche, mezza in uno di vestiti, la sera al folk studio. Ogni tanto Ernesto Bassignano che aveva un po’ di soldi perché cantava già nelle feste del PCI, mi metteva la benzina nella vecchia 500 celestina che avevo ereditato da mia zia. Da Cesaretto mangiavo praticamente gratis “Luciano, ti sei sbagliato, non può essere così poco” E lui faceva finta di non sentirmi. Il barone Franchetti, eccelso collezionista d’arte, sapendo quanto mi piacesse leggere, mi prestava libri (“lo devi leggere anche tu: è bellissimo!”) che poi scoprivo invece, essere nuovi. Plinio De Martiis mi prese a lavorare nella sua galleria, la Tartaruga, dove nasceva e si nutriva tutta l’avanguardia degli anni ’60 e ’70.
M’iscrissi a Sociologia e cercai una casa. Ne trovai una minuscola a Campo de Fiori, arrampicata su un tetto. L’affitto era di 25mila lire. Chiesi a Daniela se voleva dividerlo con me, come dividevamo il piccolo gruppo femminista, le assemblee, le manifestazioni. Così come avevamo diviso l’infanzia e l’adolescenza. Sì, naturalmente. Ma volevano una caparra di tre mesi e nessuna delle due aveva soldi. Andai da mio padre. Mi affacciai alla porta del suo studio e lo guardai lavorare. Era serio, era triste. Non si accorse subito di me, ma i suoi collaboratori sì. Lui seguì i loro sguardi imbarazzati e arrivò a me che tutto d’un fiato dissi.”ho bisogno di 75 mila lire. Se me le vuoi dare bene, altrimenti mi arrangio, ma rischio di perdere una casa che ho trovato. Poi non voglio più niente.” “Dov’e’ questa casa? La voglio vedere” Mi accompagnò, stipulò il contratto a suo nome, pagò la caparra. Mangiammo insieme in una trattoria di Campo. Si vedeva che gli faceva orrore e che avrebbe mangiato piuttosto in un secchione della spazzatura. Facemmo discorsi vaghi, senza dirci nulla. Avevamo entrambi paura di dire, chiedere, sapere. Avremmo parlato molti anni dopo, su un treno che ci portava a visitare mia zia, molto malata, che si era trasferita in Toscana. Andammo in treno perché io non volevo salire sulla sua macchina:”Vado in treno, tu non sai guidare, ci vediamo lì”. Ma venne anche lui e, cullati, cominciammo a parlare. Mia madre, sua madre, le sue sorelle, e tante donne ancora ci avevano diviso. I nostri caratteri ombrosi. Le nostre solitudini. I nostri rancori. E ci riconoscemmo. Era lucente per l’uno il dolore dell’altro.
Alla stazione di Firenze faceva freddo e ci abbracciammo, davvero, per la prima e forse unica volta.
Ma dopo quel pranzo passò ancora del tempo prima che ci si rivedesse. Quando la mia nuova casa fu pronta decisi di andare a prendere le mie cose nel Palazzo. Aprii la porta della mia vita passata e...non c’era più nulla! L’appartamento era completamente vuoto. Solo una pila di libri occupava il centro di quella che era stata la mia stanza. I dischi, i letti, le grandi poltrone a fiori, le lampade, le belle stoffe delle tende e dei copriletto, e poi i quadri, i mobili, i mille ninnoli , i cristalli, gli specchi, il pianoforte, perfino il tavolo di marmo della cucina: niente. Furiosa spalancavo le porte di ogni stanza. Mugolavo di rabbia, e non avevo neppure qualcosa da spaccare.
Che vendetta si era presa mia zia per il nostro abbandono! Ci aveva fatto scomparire tutti. Ci aveva venduti ad uno stracciarolo per pochi soldi. Guardai i libri ed erano solo quelli delle scuole medie: aveva venduto anche la mia anima . Non avevo piÚ niente da fare in quella casa. Mi tirai dietro la porta, feci per l’ultima volta i gradini di marmo e aprii il grande portone del Palazzo. Si chiuse alle mie spalle con un rumore che qualche volta, al mattino, ancora mi sveglia e mi fa battere il cuore troppo forte. (FINE)