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Racconti di Natale Questo progetto editoriale nasce dal concorso Il Racconto di Natale di Ellerì, un'iniziativa che ci ha confermato come La Rivista Intelligente non sia solo un web magazine. È una comunità di lettori attenti, che hanno risposto con entusiasmo a una proposta di scrittura sul Natale nell'era del web. Sono racconti scritti con cura, ma non patinati, specchio dei tempi inquieti in cui viviamo e che provano a restituire significati personali ai gesti e gli eventi della tradizione. Le pagine che seguono sono anche un gesto di adesione ai valori della Rivista, velocità che non diventa superficialità, originalità, ricerca di nuove espressioni. Come spesso accade in questi casi, pur decretando dei vincitori, abbiamo pensato ad un ebook che racchiudesse tutti gli autori, ognuno con le proprie particolarità e il proprio originale senso dell'evento. Questi sono i nostri racconti sotto l'albero, il nostro regalo per queste Feste: per provare a sviluppare uno sguardo nuovo, a volte lieve a volte meno, sulle cose. E anche per dirvi grazie di seguirci con tanto interesse e affetto. Ricambiati. Ellerinamente vostri,
La Rivista Intelligente
Hanno collaborato: Giovanna Nuvoletti, Stefano Bandera, Paola Giannelli, Luisa Luna, Valeria Viganò. Progetto Grafico: L. Zucconi. Tutti i diritti sono riservati.
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Racconti di Natale dal concorso Il Racconto di Natale di Ellerì
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pag. 6 ..........La Piccola Fiammiferaia reloaded pag. 7..........Per parte di madre pag. 8..........Maieutica pag. 10..........Bambina senza nome pag. 11..........La cavalcata dei Magi pag. 12..........Natale a casa pag. 13..........Natale senza pag. 14..........Il Se di Babbo Natale pag. 15..........Natale a Milano pag. 17..........Natale pag. 18..........È nata pag. 19..........L'aureola che fu pag. 20..........Babbo Natale pag. 21..........Il Natale umano pag. 22..........Una sfera fragile pag. 23..........Il Natale
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La Piccola Fiammiferaia reloaded di Paolo Messina Vincitore del concorso Il Racconto di Natale di Ellerì La Piccola Fiammiferaia non aveva venduto nulla quella sera. Erano tutti presi da altri acquisti. Tutti, tranne lei, sarebbero presto tornati a casa, al caldo, davanti alla cena già pronta. A lei sarebbero rimasti i fiammiferi e la fame. Scelse un vicolo, si accasciò in terra e ne accese uno, di fiammifero. Guardava, ridendo, la fiamma farsi gialla e poi rossa. Le apparve una carrozza, tirata da due cavalli bai a turbodiesel. Dentro c'era Ringo Starr che suonava un rock lento. Su un si bemolle la fiamma si spense nel gelo. Un altro fiammifero, ma la luce rimaneva fioca. La Piccola Fiammiferaia guardò meglio e vide una stanza disfatta dove due corpi giovani si avvinghiavano nello spasmo dell'amore. Lei aveva i suoi capelli. Cercò di vedere meglio ma un fiocco di neve spense ogni passione. Accese un'altra fiammella. Neppure il tempo di sentire lo schiocco, e una raffica di proiettili per poco non la prese in pieno, mentre il rombo di aerei e cingoli rimbalzava sulle catapecchie. Spense subito. Si guardò attorno. Nulla era cambiato. Oltre il vicolo la gente continuava a passare tranquilla. I bambini tenevano stretti per mano le mamme e i papà, già pensando ai regali di quella notte magica. Uno, più piccolo di tutti, per un attimo si sporse nel vicolo, ma una voce adulta lo chiamò perentoria, e lui scappò via subito. Aveva ancora pochi fiammiferi, la Piccola Fiammiferaia, e nessuno a cui venderli. Si strinse di più nella sudicia sciarpa. Prese due fiammiferi insieme: erano così bagnati che non c'era più da fidarsi. L'odore di zolfo. La fiamma rossa e viva. Neppure il tempo di guardarla, e vide la canna di una pistola puntata. «Ma che razza di...» li gettò via. Altri due. Guardò la fiamma con timore. Un arcobaleno attraversato da un treno. Dietro una signora velata di nero che correva su un cavallo di pece. Rimaneva solo un fiammifero, e con quello si scaldò la dose. Prese la siringa, attenta a non farla cadere, perché nemmeno la notte di Natale trovi un cane che ti aiuti a farti un buco.
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Per parte di madre di Ornella Mascoli Premio speciale della giuria del concorso Il Racconto di Natale di Ellerì Era così piccolo. Una prugna rugosa, gengive spalancate e lingua tremula. Urlava la sua fame e si attaccava ai capezzoli con piglio da padrone. Il mio maschietto con troppi padri. Qui, nel bordello di Betlemme, sappiamo come far nascere o morire i bambini. E io lo volevo. Non ho avuto bambole, la mia infanzia si è piegata in due per il dolore al ventre già prima del mestruo. Il mio mestiere è stato il suo cognome, ma non ci importava. Alla controra uscivamo nel paese assolato e ne percorrevamo le strade, fino al platano in piazza. In quel deserto il caldo gonfiava le vele dei sogni, e formulavamo progetti di fuga. Saremmo andati in Egitto, ad Assuan, così lontani che neppure il vento sarebbe stato lo stesso. Ma non accadde. La carovana a noi destinata non passò mai. Io sono rimasta inchiodata a quel letto, lui alla mia reputazione. Ho visto in suoi occhi farsi opachi e il labbro superiore imparare un ghigno amaro. Ci siamo odiati e offesi, mai abbandonati. Ricordi, Maria? Eri anche tu oggetto di sussurri, oltre ai presagi minacciosi. Eri venuta a partorire lontano da casa, io ti indicai la grotta. Eravamo belle, pur con quei ventri smisurati. Tu avevi un marito vecchio, dormiva sempre. Sbuffavi, volevi giocare, e mi chiamavi, senza capire il perché dei miei rifiuti. Mi mettevi il broncio e io non osavo spiegare, fingevo capricci e prepotenze. Nacquero sotto una stessa malefica stella, i nostri bambini. Il tuo luce, il mio ombra. Hanno scambiato i primi vagiti, e si sono persi dietro a destini difformi. L'alfa e l'omega della vita li hanno visti insieme. Ho visto tuo figlio parlare al mio, Maria, prima della morte, ma ero lontana, tu sai che non mi è data neppure la pietà per la mia carne. Tu l'hai portato via, il tuo ragazzo. Io sono stata allontanata a colpi di frusta. Stanotte salirò al Golgota, di nascosto. Strapperò a brani il suo corpo da quella croce. Non ho un marito falegname che stacchi i chiodi, ma questo figlio lo riprendo ai corvi e al mondo.
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Maieutica di Tusia Aldini Come se nevicasse. Ad ogni scatto della testa la forfora si libera e volteggia, rendendo surreale la scena. Grandiosa, come ogni parto. Nevica sulla bocca distorta dall'urlo che chiama la fine, che si apre, come la donna. Io guardo istintivamente l'orologio, perché conosco quella frequenza e so che è l'ora da ricordare. Sorrido annotando data e ora della nascita. A volte capita 00:00 del 25 dicembre 2012. Altro che fine del mondo. Quattro giorni dopo la fine prevista siamo ancora a un inizio. Sono passati tanti anni da quella notte ma ancora, come allora, torno a casa stanca tra la gente che ne esce. Alzo gli occhi verso il sole che illumina quella foschia dorata che, per me, vuol dire Natale. C'è sempre a quest'ora quando si avvicina il Natale. Da bambina aspettavo la neve per dire che era Natale. Mi piaceva guardarla col naso in su fino a sentire girare la testa. Da giovane madre la raccontavo alla mia bimba, mentre la cullavo, guardandola accumularsi sul davanzale della finestra. Anche stanotte nevicava. Poco, quel che bastava a far squittire chiunque gettasse uno sguardo fuori. Nella penombra della sala parto invece pioveva. Sudore, lacrime, liquidi amari. L'urlo di stanotte aveva un'eco che risuonava dentro di me come fossi una foiba dalle pareti screpolate. Ci urlavo anch'io, dentro, muta. Rispondevo alla vita che imprecava, per riscattarla dal silenzio. Stanotte alla frequenza dell'urlo non corrispondeva la vita. La morte è sempre terribile e quando la riconosci nel travaglio che si accanisce su un corpo ormai vinto, non puoi vivere come non fossi mai stata lì. 8
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Ăˆ la mattina della vigilia di Natale, per sua stessa etimologia festa della nascita. E io sono un'ostetrica, il braccio attrezzato del natale, di ciò che nasce. Ma devo ancora imparare ad accettare che a volte il natale è sterile. Accettare di accogliere la morte tra le braccia. A volte capita anche questo e scrivo nel registro: 23:59 del 24 dicembre 2025. Ed è davvero la fine del mondo.
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Bambina senza nome di Rossana Cau Non riesco neppure a pronunciare il suo nome. Io che adoro i bambini, io che stravedo per i bambini, io che vivrei solo con i bambini. Lei è una bambina. Una femminuccia. Quella femminuccia che il destino non mi ha mai voluto concedere. Lei è una bambina nata da un ovulo che si compra al mercato degli ovuli. Perché se c'è qualcuno che vuole un bambino c'è pure il mercato dove andare. La signora vuole un bambino, una bambina? Rompe il salvadanaio e si fa accompagnare a comprare un ovulo da fecondare. La signora voleva partorire. Voleva sentire il ventre gonfio e nove mesi di pienezza, piena di un bimbo, una bimba. I destini dei bimbi o delle bimbe hanno il loro bel da fare. L'ovulo fu comprato. L'ovulo fu fecondato. L'ovulo fu impiantato. L'utero lo accolse e lo protesse. Quel destino lì, quello della bambina senza nome, fece il suo dovere di destino e portò qui la bambina che nacque da due vecchi che andarono in Spagna a comprarla. Nacque la bambina e fu chiamata con quel nome che neppure riesco a pronunciare, e il padre della bambina senza nome, un giorno, finalmente mi disse che una bambina era nata e aveva un nome e che era stata fecondata con il suo seme e portata al mondo da una vecchia amica che tanto aveva insistito a chiedere. Lui aveva ceduto alla richiesta pensando che i loro corpi decrepiti mai avrebbero compiuto alcun miracolo di vita. Ma i destini fanno i destini, è il loro mestiere. E venne dunque una bambina senza nome e le fu assegnato dal padre un nome di regina. Io ero la moglie di suo padre prima che mi raccontasse della sua nascita. Dopo non so cosa sono diventata. Mi consideravo una persona ragionevole e evoluta. Il destino però mi ha gridato in faccia: eccomi! Adesso decidi. Adesso non puoi non vedermi. Tu cosa vuoi essere? Il Natale di quella bambina è in Luglio. Il mio Natale? Anche.
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La cavalcata dei Magi di Maria Angelica Correra Deciso. Quest'anno presepio. Non ci metto ancora il bambinello perché nascerà a Natale. E i Re Magi li faccio arrivare da lontano veramente. Tipo che l'Oriente è il terzo ripiano della libreria: scrittori stranieri. Partiranno da Asimov, che gli farà attraversare Le Correnti dello Spazio. Conosceranno i turbinii spirituali e le oscurità psicologiche di Dostoevskij. Vivranno l'incredibile e meravigliosa avventura di Moby Dick, poi saliranno lentamente fino alla Montagna Incantata. Di là fino a Zola. Poi caleranno al ripiano degli italiani. Cammineranno con attenzione per Il Sentiero dei Nidi di Ragno fino al Deserto dei Tartari e giù, in fondo, fino a Verga. In Arte e Musica scopriranno bellezza, aneddoti e noterelle. Attraverseranno la Poesia con passo lieve e ritmato sugli Ossi di Seppia. Il Teatro sarà una vera scoperta, e non ne vorranno uscire più. Ma ci sarà tempo, fino al 6 gennaio. Nel loro vagabondare scopriranno anche il tesoretto dei libri dei bambini. Sgualciti e con qualche ditata di pappa. Alla fine del loro viaggio tutte quelle fiabe, racconti, poesie, romanzi e commedie li avranno ammaliati a tal punto che decideranno di portarli con loro e, quando giungeranno al cospetto del regale Bebè, si accorgeranno, improvvisamente, di come i loro doni siano inutili, futili e banali. Così decideranno che questo Natale sarà diverso. I regali saranno quelle fiabe, racconti, novelle, commedie e poesie. Finalmente vedrai che i re Magi le troveranno, Le Parole Per Dirlo.
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Natale a casa di Costanza Firrao «Te piace o' Presepe?» ripeteva il povero signor Cupiello al figlio snaturato. La risposta era sempre «no», un no secco e scocciato. A me invece, da bambina, il presepe e i preparativi del Natale piacevano. La mia storia non è ambientata a Napoli, come quella del grande Eduardo, ma un po' più giù, a Bari. La mia era una famiglia numerosa. Mio padre era il quinto di sette tra fratelli e sorelle. Tutti sposati con almeno un paio di figli. Quando ci riunivamo per il Natale eravamo tanti, con l'aggiunta di cugini trasversali, amici di famiglia e prozii influenti. In tutte le case, già dall'8 dicembre, l'Immacolata, veniva allestito il presepe. Si riesumavano dalle scatole di cartone le statuine di legno, ogni anno più stinte. Si ricreava il laghetto con lo specchio un po' torbido, le alture con la cartapesta sgualcita, la nevicata con fiocchi di cotone riciclati, diventati giallicci. Era sacrilego cambiare posto a una statuina: il pastore sempre a destra, con la pecora accucciata ai suoi piedi, l'angelo suonatore in alto, la contadinella a sinistra. Nella grotta Maria, Giuseppe, la mangiatoia, il bue e l'asinello. Il bambinello sarebbe arrivato il 24, a sera, e i Re Magi solo il 5 gennaio. A Bari la vera festa era il 24. Si digiunava tutta la giornata per prepararsi alla cena, di magro, della Vigilia. Nonne, mamme e zie presidiavano la cucina. Menu fisso: antipasti di mare e capitone bollito con maionese. Tranne una volta, rimasta nella storia dei nostri Natali, in cui il povero pesce, sfuggito all'attenzione delle cuoche, riuscì a sgusciare via e fu recuperato, solo il giorno dopo, sotto il comò. Prima di aprire i regali, il più piccolo portava nella grotta il Gesù bambino di cera. Tutti gli altri dietro, in fila, a cantare le canzoni di Natale. Ho il ricordo lontano di quando ero io la più piccola e toccò a me portare tra le mani il Bambino. Un senso denso di calore e di gioia, che dopo quasi sessant'anni non è ancora passato.
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Natale senza di Dies Irae Ti svegli la mattina: è già oggi? Tanto lo sai cosa ti aspetta. Ti ostini ad andare in un ufficio vuoto, come fai sempre da 30 anni. Solo che non ci sono più i colleghi, sono rimasti due cani, due cani veri eh, di quelli che abbaiano, a fare la guardia. Ti ricordi quando arrivavi? I telefoni che squillavano in continuazione, i colleghi che ti fermavano: ho un problema. Ora te lo risolvo. Buongiorno, Capo! Novità? Ma che novità vuole alle 8,55? Ho dormito benissimo. Fai la spiritosa, eh? Si, Capo! Sono a Roma, se hai problemi chiamami. Che palle! Pronto? Si, dimmi. Cazzo no il post-datato no! Machenemefregamme chi è, poi da questo i soldi non li prenderemo mai. Fatti dare l'assegno che chiamo in banca e chiedo informazioni. Pronto? Come non ha chiamato? Se non chiama entro le 10 è assenza. I bambini? Io ne ho tre a casa e sono qui in orario, niente scuse. Pronto? Straniero? Paga l'IVA e non si discute. Vuole chiamare la Finanza? Passamelo, veloce. Si, buongiorno, se aspetta la chiamo io e poi ne discutiamo. Ok, mi ripassi la collega. Paga, visto come si fa? Pronto, dimmi che c'è? La Finanza! E che l'ho chiamata? Arrivo. Tutti i giorni così, per 30 anni. Ed ora il nulla. Si pronto? Ah sei tu? Come dove sono, qui in ufficio. Che faccio? Sistemo carte. Come che mangiamo a pranzo? Ma che ne so, quando arrivo a casa ci penso. Ed è già novembre: 50 giorni a Natale. Dioquantoloodio questo Natale che ancora non è. Dioquantoloodio questo Natale che mi costringerà a stare con i parenti e gli amici. Come va? Benissimo. Il lavoro? Oh, tutto ok. Ho un paio di situazioni in pentola. E ridi, che cazzo ridi. Basta che c'è la salute? Senza lavoro che te ne fotte della salute. Sono in crisi di astinenza, ero una drogata di lavoro ed ora il lavoro non c'è più, facevo 1000 cose al giorno ed ora si e no ne faccio 10. 49 giorni a Natale, sembra una scadenza non una ricorrenza, come una cambiale. Non ho mai firmato cambiali io. Vuol dire che ne farò a meno del Natale... Natale senza. larivistaintelligente.it
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Il Se di Babbo Natale di Maria Pasqua Maizzi Se Babbo Natale esiste, certamente userebbe l'imperfetto congiuntivo, ma non sempre il condizionale. Perciò se esistesse sarebbe imperfetto, come sa esserlo l'ideale. Comincerebbe da c'era una volta: incipit narrativo che funziona sempre con l'infanzia e la preadolescenza. Si rivolgerebbe in tono colloquiale, del tipo miei carissimi lettori. Si vabbè ma non è Geppetto e nemmeno un falegname, come il padre di quello che riusciva a parlare con la folla e a conservare la sua virtù. Perciò potrebbe dire: «Miei carissimi bambini!» Ma i genitori? In fondo sono loro l'altro compreso nel Se e l'altro da sé. Sono loro che ci insegnano a sognare, senza fare del sogno il nostro padrone. E così torniamo al Se. Se i genitori esistono, usano il presente carismatico. E, in casa, mai il congiuntivo né il condizionale. Se i genitori esistono la mamma controlla che i bambini, seduti al tavolo di cucina con la testa sui libri, riescano ad aspettare e a non stancarsi di aspettare, mentre il Babbo, entrando in casa, dice «Sono in casa» e con il suo sacco pieno di Se va nell'unica camera da letto e comincia a nasconderli. Ogni Se è una scommessa su cui ha puntato tutto ed è pronto a perdere tutto, a testa e croce. I bambini intanto fingono di leggere, ma pensano e cercano di non fare del pensiero il loro unico scopo. Cercano di non essere troppo buoni e troppo saggi. Si guardano di sottecchi e si danno di gomito, ascoltando i rumori che provengono dall'unica camera della casa. Tutti i Se di Babbo Natale sono stati sistemati. Senza nemmeno un congiuntivo e senza nessun condizionale da dare in cambio. Almeno per un giorno l'amore non ha bisogno della grammatica.
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Natale a Milano di Manuela Patani Ho rimandato fin troppo. Devo comprarli, i regali. Lo so, ci saranno le luci, i tram illuminati, il Castello che cambia colore mentre Cohen la lagna del suo Hallelujah, gli abiti rossi in vetrina, le coppie per mano e gli addobbi che sorridono dalle finestre delle case. Esco. Never mind I'll find someone like you. Suoneria. uffa! «Da Maurice? Alle nove?». Mi tocca. La serata tipo della Milanodabere, imperdibile se sei single e vuoi rimanere nel giro. O nel girone? C'è la Laura: sta con un vecchio che non ce la fa più. Le regala gioielli come se piovesse. E chissà il Carlo se, strafatto com'é, ne cambia ancora una a notte. E la Bea, che va di Absolut fin dal risveglio perché lui la riempie di corna. Però hanno un castello a Sankt Moritz. Poi magari spunta qualcuno nuovo, potabile. Prendo l'Uno, vado in centro. Mio figlio vuole l'I-pad: glielo regaliamo in venti. Nipote unico, figlio di separati, famiglie allargate… Bisogna che trovi una piccola cosa tutta mia, per fargli capire che gli voglio bene. È per lui che a Natale calzerò la maschera, una quasi-faccia che cela male la mia disperata cupezza. Piazza Cordusio. Scendo. Tutto mi riporta ad altri Natali: le cornamuse, le bancarelle con la frutta candita, le caldarroste. «Prendiamole», diceva sempre il mio ex. «Senza, non sembra neanche Natale!» Never mind I'll... «Sììì? Ah, devo chiamare la Cami, che porti quei due amici? Però uno è decerebrato e l'altro maiale. Fa niente». I regali per i familiari si risolvono in fretta: saremo appena in quattro, come sempre da quando sono rimasta sola. Chissà perché è andata così. Never Mind… «E va bene. Tagliamo fuori la Stefi, che parla, parla e catalizza tutto l'universo maschile.» Alla Rinascente mi avvolge il profumo della nonna. Lo stesso da una vita. Lo compro, ché non sbaglio! Ah, no. Sono due Natali che non c'è più. Novantanove anni, mi sembrava immortale. Never… Basta. Sms: «Non posso venire da Maurice». Niente larivistaintelligente.it
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serata silicone e cellophane. Mio figlio se lo aspetta da almeno un mese: i pacchi sotto l'albero, il pranzo, la messa di mezzanotte per fare la comunione di fianco al presepe e chiedermi, come ogni anno, perchĂŠ io non possa piĂš. Il Natale, ormai, non piace a nessuno. A me sĂŹ, malgrado tutto.
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Natale di Sara Milla Era stato in quel periodo. Non sapevo, prima, cosa fosse il Natale. L'aereo mi portava nel mio nuovo paese. Accanto a me c'erano un uomo e una donna che sarebbero diventati i miei genitori. Ma non parlavo con loro. Stavo muto e guardavo il cielo, le nuvole sotto di noi, il Cile che si allontanava. Mi sentivo male. Pensavo che a quell'ora sarei sgusciato dalla mia casa verso il bosco, e che quel posto mi avrebbe protetto per sempre, come aveva fatto dopo che avevano ucciso mia madre, davanti a me e avevo solo sette anni. Invece era meglio partire e andare in un altro paese, avere una famiglia. Erano lì, mi sorridevano sempre, e si tenevano la mano. Mia madre era una donna semplice, con le labbra rosa, questa aveva il rossetto e gli occhi attenti. Chissà perché quel giorno non hanno ucciso anche me. Mentre lo pensavo mi slacciavo la cintura di sicurezza, tanto per vedere. L'uomo mi disse: "No, è pericoloso, riallacciala". Ma non ci riuscivo. Allora cercò di aiutarmi, e lo graffiai. Mi disse che potevo farlo da solo, ne sarei stato sicuramente capace, ma dovevo assolutamente riagganciare la cintura, stavamo per atterrare. La città era grande, sporca, piena di macchine, niente a che vedere con il mio paese. Ma forse era meglio. Faceva freddo. Pioveva. Attraversammo un parco e mi calmai. Potevo fuggire, nascondermi nel parco se ne avessi avuto voglia. Il taxi ci lasciò davanti a un recinto di palazzi che chiudevano una specie di giardino pieno di alberi. L'ascensore era rotto. Mio padre si caricò tutti i bagagli e, siccome ero stanco, mia madre mi prese in braccio. Era alta, morbida e mi diede un bacio. Le strappai un orecchino con rabbia e lo vidi rotolare per le scale. Lei non si fermò, continuò a salire stringendomi. Finalmente spalancarono la porta di casa, con un sospiro, e accesero le luci. Mi sembrò, con dolore e meraviglia, di essere di nuovo in Cile. Al centro della sala c'era un albero che arrivava fino al soffitto. Era carico di gioielli scintillanti, come nel ventre del bosco, quando pioveva. Allora parlai, chiesi: «Cos'è?» E mia madre sussurrò: «È Natale.» larivistaintelligente.it
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È nata di Daniela Pericone È nata. Da questo momento la figlia di tua figlia in qualche modo avrà influenza sulla tua vita, porterà uno di quei cambiamenti che arrivano ben mimetizzati, sulle punte da ballerina, soffiandoti appena dietro l'orecchio, senza far presagire che nulla sarà più come prima. Ha spalancato gli occhioni velati della patina che ancora ne nasconde il colore, e già s'è insediata la tentazione di scoprire se somigliano ai tuoi oppure no, ma il piccolo urlo che subito la agita – in cerca del cibo, della madre o di chissacché – fa sbriciolare ogni svenevolezza. Allora diamoci da fare a preparare pannolini, magliettine, ghettine, lenzuolini, sonaglini. Tutti si aspettano da te l'esperienza, il piglio della maturità, l'esercizio di un matriarcato rassicurante, e tu invece vorresti non sentire sotto i passi l'impiantito dell'ennesima gabbia, costruita intorno a te ovunque ti trovi. Sei in trappola, ancora una volta. Che tu lo voglia o meno, adesso sei una nonna o comunque devi recitarne la parte. La prendi in braccio delicatamente, e non ti soccorre il ricordo del primo abbraccio dato a tua figlia, ma di certo è meglio così, meglio farsi attraversare da una sensazione vergine di conoscenza e di scoperta. Il calore, la morbidezza del contatto con minuscole membra, il peso lieve di una piccola testa sulla tua spalla costringono per un attimo ad allargare le maglie della corazza da armadillo nella quale da tempo hai deciso di abitare. E in un momento di distrazione degli occhi indiscreti del mondo, ti lasci andare.
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L'aureola che fu di Salvatore Ronga È la vigilia di Natale e la mamma cucina dall'alba. Mi prega di raggiungere una cesta sulla sommità della dispensa. Afferro una sedia e vi salgo. Ma – ahimè - la capoccia va in collisione con il lampadario. La mamma si dispera. È tutto così concitato che non ho il tempo di nutrire il mio senso di colpa, pensando che la mamma abbia più a cuore l'integrità del lampadario, che quella della capoccia primogenita. Decido di dare un'occhiata al neon, nella speranza che non sia fulminato. Niente da fare. Vengo spedito nel gelo della notte santa, armato di neon a forma di aureola, in cerca di un negozio aperto. Il primo tentativo fallisce. Ma non mi arrendo. La visione della mamma che brancola nelle tenebre, cercando di affogare i polpi, mi stringe il cuore. Secondo tentativo. Fallito anche questo. Me ne resta un terzo, come i cerini della piccola fiammiferaia. Spero in un colpo di fortuna: le vetrine illuminate di un negozio di telefonia mobile. Lo sguardo del cassiere sorvola la folla dei clienti e si incolla all'aureola che brandisco al di sopra delle teste, come la corona di Carlo Magno nella notte di Natale dell'Ottocento. Non ci sono parole. Io ammicco implorante. Il cassiere ciondola la testa e scrolla le spalle, il che, tradotto in lingua madre, vorrebbe significare povero strunz! Sconfitto a casa. Una luce variopinta illumina il tinello, la piantana del soggiorno in stile Decò, tra i polpi felici di aver rimandato il trapasso per soffocamento. Mia madre ha elaborato il lutto, ma io voglio l'Happy End. «Perché non proviamo a rimontare il neon?» dico spavaldo. E il miracolo avviene. L'aureola decide di rinascere a nuova vita. Nel pieno dell'euforia decidiamo che lunedì andremo a comprare un lampadario nuovo. L'aureola medita vendetta e, provata dalla nostra ingratitudine, decide di farla finita. La cucina è invasa di fiocchi di neve: iridescenti frammenti dell'aureola che fu. «C'è la neve!» s'incanta la mamma, ed io penso che ormai è talmente disperata, da essere sprofondata nella follia.
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Babbo Natale di Paola Pucci Qui i bambini la notte del 24 dicembre non aspettano Babbo Natale, ma Los Reyes, i Re Magi. Arrivano a cavallo dei loro cammelli e carichi di doni il 6 gennaio. D'altra parte siamo vicini al Sahara e sembra anche più logico, o forse, pensandoci bene, è più logico comunque che siano i Re Magi a portare i doni, invece che uno strano vecchietto vestito di rosso, a bordo di una slitta trainata da due renne volanti. E così, aspettando i Re Magi, la sera del 5 gennaio i bimbi, prima di andare a dormire, posano sul pavimento della casa ciotole colme d'acqua, in modo che i cammelli, assetati per il loro viaggio, possano dissetarsi. In fondo anche loro hanno diritto a un dono. Però nei miei ricordi d'infanzia, Babbo Natale è l'unico portatore di doni. Ricordo a memoria tutto quello che mi ha portato, quando non c'erano tutte le cose che ci sono adesso e i suoi regali erano veramente preziosi. Quando si giocava con le pietre e con tanta immaginazione. Allora i pupazzi si fabbricavano in casa, con avanzi di stoffa, e si riempivano con il cotone, e ricevere un giocattolo proveniente da quella fabbrica magica situata ai confini del mondo, dove fa sempre freddo, era un grande privilegio. La mia unica bambola, Teresa, con le trecce rosse e le lentiggini, ce l'ho ancora, anche se le mancano le scarpette, perse forse in uno dei miei innumerevoli traslochi. Se avessi avuto 100 bambole, probabilmente non ne avrei conservata nemmeno una, ma lei, essendo stata l'unica, e quindi preziosissima, mi ha accompagnata per tutta la vita. Ma il dono più bello in assoluto, il più desiderato tra tutti quelli ricevuti, fu un mappamondo. Quando lo vidi mi misi a fare i salti di gioia, finalmente si era avverato il mio sogno! Con quella sfera magica potevo studiare meglio la geografia, capire le distanze tra le nazioni, potevo sognare i luoghi che avrei visitato da grande, solcando i mari e i cieli. Ero davvero felice, avevo il mondo nelle mie mani!
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Il Natale umano di Anwar Safi Era il 1982 quando, per la prima volta, vissi il Natale in Italia. Mi ricordo le strade vuote di gente, rimasta a casa a pranzare in famiglia, mentre io camminavo solo, sotto una pioggia fredda, lontano dai miei affetti lasciati ai ricordi. Parlando al telefono coi miei, dissi che Perugia era una città molto triste, senza realizzare che stavo descrivendo solo il mio stato d'animo. Poi, per oltre venti anni, ho vissuto la festa natalizia partecipando e rendendo felice chi mi stava attorno. Ho comprato panettoni e torroni. Ho fatto regali agli amici e ne ho ricevuto altrettanti, pur essendo io di fede islamica. Per oltre trent'anni ho fatto gli auguri ai miei amici italiani per il Natale, e li ho ricevuti. Sono passati dieci anni da quando non vivo più il Natale nel Bel Paese. Sono dieci anni che non ricevo più regali, e tanto meno li faccio. Ora mando gli auguri per sms agli amici in Italia. Qualche volta ci sentiamo telefonicamente. Li penso tantissimo, ascoltando quasi come un rituale L'anno che verrà, di Lucio Dalla, che fu la prima canzone italiana che ascoltai, a Perugia, ai tempi dell'Università. Può sembrare strano che chi scrive di Natale non faccia di nome Paolo, Giovanni o Marco, e non sia nemmeno cattolico. Può anche sembrare fuori posto che mangi il panettone a quasi 6000 km dall'Italia. Si potrebbe persino pensare che mi si sia fuso il cervello finché non si capisce che certi valori molto "umani" del Natale in Italia mancano totalmente in tutte le feste a Dubai, dove la gente si stringe la mano e si saluta pensando a quanti benefici si possono avere, o, più semplicemente, perché lo fa solo per dovere, priva di ogni calore umano.
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Una sfera fragile di Una Se In mano l'ennesima pallina scintillante, diversa da tutte le altre. La fissò, si vide riflessa. Innumerevoli volte. Sospesa in un dejàvu in cui ripeteva lo stesso gesto nella sfera natalizia più preziosa. Le venne in mente il giorno in cui Carlo era entrato trionfante nell'ingresso con l'enorme scatolone sottratto alla cantina dei suoi. «Cos'è?» aveva chiesto, allarmata per il suo ordine perfetto, minacciato da chissà quale idea. «Natale». Lei aveva alzato le sottili sopracciglia. Lui aveva riso come un monello posando il pacco sul tavolo. Per una volta decise di non smorzare l'entusiasmo di lui. Diede un occhio al contenuto della scatola. Un caos di paglia, palle e pecorelle, angeli, pastori di ogni figura e dimensione. Un popolo di cammellieri, caldarrostai, due o tre madonne, neanche un Gesù Bambino. «Tanto non nasce fino a Natale» Avevano accantonato quel collo di reperti e pranzato facendo a gara di ricordi, di mandarini appesi, di casette costruite col cartone, colorate ed asciugate sulla stufa. Aveva invidiato un nonno che non aveva mai avuto, che faceva tetti di fiammiferi, finestre in carta rossa e la base alle statuine con i tappi del vino. Il loro primo di tanti presepi realizzati con la scusa del bebè arrivato. Aveva immaginato decorazioni natalizie per tutti gli anni a venire. Uno stuolo di marmocchi a dire «Questo lo metto qui», «No io là». Avevano aggiunto fontanelle, angeli e il bambinello. Una volta l'albero era stato oro, poi rosso, blu, argento, infine multicolore. Palline nuove a sostituire quelle perse per una zampata di gatto o un gioco di troppo. Poi c'erano stati Natali senza niente: Carlo morto di malattia. Scatole da dimenticare. E poi a tornare la vita. Nella sfera un sorriso. Una delicata preghiera. «Non cadere, non ora».
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Il Natale di Elisabetta Zanghì Brancolavo nel buio delle sei e cinque, dentro la mia camera da letto. Volevo trovare l'aria e aprii la finestra. Gelo sul viso e fumo. Accesi una sigaretta e altro fumo si propagò segnando una scia all'altezza dei balconi del palazzo di fronte. Poi il cielo schiarì e vidi la neve. Tutto era neve, tutto era candido e l'aria cominciava ad assorbire i rumori e altro fumo. La vita riprendeva con velocità. Che farò della mia tredicesima? Pensai, e la prima cosa che mi venne in mente fu di comprare un abito nuovo che sapeva di antico, un gessato blu. Era la scelta giusta per l'occasione, pensai di nuovo. Affacciandomi, avevo avuto chiaro il senso della mia debolezza. Un attimo e tutto sarebbe stato silenzio per me. Ma quale coraggio mi tratteneva? Un coraggio codardo. Pensai che occorreva uscire, era necessario andare a scovare il vestito blu. Gli alberi del viale sembravano vivi, erano le lucine della festa che rendevano tutto più allegro. Le lasciano accese anche di giorno e pensai che era uno spreco. E la mia vita? Non è stata uno spreco finora? Cosa avrei lasciato a memoria di me dopo di me? Nulla a nessuno. Ma avevo il Natale. Comprai l'abito. Avevo scovato un bellissimo gessato blu con le righine quasi impercettibili. Ero felice, ma di una felicità malinconica. Gioivo per gli altri. Vedere intorno a me quegli uomini, freneticamente presi dagli acquisti in quel preciso momento, mi spingeva a pensare che bisogna comunque dare un senso alla vita e io forse lo stavo trovando. Tornai a casa. Avevo poco tempo per rimettere a posto tutto il disordine accumulato di settimana in settimana. Questione di poco e sarebbe arrivato come sempre, puntuale e festoso, scintillante. Avevo anche addobbato un alberello con le candele e l'aria frizzante della sera di quel 25 dicembre faceva presagire la festa. Aspettai alla finestra e pensai che ero un uomo fortunato, avevo lui e per me contava solo quello. Ne ero innamorato, molto, e mi sudavano le mani per l'attesa. Chiamò di lì a poco. Disse che non mi avrebbe raggiunto ne quella sera né mai. Natale non tornò mai più. larivistaintelligente.it
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E io sto nella mia stanza quassopra e sono sola e so che voi ci siete. E scrivete Giovanna Nuvoletti
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