ALFONSO MEROLA
RINTOCCHI DEL TEMPO ACQUERELLI CAPOSELESI
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ACQUERELLI CAPOSELESI Alfonso Merola è nato a Caposele nel 1951. Ha conseguito nel 1969 il diploma magistrale. Nel 1970 viene dichiarato vincitore di cattedra. Nel 1992 consegue la specializzazione all’insegnamento della lingua inglese. Per ben due volte è stato scelto dalla comunità caposelese come Sindaco, in un periodo difficile e delicato quale quello relativo alla ricostruzione. E’ stato vice presidente presso la Comunità Montana Alto e Medio Sele e consigliere di amministrazione prima dell’ente Acquedotto Pugliese e poi dell’ATO Calore. Ha scritto diversi saggi letterari e di politica, diverse poesie in dialetto e racconti che lui ama chiamare”Acquerelli Caposelesi”. E’ autore di ricerche storiche sui cognomi e sui nomi delle strade di Caposele. In collaborazione con Nicola Conforti ha scritto il libro “Caposele, una città di Sorgente”, che tuttora rimane una delle poche storie attualmente edite di Caposele.
ALFONSO
MEROLA
RINTOC CH DEL TEM I PO ACQUER ELLI CAPOSE
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ACQUERELLI CA
POSELESI
RINTOCCHI DEL TEMPO
ACQUERELLI CAPOSELESI edizione per e-book - dicembre 2014
SOMMARIO
pag.6 I rintocchi del tempo pag.11 La Sanità pag.16 La fine della guerra pag.26 San Vito pag.32 La cantina di Sichetto pag.35 Botteghe oscure pag.44 Il mio Natale pag.51 Il cielo era tappezato di stelle pag.61 Tutti li Santi - La prucissiona pag.84 Non si vende, non si vende! pag.97 La serenata pag.10 Pellegrini a Materdomini pag.104 La purga pag.115 Leo pag.122 L’ultimo racconto
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Prefazione “ I rintocchi del tempo” è una raccolta di racconti, “nati per caso”, nel senso che è il frutto di una lunga e costante collaborazione di Alfonso Merola alla rivista caposelese de “La Sorgente”. Questi racconti, fedeli alla linea editoriale del Direttore del giornale, non si allontanano di un solo centimetro dalla terra natia, nell’intento di catturare immagini, eventi, tradizioni e quant’altro hanno modellato nel tempo la piccola comunità locale. L’autore, in fondo, registrando microstorie, ha cercato di percorrere, ora con sfumature autobiografiche, ora con riflessioni storico-sociali, un passato che cattura vizi e virtù di un paese dell’Appennino Meridionale aperto alle contaminazioni positive dell’esterno ma, nello stesso tempo, geloso della sua “Seletudine”. Apparentemente non traspare nei racconti una fiducia nel domani ma, a ben rileggerli, si coglie un messaggio tutt’altro che negativo: “Non c’è speranza nel futuro, se il presente non si fa carico di un passato in cui errori e lanci di riscatto hanno un valore pedagogico”. Nicola Conforti
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Dedico questo libro a Donato Conforti il quale fortemente volle che questi racconti fossero raccolti in volume.
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I RINTOCCHI DEL TEMPO “Mannaggia chi lu sona matutinu li pozza carè ‘ncapu lu battagliu”
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ra il rintocco solido e cadenzato del bronzo del “Mattutino” che risvegliava alle prime luci dell’alba Caposele. In fondo un invito ad apprestarsi per dare inizio alla giornata lavorativa. Ancor buio pesto d ‘inverno s ‘accendevano a catena lumi qua e là, a mo’ di presepe. Il forno, già in piena attività, in attesa di massaie per la prima cottura; battere di porte e cigolii di chiavistelli. E lungo la strada, lastricata di pietre, i colpi secchi e ritmati degli zoccoli degli asini portati alla briglia dai contadini che chiacchieravano a bassa voce, l’ abbaiare di qualche cane che spingeva la capra dietro il padrone. Mattutino, segno sacro e civile in un tempo stesso. C’era già chi aspettava i rintocchi della prima messa: persone anziane e devote, già pronte a sentire il Verbo alle sei del mattino. V’era qualcosa di impietoso a trascinare nella gelida Chiesa di S. Lorenzo bambini ancora sonnolenti o infreddoliti, affidati in custodia dai genitori già impegnati nel lavoro. Non accorrere alle campane della seconda messa, alle ore sette, se era un oltraggio al Signore , quantomeno era un sentirsi incapaci di rinunzie e di sacrifici. La seconda messa, quella della Congrega, per lo più era riservata a “famiglie d’artisti’ “ commercianti e artigiani che, frettolosamente, consumavano quell’ora prima d’aprire i battenti delle loro botteghe. Era pure l’occasioA
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ne, complici di sguardi fugaci tra giovanette e i loro spasimanti. Non era un caso che quell’ ora era scelta spesso per la fuga degli innamorati, cui seguiva il matrimonio riparatore. Un terzo dell’anno, registrano le cronache, le mattinate, e non solo le mattinate, erano rattristate dai lugubri suoni dell’ Agonia: era l’ appello cristiano dell’ Arciprete rivolto ai fedeli pietosi ad accorrere in chiesa per portare il viatico; qualcuno stava morendo e consuetudine voleva che ci si dovesse recare per amministrare il Sacramento dell ‘Estrema Unzione”. Era un momento corale per salutare mestamente il trapasso. Più tardi le campane, che spandevano il loro suono in lontananza, avrebbero rivelato a chi ascoltava le condizioni sociali del defunto i rintocchi brevi o prolungati, a seconda dell’obolo versato dai parenti del deceduto. Era il penultimo segno, seppure cristiano, per ricordare la divisione in questo mondo tra benestanti ed indigenti. “L’ora di scuola” era, poi inconfondibile: era lo scampanìo solito delle messe susseguito da pulsazioni più rapide e acute. Le strade si inondavano di bambini e ragazzi in corsa verso il Castello; qua e là bambini s’attardavano a fare gli ultimi compiti sui muretti e parapetti che fungevano da leggii. Alle nove le strade diventavano un deserto. Alle undici suonava “il Segno”, una sorta di preavviso del mezzodì. I rintocchi di Mezzogiorno, eguali a quelli del “Mattutino”, erano forse i più attesi: essi segnavano una breve pausa pei contadini impegnati nei campi, invitavano a tavola i caposelesi che lavoravano in paese e rammentavano a scolari e insegnanti che entro un’ ora sarebbero finite le lezioni. Di tanto in tanto al Piano si scorgeva qualche alunno venuto a controllare l’orario e a stamparsi nella mente i numeri indicati dalle sfere dell’ orologio comunale per poi correre in classe e riferire all’insegnante ansiosa. Le ore tredici non erano battute se non dalla campanella della scuola, puntualmente azionata’ da Franciscu” il campanaro, quasi a significare la scarsa rilevanza esterna di quel momento in cui gli scolari in ordine sparso e senza trepidazione correvano a casa ove li attendeva un piatto e conservato al tepore della’ ‘fornacella”, sottratto alla “buffetta” del mezzogiorno.
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‘’A Ventun’ ora la panza fa rumore” dicevano i contadini sentendo i rintocchi delle quindici per ricordare a se stessi che al massimo avrebbero lavorato ancora alcune ore e poi sarebbero tornati a casa a mangiare. A ‘ventun’ ora” le donne si affrettavano a ritornare dalla campagna: non era un privilegio per loro, ma l’obbligo imperioso di preparare la cena per “gli uomini”. Ventun’ ora perchè mai se poi erano solo le quindici? Un errore antico, lì a testimoniare che il calcolo italico del tempo mediante la meridiana si effettuava dalla sola alba al tramonto e a ricordare che la notte è senza tempo e senza confini. Ventun’ ora! Antico modo di dire, che costò cara ad un contadino locale, accusato di infanticidio per un alibi che non reggeva, a dire di un mare piemontese, il quale evidentemente per le sue ascendenze francesi sapeva che il il giorno era di ventiquattro ore e che puntualmente non si curò di capire che Nord e Sud erano divisi pure sul conteggio “ popolare” del tempo. Una campanella dal suono insistente, poco dopo le quindici, chiamava ragazzi e ragazze alla “Cronella”. Era l’ora del Catechismo e della preparazione alla Comunione, quasi un rito. A quell’ ora usciva sul sagrato il Prete per accogliere in portamento solenne i comunicandi che si rincorrevano qua e là per il Piano e il Piazzino. Si sedevano composti ai primi banchi della navata centrale a discutere di “cose di Dio” e a rispondere meccanicamente a domande di fede. Un battito di mani atteso scioglieva, poi l’assemblea e tutti in piazza a consumare in giochi le ultime ore del giorno. Là, sul sagrato, sostavano già donne anziane in attesa dell’ “Ora di Chiesa” che di lì a poco sarebbe suonata. Memoria antica, medioevale, dell’ ora collettiva di
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preghiera che i frati antoniani dedicavano al Santo in quel luogo ch’era antica sede di convento; pratica religiosa trasmessa in eredità alla chiesa di S. Lorenzo. Erano lunghe, cantilenanti litanie recitate in un latino storpiato da un italiano incerto; una sorta di summa cristiana concentrata nel tempo di un’ora, sotto la distratta vigilanza del prete intento a seguire con lo sguardo il lavoro del sagrestano che si trascinava tra i colonnati a rimuovere la polvere e a riordinare gli altarini gentilizi. Il buio che iniziava a piombare dai finestroni, dando vigore alla fioca luce delle candele sull’ altare maggiore, segnava l’improvvisa interruzione delle preghiere: era, a quel punto, sufficiente che la madre superiora delle suore si levasse dall’inginocchiatoio perchè tutte le presenti, dopo un convinto segno di croce, si riversassero nella navata centrale per guadagnare l’uscita. Le strade, frattanto, si ripopolavano prima che giungesse il buio; persone affollavano i negozi e nelle cantine iniziava a levarsi il fumo salato del baccalà fritto e l’odore aspro del vino aglianico in attesa degli abituali avventori notturni. Il caffè Romualdo accoglieva l’ elite del tempo: lì, discussioni interminabili fra una partita e l ‘altra. A quell’ ora aveva inizio una cadenzata processione di contadini che ritornavano dalle campagne col loro pesante fardello. Asini caricati all’inverosimile e anziani che si lasciavano trascinare attaccati con le mani alla coda delle loro giumente lungo la salita lastricata di Via Imbriani che scintillava, talvolta, per lo scivolare degli zoccoli ferrati. Il rintocco delle ventiquattro ore coglieva questa gente in mezzo alla strada e in questi locali abituali, invitandoli ad un rapido ritorno a casa. Alle sei rintoccava “Ventiquattore”, a rammentare che il giorno e la luce s’erano spenti e che a breve la porta di casa andava sbarrata. Invero la vita continuava nell’intimità della famiglia e della casa, accanto alla tavola e al fuoco. Si riassumevano allora il senso e il valore di una giornata, i fatti accaduti e le cose da farsi nel giorno a venire. “L’ora di notte” sarebbe stata battuta di lì a poco: e allora tutti a letto, innanzitutto i bambini. L’ora r’ nott’ l’angiulu a la porta Maria a la casa
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lu bruttu ess ‘ e lu bbuonu tras ‘! Un tempo scandito dal bronzo sacro al quale la società civile s’uniformava e che, talvolta, contrastava. Uno strumento formidabile che dava il senso cronologico, giusto per quanto serviva all’uomo umile, goccia per goccia, a dettare un ritmo di vita fatta di fatica, sudore e preghiera. In fondo l’orologio era privilegio di pochi: serviva alle notti insonni di chi si consumava nell’ozio e confondeva la notte e il giorno, usando la notte per capitalizzare il giorno! (Nun dorm’ la nott’ p ‘ bb ‘rè cumm’à dd’àfott’ lu iuornu). Tempo scandito da altri, il giorno; tempo indistinto e negato, la notte. In ogni caso tempo imposto per regnare sul popolo. La divisione del tempo-giorno era funzionale e congeniale ad un concetto di lavoro programmato per la massima produttività, per molti aspetti non differente da quell’ orario legale che puntualmente ci propinano durante la stagione estiva.
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i passava le giornate, a ragionare di niente, sotto gli ombrosi lecci carichi di anni. Quel luogo ai margini del paese serbava una sacralità a molti ignota. E così in quel crocevia della Storia si irrobustivano i ricordi. Il mutare delle stagioni, l’ alternarsi del giorno e della notte non vietavano la quotidiana passeggiata e la prolungata sosta in quel sito. A questa piazza sembrava mancare qualcosa; la sua quiete era irreale eppure ogni sua pietra appariva rispondere ad un’ armonia che non contrastava con la natura, disse Gerardo a se stesso. Gli altri continuavano a parlare di niente ... Gli tornavano alla mente le sensazioni degli undici anni, la scoperta di un mondo che travalicava quella piazza, di un mondo oltre le aspre coste di S. Lucia, oltre le pendici verdi del Paflagone oltre le sinuose colline di Materdomini e le azzurre montagne di Laviano. Esplorava al di là di questa valle, con l’ aiuto incessante della fantasia che solo a quell’ età si possiede. Immaginava, allora, di seguire, a volo, quella traccia di un fiume antico ora ridotto a sola testimonianza. Gerardo scoprì lì il concetto di orizzonte e il senso dell’ infinito che il suo maestro si affannava a spiegare in classe e che gli era incomprensibile. In classe spalancava gli occhi a seguire l’ agitarsi delle mani del maestro mentre puntava il dito a monte, a valle, o verso il soffitto e la cosa si complicava sempre di più. E ancora di più si arrabbiava il povero maestro che pretendeva d’ integrare in quelle quattro mura percezioni di un universo infinito. Su quella panchina, invece, era tutto più chiaro e risultava più nitida la paura dell’ ignoto. Un vento costante spazzava la polvere nell’ aria assieme alle foglie rinsecchite e divelte dagli alberi, trascinate lontano oltre il NA
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muretto di mattoni rossi. E poi, quel cielo sgombro che forava il cosmo; una finestra mai minacciosa sia quando si vestiva di un azzurro pulito che la notte incupiva e trapuntava di stelle, sia quando il grigio plumbeo ed uniforme se ne impadroniva, avvolgendo il paese sotto la sua umidità. Sì, l’ umidità di quel sito, orfano di una madre che aveva nutrito una civiltà e che ora era dirottata per dare sollievo altrove, era il segno di una forza imprigionata nelle viscere di quella montagna incombente. La sua primitiva culla rigogliante, oggi era la sua bara, seppure celata sotto la coltre erbosa di un finto piano inondato di margherite, d’origano e verde mentuccia profumata che disperatamente trasmetteva intorno il messaggio di libertà lanciato da quell’ospite sotterraneo ivi costretto suo malgrado. E quel frammento di cantico di Francesco d’ Assisi assomigliava tanto ad una lapide in un cimitero di campagna incisa per celebrare la trasmigrazione di un’ anima nobile ed umile. A rivederla in vita l’acqua del Sele era uno spettacolo d’altri tempi. Una corona di casupole incastonate nella roccia come gemme impure premevano da ambo i lati su una chiesa da cui spiccava un campanile, come dito puntato verso il cielo. Il tempio della Sanità, antica sede di un culto e di una devozione ad una ninfa chiamata Salute, presiedeva quella preziosità quasi a ricordare agli uomini che le polle sorgentizie ai suoi piedi erano una ricchezza terrena piovuta dal cielo. Di lì si partivano le italiche migrazioni della Primavera con lo stesso stato d’animo degli emigranti del primo secolo convenuti a giurare un improbabile ritorno e a specchiarsi per l’ultima volta in quelle quiete, umili, limpide e pure acque. Partivano con gli occhi lacrimanti e al tempo stesso ghiacciati dall’ algore delle fonti . Partivano e portavano nei loro occhi spenti il verde lussuoso e vellutato di Paflagone, l’ assordante scroscio del Sele e di quel laborioso formicaio di Capodifiume e di Catapano. Non tornarono più dalle loro primavere: vi avrebbero trovato un deserto che la ragione non avrebbe potuto spiegare. Gerardo immaginava, allora, di stare lì assieme a loro a parlare di un vedovo campanile cui era stata strappata, a picconate, la sua anima gemella e poi di un tempio riedificato altrove e imbottito di pietre e fron-
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doni antichi, di affreschi deportati ed incastrati, di una chiesa che s’era venduta l’anima ad un diavolo in cambio di un calco, perfetto quanto si vuole, ma sempre e comunque una copia. E poi, ancora, gli raccontava di un alveo, ricettacolo di rifiuti; sì, un letto arido dove un tempo scorreva prepotente uno spumeggiante e vorticoso fiume che, precipitando a valle, assediava il borgo antico. Rivedeva i salici piangenti stretti tra i flutti e le fontanelle; quei salici dai lunghi’ rami a tentacoli che si facevano frustare dall ‘acqua e dal vento e che ora si spandevano verso il cielo a cercare luce e acqua assieme alle acacie chiazzate di bianchi fiori profumati. Alberi enormi lì nati per caso a proiettare ombra e riparo su donne che sciacquavano e risciacquavano i panni alle fontane e che si attardavano a discutere per ore ed ore, come in un salotto. “No, caro caposelese che ritorni, non è più Capodifiume; questa è ora semplicemente una piazza”. Fingeva di dirgli. “Questo è il Pantheon dei nostri ricordi qui stipati l’uno accanto all’altro a sovrapporsi come le sedimentazioni della storia, ad ingarbugliarsi in un ingorgo di memorie.” Ripartiva mesto l’immaginario visitatore e Gerardo ritomava al suo zibaldone di pensieri. L’occhio cadeva, allora, sul Milite di bronzo, un pugno nello stomaco in quel luogo di pace, un milite pur esso proteso verso i nembi. “E’ ridicolo celebrare la propria apoteosi col sangue altrui, mentre ti gridano aiuto i figli di quei morti condannati a dannarsi in Africa e Russia” pensava dentro sè. E non vale a ravvivarli nemmeno quella corona di lecci che legano a sè, uno accanto all ‘ altro, nomi da non estinguere. Quei lecci tremavano di paura al solo pensare che avrebbero potuto fare compagnia ad altri virgulti da piantare per quietare in qualche modo le coscienze dei guerrafondai. Quei lecci crescevano di più e più rigogliosi quando avvolgevano nella loro affidabile ombra coppie di giovani amanti al loro primo incontro, sottratte allo sguardo dei passanti da luci pubbliche volutamente spente osservate solo da frotte di terribili ragazzi che correvano da un robusto ramo all ‘ altro della corona di lecci, come gatti selvatici .....I ragazzi si arrampicavano anche di giorno su quegli alberi che flettevano paurosamente sotto il peso: quelle loro inconsuete corse tra rami incrociati come braccia stanche rabbrividivano le allodole e i passeri che lì malaugurata-
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mente avevano nidificato e il frullare di ali impaurite nell’atto di abbandonare i nidi indifesi al loro destino era il premio di quel giudizio di Dio. Ci si lanciava giù non appena spuntava in curva, dietro la muraglia della foresteria, qualche ragazzo col pallone in braccio. E allora la Sanità si trasformava in Piazza del Campo. Intorno al ragazzo del pallone accorrevano tutti come gatti alla ciotola. I più prepotenti, assicurando garanzia al solo possessore del pallone, sceglievano le squadre: tutti gli altri in riserva e se si protestava nemmeno quello. In quello spazio ovale, sistemate quattro pietre a fissare “le porte” iniziava la pomeridiana partita sotto un sole cocente. E la partita non terminava se non quando il buio della sera non si impadroniva della luce. A quell’ ora, spossati come guerrieri dopo la battaglia, si stendevano a terra. Non c’era partita che non era accompagnata da grida e imprecazioni, da parolacce che rimbombavano nella navata della prospiciente chiesa da cui spuntava puntualmente il prete minaccioso a calmare i bollori e gli eccessi. Si era fortunati, poi, se almeno una volta si riusciva a sottrarsi alle grinfie della guardia campestre appostata dietro un albero ad afferrare il pallone e a sequestrarlo in nome di una norma violata che suonava astruseria e che sarebbe costata un ceffone al padrone del pallone, se solo si fosse fatto avanti per richiederne la restituzione. Ceffoni, calci e pugni, poi, volavano tra gli stessi agonisti ed erano inevitabilmente propedeutici alle penalità che si autoinfliggevano avendo ritenuto, a monte, superfluo affidare a qualcuno il ruolo di arbitro. I giocatori di pallone si ritiravano, infine, in ordine sparso verso il paese e la piazza ritornava alla quiete, pronta a ricevere il rientro dei contadini dalle campagne. Erano volti esausti, provati dalla fatica; tenevano in mano i loro cappelli quasi in segno di riverenza per un luogo che avvertivano degno di rispetto e calcavano la terra in punta di piedi per contenere il rumore di bullette delle loro scarpe in un incedere felpato e riservato per sottrarsi quasi all’ impatto cittadino. Le loro donne procedevano con passo veloce e si disperdevano nei vicoli al riparo da sguardi indiscreti che le avrebbero colte stanche ed immiserite. Gerardo si impuntava a guardare i ragazzi che chiudevano quella
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schiera. Nei loro occhi vi leggeva rancore e rabbia nel sentirsi esclusi da un paese che pulsava, nonostante la loro assenza. Gerardo vi decifrava la voglia di andare a scuola, che altri ritenevano superfluo, vi coglieva l’assurdità di essere ritenuti adulti anzi tempo. Un mondo sezionato in classi incomunicabili, il cui ruolo era preordinato, subìto ed accettato senza emozione. Gerardo fu preso da un senso di vergogna; si alzò dalla panchina e, dopo un ultimo sguardo alla piazza, che sembrava immensa, si avviò verso la Via Zampari. Ogni tanto si voltava indietro ad osservare il campanile col suo penacchio di ginestre, un campanile che assomigliava sempre più ad un obelisco egiziano infisso nella volta celeste.
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La fine della guerra
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el caffè di Romualdo cessava ogni discussione, non appena il notiziario radio aggiornava il bollettino di guerra. Zia Caterina bloccava addirittura la macchina del caffè e nel locale calava il silenzio. Dopo lo stanco radiogiornale del Regime, letto con poca convinzione dallo speaker di turno, si cambiava stazione per ascoltare la voce degli alleati, dal tono trionfalistico e rassicurante. Si era agli ultimi mesi di guerra; in altri tempi ascoltare gli americani sarebbe stato considerato tradimento e disfattismo, ma ormai tutto era tollerato. Di certo erano diametralmente divergenti le notizie: il primo dava gli americani a circa 400 Km da Caposele, l’altro a 200 circa. “ In media stat virtus” sentenziò l’Arciprete “Saranno verso Cosenza -In pochi giorni aniveranno in queste zone “Che Dio ce la mandi buona!” Riprendeva la discussione e qualcuno, a quel punto, si premurava di aggiornare con precisione prussiana la mappa ingiallita dell’Italia fissata su una parete. Così Caposele si apprestava alla guerra imminente: non perchè non avesse tributato, fino ad allora, sacrifici a quella pazza avventura. Le donne vestite a nero e le nere mostrine cucite sulle giacche degli anziani erano lì a testimoniare il sangue versato per il sogno della potenza imperiale italiana. Era, però, la prima volta che su quelle terre si sarebbe abbattuta la violenza di una guerra disastrosa. C’era da preoccuparsi a detta di alcuni anziani cui era stato raccontato del passaggio dei garibaldini. “Furono peggio delle cavallette”, ricordò qualcuno. Rubarono maiali, galline, grano e tutto quello che potevano arraffare Speriamo che ci vada meglio con questi americani” . NA
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Ormai un pò tutti erano convinti che si era giunti all’ epilogo e preoccupava non poco il fatto che Caposele poteva essere un obiettivo militare molto importante per la presenza delle Sorgenti del Sele e dell’ acquedotto che, se distrutto, avrebbe mandato in crisi l’intera regione pugliese. Si era pure coscienti che chi si ritira diventa feroce come belva ferita e chi avanza è baldanzoso e incurante di ciò che ha davanti. I tedeschi accampati a Petazze, incominciavano a smontare qualche tenda, a caricare gli automezzi di taniche di benzina. Era un andirivieni di camion e di soldati innervositi da un ambiente che percepivano appena appena ostile. La loro assidua presenza quotidiana nel cimitero militare di Duomo, rassomigliava tanto a quelle visite intense prima della partenza. D’altra parte gli ufficiali di stanza alla Foresteria lo avevano fatto capire senza mezzi termini a qualche conoscente che erano li in attesa di disposizioni per la ritirata, assicurando che mai e poi mai awebbero lasciato un brutto ricordo in paese. Innervosiva, e non poco, il fatto che i fascisti locali, così entusiasti in passato degli alleati tedeschi, avessero preso, per così dire, le distanze, ma la cosa era interpretata come difficoltà generale di un partito allo sbando che in fondo, in fondo non aveva quelle radici popolari che propagandava. Dal loro canto, le autorità locali si arrabbattavano alla meglio, invero più creando allarme che emanando disposizioni rassicuranti a tutela e protezione della cittadinanza. Si era, frattanto, provveduto a fasciare con ginestre il campanile della Sanità, le opere di captazione idriche dell ‘EAAP e quant’ altro fosse utile per mimetizzare una zona delicatissima. Le postazioni antiaeree su Avigliano, rette dalla milizia locale, erano, più un’esercitazione bucolica che una prevenzione bellica: si andava li a gozzovigliare tra un gregge e l’altro con buona pace di chi si aspettava un allertamento. La popolazione, invero, si era preparata a quell’ appuntamento. Se non fosse stato per le scuole che funzionavano regolarmente e per quei pochi negozi che continuavano nelle loro attività mercantili, tutto il resto aveva subìto cambiamenti radicali. La vita era pressocchè concentrata nelle campagne. Infatti i contadini
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già da tempo si erano rifugiati stabilmente nelle campagne e lì avevano trasferito ogni loro avere. Sarebbero stati raggiunti più tardi nei giorni cruciali, dai proprietari dei fondi che evidentemente non se la sentivano di rinunciare fino all’ultimo alle comodità della vita “urbana”. C’era anche chi, non avendo poderi in cui ritirarsi s’era rassegnato a vivere in paese in attesa di quel momento fatale. L’arrivo degli Alleati era colto dalla popolazione con sentimenti contrastanti. Era una vera liberazione per madri e padri che avevano figli in età di militare; induceva all’ ansia e alla trepidazione, poi, quanti aspettavano il ritorno di parenti dalla guerra e dalla prigionia. Chi era, invece, vedova o orfano piombava in una muta rabbia e in un ragionato disinteresse verso quanto poteva accadere da un momento all’altro. Le giovani, invece, sembravano pervase da una gioia particolare, pensando al ritorno di tanti giovani divenuti uomini in un paese popolato prevalentemente da loro, da bambini ed anziani. Dei “bei tempi fascisti” nemmeno l’ombra: erano muti e pensosi gli avanguardisti della prima ora, preoccupati i mediatori del consenso politico, incazzati e schifati tutti quelli che, pur non essendo irregimentati, non comprendevano il senso del tradimento dei tedeschi. Non v’era, però, un’aria da resa dei conti, quanto piuttosto un’ atmosfera da “ si salvi chi può” in un paese che aveva accettato e accolto scientemente il Regime o per raziocinio o per inerzia. Un pò tutti erano stati balilla, figli della lupa, veterani o conniventi: il che li faceva sentire a dir poco compromessi. Era l’otto settembre. A Materdomini c’era la consueta fiera della Madonna e lì erano affluiti un pò tutti i paesi vicini. Il borgo brulicava di persone ed animali; la chiesa era stracolma fin dalla prima messa. Verso le nove il cielo fu solcato in volo basso da alcuni aerei che
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iniziarono a mitragliare, senza provocare vittime. Chissà cosa dovette sembrare Materdomini dall’ alto a quell’ ora così gremita di gente, a quattro passi dall’ accampamento tedesco. Quelle mitragliate crearono tanto panico e, poco dopo, il deserto attorno al Santuario. Fu un fuggi fuggi in tutte le direzioni. Caposele stesso era in subbuglio; la gente si riversò negli orti e nelle campagne circostanti e in quei luoghi trascorsero il più della giornata. Il terrore prese in modo particolare gli abitanti di Capo di Fiume, che si sentivano come topi in trappola, vicini com’erano al temuto bersaglio. Fu una lotta contro il tempo l’allontanarsi dalle Sorgenti della Sanità, ritenendo che da un momento all’altro potessero iniziare bombardamenti a tappeto dell’ Acquedotto e del Cantiere. Verso le undici accadde il fatto più preoccupante: una bomba venne sganciata nell’ orto di Don Renato e vi perse la vita una donna: il fragore terrorizzò un pò tutti e così quei pochi che ancora s’erano attardati nel paese, si decisero di darsi alla fuga. Questa volta non più verso i campi aperti e gli orti, ma verso le cantine, luoghi sufficientemente mimetizzati tra gli alberi e i roccioni del contrafforte del Paflagone. Fu chiaro allora che la tragedia stava tutta lì: scampare tra due fuochi, quelli alleati e quelli tedeschi, tra due eserciti che legittimamente potevano considerarli nemici. Passò ancora qualche ora e si udì uno scoppio tremendo nell’ orto Cozzarelli: una deflagrazione possente che fece tremare le case e i ricoveri di fortuna in cui i caposelesi si erano rifugiati. Caposele era ormai un deserto: vi circolava solo qualche cane e qualche gatto, pure essi sbandati da quegli scoppi assordanti e inusuali. A quell’ora un pò tutti si convinsero che ritornare alle case era un azzardo e tutti si predisposero a trascorrere la notte all’ addiaccio o, comunque, lontano dalle proprie abitazioni. Una notte, dice chi ha vissuto quell’ esperienza, non facilmente archiviabile. Il buio copriva il centro abitato e si stava attenti a vigilare affinchè nessuno per errore accendesse lumi o candele, per evitare d’offiirsi bersaglio agli aerei impegnati in voli di ricognizione. Dai Casali si dominava la valle nel suo insieme indistinto che confondeva cielo e terra; solo un’ accennata linea di contorno a mala pena evidenziava la collina di Materdomini.
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Nella rassicurante penombra delle cantine ci si muoveva come nel “gioco della mosca cieca” urtando vicino a botti e tini. A ricordare la eccezionalità del luogo ci pensava l’aspro e pungente odore dell’ aceto frammisto a quello dello zolfo e di tanto in tanto a quello dei cachi, delle mele e delle pere sistemate su spessi tavolati incastrati tra gli archi ricavati nei muri. S’udiva il tintinnio, talvolta, di bicchieri trangugiati a lenti sorsi dagli uomini ricacciatisi in fondo alla cantina. La nonna, invece, s’era posta su una sedia impagliata sull’uscio a vietare e scongiurare che qualche bambino sgusciasse fuori. Verso mezzanotte il cielo s’illuminò a giorno e il piccolo Rocco battè le mani pensando che’fossero i fuochi d’artificio di S. Gerardo, quelli che davano il segnale sulla fine della festa. Fu subito trattenuto e riportato alla realtà dalla madre e più ancora dallo sganciamento di un grappolo di granate che esplosero a corona nella valle. La curiosità e forse la paura spingevano un pò tutti ad ammassarsi sulla porta per osservare quell’inconsueto paesaggio abbagliato dai razzi. Un paesaggio mai visto seppure tanto simile a quello diurno; eppure c’era qualcosa che lo differenziava dal giorno. ‘State tranquilli” disse Matuccetto, memore della sua esperienza sul Carso, , “Stanotte ci rispanmeranno -Sono impegnati oltre Laviano, verso la Sella di Conza. Domani, comunque, dovremo sloggiare, questo posto non è sicuro”. Si trascorse il resto della notte nella più assoluta calma: notte insonne per i grandi che narravano fatti di guerra, mentre trattenevano tra le braccia i figli dormienti. Appena fu l’alba sulla valle si proiettò il grigiore di un cielo cupo di nuvole e la fitta nebbia iniziò a risalire a banchi verso il Vallo Antico per unirsi con quella bianca coltre che proveniva da Lioni. Iniziò a piovere. “Siamo fortunati”, disse il solito esperto di guerra, “Affrettiamoci a raggiungere Avigliano, perchè fin quando il cielo
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sarà coperto difficilmente riprenderanno a bombardare”. Le donne annuirono, chiedendo, però, un pò di tempo, giusto per scendere giù in paese a prendere cibo, pentolame, vestiti, materassi e ogni altra cosa utile per traslocare in campagna. Caricati gli asini di some che non erano abituati a sopportare in salita e postesi loro stesse sul capo ceste e canestri si avviarono verso Avigliano. I bambini e i ragazzi erano spinti avanti come gregge; in retroguardia avanzavano gli uomini che, frattanto, avevano ripreso le loro discussioni notturne. La stradina che si inerpicava verso Serretiello per poi ridiscendere a picco verso la Cupa, era, a quell’ ora, percorsa da parecchie frotte familiari, che si sorpassavano a vicenda, a seconda del ritmo di marcia imposto dal capofamiglia. Le salite provocavano affanno soprattutto agli anziani, i quali, però, rifiutavano di sostare pur di raggiungere in fretta la meta. I ragazzi si spingevano, come capre spericolate, lungo viottoli e scorciatoie e correvano a più non posso per poi buttarsi a terra sudati negli incroci ad attendere i grandi: strappavano, così, quel minuto di riposo dopo essersi spossati all’inverosimile. Giunsero, infine, ad Avigliano. Scaricarono e misero in libertà gli asini schiumanti di bava. La nonna si sedette su una pietra, disfacendosi i capelli e poi riannodandoli, e da quello scanno impartiva ordini alle nuore, alle figlie e alle nipoti. Alcune stesero, dopo aver spazzato alla meglio, i materassi di lana e di brattee (pannocchie) su un lastrico interamente trasformato in letto; altre sistemarono le vettovaglie in una vecchia credenza, poi accesero il fuoco apprestandosi a cucinare. I ragazzi andavano per legna assieme al nonno che perlustrava i campi per farsi un’idea dei frutti autunnali che la campagna riservava. La vita, così, riprendeva. Ci volle poco per abituarsi a quel ritmo cui si era costretti e che in fondo non dispiaceva, pensando che altri erano obbligati a sacrifici e privazioni, soprattutto alla fame che pativano in tanti. “Chissà che fine ha fatto il Prof. Maurano?” si chiese Gerardo. “E’ dai Cozzarelli!” rispose Alfonso, “Non morirà di fame”. Quel professore, così distinto, così discreto, che aveva abbandonato con la sua famiglia Napoli e la sua casa per fame e che a Caposele aveva trovato una dignitosa
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sistemazione. Aveva patito la guerra ed ora era costretto a vivere d’aiuto altrui che, nonostante la discrezione e la prodigalità dei suoi ospiti, sentiva come elemosina. A ben pensare, allora, Avigliano non era una reggia ma di sicuro era un privilegio e una fortuna. Passarono lì alcune settimane e visto che quei brutti giorni erano solo un ricordo, si decise di ritornare al paese. E quello fu un giorno di festa, anche se il loro ritorno prevedeva il ristabilirsi su alle cantine. La presenza in zona dei tedeschi non incoraggiava nessuno a rientrare nelle case, soprattutto quando si sparse la voce di possibili deportazioni dei meno anziani in Germania. In fondo, abitare ai Casali significava avere due piedi in una scarpa: vivere in paese ed essere pronti a scappare in montagna, se necessario. Era accaduto in quei giorni un fatto che allarmò: una ragazza era stata adocchiata ed importunata da alcuni tedeschi e se l’era cavata per un pelo. Si parlava, di ponti e strade minate, vere o false che fossero le notizie, c’era da stare poco tranquilli: meno ci si faceva vedere al Piano e meglio era. Il paese, però, aveva riacquistato una certa vitalità: era stata riaperta qualche bottega, e qualche cantina. Il caffè di Romualdo, seppure non affollato come ai bei tempi, riprendeva l’attività. Gli “sfollati” erano ritornati nei loro alloggi e c’era già chi pensava di riaprire le scuole, tra le proteste di qualche insegnante. Si vedeva, pò qualche sbandato dell’ esercito italiano, ormai in rotta, che vinta la prima paura e sopraffatto piegato dalla fame s’era finalmente deciso
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a circolare a Caposele, una volta accertatosi dell’ assenza di tedeschi in zona. D’altra parte la milizia locale s’era squagliata, anche se alcuni che ne facevano parte indossavano ancora indumenti militari. Si avvertiva l’aria della vigilia: gli americani e i loro alleati sarebbero a giorni arrivati. L’atmosfera, allora, di attesa era tutta protesa a fare pulizia e a rimuovere i segni di un passato che solo qualche giorno prima era stato ritenuto glorioso. Lavoro immane soprattutto per gli imbianchini impegnati a cancellare dai muri esterni di edifici scritte ipocrite inneggianti al regime e venivano un pò dovunque rimossi quadri e foto che un anno prima erano idolatrati come sacre effigi: i più li bruciavano addirittura come per rimuovere prove di un’antica colpa; alcuni, i più audaci li celavano sotto lenzuola e coperte in bauli ben serrati. Qualche ragazzo ignaro, che si permetteva ancora di fischiettare “Faccetta nera” riceveva un sonoro ceffone senza che ne seguisse alcuna spiegazione. Regnava un clima di autopurificazione quasi da venerdi santo, ammesso che l’arrivo degli alleati fosse percepito davvero come una Pasqua. Preoccupava non poco, però, certa baldanza che montava nel ceto popolare e tra quelli che a modo loro non si sentivano compromessi col regime. Qualcuno diede filo da torcere in quelle ore, minacciando di spifferare tutto agli americani non appena arrivati, promettendo a destra e a manca vendette e regolamenti di conti. Si era addirittura sparsa la voce del ritorno di Don Pasquale Ilaria, il “cattocomunista”, visto dai “ vertici locali” come il fumo negli occhi. Certi personaggi, tra l’altro, si facevano vedere poco in giro. La guerra, per loro, non era finita. Forse perchè dotato di una tempra particolare, sorridente come sempre, v’era solo Don Ciccio di buon’ora al suo posto di lavoro. Taciturno, come non mai ma sereno: la sua esperienza gli diceva che un fascismo all’acqua di rose, come quello caposelese, non poteva produrre effetti devastanti, anche se fossero piombati i sovietici. “ ll peggio verrà dopo”, diceva sorridendo. All’ arciprete, invece, e non solo a lui, dava fastidio che qualche contadino inneggiasse al comunismo e festeggiasse per l’avanzata dei
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Russi sognando poderi da strappare ai possidenti, inclusa la chiesa, e da dare ai senzaterra. “L’americani sò a Rena Ianga” gridò in piazza Lorenzo Ceres, proprio allora rientrato in paese con la sua Balilla. Riprese la corsa verso i Casali, a Pianello, a Serretiello, questa volta non per scampare ad un pericolo ma per seguire con lo sguardo la marcia degli alleati verso Caposele. Lunghe ed interminabili file di camion grigio-verde , di camionette, di carri armati che si snodavano verso Occhiaro e Temete, sbucando dalla Bisciglieta. Avanzavano lenti, senza fretta; si sentivano in lontananza canti e motivi ignoti ed indecifrabili. In un batter d’occhio erano già alla londa i primi e non cessava la processione da Rena Bianca. Eccoli a Santa Caterina, alle Gallerie il rumore assordante di motori montava sempre più e sempre più netto s’elevava un canto corale dai ritmi martellanti. Non erano i suoni secchi e netti delle note wagneriane, nè quelli più rassicuranti, ma sobri di verdiana memoria. Note ritmate, lunghe ed improvvisamente brevi in cui si coglieva un non so chè di afro sopraffatto dall’americano; lo chiamavano “jazz”, “Blues”, “Boogie boogie”. Musiche astruse, ma che non incutevano paura. Pulsazioni festose che solo chi esterna sentimenti dipace, può emettere. Fu un sospiro di sollievo! La colonna degli automezzi era giunta al Ponte e di lì risaliva lungo il Fiume Sele verso l’orto di Don Renato. Erano soldati dalla pelle bianca, erano neri, mulatti. Salutavano sorridenti lanciando caramelle e cioccolate. Facevano montare sui carri bambini e ragazzi, tra madri in lacrime, preoccupate per quell’ingenuo e amichevole ratto. S’udì uno scampanìo a festa e qualcuno stese copriletti al davanzale come al Corpus Domini. Era fatta! Non c’era nulla da temere da quegli uomini, nonostante la paura avuta durante quelle nottate di bombardamenti. Ecco gli autocarri alla curva del Piano e poi ancora avanzare lungo Via Zampari, facendo tremare col loro peso le case a schiera.
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Raggiunsero Piazza Sanità e lì si femarono, sistemando alla meglio le colonne lungo le anguste strade. Presero possesso degli impianti acquedottistici. Scappavano i ragazzi a vedere i soldati negri. “Sono dell’ Abissinia”, si azzardò a dire una donna, facendo malamente ricorso alle misere conoscenze geografiche che le avevano inculcato. Un gruppo di ufficiali in auto raggiunse il Piano, chiese del Podestà e fu accompagnato in Municipio. Vi fu un incontro cordiale e franco che rassicurò un pò tutti, in modo particolare chi quelle notti aveva trascorso insonne. Quella sera ci si ritirò tardi. Sembrava una festa paesana, impegnati come si era a familiarizzare con i nuovi venuti e a scrutare quei soldati che il terrore aveva dipinto come mostri e come nemici da rifuggire.
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San Vito
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gni 15 giugno ci si alzava presto nonostante fosse una festa a tutti gli effetti. Il giorno di S.Vito era un’ esclusiva per la valle e i Caposelesi ne andavano fieri: raggiungere di buon’ ora la Pietra di Boiara, oltre ad essere un atto di devozione al Santo siculo era pure un piacere elettrizzante pensando a come sarebbe trascorsa l’ intera giornata. Le donne, invero, si attardavano a casa, anche se erano in piedi dalle sei, impegnate a preparare ogni ben di Dio che più tardi avrebbero sistemato nei canestri. Mio padre, dopo aver caricato la bisaccia col vino sulle spalle e messo a tracolla il vecchio fucile a pallettoni, mi prendeva per mano e ci si dirigeva verso La Sanità. Il nonno ci aspettava in piazza con la sua muta di cani guidati da Argo che non appena ci intravvide corse verso di noi. Imboccammo la strada ghiaiosa che conduceva verso Tredogge e ci inerpicammo su per la via Piani. Le siepi lungo il sentiero polveroso erano cariche di more rossicce che si confondevano con le bacche pur’ esse rubiconde. I campi iniziavano a imbiondire e i ciliegi si flettevano al peso dei loro frutti maturi già in corso di raccolta. Quella salita ti bloccava all ‘improvviso le ginocchia ma la fatica dell ‘ ascesa sembrava sopportabile, sapendo che la meta non era lontana. Il venticello piacevole di giugno ti rinfrescava di tanto in tanto il viso accalorato e ti asciugava rivoli di sudore. Se ti capitava di sfuggire al controllo del nonno, riuscivi a bere di nascosto alla fonte di acqua che sgorgava sotto una grande e nodosa quercia: un ruscello insignificante ch’ era in grado di ristorarti più del ghiaccio. Mi innervosivo, però, per quell ‘ incedere lento e sereno di mio padre e di mio
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nonno, che ragionavano con calma e spesso si fermavano a osservare in lungo e in largo un paesaggio per altro a loro molto noto. E mi arrabbiavo addirittura, quando gruppi di persone dopo averci salutato, ci sorpassavano. Arrivare secondi o in ritardo a S. Vito mi sembrava quasi come rinunciare ad un premio o a una scommessa. L’ ultima fermata era al “casino” di La Manna, una tappa obbligatoria e inevitabile: il pianoro erboso di S. Vito e la sua roccia erano oltre quei campi di granoturco. Non ho mai saputo se il vecchio padrone di casa fosse il sagrestano o il custode della piccola chiesa sulla pietra; di certo egli sedeva sull’uscio di casa sua a ricevere col sorriso sulle labbra la gente che sostava. Si capiva che il “mastro della festa” era lui: e lui il regista di ogni parte di quella giornata; lo stesso arciprete si sentiva ospite celebrante tenuto a dire messa in una cerimonia che, comunque, si sarebbe svolta indipendentemente dalla sua volontà e dalla sua autorità. Accanto al vecchio La Manna v’era un’enorme cesta di vimini ricolma di piccoli pani appena sfornati: ogni passante, sotto l’occhio vigile del padrone, si curvava per prenderne uno. Casa La Manna non era una dimora di campagna come tutte le altre e ai miei occhi sembrava sontuosa, nonostante l’abbandono avanzasse inesorabimente. Una struttura armonica e regolare, un arco a volta centrale, una larga loggia, scale simmetriche laterali, trasmettevano la nobiltà di un tempo. Era stata forse la villa di campagna di un signore, la residenza fortunata del fattore dei Rota, padroni incontrastati della terra di Boiara, della Difesa e di tutti quei pascoli collinari appartenuti da sempre a chi s’era fregiato del titolo di principe di Caposele .... Pochi passi ancora e si giungeva sotto l’enorme masso di S. Vito che sembrava in bilico sulla valle. Mio padre sistemò le bisacce del vino in una rudimentale vasca scavata nella pietra viva che riceveva un filo di acqua dal profondo di un terreno. A quel punto si scioglieva quel sodalizio, dopo esserci raccomandati a vicenda di ritrovarci a mezzogiorno in punto sotto un noce che da anni ospitava i nostri pranzi nel giorno di S. Vito. Come primo atto abitudinario correvo sul cocuzzolo roccioso dirimpetto alla Pietra e mi sedevo su quell’ avamposto ad osservare. Si apriva
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sotto di me la parte più alta della Valle del Sele: ecco Caposele disteso sulle pendici del Paflagone come un cane dormiente e più in là Calabritto e Quaglietta così nitide in quell ‘ azzurro di giugno. E sullo sfondo s’èrgevano in tinte chiare fino a confondersi col cielo i monti degli Alburni che proprio bianchi ai miei occhi non sembravano. Tutt’ intorno, invece, si stendevano gli arsi campi pronti per la mietitura e qua e là, affogati in quel giallo, alberi da frutta, non troppo alti e nemmeno frondosi: una vegetazione compressa nella crescita da un vento continuo che la frustava in tutte le stagioni. Ho rivisto qualcosa di simile nel paesaggio senese qualche anno fa, un paesaggio cui, però, mancavano i costoni rocciosi coperti di muschio e fessurati da robuste ginestre. Lo sguardo in ultimo si soffermava sulla Pietra di S. Vito. Un’ antica e devota penitenza costringeva donne e bambini lungo un tortuoso percorso attorno al masso, un saliscendi tra dirupi che la tradizione voleva fosse affrontato per ben tre volte; li chiamavano turni. Alle undici la campanella ci chiamava a Messa. Si saliva la stretta scalinata ricavata nella roccia e si raggiungeva il primo pianerottolo. Lì si vedevano ancora i resti di antiche mura: si diceva fossero i ruderi d’una fortezza, l’ avvistamento da cui si segnalavano i pericoli al castello di Caposele e di qui a quello di Quaglietta, tutti e tre in linea lungo la Valle. Erano sicuramente ruderi di qualcosa importante, e questo ce lo ricordava lo stemma dei Rota che insisteva sulla porta ad arco attraverso la quale si accedeva in un cortile interno. Anche lì i resti di fondamenta, casupole rase al suolo, pensai, e più in alto, su un piano, la cappella. Era davvero piccola ma stipata di banchi e inginocchiatoi, quasi fin sotto il povero e disadorno altare che accoglieva la statua in legno laccato di S. Vito. Raffigurava in panni e tunica rosso-verde il martire siciliano che aveva trovato la morte a capo del fiume Sele, dicono le agiografie romane. Ai suoi piedi un nero cagnolino volpino col muso rivolto verso il volto del Santo. La cappella era stracolma di gente; molta era rimasta nel cortile a sentire la messa. I più piccoli raramente entravano in Chiesa: a loro piaceva restare fuori in attesa della benedizione dei piccoli pani che di lì a poco sarebbero stati lanciati a quella moltitudine di cani che si aggiravano un pò dovunque e
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che il familiare fischio del padrone avrebbe in un batter d’occhio subito radunati. I pastori, frattanto, nel momento dell’ Offertorio si sarebbero fatti strada tra la folla per consegnare la “quagliata” di quel giorno. Aveva, poi, inizio la processione del Santo e una folla compatta seguiva la barcollante statua giù per quel sentiero pericoloso. Il corteo si snodava per tre volte attorno alla Pietra e alla fine la statua veniva riaccompagnata in cappella. Mi avvicinai dove gareggiavano al bersaglio. Almeno una trentina di cacciatori dalle nove del mattino avevano iniziato il tiro coi loro fucili garibaldini. S’erano sistemati in una piccola macchia di querce che avevano in parte sfrondata per liberarsi la vista di un campo pianeggiante in fondo al quale erano stati infissi i bersagli. La posta in gioco era un agnello, ma l’accanimento era grande almeno quanto il vociare, quanto gli scherni e gli insulti che si scambiavano a vicenda. Il nonno, guardia campestre, stazionava lì a vigilare che non si eccedesse e ad intervenire nel caso in cui la situazione precipitasse. Non era, poi, solo; poco distante c’erano anche i carabinieri nelle loro divise festive e l’ordine era assicurato. I partecipanti alla gara non avrebbero smesso di sparare se non quando il sole si fosse coricato dietro il Bosco della Difesa. A mezzogiorno ci ritrovammo sotto il noce: era stata stesa già una bianca tovaglia e le donne rovistavano nei canestri tirando fuori posate e vivande. Ci sedevamo a terra in cerchio e consumavamo il nostro pasto. Gli adulti erano gli ultimi ad alzarsi. Noi, invece, nonostante la calura, correvamo sul pianoro erboso dove il venditore di noccioline americane aveva già piantato la sua baracca di telo bianco e al suo fianco s’era piazzato il venditore di lupini. In mezzo al prato un vecchio aveva scavato un piccolo fosso per seppellirvi un gallo dalle penne variopinte e lucenti, avendo cura di lasciare fuori lì a terra la sola testa rossa per la grossa cresta e per i bargigli penzolanti. lo non gradivo troppo quel gioco cui alcuni si accanivano: colpire con un grosso bastone, sebbene con gli occhi bendati, la testa di quell’ indifeso animale mi sembrava una barbarie ingiustificata in un giorno di festa. Mi colpivano quegli occhi minuscoli del gallo, spaventati e nello
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stesso tempo accorti a scansare ogni colpo che quando andava a vuoto sollevava tutt’intorno una densa polvere. Quando, poi, qualcuno assestava in pieno il colpo fatale e il gallo piegava la testa insanguinata tra gli applausi degli astanti e la soddisfazione boriosa del battitore, allora mi allontanavo, mortificato e nauseato. Mi rinfrancava di più il gioco innocente del tiro alle pignate dove la sorte poteva riservare qualche imprevisto e brutto scherzo ai partecipanti. Da una lunga fune, le cui estremità erano annodate a due pali infissi in terra, penzolavano una decina di pignate ermeticamente chiuse che luccicavano al sole. La gente si assiepava lungo la fune, guidando il giocatore bendato verso una posizione comoda e agevole per il tiro. E l’abilità nel colpire il recipiente di creta non sempre era premiata dal contenuto del recipiente. Mi incollavo a quello spettacolo per ore. Non appena il sole abbandonava quel sito si facevano avanti i pastori coi loro organetti e davano inizio alle loro tarantelle ritmate. Maneggiavano l’ organetto con padronanza e disinvoltura, spingendolo da una mano all ‘ altra, dal basso verso l’ alto e viceversa e spandendo nell’aria musiche antiche ossessivamente ripetitive, ma pur sempre piacevoli ed attraenti. Accorrevano d’ogni parte giovani ed anziani e si lanciavano in una danza sfrenata che si snodava in figurazioni diversificate sotto la regia di una voce accorta che “ comandava” i movimenti. Roteavano abbracciate le coppie, poi si disgiungevano, si davano lamano, si disponevano in fila, arcuavano le braccia, s’ intrecciavano in catene di strette di mano e al grido di “contrè” invertivano la marcia per poi riabbracciarsi e stringersi in un giro di tarantella. Erano capaci di andare avanti per ore intere in quei vorticosi giri che toglievano il respiro; le coppie spossate che si tiravano fuori erano subito rimpiazzate da nuovi e freschi ballerini. E la danza non finiva mai. Erano le anziane le danzatrici più resistenti, composte ed equilibrate nei loro movimenti. Il loro modo di danzare, tutto sincronizzato sui ritmi di quelle note primitive, ti richiamava alla mente la gestualità teatrale della drammaturgia greca, segno indelebile di un passato che lasciava traccia e che si tramandava generazione dopo generazione come un’ arte raffinata.
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Si ballava fino a quando l’ultima luce del giorno non fosse stata sopraffatta dalla sera e l’aria non si popolasse di migliaia di lucciole. In quel magico momento in cui la notte sembrava impadronirsi di quel luogo sacro, velocemente mi inerpicavo ancora una volta per la scalinata che conduceva alla Pietra e davo un ultimo sguardo alla Valle disseminata di una miriade di luci minuscole che vagamente brillavano come riflessi delle stelle di giugno. Si stagliavano sulle dorsali collinari arrampicate sulle pendici dei monti, i borghi antichi dell’Alto Sele. Umili custodi d’una storia ignota ai più che pure ha lasciato tracce e segni significativi nei dintorni. Mi avviavo, a quel punto, verso il mio paese stretto tra il monte e il fiume, correvo in discesa per raggiungere i miei già sulla strada del ritorno. E ogni tanto mi voltavo indietro a guardare la Pietra che incombeva e mi appariva come un gigante a guardia della Valle, del suo fiume e dei suoi abitanti.
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La cantina di Sichetto
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vevano da poco consumato la frugale cena e le donne erano tutte intente a sparecchiare la tavola: Maria ripiegava la tovaglia riponendola in un cassetto della cristalliera a muro; toccava quella sera a Graziuccia lavare quelle poche posate d’alluminio e la “spasetta” lucida ancora d’olio, nonostante fosse stata pulita da quell ‘ultima mollica buttata giu’ in un boccone con avidità dalla madre. I piccoli erano stati allontanati nella stanza accanto, obbligati a giocare a nascondino fintanto che non si fosse spazzato per bene il lastrico il padre, con un gomito appoggiato sulla fornacella, s’arrotolava il trinciato forte in una cartina ruvida, poi prendeva con le pinze un carbone ardente e accendeva la sigaretta. Dirimpetto a lui, sua moglie su uno scanno senza schienale, li’ seduta come una matrona a vigilare in silenzio sul lavoro domestico delle figlie e ad intervenire con decisione a correggere ogni minimo errore e a zittirle, se necessario. Ad un certo punto l’uomo anziano, stiracchiandosi sul “vango” s’alzava dal focolare e si dirigeva verso la porta. Sostava per qualche minuto sulla “loggetta” e poi giu’ per le scale a imboccare il vicolo illuminato dal chiarore di una luna che di tanto in tanto si celava diero qualche nuvola. Ancora quattro passi e si era in via Bovio sotto i lampioni da poco accesi dall ‘instancabile’ ‘Francisco” . Un altro pezzo di strada al buio, la cappella di S.Lucia, il tepore di un forno chiuso. Una breve fermata e poi a passo svelto, l’uomo avvolto nel mantello a ruota guadagnava velocemente l’ultimo pezzo di strada per entrare nella cantina di Sichetto. Con quella fuga finale non si voleva sottrarsi allo sguarNA
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do indiscreto della gente, dal momento che le strade erano a quell’ ora pressocche’ deserte; piu’ semplicemente era il tentativo di esporsi il meno possibile a quella corrente tagliente d’aria umida proveniente da Capodifiume e dalle sue sorgenti. Contrastavano quell’ aria gelida i vetri appannati della cantina riscaldata da una minuscola stufa di latta e piu’ ancora dall’affollamento del locale. La sua entrata dal vinaio era salutata, come l’arrivo di un capo, con tanto di alzata di bicchieri. Egli non si scomodava piu’ di tanto e con passo fermo si dirigeva verso il suo tavolino abituale, dove l’aspettavano i suoi compagni. Di li’ a poco il cantiniere, benche’ non chiamato, avrebbe portato “l’arzulo” di aglianico. Era solenne il portamento del cantiniere, soprattutto quando si trincerava dietro il massiccio bancone tra caraffe, brocche e bicchieri, tra piatti di acciughe salate, tra vasetti di olive all’ acqua e fusine di peperoni “alla composta”. Sembrava quasi un prete celebrante sull’ altare in mezzo a nere botti di rovere e lunghe file di bicchieri accannati alla parete sopra un acquaio livido di vino. L’ambiente non era dei piu’ accoglienti: seggiole di legno massiccio come quello dei tavoli, qualche specchio ingiallito piu’ dal fumo che dal tempo ed una stampa lyberty raffigurante una prosperosa donna con una bottiglia di verdolino in mano. Risultava illuminata da una lampada a “scisto” la sola parte del locale occupata dal bancone, il resto era nella penombra, tra l’altro gradita ai clienti tutti ricurvi sui bicchieri, impegnati com’ erano a discutere ed a bere. Una nebbia di fumo acre proveniente dalla stufa, dai sigari, da pipe e sigarette accese, si stipava nell’ aria, sospinta .. verso il soffitto incartato e chiazzato qua e là da macchie di umidità. In un angolo si giocava alla morra scandendo numeri e levando dita in aria, piu’ in qua ad un tavolo cinque o sei bevitori si cimentavano nel gioco nuovo del “padrone e sotto” inchiodando lo sguardo su diaboliche carte unte. La serata scorreva calma: a quell’ora non era scoppiata nessuna rissa e non era volato nessun ceffone. Buon segno ... Però, quel tavolo in fondo preoccupava non poco il cantiniere: si levava infatti un canto appreso
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nelle trincee della grande guerra e questo era il segno premonitore di un’ atmosfera che si stava deteriorando. “E’ ora! Si chiude! A chi l’ultimo boccale?” L’ultima corsa al bancone e poi ad uno ad uno, come complici che abbandonano la scena del delitto, ecco i clienti dirigersi verso la porta. Si riprendeva la strada del ritorno a casa: un sorta di stazioni della via Crucis. Il nostro uomo risaliva la stradina, barcollando a destra e a sinistra e gli apparivano sussultanti gli stessi tetti delle casupole a schiera. Istintivamente portava una mano alla testa e l’altra contro il muro quasi nel timore che esso, rovinando, lo travolgesse. Era atto abituale, quasi dovuto, cogliere nel silenzio anche il piu’ impercettibile rumore umano di qualcuno che si celasse dietro le impostedelle finestre a spiare. Un volta percepito il consueto abbaiare dei cani, il fruscìo dell’ acqua corrente della fontanina pubblica ed il sibilare del vento notturno, accelerava il passo malfermo e, ansimante ed imboccava il vicolo buio. La luna s’era seduta sulla casa rischiarando il solo tetto. Risaliva la scalinata, aggrappandosi al muretto e poi di nuovo sostava sulla loggetta. Uno sguardo al cielo scuro sgombro di nuvole e trapuntato di bianco. “Buon segno!“ pensava tra sé; poi spingeva la porta socchiusa e correva a sedersi sulla sua panca. Lì, di fronte, lo attendeva pazientemente e muta la sua donna che d’un colpo s’alzava, sbarrava l’uscio e poi si dirigeva a lume di candela nella stanza da letto. Di lì a poco sarebbe stata raggiunta dal suo uomo che ancora s’attardava a scrutare tra la cenere qualche carbone che a poco a poco si spegneva.
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Botteghe oscure
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hiamavano con sarcasmo “Botteghe Oscure” quella vecchia sezione del P.C.I. che si spingeva come una prua su Via Roma, a pochi passi dalla piazza dei comizi infocati. Erano due stanze, consunte da un’assidua presenza di compagni anziani che lì erano soliti trascorrere le ore serali e quelle presenze, assunte quasi come un obbligo, conferivano a quel luogo una sobria atmosfera di laboratorio politico. Non era ovviamente un laboratorio politico, quantunque nella stanza in fondo gli incartapecoriti ritratti dei padri del Socialismo italiano e sovietico stessero lì a vigilare e a ricordare che i sogni, i desideri e gli ideali della giustizia non potevano attendere il Cielo, lì a rammentare che la rossa bandiera prima o poi avrebbe trionfato. S’ avvertivano, però, la compostezza e la disciplina di un sodalizio che si era dato regole non scritte alle quali non intendeva sottrarsi. Era una specie di comunità stoica che non si curava del trascorrere inesorabile del tempo, che non sobbalzava più di tanto di fronte all ‘accumularsi delle ingiustizie patite. Si era ciechi all’ obbedienza, docili ai comandi romani e sempre pronti nel difendere l’errore che altrove commettevano e che ricadeva su di loro come il peccato originale. Era l’atteggiamento difensivo proprio delle comunità contadine votate a scegliere la vita in trincea come una risposta possibile. Così, in un ambiente paesano poco propenso a farsi contaminare dall’esterno, i caparbi comunisti di Caposele, un esercito senza generali, riuscivano a difendersi e ad avanzare e questa tattica a riccio scompaginava tutte le strategie degli avversari e tutte le furbizie di certi alleati. Negli anni 50 il duro scontro coi demoscristiani li aveva plasmati al più rigido senso di opposizione a quanti sapevano vivere solo all’ombra dello Stato. Ne avevano subito di angherie .. ! E se le portavano dentro come medaglie al valore e alla resistenza. NA
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Parlavano di pacchi UNRRA, di farina e maccheroni a loro negati e del loro orgoglio di mangiare cicorie. Ricordavano quando ai loro figli erano rifiutati i visti di espatrio verso le Americhe; quando partivano, come siluri, soffiate per impedire l’arruolamento nei Carabinieri.Allora zappare il terreno più duro, oltre che una necessità per campare, diveniva risposta rabbiosa e di classe a chi si riempiva la bocca di cristianesimo e di democrazia e un’ ora di comizio di Vuotto, di Grifone e di Amendola, dava sollievo a quel popolo muto che si stipava in Piazza Dante. Quei comizi erano una liberazione e davano la carica e la forza di tirare avanti per mesi nella durezza della vita quotidiana. Rinfacciare le bravate o i soprusi di certi signori, rammentare al parroco ch’ era un abuso pretendere censi feudali cancellati fin dai tempi di Crispi, dava tanta soddisfazione e valeva più di una messa cantata. Quelle voci tuonanti tramortivano i Don Rodrigo del tempo e i loro stupidi famigli e al tempo stesso tenevano accesa una speranza e il desiderio di una lotta antica come il mondo. Diventavano sopportabili, come inevitabile tributo da pagare, anche le espulsioni dall’Azione Cattolica delle figliè di comunisti e socialisti, allontanate alla stregua di appestate. Qualche volta, però, l’arciprete non se l’era cavata proprio bene. Sti comunisti, poi, non è vero che porgevano sempre l’altra guancia ... Era morto un vecchio compagno che era stato una colonna del partito, un esempio di vita e di militanza e i comunisti vollero ricordarlo alla grande, con la loro bandiera abbrunata e con una corona di fiori vermigli. A quella bandiera e a quei fiori fu ceduto’ il posto di riguardo accanto alla bara. Voci insistenti davano per certo che l’arciprete avrebbe sbarrato l’accesso in chiesa a quell’insolito corteo funebre. La cosa non preoccupò più di tanto il segretario di sezione e i familiari del defunto, anzi amplificò di più la notizia tanto da far accorrere moltissima gente dalle campagne. Infastidiva, invero, il pensare che si potesse vietare l’ingresso in chiesa di una bandiera, fosse pure rossa, quando, in occasioni pure recenti, bandiere candide, sempre e comunque di un partito politico, avevano ricevuto altro trattamento. Quando il corteo funebre giunse sul sagrato, fatto inusuale ma premoNA
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nitore, l’arciprete era lì sulla soglia, sotto l’alto portale di eietra, con le braccia allargate nella sua tonaca nera, a bloccare quella marea wnana. La piazza, dopo un brusìo, piombò in un silenzio; un uomo mosse verso il parroco. I due parlarono concitatamente ma senza che nessuno potesse cogliere nemmeno una parola del loro dialogo. Subito l’uomo si diresse verso i familiari del morto. Dopo un brevissimo scambio di parole, si levò nell’ aria la voce netta di una donna anziana vestita a lutto: “Al Cimitero!” Senza alcuna incertezza il corteo virò a destra giù per via Imbriani, snodandosi verso Corso Garibaldi. Un passo lento, fermo e convinto; s’avvertiva in quel corteo il dolore, la rabbia e l’orgoglio in un tempo: i sentimenti più contrastanti erano riusciti a trovare un difficile equilibrio e avevano saputo riempire un vuoto attraverso un atto che tutti assaporavano come segno di un superbo e paziente civismo. Eppure quei comunisti non avevano letto, nè saputo mai di Gandhi e della disubbidienza civile, di Lemn e della pazienza rivoluzionaria. La storia, le ideologie e le teorie le avevano vissute sulla loro pelle e la loro lettura del mondo era istintivamente effettuale ... Questi erano i comunisti di cui mi parlava mio padre. Mio padre era un socialista e io non capivo la sua ammirazione per i comunisti. Non era solo la malattia del frontismo a spingerlo a tanto; di certo lui, che si sentiva di appartenere ad una sorta di elite artigiana, riusciva a parlare bene più del P.C.I. che del suo stesso partito. “Vedi, mi diceva, io sono un socialista che non ha mai fatto tanta differenza tra P.S.I e P.C.I., perchè qui a Caposele siamo sempre vissuti come in una sola famiglia. semmai mi dà fastidio quest’imbroglio che chiamano centro-sinistra e che serve a dividerci e a fare il gioco dei democristiani. E poi, se proprio devo andare alla D. C. non c’è bisogno che ci portino gli altri”. E se tentavo di fargli rilevare la sua contraddizione sbottava: “Tutte balle! I comunisti sanno quello che vogliono e io voglio la stessa cosa e se il P.S.J. non cambia strada, la cambio io: Voto falce e martello, tanto prima o dopo nascerà pure il partito delle sinistre, dopo che la D. C. avrà distrutto il partito di Nenni”. NA
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Avevo su per giù sedici anni quando conobbi un vero comunista. Si chiamava Peppe e di tanto in tanto veniva a casa e si tratteneva con noi accanto al fuoco per ore ed ore. Inondava la cucina dì un acre fumo di pipa e parlava, parlava senza scomporsi, con una calma indescrivibìle. Raccontava di notti trascorse ad ascoltare Radio Praga, dell’ attentato ad un segretario di nome Togliatti e dello scatto d’orgog1io che pervase i comunisti d’ogni dove, pronti a scendere immediatamente in piazza. Parlava di un tradimento di Togliatti ch’aveva bloccato una rivoluzione possibile. Parlava della C.G.I.L. di Di Vittorio, di scioperi e di manifestazioni ad Avellino, di dirigenti provinciali che raggiungevano Caposele a piedi per metter su la Federterra. Quando, però, era colto in fallo, non rispondeva, ma si chiudeva in un mutismo che camuffava con un colpo di sonno. Non si arrabbiava nemmeno quando parlava delle angherie subite dai suoi, a causa della sua caparbia scelta di essere comunista, dei suoi figli sparsi in ogni angolo d’Italia in cerca di lavoro. Ritornava ad inorgoglirsi solo quando diceva che le pensioni, la scuola pubblica, l’assistenza medica erano una conquista del P.C.I. e non una concessione ... “Vedi”, mi diceva e io facevo finta di non capire, “io ho imparato a leggere e a scrivere in quelle poche ore di lezioni serali alle quali mi mandava mio padre. Ho strappato coi denti questo mio leggere sillabato alla scuola rurale di Palmenta, messa su più per pagare lo stipendio a qualche nobildonna decaduta che per insegnare a gente come me. Vedo ancora quegli occhi di vetro che sprizzavano disprezzo e mi bruciano ancor di più quelle bacchettate cariche di odio. E da ignorante, sono divenuto maestro tra gli ignoranti, insegnando a tanti compagni a scarabocchiare le loro firme, a copiare numeri, a distinguere figure e simboli, a calcare segni di croce utili nelle elezioni. Se non ci fossimo stati noi, dubito che oggi studieresti alle magistrali: il socialismo della falce e martello e libro per come sa lottare, e lo scudo crociato, per come vuole governare, al massimo t’avrebbero permesso di fare il fabbro come tuo padre. Noi Comunisti potremo pure non entrare nella stanza dei bottoni, ma sappiamo strappare conquiste anche stando all’opposizione; e questo basta”. NA
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Mio padre non parlava, ma gli si leggeva in viso la soddisfazione. Sentivo per la prima volta che quella umiltà e quella dignità sapevano farsi rispettare ed ammirare e che avevano forza più dell’ideologia stessa ... La prima volta che salii le scale della sezione P.C.I., assieme ad altri compagni fuoriusciti dal P.S.I., lo feci con riverente timore, pensando all ‘idea che mi ero fatto dei comunisti di Caposele. Ero curioso. Avevamo chiesto un incontro al segretario del P.C.I. e questo ci era stato concesso subito, alla grande, con una convocazione straordinaria del Comitato Direttivo. Nella prima stanza, dov’era sistemato il televisore, c’erano allineate alcune panche senza schienale e, in un angolo, una ingiallita poltrona di vimini stile coloniale. Era la poltrona di Angelo Raffaele, un non comunista che ogni sera era lì a guardare la televisione. Qua e là erano sedute una decina di persone, tra cui un paio di donne e alla nostra irruzione non si scomposero per niente. Dal buio di quella stanza ci trasferimmo nella seconda camera e lì ci trovammo improvvisamente in mezzo a una ventina di persone, per lo più anziane, pure esse s.edute su panche accostate lungo le pareti. Il segretario era seduto dietro un piccolo tavolo di noce addossato ad uno scaffale carico di libri polverosi: al suo fianco c’era il tesoriere. Non appena entrammo molti si alzarono in piedi a salutarci; solo qualcuno rimase seduto e scuro in viso: la sua recente iscrizione al P.C.I. e il ricoprire cariche amministrative gli conferivano uno status che gli permetteva di essere superiore ad ogni convenevole. In tutti quei vecchi compagni si leggeva la gioia e i loro occhi trasmettevano una commozione, quasi che si stesse avverando un evento atteso da tempo. In quel preciso attimo, stampati nella mente quei volti, capii che la nostra visita lì sarebbe stata una strada senza ritorno. Fummo fatti accomodare e, senza ulteriori preamboli, fu data la parola ad uno di noi. Gerardo, se non erro, parlò a lungo della nostra storia politica, dei nostri anni nel P. S.I., di quella prepotente voglia di fare, dei nostri venti anni che offrivamo ad un partito che avremmo voluto avere amico ed alleato. “Ma noi non abbiamo bisogno di alleati, disse il segretario freddan-
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doci tutti. Noi abbiamo bisogno di persone che prendano in mano da comunisti questa sezione comunista, che è la più forte della provincia. Noi abbiamo bisogno di leve fresche che vogliano lavorare in questa organizzazione costruita con tanta fatica e tanta pazienza. Noi vi saremo vicini: tutto sta a voi!” Ci guardammo in faccia, un pò imbarazzati per un copione che avevamo previsto ed immaginato in modo differente; avemmo a mala pena la forza di dire che dovevamo consultare alcuni compagni assenti e che a breve ci saremmo rivisti. E così mi ritrovai nel P.C.I.; è proprio vero che comunisti si diventa, e io aggiungo, quasi per caso. Quel mondo fino ad allora non conosciuto si apriva a noi nella sua schiettezza e nella sua umiltà. Era un partito che da sempre governava il Comune, ma non praticava il potere, fino a delegare ad altri il gusto del comando; era un partito al quale addirittura dava fastidio ricordare che essere forza di maggioranza quasi assoluta imponeva ruoli più decisi e coraggiosi nel governo del paese. Come guidati da un’ arcana saggezza, sembrava che si muovessero secondo una regola per cui la loro forza elettorale locale doveva essere necessariamente e inversamente proporzionale alla capacità di condizionare l’Amministrazione: e i voti politici, tantissimi, erano più importanti di cariche sindacali ed assessoriali, perchè congeniali ad un disegno nazionale utile alla lontana Roma e all’alquanto distante Avellino. E, allora, le candidature provinciali e nazionali erano cose di scarso interesse. Colpiva, ancora, quell’ ossessione dell’ assistere chi avesse bisogno, quel lavorìo incessante di formiche nelle ore serali, quella prodigalità nel mettere se stessi al servizio di quanti lo richiedessero. “E’ questa una delle ragioni della nostra forza: un funzionario del P. C.I, della Federterra, della C. G.I..L. vale, dicevano, se riesce a rendersi utile a quanti chiedono un aiuto che altri concedono solo a costo di una umiliante soggezione. Servire prima i cittadini e poi i compagni, obbliga chiunque a prendere atto della nostra diversità e a far comprendere che non siamo quei mostri che ci dipingono e che non meritiamo discriminazione nè a Caposele, nè a Roma” . Quelle serate di “acclimatamento” alla sezione comunista si rivelavano una miniera di conoscenze e, scavando scavando, venivano alla luce
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le storie individuali di ciascun compagno. Capivi che si diventa comunisti più per necessità che per raziocinio e avvertivi, pure, come i percorsi personali e familiari di ognuno fossero forgiati dalle ingiustizie subite in una società che non sapeva dare speranze. Ecco, allora, Rocco Iannuzzi con le sue esperienze di rivoltoso antifascista per quella dannata difesa delle acque che ogni vero caposelese ha nel sangue; la sua lezione a non fidarsi di nessuno e il suo appello per un lavoro rigoroso nel partito. “Bisogna fare il soldato, prima di fare il generale!” ci diceva bonariamente ma fermamente ogni qualvolta volevamo forzare la mano e i tempi per imporre i nostri punti di vista. “Abbiamo allevato questo partito con il latte degli uccelli” ci rammentava Tore Viscido, quando avvertiva che l’unità della sezione era in pericolo e che tutto potesse sfasciarsi da un momento all’altro. “ Ci vuole tanta pazienza” diceva Antonio Merola, vecchio partigiano titoista, quando voleva convincerci sul fatto che oltre la ragione e le idee, serviva anche la capacità di persuadere la maggioranza. E Raffaele Cibellis, sornione, taciturno, avvolto nel fumo della sua pipa, sempre lì pronto a sferzarci ad un lavoro umile prima di fantasticare su tattiche e strategie. E le certezze di Peppe Cifrodelli davano coraggio a chi era sul punto di stancarsi e lanciavano l’allarme affinchè non si tornasse indietro. Lo ricordo alternarsi nel racconto a Gelsomino Cuozzo e parlarci delle affollate assemblee con Pietro Amendola o di Pietro Grifone che si spingeva tra i casolari più sperduti, di un mitico milanese di nome Luciano, del compagno Vuotto. Parlavano di un giovane compagno di nome Stefano, meticoloso e puntuale nel suo lavoro come un orologio, e delle sue serate all’ Albergo “La Rosa” trascorse a ragionare di politica con Amerigo Del Tufo, Caprio e altri ancora. Si discuteva delle novità del momento, delle difficoltà e dei pericoli in agguato, della necessità di resistere in trincea in un’Irpinia condannata ad essere democristiana. E allora Caposele appariva, nei loro .ragionamenti, un’isola felice, un’oasi della sinistra. Quando s’accendevano quei ricordi, i narratori ci sembravano testimoni di una storia straordinaria e di un partito che non aveva eguali. E, allora, la nostra breve militanza nel P.S.I. appariva poca cosa e non poco condizionò i rapporti coi nuovi compagni.
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Erano state aperte a noi tutte le porte possibili, però quel passato, nei momenti di aspro scontro, ci veniva puntualmente rinfacciato. Certo, perduto il pelo, non perdemmo l’antico vizio socialista e, insieme alla voglia di cambiare tutto e subito, introducemmo il principio della differenziazione come metodo di lotta politica in un partito che non consentiva che fosse infranta l’unità. E fummo più di una volta salvati da quei panzer della Federazione cresciuti attorno ad Antonio Bassolino. Da D’Ambrosio, Fierro, Simeone, Enrica Rocco imparammo che la stagione più esaltante del P. C.I. irpino doveva smuovere pazientemente le acque, ma mai scatenare pericolose tempeste utili alla potente D. C. avellinese. Ricordo le battaglie referendarie, le provinciali del ‘74, le amministrative del 1975. Alcuni di noi vissero l’esperienza consiliare per un quinquennio. Anni di scontro dialettico mai condotto oltre i limiti e le regole della politica. E in quegli anni scoprimmo, dopo averlo aspramente combattuto, il Sindaco galantuomo, che altri ci avevano insegnato a demonizzare, e di cui apprezzammo l’intelligenza, la dedizione, il vincolo all’onestà e la forza formidabile di saper assumere ogni responsabilità, personale o morale che fosse. Crescemmo politicamente in quegli anni, sotto l’occhio vigile e discreto di quella sezione e di quei compagni. E vivemmo, con quei compagni, l’amara sconfitta del nostro partito nel 1980. Furono mesi terribili che consumammo in un indescrivibile silenzio assieme a quei compagni che non avevano mai conosciuto sconfitte domestiche. Poi, il terremoto ... quasi a marcare la chiusura di un’epoca.Un sussulto tremendo di un minuto e mezzo sbriciolò in un batter d’occhio l’antica prua su Via Roma. Fu un’ ecatombe, di quelle che capitano a chi caparbiamente vuol tenere aperta la sezione ogni sera, di quelle che capitano a chi crede che nonostante tutto i partiti siano importanti. Non c’erano, quella sera, gli ammiragli: una riunione di direttivo rinviata all’ultimo momento, li aveva trattenuti altrove. C’erano solo i soliti marinai a discutere del più e del meno. Si disse che scavarono con le mani tra quei cumuli di pietre e calcinacci, inseguendo voci doloranti di compagni che abbracciavano i corpi esanimi di compagni ch’ avevano accanto.
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Il mattino seguente mi spinsi verso quel sito: i marciapiedi ospitavano, come un sacrario, otto corpi dal volto intriso di sangue e di polvere, mentre alcuni giovani inchiodavano rapidamente delle tavole a mò di bara. Di buon’ ora era stato visto lì aggirarsi, in una commozione indicibile, un giovane di nome Bassolino: s’era chinato e aveva raccolto tra le macerie brandelli d’una rossa bandiera ricamata in oro e alcuni quaderni contenenti verbali di direttivo. Chiedeva a dei passanti di noi e del suo partito, di soccorsi non ancora giunti, della necessità di rimboccarsi le maniche di fronte ad uno Stato che aveva fallito. Preannunciava l’arrivo di centinaia di volontari ... Spuntavano tra quelle macerie i legni squarciati dello scaffale e della scrivania, la vecchia poltrona di vimini, qualche panca, pezzi di soffitto tessuto di canne. Le vecchie bandiere rosse accuratamente riposte nello stipo a muro, erano ora infisse qua e là e si srotolavano al vento. Quel luogo era vissuto con la devozione di un santuario, mentre i vigili del fuoco erano intenti nel loro lavoro. Un luogo da rispettare per i comunisti. E lì si fermò con orgoglio il compagno Fernando Di Giulio; lì si attardò silenzioso il compagno La Torre con lo sguardo inchiodato a quel disastro e con la mente volta al Belice. Lì, infine, volle trattenersi Berlinguer in un assolato pomeriggio di febbraio, accolto da una folla enorme, mentre col cuore in gola Donato Mazzariello gli porgeva il suo saluto a nome di quei formidabili, vecchi compagni di Caposele.
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Il mio Natale
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ià ai primi di dicembre cominciava il conto alla rovescia dei
giorni che mancavano al Natale. E così rimanevi, per ore ed ore, con lo sguardo incollato al calendario che penzolava alla parete dell’aula, dietro alla cattedra. Misuravi l’appropinguarsi dell’evento dal crescendo di decorazioni che inghirlandavano ed impreziosivano quello stanzone. Era lungo e faticoso quel rito che si ripeteva anno dopo anno e spesso ti chiedevi a cosa servisse quel puntiglioso indaffararsi, se poi la scuola sarebbe rimasta chiusa per una quindicina di giorni. Era, invece, certo e scontato che alla ripresa delle lezioni, tutti quei ghirigori di carta velina, quei nastri colorati e il presepe affondato in un muschio ammuffito, ti avrebbe addirittura infastidito. Il piacere dei ricordi non è mai intenso e gradito quanto quello dell’attesa di una ricorrenza. Nel chiuso dell’aula si lavorava alacremente per almeno quindici giorni a rimpinzarsi di nenie e filastrocche, di amene poesiole zeppe di zampogne e di angioletti. Che fatica! E tutto in attesa di una improbabile visita del Direttore. Ricordo che un anno il maestro si spinse un pò oltre, per dare un tocco di novità e originalità, con il Natale di Ungaretti che ci lasciò un pò d’amaro in bocca, pensando che avremmo dovuto spiattellarla a tavola nel giorno del Natale. Ma subito si corse ai ripari con la solita Milly Dandolo... A quei tempi dicembre non scherzava, era serio e in linea con le previsioni di Barbanera; freddo secco, vento gelido di montagna e neve, a giorni alterni, ad imbacuccare i cocuzzoli circostanti. NA
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A pensarci bene la neve, però, era un chiodo fisso specialmente negli ultimi giorni di vacanza; in fondo si sperava di rimanere a casa anche dopo l’Epifania... ma questo non accadeva quasi mai. Accadeva sempre, invece, che il 23 dicembre era una giornata scolastica tutta dedicata ai commiati e agli assegni di compiti. C’era un gusto inconfessato di tortura in quella montagna di compiti che puntualmente non erano del tutto svolti e che, al rientro, puntualmente non erano corretti: essi servivano solo a conquistarsi “sul campo” qualche scappellotto per avere infranto un ordine tassativo, ma a nient’altro. Il ventitrè aveva un fascino particolare; di certo era più bello, per sensazione, della stessa giornata di Natale, tanto erano le attese accumulate. Il Natale a Caposele, a quei tempi, non aveva bisogno di marcati segni esteriori per caratterizzarsi. L’albero, ad esempio, era una stravaganza urbana bella e buona, di cui si sentiva parlare confusamente: una stupida usanza di chi distruggeva piante per il solo gusto di distruggerle rinunciando ad un’utilità futura nota solo a chi consumava quintali e quintali di legna durante il rigido inverno. E meno che mai si sapeva che cosa fossero i festoni, le stelle filanti e le palline di vetro. Eppure il Natale lo avvertivi nell’aria; ti si appiccicava addosso coi suoi profumi, i suoi aromi inconfondibili, i suoi odori naturali, i suoi colori stagionali. A me piaceva affacciarmi di tanto in tanto nella bottega-emporio di Titina per dare un’occhiata alle statuine di terracotta. Erano statuine molto approssimative ed incerte nel modellaggio, dai colori opachi, spenti e stemperati. Erano messe lì, alla rinfusa, accatastate tra casette di cartone in una scansìa di legno, tutta sgangherata e stretta tra sacchi di fave secche e sacchi di zolfo. In quel disordine, però, riuscivi ad abbozzare con la fantasia l’idea minima di presepio che ti saresti potuto permettere. Di tutt’altro aspetto e fascino ti appariva quello allestito nella Chiesa Madre... ricordo... esso occupava l’intero angolo della navata laterale a destra dell’Altare Maggiore. Il suo valore scenografico era pressocchè irrilevante per il sovraccarico di cartone, muschio, licheni, pungitopo e vischio e per quell’abbondare di paglia, stoppie e brecciolino. Non reggeva minimamente al paragone di quello allestito dai Liguorini di Materdomini. NA
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A Materdomini c’era la mano esperta e paziente, una visione artistica di quei cieli trapuntati di stelle, del gioco di albe e tramonti... i mulini ad acqua, le cascatelle, fiume e mare luccicanti e tremolanti; i tanti pastori in movimento e gli angeli di cartapesta librarsi misteriosamente in aria su una capanna attraversata da una luce soffusa... No, quello di Caposele risentiva della mano inesperta e pesante del vecchio sacrestano al quale, anno dopo anno, per inerzia e consuetudine, era delegata la improcrastinabile incombenza. Quei materiali poveri, assurdamente anonimi ed infantili, quasi da paesaggio irreale della pittura fiamminga del fine 500, se colti nella loro globalità finivano per esaltare e dare una ragione di esistenza alle numerose statuine del settecento napoletano che affollavano la scena. Le ho tutte stampate nella mente, una per una. Quello sì che è un Natale che mi manca; chissà in quale casa esse ornano vetrine di salotti perbene. Chi dimentica i loro volti scavati nella terracotta, i sottili crini di seta celati sotto raffinati copricapi, le mani e i piedi minuti, quei corpicini imbottiti di paglia, stretti in ricchi broccati e cuciti con fili d’argento e d’oro, i velluti, le camiciole di lino e di canapa... Mancava loro solo la parola: gli occhietti lucidi, le rughe e i larghi sorrisi davano voce al loro silenzio. Qualche volta mi capitava di immaginare che, di notte, nel chiuso della chiesa, quando le porte erano sprangate, esse, come i soldatini di Andersen, ritornassero a vivere, si muovessero, ragionando tra loro e gioissero per quel ritorno sulla scena seppure per qualche settimana...
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l segno del Natale imminente mi era dato dal verificarsi di due puntuali eventi. Verso il 15 arrivava la lettera dello zio d’America con dentro un pò di dollari per tutti. La mamma, subito, la sequestrava, rimandandone la lettura alla sera: solo allora avrei saputo quanti dollari mi aveva mandato lo zio, ma, come una sorta di cambio fisso, a me toccavano quasi sempre mille lire. Ma ancora di più mi convincevo che la festa era alle porte, quando lo zio di Eboli mandava cassette di arance e mandarini, bottiglie di liquori e pacchi di spaghetti e vermicelli. Facevo a gara con i miei cugini a scovare in quelle cassette le arance maltesi. NA
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Era, inoltre, divenuto un rituale consolidato negli anni, la raccolta delle olive che, pur essendo un’attività tutt’altro che legata al Natale, coincidendo con quel periodo finiva per esserne parte integrante. Ogni sera, per circa un mese, i coloni trasportavano nei sacchi tomoli e tomoli di olive che, riversate sul lastrico, venivano voltate e rivoltate fino al giorno della spremitura. Montagne di olive lucide e gonfie nell’umido della cantina spandevano nell’aria un aspro odore. Era un lungo mese di agonia per quegli umili frutti, perchè era consolidata la convinzione che quel lungo compostaggio fino all’infradiciamento fosse utile ad una completa maturazione di quel prodotto e ad una migliore e maggiore resa d’olio. S’andava al “trappeto”, anche questa era un’abitudine, sempre tra Natale e Capodanno, quasi a propiziare l’abbondanza del raccolto e la soddisfazione per un lavoro ch’era stato duramente ricompensato. In quei giorni s’era tutti un pò più buoni e allora era forte l’augurio che il prezzo dell’olio che si formava “alla voce” fosse soddisfacente e remunerativo.In quell’olio c’erano riposte le speranze di tanti contadini i quali confidavano nel ristorare le loro magre finanze. Leggevi spesso nei loro sorrisi “tirati” i sentimenti di rabbia e di amarezza repressi dentro e t’era chiaro dai loro sguardi che il Natale lacerava le coscienze e depauperava gli animi dal senso di serenità e di pace di cui, a parole, tutti s’ubriacavano. Toccavi, allora, con mano la tensione di chi vi aveva consumato fino allo stremo ogni energia e di chi si faceva scudo dell’incontestabile diritto di proprietà. L’olio era un pò per tutti virtuale moneta di scambio in un’epoca in cui non si conoscevano pensioni, stipendi, salari e tredicesime. Quell’olio non si sperperava nè si disperdeva nei molli meandri di un consumismo allora ignoto: il suo ricavo era l’entrata certa di un lucido piano di economia domestica che, nelle sue uscite fisse, preventivava somme per pagare focatico, contributi agricoli, casse mutue. Altro che abbigliamenti e trasgressioni alimentari per celebrare una ricorrenza!... Il Natale aveva regole ferree tutte ancorate in una sorta di autarchismo che non ammetteva spese e acquisti, tutto doveva muoversi nell’ambito delle quattro mura e delle provviste di casa... NA
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a grande cerimoniera del Natale era ovviamente la nonna; era lei e solo lei il punto di riferimento di ogni componente familiare, a lei ci si rapportava per ogni decisione e per ogni azione quotidiana. La settimana precedente il Natale era un via vai di amici, parenti e conoscenti che portavano in segno d’augurio i doni più disparati. Tra i doni di Natale erano i polli, le galline e i capponi a farla da padrone; qualche agnello e tante uova. Era sempre la nonna a decidere quali di questi animali andavano dirottati nel pollaio e quali trattenuti insieme allo sfortunato agnello per il pranzo del 25. Stessa sorte toccava alle uova: una certa quantità veniva conservata nella calce, il resto destinato ai dolci. Quando venivano tirati fuori dalla dispensa barattoli di miele, la cannella, i chiodi di garofano, era chiaro che l’intera giornata sarebbe stata impegnata a fare dolci e biscotti. Come in una catena di montaggio, ora dopo ora si susseguivano i vari impasti: prima i taralli, poi i “pezzetti”, gli amaretti e via di seguito; infine le zeppole e gli struffoli, fritti e riposti in ampi piatti piani su cui si versava un odoroso miele biondo. Si era, ormai, alla vigilia ed il grosso delle fatiche era fatto. Lavorava, invece, fino a mezzanotte ed oltre la fornaia di via Santorelli in quel terraneo infuocato come l’inferno; infornava e sfornava montagne di dolci, pizze alle acciughe e ancora taralli. Era sfinita e grondava di sudore il suo viso arrossato e quasi lesso. Il suo lavoro in quelle ore non conosceva soste e il suo stomaco vuoto non sentiva la fame. Il suo unico sollievo era sedersi per qualche minuto sullo scalino esterno ed asciugarsi quei rivoli che le rigavano il volto: non avvertiva per niente la sferza del vento gelido che veniva giù per il vicolo come torrente in piena. Quel tagliente refrigerio le faceva dimenticare per qualche istante lo stanzone nero di fuligine che luccicava alle fiammate che di tanto in tanto fuoriuscivano dalle bocche del forno. Le campane di mezzanotte l’avrebbero colta spossata e priva di emozioni e solo desiderosa di andarsene a letto e appagarsi in sogno al pensiero che i guadagni di quei giorni avrebbero dato di che sfamare la numerosa famiglia. Si accomiatava, però, solo dopo aver caricato di pane e di dolci i poveri vagabondi che l’attendevano in atto di elemosina sull’uscio del forno: il suo discreto atto di generosità, testimone la luna, avrebbe dato un senso a quell’umile Natale degli indigenti. NA
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oi, intanto, fin dalle sette di sera eravamo già a tavola: si era almeno in venti. C’eravamo tutti e il primo pensiero andava a chi era nelle lontane Americhe. Poi, quella mensa, per un lunghissimo minuto era la tavola eucaristica che rinnovava la memoria di tempi più felici e che s’immaginava la presenza invisibile di chi non c’era più e che avremmo voluto accanto a noi. I grandi prendevano posto attorno al tavolo ovale, stipati come sardine, e i piccoli si sedevano intorno alla “buffetta” su degli scanni bassissimi. La tavola si arricchiva, minuto dopo minuto, delle portate: vermicelli al capitone, spaghetti alle alici, baccalà fritto, trote, peperoni all’aceto, frittelle di pasta lievitata (le chiamavamo rospi) e per finire struffoli, taralli da inzuppare nel vino bianco, frutta secca, castagne infornate, lupini. Ci si tratteneva fino a tarda sera a discutere, a raccontare, a ridere e scherzare. “E ora giochiamo a tombola”! Era il segnale per sparecchiare in tutta fretta la tavola e per lavare pentole e piatti. Tutto avveniva in un baleno. A quel punto gli uomini con le fiaschette di vino si ritraevano accanto al focolare e le donne e bambini si incollavano al tombolone, cartelle e mucchi di fagioli. Si stava sempre con l’occhio vigile per pescare qualcuno che barasse e con l’orecchio teso e attento al primo rintocco di campana che chiamava alla messa di mezzanotte. A quei rintocchi non c’era verso per trattenere le donne che frettolose si stringevano nei loro scialli; dopo aver affidato i bambini alla nonna, si riversavano in strada, nella speranza di giungere per prime in chiesa e guadagnare le panche migliori, quelle al riparo dalla fredda corrente notturna. Quell’ora era attesa da noi bambini come una liberazione. Si correva nelle stanze da letto e al buio si giocava a nascondino: la nonna non ci avrebbe mai sgridato o tentato di fermarci. I nostri nascondigli preferiti erano l’armadio a muro, il letto, la cuccia del cane. In pochi minuti si metteva tutto sottosopra. Non rinunciavamo mai a quel gioco, anche se sapevamo che al rientro delle nostre madri, tutto si sarebbe risolto in sonori ceffoni per i primi malcapitati.
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Arrivava, poi, l’ora della stanchezza e ci si addormentava sui sofà, sui cassoni e sui caldi scalini di legno... In fondo era questo il mio Natale ed il Natale di tanti altri come me. Esso nasceva e spirava in quelle poche ore, precedute dalle fatiche di quasi un mese. La giornata del 25 non ci interessava tanto; a ben ricordare era noiosa con tutti quei convenevoli, quelle strette di mano e quegli abbracci. No, era il 24 il vero Natale, con le attese e le speranze, la gioia di riuscire a colmare i vuoti, tutta quell’atmosfera semplice, irripetibile, quel mondo rurale di favola, quell’intrecciarsi di discorsi e ragionamenti. Il Natale era nel senso sociale della famiglia che quella notte rinnovava i vincoli di affetto e di serenità, bandendo tristezze, livori, cattiverie e spavalderie. Era un Natale di favola che esaltava il valore dell’umiltà in un’umanità che non voleva perdere le sue radici e che per una notte si riprometteva di non ascoltare le modernità che si facevano strada. Caposele ti sembrava bella dal di dentro, come sa esserlo un’anima incontaminata in un corpo indiscutibilmente affascinante. Natale era un focolare acceso e un mandarino asprigno, leccarsi le dita intinte nel miele o correre all’impazzata per un lunghissimo minuto con un “frùulo” che sprizzava tante scintille bianche.
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Il cielo era tappezzato di stelle
“Entri, entri, Don Fedele e si accomodi!” L’arcivescovo pronunciò queste parole con un tono grave, ma incerto, quasi a tradire il disagio per l’ufficio al quale era chiamato. Egli, poco meno che settantenne, avrebbe di certo dovuto richiamare e bollare un ultraottuagenario per un comportamento che aveva ferito la Chiesa. Era giunto in paese ben presto di mattina, accompagnato da un suo collaboratore che fungeva da segretario. Dopo qualche convenevole scambiato in canonica con l’arciprete, s’era installato nel salone e quasi a cadenza di un’ora aveva ricevuto ed ascoltato il clero locale, incluso l’arciprete, ovviamente. Le audizioni erano interrotte dall’irruzione nel salone della sorella dell’arciprete, una sorta di maitresse che di tanto in tanto si introduceva lì con caffè, biscottini, bottiglie d’acqua o di liquore, sbirciava intorno, folgorava con sguardi penetranti i convocati e poi riguadagnava frettolosamente l’uscita. La cosa incominciava ad infastidire il prelato per cui, fu inevitabile che egli, prima ancora che Don Fedele entrasse, esigesse di non essere disturbato per nessuna ragione, come dire che cessassero quegli andirivieni esplorativi. “Si accomodi, Don Fedele, si accomodi!” ripeté l’arcivescovo. Il vecchietto, dalla sagoma minuta, ricurvo sotto il peso degli anni e dei tanti acciacchi, si sedette, scrutando la volta e le pareti del salone con la curiosità di chi non fosse stato mai avvezzo a frequentare quell’ambiente che pure avrebbe dovuto essere a lui familiare per avervi trascorso in un modo o l’altro parte significativa della sua esistenza. “Bel tempo, Don Fedele! In questi principi di maggio la primavera è esplosa in tutto il suo splendore e così ci ha fatto dimenticare la durezza d’un inverno che sembrava non finire più. Come si fa a non dire che in quest’ordine non ci sia la mano previdente del nostro Dio Padre che organizza tutto in una successione a lui solo nota e che noi percepiamo ed apprezziamo solo negli effetti...”Mentre l’arcivescovo si crogiolava in NA
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queste riflessioni, Don Fedele navigava col pensiero altrove, attendendo prima o dopo di approdare al dunque. “Che mi dice, Don Fedele? Non è d’accordo?” proruppe il prelato. “E come non potrei non essere d’accordo? Dall’alto dei miei 86 anni queste considerazioni hanno ricevuto conferma anche dall’esperienza e su un punto sono più d’accordo che su altri: la Provvidenza divina disegna i percorsi degli uomini e delle cose con una finalità che non può essere che positiva ed accettabile in quanto proviene da Dio...” disse don Fedele. “Ma veniamo a noi...” disse l’arcivescovo “Come ella ben sa, noi ci siamo recati qui di buon’ora per adempiere ad un compito increscioso ed in parte doloroso, il quale esula dalle normali incombenze delle visite pastorali, alle quali un rappresentante di Cristo sulla terra ambirebbe essere chiamato. Noi non siamo qui per visitare il generoso e amatissimo gregge caposelese, della cui cura noi siamo sempre in fiduciosa apprensione, ma per visitare una volta tanto, i suoi pastori, i custodi del gregge e per verificare la loro tenuta, la loro dedizione, il loro impegno, le loro solide convinzioni. Noi crediamo che non si tratta tanto di capire quanto piuttosto di impartire inequivocabili direttive chiamando tutti ad osservarle e a praticarle, dopo i fatti incresciosi verificatisi; ... Come ella ben sa, la Chiesa di Caposele ha subito un oltraggio, o se vuole, un’offesa ed un torto gratuito. E quello che è più grave quest’oltraggio, per una sorta di fenomeno di risonanza, s’è riversato sull’intera Chiesa cattolica, apostolica e romana, minandone la sua rocciosa credibilità e offuscandone l’immagine in tempi di per sé già difficili ed incerti. L’Ecclesia romana ha la sua essenza nella parola di Cristo che deve essere tutelata in ogni tempo e in ogni luogo, affinché non ne sia indebolito il suo messaggio e la sua forza di penetrazione. Questo patrimonio immenso di cui non tutta l’umanità ne apprezza il valore, ci è stato detto, deve essere difeso sempre e sempre attestato sul principio di autorità conferito dal Figlio dell’Uomo ai suoi apostoli di ieri e di oggi. Tu es Petrus... Ricorda? Attaccare questo principio basilare, strutturale significa minare il fondamento su cui è edificato il tempio di Dio, sapendo che il fine del Demonio è fiaccare i pilastri di questa organizzazione, affinché essa rovini sui suoi ministri e li elimini, inaugurando una stagione di proselitismo all’insegna dell’antievangelizzazione. I nostri sono tempi duri in cui l’ateismo si combina con le più varie forme di razionalismo,
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di storicismo, perfino di spiritualismo spericolato e inietta veleno e dubbi in quel gregge senza del quale noi non saremmo pastori... Sarebbe la fine, don Fedele, se noi con i nostri atteggiamenti, con i nostri comportamenti, con la nostra liberalità ci prestassimo ad essere strumenti inconsapevoli di un disegno demoniaco... Vede, ad esempio, con quanta superficialità e, direi, malignità un pretore scagiona dei facinorosi che hanno trasformato una processione in una rivolta tumultuosa, facendo pagare il prezzo di una tale ignominia ad un ministro di Cristo, il nostro e vostro beneamato arciprete? Noi non vogliamo capire il come, il quando o il perché, quello che oggi è sotto i nostri occhi è la devastazione d’immagine che la Chiesa riceve da una sentenza che è causa di odio e di pregiudizio anticlericale. Questo Stato italiano ne ha fatti di passi avanti per reprimere le pericolose devianze affacciatesi all’inizio di questo secolo, ma non ha ancora sufficiente coraggio nel liberarsi di questi cancri interni al suo corpo che lo aggrediscono e lo distolgono dalla sua difficile ma non impossibile opera. Abbiamo l’impressione che il Fascismo non si sia liberato del tutto di certi vizi liberaleggianti che veicolano attraverso il laicismo pericolose teorie solo apparentemente innocue. Non sono solo il Socialismo e l’Ebraismo i mali da estirpare in questa Italia, ce ne sono alcuni più sottili ed impercettibili, spesso solitari che infestano il corpo sano della Nazione e che ostacolano la purificazione”. Don Fedele, con lo sguardo fisso a lui, ma assente, era, per così dire, impietrito. Non lo sconvolgeva tanto la scoperta di un pensiero prevalente che, per anni, s’era immaginato ed aveva colto per intuizione, quanto piuttosto quella notificazione in forma diretta ed immediata che costituiva di per sé già una sentenza di condanna. E pensava tra sé e sé: “Come si fa a dire che la giustizia umana sia sommaria ed incerta, se questa pronunciata dai ministri di Dio sulla terra, non ammette nemmeno atti istruttori? Qual è il senso di una punizione o di un pentimento, se la benedizione e il perdono, sono atti dovuti che prescindono da qualsiasi considerazione utile a capire i percorsi della mente umana e la sua materializzazione in atti e comportamenti?” Gli si pararono innanzi agli occhi, come un film, i fotogrammi della sua vita, i suoi dubbi, le sue incertezze, la sua benevola attitudine a comprendere le ragioni altrui. E si scandivano, a ritmi serrati, i tempi di una
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un’intera esistenza consumata ad interpretare i valori di un Vangelo in cui Cristo era innanzitutto Amore, e Perdono... Pensò per un istante: “Dio mio, ho sbagliato tutto. Non ho capito niente. Si può essere eretici essendo atei e atei essendo credenti! Ma che gli dico a questo? Mi batto le mani sul petto. Faccio atto di contrizione, gli prometto di starmene buono, buono per quest’altri anni che mi restano e poi corro ad abbracciarlo in lacrime? Cristo, perdonami; chi avrebbe mai immaginato che alla soglia della morte, mi sarei beccato questa predica, sotto gli occhi di quello sbarbatello che scrive, scrive, scrive. Ma che scriverà se io non ho detto una sola parola?” Gli frullavano nella testa tutti questi pensieri ed altri che si accendevano e spegnevano come lampi, il cuore sembrava esplodergli e assieme al cuore la testa. Sentiva che i suoi occhietti neri roteavano come biglie. Ma non gli usciva una sola parola. Lo assaliva uno stato d’impotenza e di paralisi, si sentiva quasi inchiodato su quella poltrona. Una benedetta processione aveva scatenato un cataclisma e quel suo fottutissimo vizio di ricercare in ogni cosa una ragione lo aveva cacciato in un vicolo cieco che non s’era mai immaginato di imboccare. Vedi quanto costava difendere quattro squinternati contro un arciprete che si inebriava spesso delle sue funzioni, senza mai affidarsi al buonsenso e alla pazienza? “Don Fedele, Don Fedele, ci scusi, ma noi la vediamo assente. Non vorremmo pensare che abbiamo fatto tanti chilometri per nulla? Le dobbiamo confessare che, salvo la puntuale e puntigliosa relazione dell’arciprete, gli altri membri del clero caposelese non si sono spesi in lunghe elucubrazioni, ma quantomeno, ci hanno assicurato di condividere le nostre preoccupazioni, i nostri punti di vista, le nostre esortazioni... Ma lei sembra, per così dire, ammutolito, chiuso in un silenzio impenetrabile che non tradisce né atti di contrizione, né difesa dei suoi comportamenti... Noi non posiamo rimanere più qui in paziente attesa per molto altro tempo...” “Eccellenza amatissima, vi chiedo scusa”, esordì Don Fedele, “ma io ho una certa difficoltà a seguirvi nei ragionamenti, perché, vi sembrerà strano, mami sono ignoti gli atti di riparazione ai quali mi chiamate, ammesso che io debba riparare a qualche torto commesso. Io non so a questo punto nemmeno se mi chiediate che io esponga i fatti per come li ho vissuti e percepiti nella loro dinamica; non so nemmeno se è utile ed
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opportuna l’esposizione al punto in cui siamo arrivati e per come voi avete già anticipato il vostro giudizio sul fatto. Di una cosa sono certo: io non ho arrecato alcun nocumento alla Chiesa che ho sempre servito con dedizione, per tanti, troppi anni. E alla mia veneranda età credo d’avere chiari sia gli insegnamenti della Chiesa sia il senso dell’obbedienza all’autorità e alla verità. Come in ogni processo che si rispetti, Eccellenza, una difesa eventuale deve essere anticipata da una contestazione, perché, voi me lo insegnate, non usciremmo da alcun equivoco se, fosse pure formalmente, non rispettiamo un canone... Vedete, Eccellenza, anche la tanto vituperata giustizia laica dello Stato italiano, almeno nelle procedure è impeccabile, sugli esiti e sulla sostanzeapotremmo anche non essere d’accordo ma, le ripeto, la forma qualche volta è sostanza. Non ricordo chi lo ha detto, ma se non mi sbaglio è roba nostra.” L’arcivescovo strinse vistosamente i denti, incrociò nervosamente le dita e alzandosi in piedi proruppe: “Veda, Don Fedele, noi siamo più che rispettosi della sua veneranda età, la Chiesa è stata sempre comprensibilmente generosa verso i suoi figli che hanno speso una vita al suo servizio, ma, mi creda, la nostra non è una società tribale che affida il giudizio e il senno ai soli anziani. Noi abbiamo una struttura piramidale in cui autorità ed obbedienza si combinano in un rapporto di subordinazione della seconda alla prima. Noi non abbiamo inteso chiederle e non le chiederemo cosa sia accaduto nel giorno del Venerdì Santo, perché cosa è accaduto è a noi noto, per i canali che riteniamo più opportuni. Quello che preme a noi sapere è se ella condivide o meno il principio del rispetto e dell’obbedienza ai propri superiori che è cosa differente dal giudicare fatti accaduti che noi, per puro spirito di adesione a quella che ella chiama contestazione di addebito, le esporremo, affinché ella non si faccia un’idea sbagliata della nostra missione. Lo scorso Venerdì Santo, come di consueto, le funzioni religiose sarebbero dovute culminare con la processione della Vergine Addolorata e del Cristo deposto dalla croce, statue bellissime, caro Don Fedele! Quel Cristo con gli occhi sbarrati nell’attimo successivo all’esalazione dell’ultimo respiro, tutto adagiato in bianchi lenzuoli-... E poi quella Madonna così espressiva stretta nelle sue vesti a lutto ricamate in oro, trafitta da spade e pugnali, con i suoi occhi grondanti di lacrime e dolore rivolti al cielo ...
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Che suggestione unica. Capisco l’emozione e l’attesa dei Caposelesi di unirsi in fiumana umana appresso a quelle statue e poi il lento procedere ritmato dai colpi dei “tocchi” e dall’alternarsi di voci femminili e maschili che gareggiano nel canto mesto che si confa a quelle occasioni. E poi le luci suggestive dei lampioncini che proiettano le loro lunghe ombre nei vicoli strettissimi del paesino, in questo presepe divorato da frane e circondato in ogni dove da rivoli d’acqua, un paese che sa essere anche Calvario... Si, questo è i1 coro classico in cui la processione è essenzialmente preghiera e pentimento, depurato dalle gioie e dall’ilarità di altre feste ove è facile debordare dalla devozione verso un irriverente atteggiamento paganeggiante. Capisco tutto questo, ma il caso ha voluto che quel Venerdì Santo è stato particolarmente piovoso, qui come in tutta l’Irpinia, e che la sera, seppure a sprazzi si squarciasse il cielo con pezzi di sereno, le nuvole non mancavano, nuvole cupe, cariche di altra acqua, nubi che non lasciavano ben sperare sebbene il vento della valle promettesse che il peggio era passato. In questo le concediamo che i contadini sono dei bravi metereologi. Avrete pure notato dopo la messa, le consultazioni frenetiche dell’arciprete che chiedeva che fare agli altri sacerdoti, quell’andirivieni sul sagrato a scrutare il cielo, quelle capannelle col popolo minuto, tutt’altro che concorde sull’evoluzione del tempo... Stiamo dicendo la verità, Don Fedele? L’ora avanzava e nulla si decideva... E’ vero che i Caposelesi sono abituati ad orari assurdi nelle loro processioni, ma è pure vero che oltre un certo limite è conveniente, comunque, non andare, caro Don Fedele. Come sempre accade, quando si deve decidere si è soli e allora è accaduto che l’arciprete ha deciso e nessuno del capitolo ha battuto ciglio, eccetto lei che ha rimuginato qualcosa, pare, di non troppo comprensibile. E l’arciprete ha deciso che non ci sarebbe stata processione. Dopo un’apparente calma che è stata interpretata come accettazione corale della decisione, è iniziato il mugugno, poi la protesta, le grida, le contestazioni, qualche parola fuori posto. Mi si è riferito che è volato anche qualche apprezzamento pesante sul clero locale, di cui ella è parte. Che cosa avrebbe dovuto fare Don..Donato ? Cedere alle pressioni scomposte di un volgo palesemente preso più dagli aspetti scenografici della cerimonia che dall’intima natura della funzione religiosa? Avrebbe NA
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dovuto consentire che quattro perditempo, come novelli untori infuocassero quella plebe, la aizzassero, la ... ? Noi crediamo che l’arciprete ha fatto quello che era giusto fare invitando alla preghiera, all’interno della Chiesa, quanti, a torto o a ragione, si sentivano presi dalla sacralità del Venerdì Santo. E’ stato, forse, encomiabile ed edificante che degli sconsiderati si impadronissero della croce addobbata a lutto e, in assenza del clero, dessero avvio, ad un corteo dissacrante, di un pecorume che con le sacre processioni ha ben poco a che vedere? Lei se la immagina l’umiliazione alla quale è stato sottoposto il clero, lo schiaffo subìto, il pugno nello stomaco inferto? Un gregge senza pastore è un branco, caro Don Fedele! E’ una muta rabbiosa che si nutre di orgoglio, di superbia e di autosufficienza. E’ un pericoloso ritorno ad un passato scomposto e sconveniente in cui, grazie all’ausilio di Dio, si è messo ordine di tempo! Che cosa avrebbe dovuto fare il suo arciprete? Tollerare quella circostanza! Ha fatto bene a chiamare i carabinieri; avrebbero dovuto farlo altri, quelli che ella chiama Stato Italiano, le sue rappresentanze locali. Altro che denuncia di poveri cittadini! E se sono seguiti tafferugli e quei tafferugli hanno causato il ferimento di qualche povero malcapitato, non bisogna ricercare cause lontane, al di fuori dell’accadimento criminoso. La Chiesa è parte lesa in questi fatti e non l’attore di crimini! Ah! Questa giustizia italiana imbevuta di modernismi pericolosi che vuole scavare nelle menti umane per ricercare ragioni ed attenuanti e che riduce i fatti a semplici apparenze, a fenomeni soggettivì! Lei mi dirà, sono seguiti degli arresti: dei poveri padri di famiglia e qualche giovinastro sono stati sbattuti in gattabuia, a causa della denuncia dell’arciprete. Ma lei crede che questi padri di famiglia e questi giovinastri ubriachi di chissà quali idee e di quale credo, abbiano avuto un comportamento corretto? Quale pietà si può avere di loro? Quale rimorso dobbiamo sentire? Quali attenuanti dobbiamo riconoscere? No, Don Fedele, il perdono cristiano è qualcosa da non tirare in ballo su questi episodi. NA
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Il perdono cristiano è un atto unilaterale e misericordioso che concediamo noi e solo noi, previo confessione di un peccato, previo riconoscimento di un’offesa recata che serve per ricondurre l’uomo al giudizio finale di Dio, ma che non assolve da colpe umane tra l’altro perseguite da altri ministri differenti da noi! Il perdono è un’indulgenza temporanea e gratuita che serve per non incattivire gli animi, per dare loro la speranza e la forza di ripartire. La Chiesa è tempio della certezza di fede, dell’obbedienza e delle autorità, non è una casa di beneficenza che “regala” il perdono. Ma, poi, le chiedo e termino... La folla può pure impazzire per un momento, perdere i lumi della ragione, eccitarsi come nei baccanali oltraggiando la forma e la sostanza della processione. La folla può anche parteggiare in una corte di giustizia per i suoi simili o presunti tali... Ma quale ragione può ispirare e guidare un prete a rendersi strumento di un complotto ordito e perpetrato contro un altro suo fratello al servizio di Cristo, almeno quanto lui? Lei ben comprende, Don Fedele, che la sua testimonianza in quel processo, tirata in ballo da non so chi, è stata decisiva per sentenziare nel modo vergognoso che ella sa... "Il cie-lo e-ra tap-pez-zato di stel-le!” Per assurdo vorremmo anche ammettere che il cielo quella sera fosse come la notte di S. Lorenzo, vogliamo pure riconoscere, come riconosciamo che durante e dopo quello scimmiottamento di processione, non piovve, non cadde nemmeno una goccia dal cielo. Ma mi dica! C’era veramente bisogno che quelle parole, così lapidarie da non prestarsi a nessun equivoco ed incomprensione, dovessero essere pronunciate da lei per essere rovinate addosso ad un suo fratello, oserei dire, ad un suo compagno di percorso che avrebbe dovuto difendere con affetto paterno... Si trattava in fondo, di declinare l’invito ad essere sentiti, se proprio non se la sentiva di scegliere tra fedeli riottosi che s’appellavano al tempo e un prete perbene che aveva adempiuto ad un dovere, non sorretto dal potere dell’infallibilità. Lei potrà dire: ma in gioco c’era il carcere per quei malcapitati e non il carcere per il nostro arciprete... NA
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E’ vero, caro Don Fedele, è vero, ma qualche volta, quando sono in gioco i principi a fondamento di un’istituzione un poco di mesi di carcere a qualcheduno, fosse pure un innocente, non dovrebbero né sconvolgere coscienze né minare le ragioni di una giustizia che resta sempre terrena. La storia della nostra amata Chiesa è costellata di esempi ben più dolorosi che non hanno dato a papi e cardinali sponda di dubbio nell’agire. La verità umana rispetto a quella divina, spesso è pura verosimiglianza, anche quando essa nei suoi segmenti, nelle sue tessere di mosaico, nelle sue fragranze, è incontestabile. Noi serviamo una verità che sfugge alle leggi della logica, a quelle dell’evidenza, alle causalità ed effettualità, a tutte le contorsioni della ragione e del sentimento. Noi siamo sulla terra con poteri terribili ed illimitati che ci fanno essere e sentire superiori agli altri. Noi non siamo giudicabili nelle nostre azioni quotidiane, spesso sconvenienti, debordanti dalla etica comune. A noi è riconosciuto, seppure non proclamato, il diritto all’irresponsabilità umana, purché al servizio di un disegno divino. lo so a cosa lei sta pensando, Don Fedele: lei pensa alla vita privata di tanti preti che hanno giurato fedeltà a Dio, lei pensa ai loro arrabattarsi in attività negoziali, mercantili, al loro vivere che in qualche caso non è proprio sbarcare il lunario, lei pensa alla loro prassi, esterna al loro uffizio, che è distante anni luce dal Verbo che devono predicare e far avanzare nelle coscienze... Ci pensiamo, anche noi, che puri come vorremmo non siamo e non troviamo risposte adatte. Noi tolleriamo, tolleriamo, come altri tollerano noi, ma a noi non è dato il potere di scalfire nemmeno minimamente le fondamenta di questa Chiesa costruita in due millenni perché sia eterna e duri su questa terra almeno quanto durerà la terra stessa. Noi non siamo ossessionati dal Tempo degli uomini perché crediamo, dobbiamo credere in un tempo senza tempo, in una giustizia fuori dalla giustizia, in un Verbo, oltre il Verbo. Noi dobbiamo difendere e difenderci, perché senza di noi non c’è né futuro, né convivenza. NA
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Noi sappiamo di non essere giudici nemmeno di noi stessi e quindi di non poterlo essere degli altri. Ma sappiamo pure che tutte le nostre ottime ragioni e la nostra umanità devono tacere quando in gioco non siamo noi, ma la nostra storia millenaria che, glielo ripeto, Don Fedele, dovrà durare almeno quanto la vita su questo pianeta. L’arcivescovo si fermò di botto, a questo punto, e si sedette. Con piglio deciso si rivolse al suo segretario che da tempo aveva smesso di scrivere ed annotare, e gli chiese l’ora. Seguì un lungo silenzio, di quelli eucaristici, nessuno aveva voglia di alzare gli occhi da terra. Meno di tutti Don Fedele che aveva riacquistato il respiro, si sentiva sollevato, capì in quell’istante quanto pesante ed ingiusto fosse il fardello di un vescovo e quanto poco opportuno quel suo navigare a vista sul mare tempestoso della verità umana. Si riaccese in lui quel film che a flashes aveva divorato in un vortice di sequenze atemporali. In un attimo la sua mente si rimise al lavoro, montando e smontando pezzi di un pensiero che gli scorreva dentro come la corrente di un fiume poc’anzi in piena e ora quasi immobile. Ora egli era in grado di riselezionare e affastellare ricordi ed emozioni, avvenimenti ed episodi di 80 anni. Si sentiva più sicuro, lui che, qualche ora prima, sembrava pervaso da una cinési da novizio. Si alzò e si diresse verso l’arcivescovo; questi era già in piedi ed in piedi era pure il suo collaboratore. Seguì un abbraccio in silenzio; nessuno tradì emozione. Don Fedele, dopo un accennato inchino, si rivolse verso la porta. E in quel breve tragitto, pensando alla Chiesa, ritornò nella sua mente l’immagine familiare ed abusata, del fiume Sele coi suoi vortici e mulinelli che travolgono persone e cose, che frustrano la vegetazione abbarbicata tutt’intorno, che spazzano il prato, come una massaia nel dì di festa ramazza il lastrico. Tutto ad un tratto quel fiume ch’aveva superato gole e precipizi, ridivenne oleoso e calmo, lento nell’incedere spazioso di pianura, non più schiumoso, ma limpido e trasparente al punto di rifrangere sul pelo dell’acqua il suo sottofondo incastonato degli oggetti più disparati, lì sedimentati e custoditi come cimeli museali da sottrarre alla curiosità di visitatori attenti. RINTOCCHI DEL TEMPO
Tutti li Santi Premessa
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ella notte tra il 31 ottobre ed il primo novembre negli U.S.A. impazza la Festa di Halloween: gli Statunitensi non vi hanno rinunciato neanche quando erano tangibilmente scossi, dopo quel tragico Undici Settembre. Vero è che Halloween ormai dilaga anche nel Vecchio Continente e a nulla valgono le proteste della Chiesa Cattolica puntualmente impegnata ad arginare questo fenomeno di massa immediatamente a ridosso di Ognissanti e del Giorno dei Morti. La Chiesa, in tutta evidenza, sa che non si tratta di “un nuovo arrivo”, bensì di un indesiderato ritorno e questo ha preoccupato non poco, in un’epoca in cui il Consumismo sa fare di tutta l’erba un fascio. Pochi, infatti, sanno che Halloween affonda le sue radici proprio in Europa ed in un’epoca in cui il Cristianesimo non era nemmeno nato e se esso ritorna stravolto ed irriconoscibile questo, in fondo, è dovuto ad un districarsi della Storia tutt’altro che lineare. Quando le Religioni si muovono come carri armati per affermare la loro egemonia “storica”, distruggendo il passato appartenuto ad altri, finiscono anche per far piazza pulita delle sensibilità altrui, senza garantirsi, spesso, di colmare i vuoti. La storia di Halloween, da questo punto di vista, è emblematica e ripercorrere i passi, a ritroso, è utile a ricostruire identità disperse: nessuno, però, deve dolersi se in questo viaggio verso le origini dell’uomo, ci si imbatte in comportamenti “storici” poco esemplari.
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Al contrario, tutti devono rendersi conto di un fatto: le presunte superiorità di Civiltà non esistono, se si fa strage di quelle altrui, che se uccise, possono ritornare sotto forma di fantasmi, come nel caso di Halloween. Introduzione
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versi che seguono, tentano, senza alcuna pretesa letteraria, di ripercorrere i rituali di una credenza locale che ormai è ad un passo dall’estinzione: la Processione dei Morti (31 ottobre). La meticolosa descrizione dello snodarsi di questa processione è stata attinta dal racconto di un’ottuagenaria, ormai passata a miglior vita. Il suo racconto, io ricordo, era nervoso e reticente, gravato da una sorta di interdizione “confessionale” in quanto disdicevole per una persona che dichiarava di essere una credente. Mi chiese (e le promisi) di non rivelare mai le sue generalità e a tanto mi attengo. Eppure non c’è niente di sconveniente in quel passare in rivista una serie di “anime” che si sgranano in una sequenza in cui i comportamenti in vita, per contrappasso, determinano l’esatta posizione nel cerimoniale descritto. Sicuramente lo scorrere di uomini e donne per schiere cela una voglia di giustizia terrena e svela la presunta preferenza di Dio verso le sue creature: in ciò, forse c’è un chiaro invito ai vivi a condurre un’esistenza rispettosa del consorzio umano. In tutta evidenza, poi, i dialoghi che seguono e la categorizzazione quasi dantesca dei morti, sono puro frutto della fantasia dello scrivente. Si cerca di far rivivere racconti e storie, ascoltate tantissimi anni fa e tramandate oralmente.
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Sono storie umane che non hanno alcuna attinenza con la cronaca, ridotta all’osso, fino a farle diventare degli stereotipi. Nel loro insieme, esse ci tramandano la percezione di singoli eroi ed antieroi da parte di un ceto popolare, il quale doveva sicuramente condurre una vita grama e su cui collassavano angherie e sopraffazioni. Dovevano essere sicuramente ricorrenti le azioni di ingiustizia perpetrate ai danni dei più deboli se questi ultimi si vedevano costretti a generalizzare e a categorizzare. Forte doveva essere la consapevolezza che la miseria, spesso, era alla base di tanti crimini e violenze commesse dallo stesso popolo “minuto” . Colpisce, infine, l’idea di giustizia popolare che traspare, soprattutto nella processione. In tempi in cui le impiccagioni erano all’ordine del giorno, metabolizzata la sacralità della Vita, seppure utilitaristicamente, la gente comune parteggiava contro la pena di morte. Infatti, era comune convinzione che il nodo scorsoio funzionasse solo con delinquenti di basso rango e la cosa non poteva essere digerita. Allora inserire nella processione “anime buone ed anime dannate” diventava utile per lanciare un messaggio disperato affinché i timorati di Dio non si macchiassero di un delitto-pena aborrito dallo stesso Padreterno. E qui la forzatura era evidente, atteso che la Chiesa nella sua versione temporale, non aveva mai escluso il ricorso alla pena di morte… L’autore, però, ancorché si vincola ad offrire uno spaccato storico, sociologico e psicologico, sente prioritario un altro compito, potremo dire, di tipo metalinguistico. Egli imprigiona i pensieri nel dialetto con la preoccupazione di preservarlo dall’inesorabile estinzione alla quale sono condannati gli idiomi “parlati”. E’ il caso di dire che la sostanza, questa volta, è data dalla forma e che i significati sono utilizzati per salvare i significanti. Chi vuol combattere, oggi, l’avanzata d’un pensiero unico che si muove come un bulldozer, allo stato attuale ha una sola arma: la resistenza passiva. Resistenza passiva significa difendere e garantire la sopravvivenza di tutto ciò che l’Uomo ha prodotto nei secoli soprattutto a livello immateriale. I prodotti immateriali, però, quando non transitano in una cultura predominante (che li codifica) rischiano inesorabilmente di scomparire. E’ il NA
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caso della tradizione popolare e con essa dei dialetti. E’ stato dimostrato che nel mondo, tra lingue (e dialetti) marginali, calcolate nell’ordine di 5500, ogni anno ne scompaiono almeno un centinaio. Questa estinzione di sistemi grammatico-lessicali molto complessi si abbatte inesorabilmente anche sulle stesse tradizioni popolari di cui gli idiomi erano (e sono) la chiave di lettura. Lo stato di fatto attuale ovviamente non è casuale, ma è il risultato storico di un marcato esercizio di potere consolidatosi attraverso conflitti, invasioni, migrazioni e dominazioni di tipo coloniale. Si è verificato, così, che economia ed ideologia, di pari passo, dovendo imporre la circolazione dei “loro” beni materiali ed immateriali, hanno finito per distruggere le tantissime specificità periferiche fino a rendere vacua la stessa nozione bipolare di lingua e territorio (soprattutto là dove lingua e tradizione erano (e sono) affidate alla trasmissione orale. Questo lavoro, senza pretese, è appunto funzionale a questa lotta di resistenza passiva, affinché nessun patrimonio linguistico e culturale, per quanto insignificante, si disperda. E’ forte la convinzione che dialetti e tradizioni, infatti, preservano le origini di un’Umanità che si è sempre espressa esaltando le diversità. A ben scandagliarli nella loro potenza evocativa, mitica e metaforica si può riscoprire un’identità perduta o seppellita dalla cultura dei vincitori. Nei dialetti, ad esempio, si sente l’eco lontano di “comunità di destino che percepivano la natura come patria e bene indivisibile, irrinunciabile ed intangibile al pari di una divinità. Una natura non creata ma che crea (natura naturans), disse qualcuno rimettendoci la testa sul patibolo, in epoca in cui l’Uomo si eresse a suo padrone declassandola a bottino di guerra. Sentirsi padrone, forse, fu quello il vero peccato d’orgoglio che lo rese mortale agli occhi di Dio. Come si è detto, le comunità primitive avevano compreso il senso della complessità di un mondo che nei suoi cicli dinamici rifiuta la pietrificazione delle Verità, affidandosi ad un’evoluzione naturale e progressiva.
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L’Uomo primitivo non sradica chi gli dà sostentamento ma lascia che il nuovo albero cresca accanto al vecchio dando vita a processi di rimescolamento; egli non ha paura del meticciato anzi lo saluta come il benvenuto perché gli garantisce comunicazione, comunità e comunione. Egli sente che tutti hanno una missione nella Natura di cui è parte e questo gli consente di stare coi piedi a terra e di non guardare esclusivamente al Cielo. Se questa concezione della Natura fu considerata un’eresia, l’unico modo per ucciderla stava nel condannare i suoi veicoli che nella fattispecie erano le tradizioni popolari ed i dialetti. La festa del Samhain
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i Halloween si sa tutto o quasi, grazie ad un’esagerata “anglofilia” che ormai sembra aver conquistato, in modo sbagliato la Scuola italiana. Allora basta solo precisare che “All Hallows Day era l’antica denominazione dell’ “All Saints Day”. E’ risaputo: le antiche popolazioni erano solite prepararsi alla festa fin dalla vigilia (questo ce lo ha insegnato magistralmente Giacomo Leopardi), Quindi Halloween altro non è che l’Hallows’eve (la vigilia di Ognissanti). Tutto sommato, siamo ancora nella tradizione cristiana antica. Si dà, però, il caso, che presso i Celti (ma anche presso moltissime popolazioni del Mediterraneo) nella notte tra il 31 ottobre e il primo novembre ricorreva il “Samhain” meglio conosciuto come Capodanno. Il Capodanno, quindi, è una ricorrenza pervenuta ai Cristiani. Ma che cos’era il Samhain? Il Samhain era il momento più solenne dell’anno druidico, in un’epoca nella quale il tempo era calcolato sul ciclo della natura, di cui l’Uomo era parte e non signore; e alla natura apparteneva pure il firmamento (Sole, luna, stelle, ecc.). Il Samhain era quell’esatto momento (proclamato dai sacerdoti) in cui si presumeva che l’Estate morisse e nascesse l’Inverno; si festeggiavano gli ultimi raccolti auspicando un buon riposo della Terra (Tellus parit gravidaturque). I popoli antichi, meglio che altri, colsero il mistero della morte e della vita in una concatenata sequenzialità naturale e ciclica.
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I popoli antichi avevano, per così dire, appreso, senza scomodare entità superiori ed estranee, un’unità esistenziale tra una Morte che contiene in sé i germi della Vita ed una Vita destinata a sciogliersi e a non finire. Gli studiosi oggi parlebbero di neotenia empatica. In questa logica, Samhain, divinità delle Tenebre, non incuteva paura anche quando nella notte a lei dedicata, richiamava a sé tutti gli spiriti dei morti ,senza eccezione alcuna. Le suddivisioni in buoni e cattivi non avevano senso,dal momento che quelle anime, avendo esaurito la loro missione in vita erano allertate dopo la morte, a riprendere il loro cammino nelle tenebre per ridare vita alla Natura. In tutta evidenza gli Antichi erano approdati a ciò che altri, più tardi definiranno reincarnazione o metempsicosi. Tutte le popolazioni dedite all’agricoltura e alla pastorizia (e non ancora conquistate alla lotta dell’Uomo contro l’Uomo per conquistare la Natura) ben sapevano quanto fosse radicale il passaggio dall’Estate all’Inverno, ma sapevano pure che ciò che nella buona stagione giungeva a compimento (i frutti), le avrebbe fatto sopravvivere nella brutta stagione. La cerimonia del Samhain doveva essere molto suggestiva per i suoi simboli liturgici. Intanto, era credenza che solo in quella notte le leggi del Tempo e dello Spazio fossero sospese (siste, Natura!) e fuori dal Tempo e dallo Spazio le anime (il vento che dà la vita) fossero autorizzate a ritornare sulla terra in processione per mostrarsi e comunicare ai viventi l’inizio della vita. Molti studiosi vi leggono un invito alla fecondazione: non è un caso che nella civiltà contadina l’inverno era suggerito per le gravidanze sicure e per le nascite nel periodo estivo. La liturgia del Samhain prevedeva che a mezzanotte il Vecchio Fuoco Sacro fosse spento e che, immediatamente dopo, fosse acceso un Nuovo Fuoco Sacro. Era quello il momento in cui erano “offerti” sacrifici alla divinità; poi si sarebbe danzato e cantato per tutta la notte e all’alba si sarebbe rincasati con torce accese al Nuovo Fuoco. Solo l’accensione del fuoco domestico, accompagnata dall’ulteriore offerta di cibo ed acqua, avrebbe guidato le anime verso l’aldilà. NA
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Quando i Romani raggiunsero le terre lontane del Nord, rimasero colpiti da quei riti, non tanto per la loro imponenza, quanto piuttosto perché, anche in Roma, e per un retaggio antico, nello stesso giorno più o meno ricorreva una festività identica dedicata a Pomona, dea dei frutti. Quello era, infatti, il giorno del Capodanno Romano, almeno fino a quando l’anno era suddiviso in dieci mesi. Dovettero intendersi subito Celti e Romani e così non ci fu motivo di contrastarsi: la festa di Samhair/Pomona si radicò nell’Impero e perdurò nei secoli successivi. L’avvento del Cristianesimo non lo scalfì affatto e meno che mai i tentativi di cristianizzare il paganesimo che pure furono numerosi fin da quando il Cristianesimo divenne religione di Stato. Il risultato fu che per molti secoli due “Capodanni” (quello cristiano il primo gennaio, l’altro celtico il primo novembre) furono costretti a convivere. Ciò si protasse per buona parte del Medioevo, complice, il Sacro Romano Impero, monopolizzato da dinastie franco-tedesche. Com’era prevedibile, il Samhain andava sempre più perdendo le sue caratteristiche di festa sacra con grande confusione tra i ceti più popolari che spesso finirono per impastare mito, religione, pratiche magiche ed esoteriche. Si pose per le gerarchie ecclesiastiche il problema non facile di ricondurre, senza forzature, il Samhain nell’alveo del Cattolicesimo. Così, Papa Gregorio II, nell’anno 835 posticipò la festa di “Tutti i Santi” già prevista per il 31 maggio per sradicare la romana Ludus Honoris et Virtutum “, al 1° novembre. Il tentativo, però, si rivelò, almeno per il Nord Europa inutile e così nel 998 giusto due anni prima di una NA
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tanto attesa e tenuta Fine del Mondo, Odile, Abate di Cluny, aggiunse al Calendario Cristiano la Commemorazione dei Defunti per il 2 novembre. Anche in questo secondo caso le cose non andarono bene. La situazione fu presa di petto dai Papi Gregorio IV e Sisto V che imposero le due festività cristiane in tutta le Chiesa d’Occidente (1475 d.c.) (Erano tempi di roghi e streghe, non si scherzava con il fuoco!). Il Samhain scomparve in quasi tutta l’Europa, sopravvivendo , sub judice, solo nella Gran Bretagna che a partire da quegli anni, era impegnata in un’aperta contestazione della Chiesa Romana che di lì a poco avrebbe dato vita all’Anglicanesimo. E in chiave anticattolica il Samhain/Halloween approdò nelle Americhe grazie ai Protestanti inglesi. Così il cerchio si chiude almeno con gli U.S.A. Nell’Europa continentale, almeno in quella parte che rimane fedele al Cattolicesimo, vinta la battaglia, la Chiesa tollerò fusioni di antiche e nuove tradizioni, ma solo a condizione che “tutto rientrasse in canoni riverenti” verso la Fede Cristiana. Accadde che il compromesso produsse nuove manifestazioni in linea con i dettami della Chiesa. La fantasia popolare, come si sa, non ha limiti e così fu gioco forza che su una nottata (31 ottobre) si andò ad innestare una festa di Santi (1 novembre) ed una dei Morti (2 novembre). Così, su un’antica trama si mossero “nuovi attori” con i riti del fuoco, processioni, visite domestiche, offerte di libagioni e tutto il resto. In Italia, ad esempio, da Nord a Sud, fino a mezzo secolo fa era diffusa la credenza che nella notte compresa tra il 31 e il 1° novembre i Morti ritornassero sulla Terra in processione, visitassero le loro case e si trattenessero, non visti, con i vivi intenti a parlare dei loro defunti. Nel pomeriggio di Ognissanti, si celebrava, poi l’ufficio dei Defunti e poi una processione dei fedeli, partendo dalla Chiesa, avrebbe raggiunto il cimitero. Qui si sostava fino al crepuscolo accanto alla tomba per rincasare e recitare il Rosario accanto al fuoco. Solo dopo si sarebbe cenato con fave, lupini, castagne, rape, polenta, bevendo il vino novello. Era consuetudine lasciare la tavola apparecchiata con cibo, un secchio d’acqua ed una candela accesa alla finestra. Questo rituale avrebbe ageNA
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volato l’accoglienza del parente deceduto, il quale si sarebbe trattenuto lì per tutta la nottata. Il giorno seguente ci si alzava prestissimo per andare a messa, non senza aver rifatto il letto per l’ospite invisibile che in tal modo avrebbe potuto riposare per qualche ora.Tutto ciò avveniva in quei giorni e secondo i canoni “tollerati”di una Chiesa che allertava parroci e vescovi affinché i rituali non risconfinassero verso il Samhain. Oggi è molto labile il ricordo di quelle tradizioni “negoziate” e si potrebbe dire che la Chiesa, la quale non conta il tempo in anni ma in secoli, ha avuto la meglio. Ciò è vero solo in parte. Più che la Chiesa, ha vinto un secolarismo post-moderno che nel suo tritacarne riduce a poltiglia tutto in una logica funzionale al solo consumismo. Il consumismo, piaccia o non piaccia alla Chiesa, ci ha riconsegnato il Samhain, non nella sua versione mitica e spirituale ma nel surrogato pericoloso di Halloween. Come a dire che non si deve mai gioire della Morte di religioni ed ideologie le quali caricano nei fardelli valori collettivi, se poi si resta solo in balìa di un’altra religione alquanto più pericolosa. La Religione del Mercato, ammette anch’essa la Fede e la Ragione ma solo nel senso che la prima sia un obbligo tout court e la seconda un arbitrio istintivo.
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La prugission’ Appiccia na cannela a la f’’nesta Alluma casa toja cumm’a festa Oi ca eja la nott’ r’ tutti li santi Èss’n’ li muorti a ‘bbìa tutti quanti. A mezzanott’ fann’ la prugission’ R’an’m’ brutte ‘nziemu a quer’ bbon’: Vol’ne v’rè r’ case loru allumate R’ànme Sante cu r’àn’me rannate. Si mett’n nfila a lu Cammusandu Quiri r’abbaddi cu quiri r’ammondu Lu Patraternu a unu a unu s’ r’ conda E roppu r’ sbéja ‘mbieri a pp’ la Jonda. Annandi ‘ngi so tutti li criaturi Muorti ind’ a li fasciaturi Appriessu ‘ngi so li quatrarieddi ‘nziem’ a cummare e a cumparieddi. Ven’ne roppu uaglioni e uagliunastri ‘nziemu a uagliotte e a z’t’llastre E r’ femm’n scacate e li ziti Ven’ne prima r’ mamme e mariti. R’ bbecchie e li vecchi stann’ a la cora E si strascin’n’ ‘nnanzi sora sora E a la fina cumm’ tant’argianisi ‘ngi so tutti quanti li muorti accisi.
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Puru qua li ‘mbisi e li sciancati So tutti in fila cu li stinginati E li cristiani ca so muorti ‘nnucendi Fuje’n’ nnanzi a trar’turi e f’tiendi. RINTOCCHI DEL TEMPO
Na vota a l’annu torn’ne’ a r’ case Vann’ a bb’rè chi ess’ e chi trase Vol’ne send’ a la lor’ memoria Nu requiameternu roppu nu gloria. Si la casa eia ra la cannela allumata Rìci n’ “Casa mia bella furtunata” E si la casa eia totta totta stutata Rìcen’ “Mal’retta casa uscurata”. Appiccela na cannela a p’ li Muorti E nun barà si er’n’ justi o stuorti Ca quannu puru tu si gghiutu ddà Si ra qua passi nun ‘zai cch’ pisci piglià A la Jonda “Rati sulu n’ucchiata a r’ cas’ vost’ Ra Capriumi finu abbaddi a la Costa! E roppu lest’ lest’e mogge-mogge Venitavenn’ totte a la T’’rroggia. Azzucculati ammondu, a p’ li Chiani: Chi è sturt’catu si ress’ manu a li sani. Quann’ siti a la curva r’ Santurielli Salutati r’ mon’che e li fratielli. Roppu a pieri cucchi e panz’ abbuttate M’pieri a p’ lu lazzarettu vi m’nati: Chi ten’ seta, na vepp’ta a ru M’nutu E trescass’ indu ra addunn’ è assutu. Ogn’an’ma si pigliass’ r’ quatt’osse E cittu cittu zumpass’ ind’ à la fossa” NA
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Riss’ lu Patraternu a tutti quanti A brutti e rannati e a bbuoni e santi. “Iati a lu iazzu mpanza a la Ionda! Nunn’è cchiù tiempu r’ fa la ronda!” Alluccau lu uardianu r’ li muorti A li pierilieggi e a li anghistuorti. La str’ppegna r’ l’uommini A lu Cammusantu s’er’n’ tutti arricittati Indu a fuossi e a cappelle s’er’ne nz’rrati, Quannu cumm’ a na pap’ra r’acqua salu A lu Patraternu assì nnanzi Pascalu. “E tu cch’ngi fai indu a sta ‘ngattinata Si l’an’ma toia è n’gora ngurpurata? Pascà, ra st’ parti nun gì so taverne, Cummiti, f’stini, mùcculi e linterne Puru si a stà festa t’n’vieni mmutatu A ccù nu palu app’zzutu si cacciatu. Statti addù si nnatu e si pasciutu E bbieni qua quannu lu tiempu è cungh’iutu Risse lu Patraternu cu tantu r’ pacienza. Rispunnìu Pascalu, senza ralli aurienza: “Ru sacciu cà l’ora mia nunn’è sunata E aggia ancora sbarcà jornu e nuttata. Si mi trovu qua, Patrusantu, Domineddìu E pp’sapè cch’ fina pozzu ffà iu. Indu a la pruggissiona nunn’era chiaru P’cchè lu bbuonu a cu lu tristu è paru E a pparta tutti quiri criaturi nnucienti NA
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P’cchè tanta genta unesta è accù li f’tiendi”? “Ti cr’nzavi, Pascà, ch’er’ne ggent’ bbone Ma er’ne cumm’ noci quannu ‘ndona: Bella ra fora, pulita e stralucenta, Fracita ra indu, neura e puzzulenta. A stu munnu qua nun si fott’ lu zanzanu: Ru ruttu si pa’a p’ruttu e ru sanu p’sanu. Pascalu bbellu, chi a quiru munnu ha spurpatu Christu Qua r’adda cacà e s’adda rannà s’è statu tristu. Qua nun serv’ne nè v’lanze, nè v’lanzuni Qua abbasta cumm’ bascuglia, sulu n’upinione Pascà, crir’mi, iu r’ ppesu a uocchi e croci E nun mi ncant’ne nè r’ facci, nè r’ voci….. N’annu combinate r’ cotte e r’ crure Criature r’Ddiu? Ch’ bbelle figure! Chi m’rù feci fa a aità sti zaccuali Era meglio ca r’ lassava cumm’ annimali Quannu p’na mela rosa e nu mbustone r’ vacca Na mezza cirfosa a nu bbabbeu abblacca, Cch’ti puoi asp’ttà ra la sterpegna loru Cà s’apr’nu lu piettu e ti rannu lu coru? A quisti tu puoi fa tuttu queru ca vuoi, Sembr’ne palomme ma so’ gruoi Tali li carp’ni e tali so li vuscigli Tali so li patri e tali so li figli. Indu a la streppegna r’ Abelu e Cainu Adda t’nè peru lu lundanu e lu vicinu I’ la canoscu tutta ssà compagnia P’cchè so tutti piri r’ la vigna mia. NA
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Ah, quiru figliu miu,si m’ avess’ ratu aurienza Si sparagnava quera bbella spartenza! Ma lu figliu ten’ semp’ la capa tosta, Cchiù lu cunzigli e cchiù li pieri mbosta. S’è fattu accire cumm’a n’ainieddu Ma mancu l’ha cangiatu lu luparieddu: Si stann’ scavann’ la fossa a ccù r’ man lor’ E queru ch’aggiu criatu a picca, a picca mor’. Lu munnu l’annu pigliatu p’munnuzzaru E scar’chene purcaria puru a lu maru, Tagliene e ranne fuocu a voschi e chiande Sorchiane pòvela, fumu e aria vumm’cande Iumi, vadduni e varricieddi, cch’ vr’ogna, So dd’v’ntati peggiu r’ na fogna S’accir’ne tra loru p’unu o rui ruppiuni E zuch’ne sangu a la genda cumm’ spurtigliuni La terra p’ loru è sulu na chianga: So vivi loru e nuns’ n’ fott’ne r’ chi manga. Si la trippa e la panza loru è abbuttata Nun li cale si quera r’ lati è arripicchiata. Rìcen’ cà lu munnu è r’ nisciuni E accussì li muorti r’ fama so miliuni. Rorm’ne schandati p’ tutt’ r nuttat’ P’paura r’ ess’ pigliati a mazzate…. P’cchè si si ruveglia chi è zamb’riatu Hanna iastumà lu iuornu ca so nati
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E nun mi sfuttessere quannu vene quer’ora, Nun mi pr’gasser’ cumm’ bon pastore: Si r’ pecur’ r’ Ddiu r’annu n’frest’cute’ RINTOCCHI DEL TEMPO
Eia corpa loru si roppu si fann’ lupn’ Ru peggiu adda venè a lu maluvarcu: Iu aspettu quiru iuornu… e nun sò parcu. E mi lassass’re stà cu frane e t’rramoti: Cu chiene, uerre, malatie e mar’moti Cchi si fotte farina e lassa a l’ati caniglia Queru ca à lassatu ddà, qua queru si piglia. Caru Pascalu, a quisti nun serv’ne lizzione: Nun serve a lu ciucciu lavarsi a ccù ru sapone Nu ru capiscen’ ca so m’bonda a nu palu? Vuddess’re indu a la vrora loru, senza salu! Parlammu nu zicu r’ quere bamb’nedde V’stute r’ jancu e ccu ddoie janch’ascedde; L’Angiulicchi So angiulicchi r’ Ddiu quiri criaturi E m’r’ pigliai cumm rose e fiuri. Cch’ ngi avienna fa indu a nu munnu stuortu Addu lu cchiù vivu, nun sape ch’è già muortu: Lu chiurnicchiu r’ Ddiu segli p’iddu lu bbuonu E lassa cà li f’tienti r’accir’ lu truonu. E nun mi rici ca so n’assassinu, Nun t’ la piglià mancu accù lu d’stinu. P’tutti quiri muorti n’gimma a la terra Lu Cielu nun c’entra, è la vita ch’è na’uerra. N’gè chi cumbatte cumm’a lu surdatu E chi s’ la piglia a ccu lu risgraziatu. Quera ddà, l’accirìu na vampa r’ fuocu NA
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Ment’ la mamma zappava indu a nu luocu. E quiru criaturu ddà, ca chiangi e si lamenda T’lu stiniicchiau l’attanu accu na salumenda Quistu è muortu r’ fama, era nuru e diunu E p’ lu tata e lu tatonu era figliu r’ nisciunu. Laurienzu te l’à linziatu nu canu Ca li strunzilià facci, vrazze e manu Giseppu fu ghittatu indu a nu puzzu Quannu nascìu scartellatu e cu nu vuozzu Si tu vuò ca ti sfilu tutta la crona, La notta nun m’abbasta p’sta pricissiona Nu cuntu t’aggia rici e tu lu r’ dicu: Chi mi iastema, cerca nu n’micu P’cummiglià tutti li tuorti sui Vai a caccia a griddi e si trova li gruoi Pascà, iu tiempu ra perde cchiù nunn’ tengu Ma si vuò send’angora, iu t’accundendu, Ma roppu ca t’aggiu accuntantatu Iu ti salutu e tu t’ n’ vai bellu e rassignatu
Lu preutu Lu viri ddà lu preutu r’ santu Laurienzu; Li piacienn crapietti, aini, uogliu e ngienzu: Facìa schamà mon’che, parzunali e sacrastani E r’ trattava juornu e nott’ cumm cani. Cch’ bbella lepp’la a pr’rr’cà lu Vangelu! Iddu strafucava melu e lati lu felu Chi si sposa la Ghiesa, adda t’nè crianza, NA
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Nunn’à ddà p’nzà a ru grassu e a la panza Nisciunu l’à urdinatu preutu p’ casticu R’rienti e r’ parienti adda esse nemicu Li luochi à la Ghiesa nisciunu rà strumendati P’enghie r’ gorge r’frati ziti o r’ n’zurati. L’argientu e l’oru r’ tutti li Santi Nun s’adda spatrià a n’puti sgargianti Certu li Santi nunn’ sann’ cch’ s’ n’ fa’ Ma chi r’à datu a la ghiesa, lu vole v’rè str’lluci ddà Mancu li maggi camulati, ngià lassatu: P’ quatt’ sordi r’à v’nnuti e mpaccuttati E p’accuità la genda e p’ mi fa fessu A’ mistu indu a lu pr’sebbiu quiri r’ gessu Pascà, p’cchè mi guardi e mi tarmienti Si zi preutu lu viri a miezzu a li f’tiendi? Certi prieuti s’ re ruma San Franciscu E creru ca lu Paravisu lu verenu accù lu sciscu!
Li puliticanti e cumpagnia bella… Si roppu parlammu r’ li politicanti Si r’ ssigli nun ti spandi: manìi la seta o usi lu chiurnicchiu. Si furtunatu si n’salvi nu scachicchiu. Quannu ànna acchianà a la Cangillaria Prumett’ne ca ti schian’ne la via, Ma lu iurnu appriessu cà r’anne vutati Penzene a loru e nò a r’gorge r’ lati. NA
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Quannu è lu tiempu re l’elezziuni Salut’ne cani, atte e puru li chianguni; Quannu è passatu lu Santu e passa la festa, Si vot’ne r’ quartu cumme si teness’mu la pesta Quiri ddà canoscene sulu nu pattu: Chi oi mi aita, rimani lecca lu piattu. Tu ru ssai; r’aggiu rittu e rannu scrittu: La porta ru lu Cielu p’loru è nu culu r’acu strittu! P’ nun parlà r’ quer’ata bella compagnia Ch’anna stà luntanu nu migliu ra casa mia; Ricene cà ven’ne tutti ra famiglia bbone, Ma p’ li disgraziati so’ na malerizzione. Us’ne cilurvieddu, penna, carta e parlantina: P’enghi la sacca loru, quera r’ lati s’affina N’facci a loru si leggi nu cumandamentu scrittu: “Ngimma a li fessi, campa semp’ lu r’rittu!,, Ma iu p’ loru aggiu cunzatu nu bbellu iazzu, R’ mettu n’fila e cumm’ ièrmiti r’ ammazzu, R’ammanzu cu na vignastra o accù na corda è E v’rimu si lu voscu è salvu, quannu la crapa è vorda. La Putiara Passamu mo a Pascalina la putiara. Accattava a curmu e v’nnìa a vara, Maniava li pisi e li v’lanzuni, E mbarcava farr’tielli n’zemu a piscuni. Ma l’arta soia era la cr’renza: Ngasava la manu a cumpiacenza, T’accattavi nu chilu r’ maccaruni NA
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Tutti pirciati ra viermi e fruugliuni. Roppu nu mesu, quannu ivi a pà’à N’ truvavi cinga-sei ra scangillà: Scangillava e signava ndà la libbretta Facìa e sfacìa cumma na zannetta. Quannu a V’ntunora s’ntìa lu nduonu, Cumm’a lu lampu nzerta lu truonu, Si mp’zzecava n’facci a lu confessiunilu E vumm’cava p’ccati a filu a filu. Roppu ca s’avìa sciuppatu n’assuluziona. Sanda e virginella, si facìa la cumm’niona. Ssà genda tantu timurata r’ Ddiu Fa bbresca lò, ma no a l’uortu miu Si p’ lu Paravisu, abbastasse na conf’ssiona Addù m’ttesse tutta la genda bbona C’ha patutu p’quere facci r’ mpigna C‘hannu spurpatu tutti cumm’a na tigna. Lu Paravisu nun po’esse lu iazzu p’ tutti: Qua tenene liettu quiri ca so stati distrutti Ai voglia r’ fa nuvene, rusari e giaculatorie, Vatascia quant’anni c’hanna stà a lu Pr’atoriu E a lu Pr’atoriu lu tiempu lu contu iu, P’questu so Patraternu e p’ questo sò Ddiu. La v’lanza r’stu patronu tene pisi gravi: La paglia pesa p’ paglia e li travi p’ travi. P’tte lu munnu è niuru e tristu Nun’ ti vai bbuonu mancu Gesù Christu! Sbuttà Pascalu tuttu m’prissiunatu: “Megliu si n’derra nisciunu fosse natu!” NA
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Gesu’ Christu Rissu lu Signoru sore sore rittu rittu Roppu s’azz’zzau e si sti cittu Ohi, Patraternu, bbellu e b’n’rittu Tu viri tutti stuorti e mancu nu r’rittu Sbummà lu Patraternu tomu tomu: « Laviti la vocca ccu quiru nomu ! » Piezzu r’ fauzonu e r’ risgraziatu, v’lu mannai e vui m’ l’aviti macillatu. Vui nun gi l’aviti fatta bbona mancu a Christu, E quann l’ànnu accisu, nisciunu s’è bbistu Quannu pr’rr’cava, r’parole soie e’r’ne melu E quannu muria r’ seta, n’già viti ratu acitu e felu Cch’facci r’ cuornu li figli c’aggiu criatu, Lu gigliu cchiù bbellu m’ l’annu sp’tazzatu! Iu n’gi ru dicìa a lu figliu miu r’oru: Statti qua e lass’re coci indu a quiru broru M’ n’annu cumbinatu cientu e na sporta Lass’re perde, a te cch’ t’ n’ mporta? Ma li cunzigli ca nun sò pagati Sò semp’ cunzigli mai rati. Puru ‘mParavisu li figli sò capatosta E pp’ ffa bbene, accussì si feci arrosta. “Patru miu”, iddu scunzulatu subb’tu mi risse” Tu m’è mparatu a t’nè semp’ nu chiuvu fissu.
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L’aita s’adda rà semp a tutti quanti Senza barà si sò cifri o si sò santi. Ti faci lu coru ra qua r’ r’mirà dà mbieri RINTOCCHI DEL TEMPO
Quiri si scann’ne tra r’ loru, nu ru vviri? Iu nun creru ca roppu ch’à re criati R’ putimu lassà suli tutti stì risgraziati. Ru sacciu cà Musè nun già cria pututu E ca mancu l’ati prufeti so stati sentuti P’ capisci r’ leggi scritte, tantu tiempu n’gi vole, Mo n’ge la cantu a voci la capisciola. Mannìmi nderra, iu ngi vogliu ricità Nun creru probbiu ca mi vol’ne caccià. Ci vogliu iè ra omm’nu e no rà Ddiu E p’ tuttu lu riestu è sulu p’nzieru miu. Rammi na mamma, rammi puru n’attanu E fammi cresci cu loru chianu chianu Rammi tiempu r’addunà r’ pecure spatriate E t’add’rizzu chi è a la smersa e sturt’cate “Figliu, li ricietti” iu t’accuntentu Ma so sicuru ca vai a pr’rr’cà a lu vientu Li bbuoni pr’ cuozi nun ponne mai abbastà Si quiri ddà mpieri, nun gi mett’ne vuluntà “Vai figliu miu e fa tuttu a tuu piacimientu Fa loru puru miraculi a duzzine e a cientu Ma quannu mi spacienziu e ti sona l’ora Tu tuorni qua, puru si vuò rumanè angora” Figliu, li cunti anna f’là cumma l’uogliu E iu pp’tte aggià cumbina nu ngravuogliu T’aggia truvà p’mamma na virginella, Aggià spusà a nu viecchiu quera stella NA
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Sinò, chi re sente a tutti quiri r’moni Ricine ca Maria ha fattu rui matrimoni. A quera ggenta li piaci n’zuppà ru panu E vere zuoppu puru chi è r’rittu e sanu. Ma nu cuntu t’aggia rici e mi esse ra lu coru: Tu a quera santa femm’na li rai ruloru; Na mamma ca tarmenta lu figliu n’groci la fai murè cu tuttè, r’ lacrime e senza voci. Cch’è succiessu roppu, ru ssai a memoria … Caru Pascalu nu figliu accisu funutu n’gloria E mò ca qua m’ponta figliumu è turnatu Ra sulu s’ la v’resse chi nderra è r’statu! Tu vai ricenn’ ca iu tengu nu coru r’ preta N’gi pierdi salu e uogliu accù la genta r’creta La via p’ nu sgarrà Ma si ten’nu nu ciuluvrieddu ca è na meraviglia E’ corpa loru si l’annu intu r’ caniglia La vuluntà cha aggiu ratu loru è nu bastonu E iu l’aggiu rata a lu tristu e a lu bbuonu. La pirocc’la l’aggiu rata p’ si appuggià P’cchè mò la us’ne p’ si strafaccià? Ru sacciu ca pàa puru lu justu p’ lu p’ccatoru, Lu v’tieddu e la jenga cu la vacca e lu toru. Ma eia lu munnu ca mete a tresca e a casacciu: Quannu li m’tuti venene qua, iu mica r’arracciu. R’ segliu cumm’ fasuli a unu a unu E n’ fazzu ddui bbelli muntuni:
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Li bbuoni r’arricettu ngimma a nu supranu E li tristi r’agghiazzu mpieri a nu suttanu. RINTOCCHI DEL TEMPO
Vattenn’, Pascà, ca mò si faci juornu E nun ti vogliu v’rè cchiù rà qua ‘ttuornu Queru ca t’avia rici, t’ l’aggiu rittu E chi sape leggi, rù trova puru scrittu. A lu juornu r’ tutti li Santi V’nitavenn’ puru a lu cammusantu M’niti puru lu iuornu r’ li Muorti M’niti a pr’à p’ r‘riritti e stuorti Nun serv’ne fiuri indu a st’uortu Nun sap’ cch’ s’ n’ fa chi è già muortu Nun serv’n mucculi e cannele P’cchè qua nisciunu tesse filu o tele Nun serve mancu tuttu quissu lussu: Qua si bara a la porpa e no a l’uossu. E nun serv’ne mancu tanta pr’iere Si roppu oi siti cifri cumm’a ieri Quiri ca stann’ qua nun vol’ne smargiassate Vulessere sulu ca r’paccìe foss’re passate. Indu a stu puntonu r’ luocu franusu Nun serv’ne lamienti a cchi è indù a lu p’rtusu Chi sotta a la terra è cuntentu o si ranna A chi è bivu nu cunzigliu sulu li manna: Si mi vò bbene e mi vuò t’nè mmemoria Nun fa mal’azziuni e recitimi quacche gloria Na bbon’azziona vale cchiù r’ cientu rucati P’tutti quiri ca la sorta ha cundannati S’adda capisci ca cu la Morta cangi. E chi nderra ha rurutu, qua adda chiangi. NA
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Non si vende, non si vende
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on s’erano mai viste dispiegate tante forze dell’ordine a Caposele, nemmeno nel giorno in cui il Principe ereditario s’era recato a visitare il Santuario di Materdomini. Il paese era sott’assedio; non era difficile bloccare gli accessi al borgo costruito nel budello di una valle stretta tra il fiume e il monte. Erano state sbarrate con veri e propri posti di blocco anche tutte le stradine rurali che, a ragnatela, stringevano il centro fino a qualche giorno prima sonnacchioso ed indifferente. Quel che più si temeva era un’improbabile calata di contadini dalle campagne circostanti e dai paesi viciniori. Sfuggiva alle autorità il fatto che il problema dell’acqua era avvertito dai soli abitanti del capoluogo, ove essa sgorgava un tempo copiosa. Certo la notizia s’era sparsa un po’ dovunque e tutti, nei dintorni, erano incuriositi dall’epilogo di una vicenda che diventava di giorno in giorno più preoccupante e che avrebbe potuto avere anche sbocchi drammatici. S’era in pieno periodo fascista e in quel lembo d’Irpinia, come d’altro canto in quasi tutta l’Italia meridionale, il regime era percepito come governo amico e prodigo verso regioni che avevano atteso invano da troppo tempo il loro riscatto e la loro rinascita. Nessuno avrebbe mai osato immaginare che il Duce e il suo apparato avrebbero usato la mano forte verso un paese generoso che aveva già rinunciato a gran parte del suo futuro e che, in fondo, difendeva il suo diritto alla sopravvivenza. Certo, anche lì giungeva l’eco di episodi di violenza scatenati nel Nord Italia, ma, per atto di fede, ogni azione di repressione era giustificata come
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risposta inevitabile contro comunisti e socialisti sabotatori di una nuova Era che s’apprestava a costruire un futuro radioso per tutti gli italiani. La stessa avventura bellica, in cui si stava cacciando l’Italia, nonostante non fosse stato dimenticato il tributo di sangue pagato alla IV guerra d’Indipendenza, era vissuta enfaticamente come coraggiosa ed orgogliosa ribellione di una Nazione che chiedeva un giusto riconoscimento nel panorama politico internazionale. E allora la fiducia nell’imparzialità fascista, piuttosto che spegnere gli ardori, finiva per dare esca alla protesta. Non appena, un giorno d’aprile, era circolata la notizia che l’Acquedotto Pugliese s’apprestava a captare le ultime acque del Sele già destinate agli usi civici, il paese sembrò ribollire e ritrovare un’unità d’intenti e di vedute sconosciuta in passato. A nulla erano valse le rassicurazioni del Podestà e del segretario del Fascio e il loro invito alla calma. Tutti, o quasi, ritenevano che l’ulteriore captazione fosse l’atto finale di resa ai Pugliesi. L’atteggiamento di cautela delle autorità locali era bollato come ambiguo e fuorviante, stanti le circostanze che le trattative andavano avanti in gran segreto da qualche mese e che nessuno aveva avuto il coraggio di renderle pubbliche in tutti i dettagli. Invero, almeno il Podestà, persona affabile e cortese, celava i propositi del Regime per sola prudenza, attento e preoccupato a non provocare incidenti irreparabili, facilmente strumentalizzabili dai grossi calibri che ormai erano scesi in campo. Qualche settimana prima s’era visto convocare a Roma da Storace, lui, un Podestà di uno sconosciuto comunello irpino. Storace era stato categorico: Caposele avrebbe dovuto cedere le acque residuali alla Puglia senza battere ciglio e tutti i passaggi burocratici erano delegati al Prefetto di Avellino. A nulla erano valsi i dubbi e le rispettose osservazioni esternate dal Podestà, al quale si ricordava che gli interessi della comunità locale erano cura esclusiva dello Stato Fascista e non di altri, tenuti semplicemente ad obbedire. I primi contatti con la Prefettura, seguiti all’incontro romano, non avevano smosso le posizioni divaricate, fino al punto che il Podestà era addirittura apostrofato come un silenzioso sabotatore di un accordo che stava molto a cuore a Roma. NA
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Il fatto, poi, che si parlasse di lauti indennizzi per quell’ulteriore prelievo, non faceva altro che confermare i timori dei più pessimisti, memori di altre vicende poco chiare in cui i comportamenti di passate amministrazioni non avevano certo brillato per trasparenza. “La storia si ripete” andava dicendo in giro Don Pasquale Ilaria, “e gli attori sono sempre gli stessi. Spero che questa volta almeno i Caposelesi abbiano sangue nelle vene e non acqua. Se è necessario, come credo sia necessario, questa volta tutta Caposele deve scendere in piazza ed insorgere, bloccando questa operazione vergognosa con la quale si decreta la morte di Caposele”. Il monito dell’ufficiale dell’Esercito Italiano, però, non raccoglieva grandi consensi. Per il fatto che fosse l’unico antifascista dichiarato e che le sue idee erano vagamente comuniste, Don Pasquale veniva accusato d’essere un pericoloso agitatore visionario. E, come tutte le Cassandre, finiva per non essere creduto. Era facile, infatti, per il solito stuolo di benpensanti, creargli tutt’intorno il vuoto. E collaborava ad isolarlo la locale stazione dei Carabinieri che puntualmente lo convocava in Caserma per trattenerlo qualche ora e poi rimandarlo a casa, ogni qualvolta che si riscaldava in strada. Ma Don Pasquale non si scoraggiava più di tanto: non appena metteva piede fuori dalla Caserma, riprendeva la sua predicazione apostolare soprattutto coi tanti giovani che sembravano interessati a capire cosa stesse succedendo. “Io parlo soprattutto per voi, era solito dire, perché i vostri padri e i vostri nonni non v’hanno raccontato o non hanno voluto raccontarvi cos’era questo paese. E non l’hanno fatto perché oggi si sentono responsabili per il coraggio che non hanno avuto ieri, perché sanno e non osano confessarvi che furono strumentalizzati… Caposele era un paese di favola e unico in Italia Meridionale, aveva una ricchezza incommensurabile. Non esiste paese al mondo, infatti, un solo paese che navighi sull’acqua e che non sia al tempo stesso ricco ed industrioso, Voi l’avete studiato a scuola; la civiltà ha camminato sull’acqua e sull’acqua ha camminato anche il progresso. Per il controllo di queste sorgenti ci sono state guerre nell’antichità, ma in un modo o nell’altro le popolazioni sono sopravvissute. Anche quella parte del Nord Italia ricchissima deve le sue fortune alle acque… Qui, invece, la storia si è fermata.
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Vi dicevo Caposele era un paese di favola: industrie, molini, gualchiere, tintorie, opifici… tutta un’economia costruita sull’acqua e grazie all’acqua. Qui affluivano da tanti paesi dell’Irpinia, del Salernitano, del Potentino, aree in cui la natura era stata un pò matrigna. Pensate ancora alla pesca e a tutta una serie di attività mercantili nate per soddisfare il bisogno dei forestieri che venivano qua per molire le olive, per macinare il grano, per battere i tessuti, per tingerli. Era un paese industrioso che piano piano avrebbe costruito la sua fortuna su un bene che gli apparteneva per legge, essendo assegnato dalla legge alle disponibilità di un Comune. Ma quando si hanno amministratori poco accorti e poco lungimiranti, può accadere che anche un bene si trasformi in un male. E noi avemmo, alla fine dello scorso secolo, amministratori sciagurati che, abbacinati dal soldo dell’oggi, si vendettero la ricchezza del domani. Pensavano, all’epoca, di aver fatto un affare vendendo le Sorgenti della Sanità al primo avventuriero che si presentò, e oggi ci ritroviamo con un rigagnolo che del fiume ha solo il ricordo nelle carte geografiche. Divennero tutti buoni, in quei giorni, tutti più cristiani: dar da bere agli assetati, dare l’acqua alla sitibonda Puglia! Facevano a gara, ma nessuno si chiedeva perché altri paesi più accorti sbattevano la porta in faccia a quei mercanti. Vendettero Caposele per 30 denari e non ci fu verso di farli ragionare; isolarono i più avveduti, promettevano la luna nel pozzo, fecero addirittura festa il giorno in cui fu firmato l’atto di vendita delle acque. A chi contestava quella scelta sciagurata, ricordavano che il Comune s’era riservato i diritti sulle acque residue necessarie alla cittadinanza e che far scorrere tanta acqua gratuitamente non aveva senso. E quest’ubriacatura non passò subito; durò fino almeno a quando non terminarono il lavori della galleria di valico. Furono anni di piena occupazione: servivano muratori, operai, manovali, donne e bambini che trasportavano pietre e mattoni. Sembrò una stagione indimenticabile, salvo che, finiti i lavori, Caposele piombò in una crisi pesantissima dalla quale non è uscita più. Si presero tutte, o quasi, le acque e ci lasciarono solo le frane che oggi divorano il paese e tutte le campagne circostanti. Quella è una pagina vergognosa ed oscura della storia di Caposele, mai chiarita del tutto in cui se hanno guadagnato i Pugliesi e qualche nostro innominato da un lato, sicuramente chi ci ha rimesso è Caposele…
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Ora quella storia si potrebbe ripetere… Attenti, Caposelesi, questa volta ci giochiamo il poco che ci resta…” Non aveva bisogno d’andare oltre, Don Pasquale, e gli animi si infiammavano al punto da dimenticare d’essere in un periodo in cui certe escandescenze non erano tollerate. Un risultato s’era raggiunto in quei giorni e non per merito di Don Pasquale: le autorità locali, sebbene con gran fatica e a malincuore, davanti al diktat di federali e prefetti si erano impaludate nell’indecisione erano sbrindellate e strattonate a destra e a manca da una cerchia ristretta di borghesucci interessati in vario modo alla vicenda, certamente non per spirito di equanimità e di giustizia sociale. Questo sodalizio, ufficialmente prono all’apoteosi del Fascismo e ai suoi desiderata, non usciva mai allo scoperto, ma attraverso canali sotterranei era impegnato a lavorare su un duplice fronte: bloccare ogni decisione amministrativa in sede locale e nel contempo alimentare nella discrezione e nell’anonimato il malcontento popolare, almeno fino a quando la trattativa in corso non avesse avuto uno sbocco ad esso favorevole. Questi abili burattinai che si fregiavano di una dubbia nobiltà per dei non ben precisati meriti, questa volta rischiavano d’essere intaccati pesantemente nei loro interessi. Non di meno, per aver sperimentato in passato la convenienza di cambiare casacca e bandiera, non osavano esporsi. Erano mimetizzati tra proprietari di molini, oleifici, e per lo più tra i titolari di una serie di attività mercantili il cui fulcro era l’acqua e la cui sottrazione avrebbe determinato l’affossamento dei loro negozi e dei loro profitti. Per dirla in breve: sarebbe stata una vera sciagura chiudere bottega e ritornare alla sola speculazione agraria. Davano, allora, in pasto alla gente comune la loro rassegnazione di dover tutto d’un colpo soccombere a ragioni superiori il cui costo sarebbe consistito nel chiudere i battenti di mulini, gualchiere, tintorie e “trappeti” con grave danno per i poveri Caposelesi che sarebbero dovuti emigrare altrove per attendere alle loro necessità. Ma questo atteggiamento di rinuncia finiva per essere percepito dai malpensanti come un ennesimo affare sottobanco di questi signorotti e da molti ingenui contadini come la riprova che solo una forte agitazione di piazza avrebbe scongiurato una iattura per la maggior parte della popolazione. NA
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Il loro fatalismo era, quindi, una ragione in più per ascoltare i moniti del visionario Don Pasquale e di ciò s’era convinto anche quel piccolo stuolo di frequentatori di casa Sturchio, del salotto bene, che tutti i pomeriggi si riuniva da Don Camillo e Donn’Ersilia. Era gente perbene questo drappello di galantuomini e gentildonne che amava serrarsi nel salotto che s’affacciava sulla piazzetta principale del borgo e che da quella torre d’avvistamento scrutava lo scorrere lento e quasi impercettibile della vita caposelese con civetteria, talvolta, ma anche con tanta bonomìa. Esso era, forse, l’ultimo fortino romantico-risorgimentale di una piccola borghesia che registrava stagioni e fortune politiche, rifiutando, però, di contaminarsi. Erano imbevuti di un cattolicesimo neutralista, ligio ad un ossequio clericale che li voleva lontani dal frastuono della politica e dell’affarismo post-unitario, tutti tesi a difendere un’idea di popolo militante e praticante assediato da un modernismo pericoloso. Essi esercitavano per lo più la loro egemonia sociale nelle scuole comunali e sentivano l’insegnamento come missione, come avanguardia delle coscienze contro pericoli passati e futuri che avrebbero potuto minacciare la comunità locale. Lì, più che altrove, era confermata l’ipotesi che il prelievo provvisorio delle acque residuali altro non era che una manovra dell’Acquedotto Pugliese e dei potenti parlamentari ed agrari di quella regione per depredare definitivamente Caposele. Quel pericolo incombente riapriva in loro vecchie ferite e dischiudeva antiche certezze: i Pugliesi, con le solite complicità locali, stavano per regolare definitivamente i conti con Caposele. Nel chiuso di quel salotto e al riparo da orecchie indiscrete si riesaminava, tassello dopo tassello, il mosaico bizantino di una vicenda durata almeno sessant’anni. Ercole Antico, Zampari, il Consorzio delle Province Pugliesi, la sarabanda di imprese settentrionali e il loro intreccio con parlamentari irpini e pugliesi, i foraggiamenti locali per comprare il silenzio e le complicità. Qualcuno si spingeva a far notare come le fortune di talune famiglie fossero improvvisamente mutate in meglio dopo la firma del famigerato contratto… Altri facevano, poi, notare come certi personaggi si ergessero pregiudizialmente a difensori unilaterali della regione pugliese, accreditando addiNA
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rittura la legittimazione e la convinzione, di fatto, che Caposele fosse una sorta di “enclave” della Capitanata. Su tutti dominava forte il pensiero di Don Camillo al quale, da fine lettore dei fatti, erano lasciate le conclusioni. “Don Pasquale sarà un visionario, un anarchico o un comunistoide, ma questa volta delle verità le dice ed è stupido contrastarlo nella sua generosa foga oratoria, perché quella che i più chiamano pazzia, oggi è utile. Egli oggi è l’unico che, pur sapendo a cosa si espone, dice cose che molti di noi pensano ma non hanno il coraggio di dire in pubblico. E allora, io credo che non dobbiamo contraddirlo con quanti ci chiedono una nostra opinione in merito. Vedete, sarà molto difficile che Caposele la spunterà questa volta. Noi possiamo avere dalla nostra parte leggi e ragione, ma, almeno qui possiamo dircelo, il Fascismo non sa che farsene di leggi e ragioni. Ognuno resti della sua convinzione sul Duce e sulla sua storica missione, ma questo regime non scherza, non ammette discussioni, esso chiede solo d’essere ascoltato ed ubbidito, tutto il resto non conta. L’atto di forza popolare è l’unica via d’uscita, non ci sono alternative. Noi dobbiamo sapere che dopo di esso, vada bene o vada male, il peggio non è finito… Se i Caposelesi subiranno questa prepotenza senza battere ciglio, non meravigliamoci, poi, se i Pugliesi oseranno oltre. E tutti noi sappiamo che cosa hanno in testa quelli lì… Un paese che naviga sulle acque è un intoppo alla captazione di tutte le sorgenti che sgorgano a Caposele. Vi ricordate di discorsi più o meno bisbigliati circa il trasferimento totale del centro abitato, a causa di frane che, a loro dire, non sono risanabili e di come l’Acquedotto si sia offerto in passato di ricostruire una nuova Caposele verso Palmenta… Vi ricorderete, pure, come con la complicità del Genio Civile e della Prefettura essi scoraggino ogni nuova edificazione e perfino la riparazione di case malandate… E poi la sufficienza e il disprezzo, il fastidio con cui essi guardano al nostro paese… un paese che ha rinunciato al meglio che aveva, a loro favore; trattato, se non proprio come un nemico, come un fastidioso ospite in casa propria. Noi dobbiamo assecondare il malcontento che serpeggia oggi e che ha antiche radici e ciascuno, per quello che può, deve alimentare la protesta che cova sotto la cenere. Ora, o mai più, Caposele potrà rialzare la testa…” Donn’Ersilia annuiva e confermava la sua identità di veduta col marito.
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Quella donna mite e timorata di Dio, dalla voce dolce ma ferma e persuasiva… aveva già da qualche tempo interpretato il pensiero dominante e non lasciava cadere occasione nel parlare a tante altre donne del pericolo incombente. Le sue parole, alle ricorrenti motivazioni, aggiungevano anche la ferma convinzione di non lasciare soli gli uomini in quella difficile battaglia, consapevole del fatto che solo le donne, con la loro irruenza, avrebbero potuto evitare di esporre i mariti e i figli in una vicenda rischiosa. Ella era solita ricordare che le rivolte e le proteste condotte dai soli uomini in passato avevano sempre avuto esiti disastrosi: la legge sapeva essere dura e poco conciliante con gli uomini e sbandava quando a scendere in campo erano le donne. Coltivava in sé, inoltre, la speranza che la proverbiale combattività delle donne di Caposele, già messa alla prova in più di un’occasione, anche questa volta sarebbe stata utile e decisiva. E, così, auspicava che fossero le donne innanzitutto a scendere in prima linea e in forma massiccia infischiandosene delle intimidazioni delle forze dell’ordine, del fatalismo di certi benpensanti e delle tiepidezze del clero locale. Quel giorno d’aprile era atteso l’arrivo del prefetto Tamburrini. Quella venuta era vissuta e sentita come la presa di posizione finale dello Stato, che di fronte al tentennamento delle autorità locali, assumeva ufficialmente la decisione di sostenere le ragioni dell’Acquedotto Pugliese. Un vero e proprio atto di pressione avrebbe dovuto piegare le ultime resistenze. Piazza Plebiscito, già dalle prime ore del mattino, andava affollandosi. Ai primi capannelli di anziani che si assiepavano lungo le mura della Chiesa Madre, man mano si univano tanti giovani. Apparentemente dominava la calma e le discussioni di tanto in tanto erano smorzate dall’intervento dei carabinieri della locale stazione, capeggiati dal brigadiere Pappacena. Nel frattempo si riversavano in piazza e nei vicoli circostanti altri carabinieri spediti dalle stazioni viciniori e tra loro spiccava la presenza di agenti in borghese. Verso le 9.30 scesero in piazza Don Camillo, Donn’Ersilia, Antonio Farina, Rocco Iannuzzi e dopo di loro alcuni contadini combattivi… Come se si fossero dati appuntamento, ecco verso le 10.00, schiere di donne giungere da ogni dove; venivano da Capodifiume, dal Castello, dai Casali, dalla Portella. Sembravano assediare una piazza già carica di
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nervosismo e di tensione, il loro vociare insistente ormai surclassava tutti gli altri convenuti. La piazza, verso le 11.00, era ormai stipata e surriscaldata all’inverosimile: bastava l’arrivo di qualche sconosciuto dal fare sospetto che si levavano, ad ondate, mugugni e grida. Fino a quell’ora Don Pasquale non s’era visto in piazza; furono alcune donne combattive ad accorgersi della sua assenza e si precipitarono per invitarlo a salire in piazza con loro. Egli, dopo qualche attimo di esitazione, le seguì, noncurante del divieto notificatogli dai Carabinieri di non farsi vedere in giro quella mattina. Non appena su via Zampari apparve la sagoma nera di una “Balilla” scortata da camionette dei carabinieri, la piazza sembrò infiammarsi ed esplodere. Le forze dell’ordine presenti cominciarono a constatare la loro impotenza e a convincersi della sottovalutazione di una sommossa che si sarebbe potuta sollevare ad ogni minimo atto di provocazione. Si trattava, allora, di scegliere tra la vigilanza attiva in mezzo alla gente per scoraggiare intemperanze e tra la tutela delle autorità provinciali ormai giunte al Piano. Si scelse, allora, di aprire un varco tra la folla mediante un servizio d’ordine a catena per garantire al prefetto un sicuro accesso verso via Caprio. Non si poteva sperare, d’altra parte, in un intervento collaborativo degli squadroni dei giovani fascisti Caposelesi, schierati lungo via Zampari in atteggiamento più caricaturale che intimidatorio. Il Prefetto, con passo deciso, si fece strada tra la gente, imperscrutabile e alquanto sprezzante delle proteste verbali che si irrobustivano attorno a lui. Raggiungere la casa comunale, dopo aver dato ordine al suo segretario di trattenersi in piazza per decifrare i motivi di un’ostilità ad una proposta, a suo dire, onorevole e ragionevole. La riunione breve che seguì nel gabinetto del Podestà, fu probabilmente drammatica e sbrigativa: si sentiva dal salone un battere di pugni e qualche imperiosa minaccia tra l’ammutolire degli astanti. Pare che il Podestà, in totale solitudine, fu costretto a fronteggiare alla meglio un Prefetto alquanto nervoso ed imperioso. “Eccellenza,” esortò il Podestà, ”Ella ha voluto venire a Caposele, ma come ricorderà io glie lo caldamente sconsigliato. Oggi, quindi, tocca con mano il livello di tensione cui si è giunti. In nessun modo può chiedermi di aderire a qualsiasi proposta che danneggi i miei amministrati e non
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credo che sia un buon affare per il Regime essere sordi alle buone ragioni dei Caposelesi…” Non andò oltre, perché fu letteralmente sopraffatto dalla voce del Prefetto che, tranciando l’esordio, proruppe: “Signor Podestà, io non accetto consigli da nessuno, se non da chi mi ha incaricato di questa incombenza… e la mia venuta qui è più utile di quanto Ella creda. Questa mattina io vedo qui confermata la sua cocciutaggine nell’ingigantire ragioni fino a sfiorare il fanatismo e fino ad immiserire le ragioni dello stato fascista al quale Ella deve, dico deve, tutto. Dubito, a questo punto, anzi sono certo che Ella non abbia fatto nulla per convincere tutta quella gente che gremisce la piazza, sono addirittura legittimato a credere che Ella, insieme ad altri, abbia alimentato questo malcontento immotivato. Io la ritengo responsabile di quanto potrà accadere d’ora innanzi e, in ogni caso, si ritenga sollevato da qualsiasi incarico”. Poi, con determinazione, il Prefetto si diresse verso il balcone che si affacciava sulla piazza rumorosa e, senza perdersi in convenevoli proruppe: “E’ di tutta evidenza che se sono qui, questo lo dovete ad una manifesta incapacità di chi vi governa a spiegarvi il senso di una proposta in linea con lo sforzo del governo nazionale, impegnato a riscattare la miseria di questa terre, per troppo tempo ignorate e che oggi hanno un’occasione unica. E allora sia chiaro che l’Acquedotto pugliese non sta tramando nulla alle vostre spalle, semmai, obbedendo al punto di vista del Duce, subisce questo accordo che noi siamo qui ad auspicare e a garantire. Non date, quindi, ascolto a tutti quegli untori che strumentalmente vi aizzano contro il Fascismo, interessati come sono a scavare tra noi e voi un fossato. Noi siamo intimamente convinti , interpretando l’ansia e la preoccupazione del Duce, che queste zone hanno un futuro solido se sono in grado di mettere in piedi nuove occasioni di lavoro attorno all’unica ricchezza che questa terra può dare: il legno. E la produzione del legno va incrementata non solo perché serve all’Italia intera, ma anche perché essa è fonte di ricchezza per le popolazioni montane. Questo ce l’hanno insegnato il Friuli e il Trentino e non comprendiamo perché quelle zone una volta indigenti come questo territorio, debbano approfittare di questa novità e da queste parti si debba solo piangersi addosso. Queste sono zone in cui il faggio attecchisce meravigliosamente e voi tutti sapete quanto sia
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utile e richiesta questa pianta. Immaginiamo, allora, che tutti i comuni del bacino del Sele si stringano in consorzio e diano concretezza ad un piano nazionale di rimboschimento e di piantumazione del faggio, non è un’utopia e soprattutto non è un’operazione fallimentare. Quanti di voi che oggi curvate la schiena a dissodare una terra ingrata potranno trovare lavoro retribuito. Pensate, a quante braccia servono per questo piano di sviluppo, al taglio degli alberi maturi, alla lavorazione del legno, alla sua commercializzazione… E’ un’occasione unica da non far cadere. Molti comuni viciniori sono entusiasti e pronti a scommettere: sono comuni i cui demani danno già grandi profitti e sono disponibili a reinvestire in questa impresa… Non comprendiamo perché Caposele debba chiamarsi fuori. Ecco allora che la vendita delle acque residuali non è un puntiglio dell’EAAP, ma una necessità per un comune povero come il vostro, per garantirsi capitali indispensabili per mettere in campo un’iniziativa così superba e produttiva. Voi non potete pretendere che altri investano capitali e Caposele si limiti solo a raccogliere i frutti… Se, quindi, l’unico bene che avete è l’acqua, non c’è da perdersi in inutili contorsioni, bisogna vendere l’acqua…, seppure…” Il Prefetto non aveva terminato di esporre il suo piano nei particolari, quando fu improvvisamente interrotto da una voce ferma: “Questa volta non si vende. Non si vende, non si vende!”… Di quello slogan, profferito da un assatanato tra la folla, in un baleno s’impadronì tutta la piazza, fino ad allora attenta e muta. Le donne, in particolare, sembrarono scatenarsi propagando agitazione in un luogo gremitoche, attimo dopo attimo, si gonfiava nella protesta. Il Prefetto, invano, tentava, gridando, di sedare e zittire quelle voci sempre più assordanti, e si convinse a troncare il suo discorso, in attesa che le forze dell’ordine sparpagliate tra la gente, bloccassero chi aveva acceso la miccia. Istintivamente una decina di carabinieri, capitanati dal brigadiere Pappacena si volse verso don Pasquale per stringere attorno a lui una cintura che lo isolasse dal resto della piazza, nella speranza che la rivolta ormai incipiente, fosse spenta sul nascere… Fu allora che, almeno una trentina di donne, si diedero all’unisono l’intesa di proteggere don Pasquale, scagliandosi con tutte le loro forze contro i carabinieri accerchiandoli, prendendoli a calci, sbrindellandoli di qua e di là. Fu Pappacena in modo particolare ad essere il bersaglio della
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rabbia e i suoi sottoposti, colti dalla sorpresa e dalla rapidità di reazione di tante madri di famiglia, rimasero frastornati, impotenti ed ignari sul da farsi. Lo spettacolo preoccupante e il possibile epilogo drammatico consigliò allora al Prefetto di ritirarsi dal balcone. Mentre agenti in borghese frettolosamente preparavano la ritirata, egli sbeffeggiò le autorità locali, intimando loro di recarsi ad Avellino ad horas. In men che si pensi, la Balilla nera ripartì, scivolando giù per via Zampari. Le schiere dei giovani fascisti avevano rotto i ranghi, i carabinieri si raccolsero attorno al loro comandante acciaccato. La piazza si svuotò. Ritornò la calma e, a freddo, nel chiuso delle case, si rifletteva sulle reazioni e sulle contromisure che sarebbero susseguite. Nelle settimane successive, nonostante la Pasqua fosse alle porte, su tutti incombeva il presagio d’una tempesta che s’attendeva da un momento all’altro. Qualcuno riferì che di quelle sommosse, aveva parlato Radio Londra, esaltandone la portata ed enfatizzandola come la prima rivolta del Sud contro il Fascismo, foriera di un crollo, più o meno prossimo, del Regime. Questa notizia non inorgogliva i Caposelesi più accorti, ma addirittura li infastidiva, essendo coscienti che essa sarebbe stata utilizzata per scatenare una dura ed impietosa repressione. Trascorrevano le settimane e nulla accadde, ad eccezione del commissariamento del Comune; e questo trascorrere tedioso dei giorni finiva per pesare ancor più di una condanna… L’Italia, era in guerra ormai: giungevano notizie dell’invasione dell’Albania e della sospensione di una serie di misure “costituzionali”. Si riparlava già ai primi di luglio di prosciugare il corso superiore del Sele, perché i riflessi delle acque avrebbero potuto facilmente far individuare le strategiche opere di captazione dell’E.A.A.P. durante le ricognizioni notturne di aerei nemici. NA
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La notizia questa volta non infiammò più nessuno: a tutti non sfuggiva che il periodo di guerra, le ragioni di Stato non necessitavano di giustificazioni. Il giorno in cui d’autorità le acque residuali del Sele furono prelevate dall’E.A.A.P., coincise con una serie di dure misure d’ordine pubblico. Accadde così che, lontano dagli occhi indiscreti dei Caposelesi, don Pasquale, il Podestà ed altri ancora convenuti in un ristorante di Materdomini , non si sa se per caso fortuito o per qualche stratagemma, furono arrestati e senza troppi convenevoli tradotti in carcere. La notizia raggelò Caposele aprendo ferite non facilmente rimarginabili. Don Pasquale Ilaria fu confinato alle isole Tremiti, Don Camillo trasferito a Montefalcione, Donn’Ersilia e altre due donne furono trattenute per alcune ore in caserma, Antonio Farina e un altro nutrito gruppo di uomini furono sbattuti in carcere per qualche settimana. E numerosi altri cittadini furono diffidati dalla Polizia. Pare che la notizia, non fu nemmeno riportata dai giornali dell’epoca. Al contrario sui quotidiani di regime si lesse che per motivi bellici dovuti all’approvvigionamento idrico delle navi attraccate nei porti pugliesi, l’E.A.A.P. era autorizzata a captare altri 360 litri al secondo da quel che rimaneva del fiume Sele. L’accorto regime dava in pasto all’opinione pubblica una verità più credibile: infatti, invocare i motivi bellici, come riportato dai quotidiani, era più convincente e più comodo del propinare a degli sprovveduti che “i riflessi d’argento del Sele avrebbero potuto causare il bombardamento di un acquedotto e delle numerose casupole che lo circondavano”. Vero è che quelle acque residuali non rividero più abitualmente l’antico letto di un fiume che solo a parole sfocia ancora nel Tirreno.
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La serenata “Allora, ci rivedremo alle dieci, minuto più, minuto meno, in via Bovio, ci siamo intesi? “ Date le ultime istruzioni ai suonatori di mandolino, il giovanotto li salutò e sparì. Lo sparuto gruppo d’amici, rimuginando tutte le perplessità, rimasero ancora seduti, gambe a penzoloni, sul muraglione che s’affacciava su via S.Gerardo. C’era da essere perplessi e preoccupati: essi certamente erano in grado di strimpellare quattro note su mandolini e chitarre, ma cimentarsi col violino proprio non era arte loro. Quella lì era roba da Conservatorio, non cosa da maneggioni e da apprendisti autodidatti che suonavano ad orecchio vecchie melodie nel tardo pomeriggio, dopo avere concluso il faticoso lavoro di manovali e muratori. Poi, avere a che fare con quello lì, era proprio una bella rogna: non avrebbero mai voluto essere suoi garzoni per la sua ossessiva meticolosità che non ammetteva inesattezze e imperfezioni. Quel piccolo strumento a corde così acuto nei suoni, chiave di sol, primo e secondo violino, violino di spalla e di fila, tutte queste astruserie a loro erano incomprensibili ed indecifrabili apparivano agli stessi tutte le raccomandazioni e i suggerimenti dispensati dal loro amico che s’era incaponito nel pretendere una serenata coi violini, anziché con i familiari mandolini. Ma ormai la cosa era andata e discuterne era acqua santa persa. E poi, ormai, i violini erano lì, giunti freschi freschi da Napoli e ad un prezzo di fitto alquanto salato. Il giovanotto si era rinchiuso per quasi tutto il pomeriggio nella camera da letto, tutto preso ad esercitare le sue doti canore e a ripassare a memoria il ben scarno repertorio musicale. Non serviva un vero e proprio canzoniere: se tutto andava come previsto la serenata si sarebbe risolta in non più di mezz’ora. L’uomo, invero, fidandosi un po’ troppo delle sue lusinghiere capacità baritonali, ormai s’attardava davanti all’enorme specchio dell’armadio a muro a misurare gesti, espressioni e movimenti, pensando al palcoscenico che l’attendeva e all’unica spettatrice che gli stava a cuore. La madre, incuriosita dal suo inusuale rintanarsi nella stanza, di tanto in tanto si affacciava a sbirciare, ma non era riuscita a cogliere nessun elemento che la illuminasse; infatti, NA
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al suo felpato apparire sulla soglia della porta egli, d’un colpo, ammutoliva e si irrigidiva come una statua di sale. Le prove duravano da qualche ora, quando egli si decise a cambiare l’abito. Se si eccettua la rinuncia al bagno profumato nella solita tinozza, per il resto tutto si sgranò come un vero e proprio rito domenicale della vestizione: indumenti intimi e calzini puliti e all’odore di lavanda, camicia inamidata, farfallino “à pois” e gessato blu notte delle grandi occasioni. Poi si impomatò di brillantina, come una foca, e infilò le scarpe nere a punta, pure esse tirate a lucido come non mai. Ritornò al solito specchio per curare gli ultimi dettagli e si sedette sul letto, dando un’occhiata al suo orologio da taschino. Erano le nove e mezzo; guadagnò furtivamente l’uscita, non visto dalla madre, e si ritrovò in strada. Si era in ottobre, in una di quelle serate ancora in bilico tra l’estate e l’autunno. Il cielo era terso, ma non stellato e la luna con la sua gobba crescente pareva seduta sui sambuchi. Nonostante fosse buio si riuscivano, tuttavia, a distinguere le sfumature di una vegetazione che si ribellava al giallo e al rosso ormai incombenti. A pensarci bene, che si fosse in autunno lo lasciava presagire il fruscìo di seta delle foglie sugli alberi e quel primo venticello che scendeva giù dalle montagne in direzione della valle. La strada, a quell’ora, era deserta e le faceva compagnia solo qualche fioco lampione che proiettava dritta la sua ombra sul selciato; per il resto le solite minuscole luci dietro i vetri delle finestre. Il nostro uomo, quasi imbarazzato per la sua eleganza sgargiante che faceva a cazzotti con lo scenario scarno del Corso, evitò di percorrere Via Zampari e preferì dirigersi per viottoli e vicoli lungo Capodifiume per poi scalare tutte d’un colpo le Lavanghe e buttarsi in Via Bovio. Ritrovatosi in quella stradina stretta tra case a torrione, il giovane tirò un sospiro di sollievo; non si era imbattuto in anima viva, tutto era andato come previsto e il più era fatto. Via Bovio gli dava un senso di sicurezza: una strada trafficata di giorno, a quell’ora era più silenziosa e riservata di un cimitero. Gli ritornava nella mente la discussione fattagli dalla madre. Quella, era una strada in cui appena calato il buio si dorme; gente seria e laboriosa che non poteva
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concedere molto tempo a chiacchiere e discussioni, né troppo fuoco al focolare... Via Bovio; per dirla in breve era stipata ai pianterreni di botteghe artigianali o commerciali. Non c’era porta che non fosse spalancata di giorno ed uscio che non fosse opportunamente sprangato di notte. I piani interrati, o quasi, erano adibiti a stalle per asini e muli o a depositi per derrate, i piani terranei ospitavano botteghe e laboratori dai quali si accedeva ai piani “soprani” destinati a cucine e ripostigli e, su quest’ultimi, sobrie camere da letto. Caratteristica fondamentale di questa viuzza che scivolava sinuosa su un discreto pendio, era la forte concentrazione di barilai, per lo più appartenenti allo stesso ceppo familiare, la cui arte era riconosciuta ed apprezzata, in buona parte del territorio irpino, lucano e salernitano. Lavoro redditizio, quello dei barilai, ma anche molto duro che non conosceva posa durante tutto l’anno. V’era un tempo per l’acquisto, il taglio e la stagionatura del legname, un altro per la lavorazione delle doghe, un altro per la curvatura e l’assemblaggio. I mesi di settembre e ottobre, poi, erano veramente estenuanti. Ci si alzava prima dell’alba, si caricavano botti e tini su asini, muli e carretti e via verso fiere e mercati per vendere quei prodotti artigianali... La sera si ritornava stanchi morti sebbene con un bel gruzzolo di denaro. Gli improvvisati suonatori di violino, come stabilito, erano già allo slargo di piazza Tedesco, quando furono raggiunti dal trepidante innamorato. La loro chiassosa presenza fu subito censurata dal nuovo arrivato. Per loro era un modo come un altro per trascorrere qualche ora da buontemponi, per il nostro eroe, invece, era l’occasione decisiva per esternare i suoi sentimenti all’amata la quale, all’ora stabilita, si presumeva che fosse al buio col naso schiacciato sul vetro della finestra che non avrebbe osato spalancare. L’uomo aveva preteso che i suoi accompagnatori avessero accordato gli strumenti già nelle loro case, perché non avrebbero potuto permettersi il lusso di concedere nemmeno un minuto a lamentosi stridori e pizzichi sulle corde musicali. Tutto doveva funzionare alla perfezione come un orologio. Scelto un angolo non troppo distante, ma al riparo da una vista immediata, i violinisti si disposero a corona intorno al novello cantante in attesa che egli desse il via con un cenno.
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La cosa non era delle più facili: il copione prevedeva che fossero i violini a principiare per qualche manciata di secondi, prima di cedere il passo ad un acuto fermo e virile che scuotesse l’aria. Era comprensibile, quindi, il nervosismo che pervadeva il gruppo; non c’era stato verso di convincere l’amico a cambiare programma e strumenti musicali: la cosa doveva andare avanti in quel modo e basta! Quando il silenzio fu assoluto, l’uomo si decise a dare il tanto atteso cenno e i violinisti, quasi all’unisono, partirono. Era trascorso solo qualche secondo e si scatenò un putiferio. Dalle stalle, come se si fossero data l’intesa, uno dopo l’altro, dei somari cominciarono a ragliare: i ragli erano tanto forti da far temere che si svegliasse di soprassalto l’intero vicinato. Il suono dei violini, ovviamente, fu come subissato dai ragli così decisi di animali che nella letteratura corrente passavano per creature miti e temperanti. Certamente chi si svegliò, avendo un sonno leggero, non potè fare a meno di pensare al terremoto: era arcinoto e sperimentato che gli animali avvertissero anzitempo le catastrofi sismiche. Il nostro eroe, però, fu bravo e non si perse d’animo: con un cenno rapido e secco diede l’alt ai suoi compagni, supplicandoli con gli occhi di non ridere e di non parlare. L’incidente era serio, ma andava superato con freddezza e decisione, anche perché ormai in qualche casa s’era accesa qua e là una luce. Poteva anche capitare d’essere scambiati per ladri e, nottetempo, a quell’epoca non si andava tanto per il sottile coi malandrini... Dopo che fu superato il trambusto tra i convenuti e ristabilita la primitiva quiete notturna, il cantante, senza scomporsi, ridiede l’ordine di cominciare. Questa volta i violini esordirono in perfetta armonia ed erano sul punto di affidare il seguito alla voce umana quando gli asini trafissero l’aria con ragli più robusti e più prolungati, tali da gelare i presenti. S’erano proprio imbizzarriti quegli animali; chissà che cosa passava loro per la testa, quale percezione avevano di quei lunghi, appassionati ed intensi suoni che scorrevano tra corde e... Ormai s’agitavano e scalpitavano come ossessi, sferrando calci all’impazzata contro lastrici e tavolati. La quiete e il sonno erano rotti e del tutto compromessi. S’accesero, una dopo l’altra, le luci ai vari piani, rumori d’imposte e di finestre; qualcuna avventatamente si spinse a gridare a squarciagola “Al ladro! Al ladro”. In meno che si pensi s’era seminato uno scompiglio in via Bovio.
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Ora il pericolo era reale e c’era da attendersi anche qualche schioppettata. I suonatori di violino, questa volta, non attesero altri ordini e se la diedero a gambe disperdendosi nei vicoli. Lo sfortunato avrebbe voluto bloccarli e farli ragionare, ma non ci fu verso; rimase solo lui lì, piantato come un albero ed imbacuccato a festa nel suo abito scuro come il suo volto. S’era appena ripreso dallo sconforto, quando sentì il rumore di qualche grimaldello e allora, radendo il muro, a passo svelto, s’inerpicò su per via Pietraquaresima. Ora era veramente sconsolato e ridotto ad uno straccio: si sentiva ridicolo in quegli indumenti da gran gala. Giunse, infine, sulle scalinate di Piedigrotta e si fermò. Si vergognava per il fatto che una serata che doveva essere indimenticabile, si fosse tramutata in una situazione tragicomica. Non erano serviti a nulla tutti quei dettagli studiati fino all’ossessione, se degli imprevisti ed imprevedibili somari erano stati capaci di far crollare tutto in un batter d’occhio! Che cosa avrebbe pensato di lui la sua adorata amata? E tutto questo per colpa della sua maledetta cocciutaggine di complicare cose semplici, di enfatizzare e drammatizzare sentimenti genuini... Si pentì di non aver scelto vie maestre: sarebbe bastato fermarla per strada, parlarle, dichiararsi quando i loro occhi si incrociavano... E invece no, egli era veramente un artista nell’ingarbugliare ed aggrovigliare le cose. Avrebbe avuto il coraggio di guardarla in faccia l’indomani? E poi, i suoi compagni di ventura avrebbero tenuto il becco chiuso sull’accaduto o l’avrebbero ridotto a zimbello del paese? La vita di paese, è risaputo, scorre con monotonia, non si nutre di grandi avvenimenti, è il susseguirsi di atti quasi abitudinari a scandire il suo tempo, a meno che qualche fatto che vada oltre la calma piatta non la scuota nel bene o nel male. E allora la notiziola inizia a circolare, a irrobustirsi, a fare il giro delle case, ad arricchirsi di dettagli veri o verosimili, di congetture e supposizioni. A quel punto sul malcapitato se ne sentono di cotte e di crude e non resta che serrarsi in casa ed aspettare che ritorni la calma. Stremato dal turbinìo intermittente di questi pensieri, finì, senza accorgersene, per ritrovarsi seduto su un masso, muto ed assorto a guardare quella marea di tetti neri sottostanti agli orti padronali della Pietra dell’Orco.
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Com’era mutato il paesaggio a quell’ora! Le nubi avevano fatto la loro comparsa in cielo e s’ammassavano attorno alla luna quasi a soffocarla: quest’ultima, a sua volta, sembrava intrufolarsi nei nembi col suo chiarore fosforescente per screziarli e liberarsene. I noci avevano perduto buona parte del fogliame e coi loro rami scheletrici ricamavano il cielo. S’avvertiva l’odore grasso e umido d’una putrescenza in atto delle foglie cadute, un odore costante che di tanto in tanto era sopraffatto dall’acre esalazione di mosti e vini novelli, proveniente dalle cantine. Non c’era proprio da dubitare, a quel punto: s’era in pieno autunno. Si sentivano in lontananza cani abbaiare, ma questa volta non gli incutevano paura: forse, a dire il vero, manco li sentiva i loro latrati perché era preso da tutt’altri pensieri. Udiva, però, netto il vociare in via Bovio che s’era risvegliata a notte fonda e non s’addormentava più. Solo quei maledetti somari ora s’erano acquietati e non ragliavano. Ritornava alla mente la sagoma d’una donna minuta, immobile e scolpita sui vetri d’una finestra; chiudeva gli occhi, li stropicciava ed ella svaniva. Compariva e scompariva dalla scena, come una comparsa, lei che ignara era la prima attrice. Se la vedeva parare innanzi agli occhi, ora stizzita ed offesa per un appuntamento mancato, ora calma e serena, quasi statuaria, ad attendere un evento che non si sarebbe verificato. Avrebbe mai saputo che cosa era realmente accaduto quella notte? Avrebbe creduto alla storia verosimile di ladri che avevano scombinato i piani d’una serenata dedicata solo a lei? Chissà! I rintocchi dell’orologio di piazza Masi suonavano la mezzanotte; la donna non avrebbe indugiato oltre a quel davanzale. Il giorno dopo non avrebbe avuto nulla da raccontare alle sue compagne nell’ora di ricamo se non che niente era accaduto e che quell’uomo era bugiardo e traditore come lo sono in genere gli uomini. Il giovane uomo si rialzò di scatto e per viottoli a lui noti raggiunse la casa scavalcando la siepe dell’orto. Aveva lasciato di pomeriggio la finestra socchiusa e spinse dolcemente per aprirla. Al buio, senza fare il benché minimo rumore che avrebbe certamente svegliato la madre, si svestì, ripose ordinatamente ogni cosa in armadio e comò, spinse le scarpe nuove sotto una sedia e, messo il pigiama, si infilò sotto le coperte. Almeno lì tutto era andato alla meglio. NA
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S’era risparmiato i soliti rimproveri di una madre in camicia da notte che era capace di andare avanti anche per qualche ora. Si girava e rigirava nel letto: l’insonnia non l’aiutava a trovare una posizione comoda. Non era vero che il buio conciliava sempre il sonno. Certe volte il buio è popolato fino all’eccesso e toglie perfino il respiro. Quel buio, poi, era assordato da un silenzio di quelli che frastornano e preannunziano una notte senza sogni.
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Pellegrini a Materdomini
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on era ancora la mezzanotte, che avrebbe annunciato la prima domenica di un settembre caldo, e la Via del Santuario già da qualche ora brulicava di pellegrini spossati da un lungo cammino. Erano partiti alle prime luci dell’alba dai loro paesi incastonati sui fianchi brulli di un’avara Lucania, terra che avcva dato i natali al Santo, e si spingevano fin sulla collina di Duomo con i sentimenti contrastanti d‘orgoglio e rabbia. Pensieri sacri e profani ad un tempo: sentirsi padri e figli di tanta spiritualità c patrigni e figliastri per un affetto mal coltivato. Erano persone umili quelle che risalendo e discendendo monti e valli si recavano a Materdomini. Queste schiere, mosse da una pietà popolare, raramente organizzate dalle parrocchie, incontravano lungo il loro percorso altri gruppi, parimenti numerosi, ma ci tenevano tanto a distinguersi gli uni dagli altri, come se non volessero confondere la loro intensità di devozione, le loro richieste di grazie e di miracoli, come se temessero, in fondo, di caricare il Santo di troppe pretese, Egli medesimo avrebbe potuto spazientirsi e non ascoltare. Questi gruppi vestiti alla meglio, per lo più scalzi in segno di penitenza, si snodavano per viottoli e tratturi, intersecavano frettolosamente strade rotabili scarsamente trafficate e poi imboccavano la via provinciale per Caposele. Giunti al ponte sul Se1e si inerpicavano per la stradina ciottolosa che mena ancora oggi a Materdomini e che incombe con i suoi stretti tornanti sul fiume affogato tra i sambuchi e le acacie. Ecco, ad un certo punto, svettare dal pianoro di Duomo la bianca basilica col suo campanile squadrato. Si fermavano dapprima alla fontana poligonale nella cui acqua si specchiava la marmorea statua di Gerardo. Si fermavano a bagnarsi i polsi, a dissetarsi, a tirarsi in sesto, a rifocillarsi alla meglio, prima di entrare in chiesa. Una donna, deposta la cinta di candele inghirlandata di fiori e di nastriNA
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ni colorati, era tutta intenta a recuperare l’effigie del Santo intrappolata nel castelletto di cera. Nonostante l’ora tarda, la Basilica era aperta ai fedeli , per permettere l’accesso ai pellegrini carichi di doni votivi. Era difficile trovare un posto a sedere sulle panche; i più si affollavano sotto il palchetto rivestito di organza celeste che sorreggeva la statua di S. Gerardo; stridevano le transenne di legno al premere di quella calca. Quell’approccio al Santo rinnovava una suggestione e una sensazionedi appagamento a chi ogni anno si recava a Materdomini e suscitava un’ esaltante tensione in chi per la prima volta catturava lo sguardo penetrante di quella statua. La maschera cerulea d’un rosa appena accennato, gli zigomi calcati, il sorriso trattenuto e poi quegli occhi dritti al cielo e al tempo stesso fraternamente rivolti sugli astanti, quel collo sottile che si confonde con un bianco colletto sotto la nera tunica liguorina, la quale si muove al primo alito di vento o al primo brusco movimento e, infine, quelle mani ossute e nervose che non vogliono abbandonare, che non intendono separarsi da un crocifisso d’ argento. Chissà quante preghiere avrà ascoltato, quanti dolori lenito, quante speranze avrà suscitato ... Nelle tiepide navate, illuminate da candele che spandevano un grasso odore di cera, si aggiravano tutte queste persone intente a leggere lapidi, ad ammirare volte e pareti affrescate, a fissare gli stucchi dorati che luccicavano al bagliore dei lumi, a decifrare le vetrate colorate che la luna piena, coricata sul Paflagone, proiettava sui pavimenti. Si andava, poi, a dormire sul sagrato, nel cortile, in vecchi casolari e pagliai abbandonati. E chi non aveva sonno riposava il suo sguardo vagando in quel gioco di ombre e di penombre che si rincorrevano, ornaNA
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te qua e là di luccichìi, di puntini luminosi come nei cieli di cartapesta dei presepi napoletani. Sì, era proprio un presepio di quelli che, ricordo, i Padri Redentoristi allestivano ogni Natale, che mettevano su con l’occhio rivolto a queste terre e con il cuore e la mente immersi nei gomitoli di stradine vesuviane, tra gente che si industriava per tirare avanti la giornata, tra vicoli e palazzi rovinanti di una Napoli viva. Ecco la pietra di S. Vito, la sua nitida sagoma scivolare sulla dorsale di Palmenta per poi precipitare a Tredogge. E lì, sotto Paflagone, un ammasso di casupole, strette tra il fiume e il monte e, più distante, Pianello, Genzano, Persano, la conica altura della montagna di Calabritto e, in fondo, una valle che si slarga verso Quaglietta, i bianchi Alburni sinuosi disperdersi tra cielo e mare. Non si dormiva molto quella notte e non cessavano i cortei di pellegrini. La luce del giorno coglieva un villaggio già sveglio da qualche ora tra un trafficare di ambulanti alla ricerca di un posto dove piazzare la loro bancarella. Era pure iniziata la processione di contadini che spingevano i loro animali alla fiera, di donne con enormi ceste sulla testa cariche di prodotti della terra anch’essi destinati alla vendita. Sotto bianchi tendoni sostenuti da lunghe pertiche, i banchi del torronaio Stracolmi di “coperte”, di nocciole abbrustolite, di castagne infornate e ancora carrube e noccioline americane. Penzolavano ai bordi esterni lampade ad acetilene, a “carburo” si diceva. Poco distante dagli archi della Foresteria una baracca malandata dove una donna friggeva pezzi di baccalà indorati in farina di granturco, che porgeva ai clienti avvolti in fogli di carta oleata; sul banco vasetti con alici in salamoia, peperoni sottaceto e, per i più esigenti, polli rosolati, soffritto di maiale accanto a caraffe di vino invecchiato. Era una sciccheria sorbire una tazza di buon caffè nel bar lindo e moderno, per quell’epoca, di Antonio Zarra immerso tra le macchine fumanti e montagne di coni per il gelato ... Il barista sempre sorridente talora si portava sulla strada, dietro un bancone poggiato sul marciapiede, accanto ai venditori ambulanti di Ospedaletto. Ecco la calca, fiume umano che saliva e scendeva lungo la via del NA
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Santuario. In quel trambusto spesso avevano la meglio borsaioli e ladruncoli, zingare che ti costringevano alla lettura della mano,giocolieri di strada e venditori di illusioni. Era veramente simpatico un vecchio fotografo pugliese col suo cavalluccio di cartapesta e ancor di più il venditore di fortune con il suo pappagallino giallo in gabbia che, a comando, metteva fuori la testa beccando foglietti colorati da uno scatolino e regalando un quarto d’ora di speranza. E poi la corte dei miracoli, quei mendicanti veri o falsi con le loro stampelle, con le loro grigie bende sull’occhio ... una corte dei miracoli senza età: bimbi pallidi sollevati fra le braccia come agnelli sacrificati per smuovere pietà, anziane avvolte nei loro cenci con un sorriso appena stampato, con le mani aperte e abbandonate in grembo, rannicchiate sotto le arcate. Sembrava che molti stessero lì a ricordare a chi si accingeva a chiedere grazie un loro diritto di precedenza nel miracolo. S’apriva improvviso un solco tra quella folla, quando spuntava, scortato da gendarmi, il porporato di turno col suo seguito; era atteso lungo il percorso da quei pochi padri redentoristi non ancora indaffarati in altri uffici, i quali si univano a lui che era intento a dispensare benedizioni a gente distratta. Nella sala cinematografica, come in una catena di montaggio, si proiettava un filmato sulla vita del Maiella e il locale non appena si svuotava subito si riempiva di nuova gente. Si ergeva su tutte le case, come una persona non invitata ad una festa, stridente con tutto il resto, la Casa del Pellegrino nel suo stile prefettizio di Palazzo di Governo. Era mastodontica, ma assente e distratta da tutto quello che le avveniva intorno. Quella moltitudine, però, non sembrava preoccuparsi per niente della sacralità di quel luogo. Una gestualità eccessivamente ostentata e quasi teatrale aveva il sopravvento sul villaggio. Ecco, allora, dietro a delle donne scalze che strisciavano sulle ginocNA
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chia con le mani levate al cielo e coi capelli sciolti sulle spalle, scivolare popolane discinte nell’ abbigliamento che danzavano al ritmo di tamburelli. Non lontano dalla via del Santuario, su una collina incolta, si teneva frattanto la consueta fiera; tutto intorno, a corona del sito, una sterminata baraccopoli di mercanzie varie, lì esposte per l’annuale spesa dei contadini. Era un interessante emporio che richiamava tante persone, lì accalcate a discutere animatamente di prezzi e qualità, a tirare e a mollare merce, ad allontanarsi, a riavvicinarsi. Ma il pianoro era soprattutto invaso da ogni genere di animali, lì trascinati in malo modo per essere venduti. Era una nostrana arca di Noè: scrofe con i loro maialini, mucche e vitelli, cavalli, asini, muli e puledri, stie piene di conigli, polli e tacchini. Era cura delle contadine impegnarsi a selezionare per l’acquisto i maialini da ingrasso, il cui prezzo sarebbe stato a breve contrattato dai mariti: concluso l’affare le donne li avrebbero presi in braccio e portati velocemente a casa. La visita alla fiera degli animali era in genere l’ultima tappa; poi si sarebbe ritornati al proprio paese. Si spopolava, a quel punto, Materdomini, ritornava dovunque la calma in attesa della processione che verso le quattro si sarebbe mossa verso Caposele. E, puntuale come un orologio, ecco il Santo, portato a spalla, comparire solto le arcate del sagrato anticipato dai Padri redentoristi disposti in doppia fila che si facevano strada tra una folla di nuovo accorsa che si assiepava sul piazzale. La processione imboccava la ripida stradina ghiaiosa e tortuosa che da Materdomini conduce ancora oggi al ponte sul Sele. Si snodava lungo i tornanti tra giovani querceti abbarbicati sui pendii franosi. E la statua del Santo sussultava ad ogni brusco movimento, pareva quasi che inciampasse e in quel momento era forte l’apprensione e poi, ancora, il sollievo per un pericolo scampato. Era un’avventura quella discesa che toglieva il respiro, ma quello sforzo era ripagato da una Caposele trepidante che, in preghiera, attendeva giù sul ponte l’ arrivo di Gerardo. E non appena la statua raggiungeva il paese, un applauso scrosciante rimbombava nella valle; l’arciprete salutava il rettore del santuario e la
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banda musicale intonava un inno di devozione al Santo. Dopo quella sosta la processione riprendeva il suo cammino lungo la strada che porta ancora il nome del giovane di Muro Lucano. Lo spettacolo era dei più rari e commoventi: una fiumana di uomini e donne, vecchi e bambini, tutti a cantare e insieme a loro i tanti forestieri che nell’ultimo segno di devozione erano scesi a Caposele. Alla nera tunica del Santo penzolava moneta cartacea e, per grazie ricevute, tutte intorno a Lui, decine e decine di donne che s’erano “imposte” sul capo mezzetti pieni di grano, donne vestite del nero abitino redentorista in segno di ringraziamento. La processione raggiungeva via Caprio, via Zampari, piazza Sanità e poi ridiscendeva le strade del paese per una breve sosta in piazza Masi e via, di nuovo, al Ponte. E lì si ripeteva come in un rito un ‘emozione antica, un ‘emozione collettiva che suscitava un sentimento di compiacimento per tanta visita ricevuta, ma suscitava anche il desiderio di non separarsi dal Santo di Caposele. Un applauso finale coglieva S.Gerardo mentre riguadagnava il cammino verso Materdomini, seguito dai suoi più tenaci devoti. Intanto i pellegrini, anch’essi scesi a Caposele, di lì partivano per ritornare nelle terre lucane, con la rabbia nel cuore di chi si divide da un figlio trattenuto altrove, con la gioia di chi sa di poterlo raggiungere anno dopo anno e godere della sua benevolenza. Si chiudeva, così, una giornata faticosa che non produceva disagio e di cui si sarebbe parlato per qualche settimana. E Gerardo ritornava alla sua casa austera che l’aveva visto umile servo e che ora lo serbava gelosamente nella sua angusta ma ricca cappelletta come rara pietra preziosa in cassaforte. NA
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La purga “Nonostante le continue assicurazioni in merito a una vitalità del movimento fascista nel suo comune, apprendiamo da segnalazioni riservate pervenuteci una inquietitudine e una strisciante critica verso il Regime. Le continue manifestazioni di dissenso, peraltro riportate dalla stampa locale in difesa delle acque residuali del Sele oggi necessarie per motivi bellici, conferma la incapacità o la scarsa volontà a domare una vicenda che può celare opposizione politica. Si registra, infine, del caso Caposele, che ad oggi non ha comunicato alcun caso di contestazione del Regime, la qual cosa appare strana e non interpretabile come consenso plebiscitario al lavoro che S.E. Mussolini sta conducendo nell’intera Nazione. Si chiede di voler gentilmente controdedurre in merito. F.to Il Segretario Federale. La nota fu letta con stile notarile dal Segretario del Fascio alle nove persone convocate in via riservata quella sera. La porta della sezione era stata sprangata dall’ interno, fatto questo inconsueto che dava preoccupazione ai convenuti. D’altra parte, il carattere gioviale del Segretario, repentinamente tramutatosi in serio e cupo, costituiva un ulteriore elemento di allarme, era in genere così sciolto e prolisso nel parlare, ma quella sera la sua voce era tremolante, incerta ed essenziale. “Ve lo avevo detto “, sbottò, “che qui vogliamo scherzare col fuoco. Il Fascismo, cari camerati, è una cosa seria e qui lo applichiamo all ‘acqua di rose! Voi mi avete voluto Segretario e ora voi mi cacciate da questo imbroglio. Voi lo sapevate che non volevo accettare la carica di Segretario ... E ora che si fa? Vedete, io ho famiglia, sono sempre stato un buon fascista, ma a dirigere il Fascio, lo sapete, non è cosa mia”. Un pò tutti si guardarono in faccia, qualcuno si stiracchiò sulla sedia, un altro tossì, altri ancora si misero a scrutare le pareti come se fossero coperte da quadri d’autore. La riunione piombò in un silenzio. Dopo qualche minuto l’istruttore militare, in genere sempre baldan-
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zoso nell‘ impartire comandi durante i sabati nelle esercitazioni della gioventù fascista, si alzò di scatto dalla sedia e ruppe il ghiaccio a modo suo. “Prima di parlare di lettere e di risposte, noi dobbiamo chiarire una questione per sapere se siamo uomini oppure no, ma soprattutto per sapere se ci possiamo fidare tra noi, perchè in caso contrario io non parlo. Vedete, la lettera del Federale è chiara: qui c’è qualcuno che fa il doppio gioco: nelle riunioni non dice nulla e poi si mette a fare lo spione. A questo punto si levarono proteste e contestazioni e a mala pena il Segretario riuscì a sedare la riunione, ricordando che fuori c’era gente e che non era conveniente trasferire all’esterno l’agitazione dei loro animi . Chiese, a quel punto, la parola il Segretario Comunale per registrare che la reazione dei presenti confermava la loro estraneità alla delazione e che eventuali responsabili andavano cercati altrove. Buttò acqua sul fuoco, riferendosi alla nota del Federale rassicurando che nei giorni successivi avrebbe chiesto chiarimenti ad Avellino. “E’ stato l’arciprele”, borbottò il notaio “quello non ci può vedere e non per simpatie democratiche! Sti preti dopo il Concordato pensano di comandare loro! Bisogna dargli una lezione”. “Calma, calma”, disse il farmacista,”Il Federale ci chiede di dare una lezione agli antifascisti e non ai camerati. Qui rischiamo di cadere dalla padella nella brace. Lasciamo perdere la caccia alle streghe e vediamo cosa bisogna fare”. La riunione ripiombò nel silenzio. Il Segretario nervosamente rivolse lo sguardo a quella muta compagnia, interrogandola con gli occhi. C’era già chi guardava l’ora, chi indossava il soprabito, la riunione rischiava di finire lì. Per la verità, il locale non era dei più invitanti e piacevoli, pieno di polvere e cartacce com’era. Né gli dava un‘atmosfera di sobrietà e di austerità quella serie di foto appiccicate sui muri, di slogan stampigliati in nero sulla parete frontale. Poi, quei labari funesti ricamati in oro che affogavano il focolare in un angolo, pur esso tetro, davano il senso della “vitalità” di quel luogo. Il medico, a quel punto, prima che il Segretario invitasse responsabilmente a restare, lanciò un’idea. “Vedete, disse, si è fatto tardi e francamente non ce lo faccio a restare più qui. Oltre tutto, per quanto sprema la materia grigia, di idee non me ne vengono più. Perchè non aggiorniamo la riunione a dopo cena? Può darsi che le calorie ci portino pure una buona idea per una via
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d’uscita. Allora. che ne dite di rivederci verso le otto a casa mia?”. Inchiodati da quella proposta sparata all’improvviso, tutti si dissero d’accordo. Alla chetichella uscirono dal fascio, salutaronofrettolosamente quel gruppo di aficionados che sostava lì davanti, e via per le loro strade. Verso l’ora stabilita, i nove si rividero davanti al caminetto, Quattro sedettero attorno al tavolo di noce e cinque su comode poltrone di velluto. Si tagliò corto con i convenevoli e subito la riunione riprese. Chiese subito la parola il Podestà, che fino a quel punto aveva taciuto assieme al responsabile della milizia. “La situazione” diventa sempre più delicata, disse. Il sostegno leale al Duce comincia a scricchiolare e non è da escludere che ci sia chi trama a Roma e nella provincia per mettere in discussione le conquiste e le scelte del fascismo. Il silenzio, allora, può diventare pericoloso perché frainteso e contrabbandato come mancato sostegno a Mussolini. E allora sarebbe un passo falso rispondere al Federale che qui tutto va bene. Potrebbe essere interpretato come una conversione democratica e questo, oltre a non essere vero, è preoccupante. Noi dobbiamo, almeno tra noi, essere sinceri. Qui a Caposele il fascismo è sorto più come fenomeno di regime che d‘avanguardia. Siamo stati addirittura tiepidi anche quando c‘è stata la sommossa per l‘acqua e non abbiamo sostenuto il Partito nemmeno quando chiedeva misure esemplari contro quei quattro pazzi che pensavano che con la loro sommossa di piazza la spuntavano contro i pugliesi. Io credo, allora, che sia legittimo da parte di “chi sta in alto pensare che qui stia succedendo qualcosa di strano. E allora, ci piace o non ci piace noi qualche azione dimostrativa pure dobbiamo darla. All’Arciprete? Manco a dirlo: qui scateniamo un putiferio con la Curia. A Donna Ersilia? E che ce ‘la prendiamo con le donne? Don Pasquale? Mah: c’è qualcuno che è d’accordo a creare qualche eroe? A qualche nostro parente? Io non me la sento veramente non so che pesci pigliare. Qualcosa, certo, dobbiamo fare”. “La purga! disse, scattando dalla sedia, l’istruttore militare. “non siamo stati “cazzi” di dare una purga dopo venti anni. Ma che fascisti siamo?’ “La purga vabbè “, interruppe lo speziale, “ con una purga mica vogliamo mandare qualcuno al bagno penale!
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Va bene la purga, istruttò, ma a chi? Qui serve un nome, non non una filosofia!” “Calma, calma,” disse l’istruttore, ”fatemi parlare: io il nome ce l’ho e so convinto che siete tutti d’accordo! Na bella purga, poi lo comunichiamo ad Avellino e qualche giorno dopo rispondiamo al Federale, che ne dite?” “Caccia sto’ nome, Salvatò”. “ ... FI.Pi .... “ chi è?” chiesero in coro gli altri . “Franc‘tiell,,” . “E che c’entra quel povero cristo? chiese il Segretario comunale. “ Non c’entra niente ma, proprio un santo non è. Mi hanno riferito che questo Franc’tiellu puntualmente, ogni sera, nonostante abbia una famiglia da sfamare, si permette il lusso di sbarcare da una cantina all’altra. Si ubriaca in un modo indecente. Non si cura di coprifuochi, di ordinanze, protesta sempre contro tutti,· schiamazza e si rifiuta di iscriversi al Partito con la scusa che non tiene soldi! Vi piace o non vi piace, quello è un antifascista. Mi hanno addirittura riferito che una notte, a voce stesa, cantava bandiera rossa”. “In vino veritas” sentenziò il padrone di casa. “Scusate, disse l’istruttore, se ci facciamo scappare questa occasione e facciamo tanti scrupoli, l’antifascista ve lo sognate; Non perdete tempo allora e rispondete al Federale”. “Ma non scherziamo, disse il Segretario del Fascio, che figura ci facciamo quando si saprà che abbiamo purgato un ubriaco! “Un momento, un momento” disse il comandante della milizia,”e chi l’ha detto che ad Avellino dobbiamo comunicare che trattasi di un ubriaco?” Si guardarono tutti in faccia. Qualcuno storse la bocca, ma alla fine sembrarono tutti concordare. Della cosa si interessò l’addetto alla milizia, dopo aver fornito la guardia di una buona dose di purgativo. L’ azione dimostrativa avvenne alla solita ora di notte, testimoni alcuni avventori della cantina. La notizia si sparse il giorno dopo come un baleno, i più la interpretarono come una punizione per chi abusa di alcool e tra i più molti condivisero la misura. Il Segretario del Fascio, invece, si premurò, il giorno dopo, di inviare al Federale una nota: NA
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AI Segr. Federale del P.N.F. AVELLINO Camerata Segretario. ti comunico che ieri la Milizia ha colto il sig. P.I.P.I. in spregevole atteggiamento di sfida al Regime Fascista. Infatti. come si evince dal verbale che si allega, con fare baldanzoso, alla presenza di morigerati militanti fascisti cantava la vituperata “Bandiera Rossa “. Si è, pertanto proceduto a punire il suindicato con una dose adeguata di purga, per scoraggiare il medesimo da future sfide e per offrire fermo esempio di lealtà al Duce. Viva il Duce Il Segretario del fascio di Caposele
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Leo
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edeva immobile su una panca di marmo dietro una vetrata fumé, quasi a confondersi all’interno di quel luogo in penombra anche a mezzogiorno. Se avesse potuto, avrebbe spento anche quei lumini sospesi nell‘aria, che di bagliori proprio non ne emanavano. Quei lumi, racchiusi in un cristallo spesso, dovevano restare lì come tarli della memoria che le rodevano dentro e le davano la forza di vivere. Quelle fiammelle stanche, consumando la cera, le segnavano lo scorrere del tempo e le rammentavano, ove fosse stato necessario, che lì erano stipati, tutti i suoi affetti. Una donna minuta, invecchiata prima del tempo, nonostante i suoi cinquant‘anni, un viso scavato come l’alveo di un torrente, occhi di ghiaccio, volutamente spenti, capelli bianchi e composti come marmo statuario. La sua testa era pressoché piegata in avanti e il suo mento affondava sul nero del suo vestito su cui si stagliavano le sole mani abbandonate nervosamente in atteggiamento di preghiera nel suo grembo, sulle nere scarpe uno schizzo qua e là di fango. Si levava dal letto alle sette e trenta in punto. Rassettava velocemente il suo angusto prefabbricato e con una puntualità ossessiva si presentava all’albergo; qui c’era sempre qualcuno che, non appena la vedeva in un angolo della hall, subito si precipitava ad accompagnarla in macchina verso l’unico posto che avrebbe voluto raggiungere. Alle dodici in punto qualcuno l’avrebbe riportata a casa e poi di nuovo lì per tutto il pomeriggio, fino all’ ultima luce del giorno. Consumava, cosi, le sue giornate senza emozioni. Eppure si sentiva esplodere dentro un vulcano che a fatica tratteneva: una forza distruttiva che ella accaniva contro di lei e che non voleva esternare perché rifiutava di sentirsi oggetto di pietà. Le pesava non poco quella solidarietà e quell‘affetto, seppure sincero, che la circondavano. Quel dolore era tutto suo e non intendeva dividerlo con nessuno, nemmeno con sua madre. Il suo dolore era incommensurabile e la sua situazione, frutto di una
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molteplicità di coincidenze, ormai catalogata come orchestrata congiura di un mondo a lei ostile. Sembrava assopita su quello scanno di marmo; invece arrovellava la sua mente a ricostruire la sua tragedia, ad imprigionarla in una trama perfetta al di sopra di ogni ragionevole confutazione. Quelle ore solitarie trascorrevano, giorno dopo giorno, anno dopo anno, come repliche di drammi teatrali in cui l’autore e l’attore ad ogni spettacolo di successivo affinavano la loro monotonia tematica e artistica. E, allora le appariva Leo che era sul ballatoio a guardare quel cielo rossastro di novembre, mentre calava il sole. Era stata una giornata particolarmente calda, tutt‘ altro che autunnale. La piazza era ancora affollata dalla gente riversatasi a passeggiare. Ella era in cucina a preparare le ultime cose per la cena. Guardava nervosamente l’orologio, pensando che il marito, a breve, le avrebbe formalmente chiesto perché mai Enzo non fosse ancora ritornato da Lioni. Non passò qualche minuto che suo marito, sbottò chiedendo qualcosa che già sapeva. Fu un ‘autentica fatica esigere che le figlie si mettessero in macchina e raggiungessero il fratello a Lioni. La grande era rassegnata a non discutere l’ordine e sapeva che erano inutili le proteste della sorella che voleva trattenersi con le compagne a Caposele In quella serata calda e piacevole. Carmela sapeva che mai e poi mai le sarebbe stato consentito viaggiare da sola. Infastidiva, però, il fatto che sua sorella fosse stata costretta ad un ruolo che disdegnava e che, comunque, avrebbe dovuto recitare. Quella sera, poi, era andata oltre il dovuto: era stata capace, lei che non discuteva mai gli ordini del padre, di dire no, e no per poi soccombere in lacrime ed obbedire. Se solo avesse avuto la forza di resistere! Partite, infine, ritornò la calma. E con la calma, l’ansia di un‘attesa, le continue occhiate all’orologio, uno sguardo oltre il muro di cinta ad ogni rombo di motore. Per un momento tutto sembrò fermarsi; l’aria diventò pesante. Ad un certo punto si levò un vento caldo e polveroso e s’avvertì un senso di leggerezza. Poi, un boato, quello cupo e assordante di un treno in galleria. La terra si mise a tremare, a roteare, a sussultare, a ondeggiare. Si sentivano i rumori più disparati in lontananza: grida, lamenti, scrosci.
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Era il terremoto. Distruzioni dovunque. La gente si precipitò nel Cantiere, lontano da case squarciate e da muri pericolanti. La terra continuava a tremare e ad ogni sussulto pianti e clamori. Leo e sua moglie, nonostante fossero stati assaliti da tutta quella gente, s’erano isolati in loro stessi, ammutoliti e inebetiti dall’assenza dei loro figli. S’erano fermati sul muro che fa angolo colla via di Diomartino e di lì controllavano le confluenze stradali che sfociavano in piazza. Era decisamente un’impresa distinguere al solo chiarore della luna le figure frettolose che s’avvicendavano in quei luoghi. Erano degli sbandati che vagavano senza meta alla ricerca di questo o quel parente e che nel momento in cui si ritrovavano si avvinghiavano in segno di gioia e di soddisfazione, come se quello fosse un incontro festoso, incontro stridente con tutto quel trascinare in quel trambusto corpi sanguinanti o senza vita, quei corpi che si superava a fatica saltando o inciampando. Tutto ciò sembrava non interessarli più e più passavano le ore, più i loro sguardi s’impietrivano e a nulla valevano notizie inventate là per là su Lioni risparmiata dal terremoto. “La mala nova la porta lu viendu” si sentì di dire da una donna nel tentativo di rincuorarli. Avvertivano, all‘unisono, che s’era consumata una tragedia, quei figli che amavano fino all’ossessione, che avrebbero strettamente protetti fino a soffocarli, non sarebbero più ritornati vivi a Caposele. Era un segno poco incoraggiante il fatto che da Diomartino non una macchina scendesse verso Caposele: tutto faceva presagire che Lioni fosse un ‘immensa rovina. Già si organizzavano i primi soccorsi, si componevano i morti alla meglio e si dava assistenza ai bambini e agli anziani, intirizziti da brividi di paura, più che dalla umidità che saliva dal fiume ingrossato e spremuto dalle sue viscere benchè non fosse piovuto. Un fiume fangoso e minaccioso che strideva con quell‘aria calda e calma. C’era chi, vinta la paura, si offriva volontario per raggiungere il più vicino ospedale a trasportarvi i feriti gravi. L’ incolonnamento di macchine verso la Valle del Sele faceva presagire che quest‘ultimo lembo d’Irpinia aveva reciso ogni contatto con la Valle
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dell’Ofanto. Risultavano percorribili le strade per Materdomini e quella lungo il fiume che si collegava con la statale. Tutte le altre erano un enorme ammasso di macerie che celavano nel loro ventre cadaveri o corpi che ancora si dibattevano. Don Amerigo, coadiuvato da alcuni giovani improvvisatisi infermieri e più in là il dottor Melillo visitavano alla svelta i feriti a loro sottoposti e con una rapidità eccezionale imposta dalla necessità del momento, come Minosse nel girone dantesco, allontanavano i meno bisognosi di cure, trattenendo i casi più preoccupanti cui era assicurata una cura immediata per poi affidarli a qualche volenteroso che li dirottasse in ospedale. Si ricomponevano, frattanto, le famiglie, gli amici, i conoscenti: più passava il tempo e più si assottigliavano le file di coloro che disperatamente ricercavano i propri cari. Meno erano questi sfortunati, più acuti erano i lamenti che lanciavano alla luna, sentendosi esclusi da quella gioia di ritrovarsi che pervadeva la maggior parte dei presenti. Non tardò molto ed ecco arrivare un giovane da Lioni , e dopo qualche minuto altri ancora furono letteralmente assaltati perché raccontassero di Lioni. Si riuscì ad avere solo la notizia che lì era stato un disastro, un massacro, soprattutto dove le case erano più recenti. Fu questo il secondo colpo mortale per quei due disgraziati dai cui occhi non scorreva una lacrima. Chissà se addirittura comprendevano il senso di quel racconto terribile. Non ci fu verso di convincerli a rientrare nel cantiere. Solo all’una di notte, quando la terra riprese a tremare, si avviarono istintivamente verso casa.Suo marito avanti e lei qualche passo indietro, muti ed assenti, l’uno estraneo all‘altra, tra l’ assordante vociare di quella notte in cui nessuno avrebbe dormito o riposato. Non una volta si sentì pronunciare il nome dei figli, quei nomi rimbombavano dentro e li distruggevano , attimo dopo attimo un rimorso che non sentivano di confessarsi. Si faceva strada nella loro disperazione l’idea di aver mandato al macello due figli, di averli uniti al tragico destino dell’altro. Avevano sacrificato ed immolato la loro ragione di esistere. Com’era devastante la parabola del buon pastore che lascia l’ovile per andare alla ricerca della pecorella smarrita.
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Passò la notte. La radio già dava notizie del disastro in Irpinia e Lucania:‘ elencava i comuni , parlava di una chiesa lucana che aveva seppellito una comunità, di un palazzo popolare a Napoli e poi di Lioni, S Angelo, Laviano, già erette a capitali -simbolo di un terremoto. Parlava di migliaia di morti e di tantissimi feriti. Il sole non sorse quella mattina: dalla notte si passò ad un giorno plumbeo. Un cielo giallastro come il fiume limaccioso. Una fastidiosa pioggerella che impastava la polvere sul volto degli scampati. Le ispezioni ufficiali delle autorità del luogo incominciavano a dare le prime direttive di organizzazione di una vita collettiva che sarebbe durata per qualche tempo. Sembravano sparite le divisioni e i rancori di un tempo, in tutti o quasi si rafforzava l’idea che solo se uniti si sarebbe superata ogni difficoltà. Tra quelle rovine si faceva largo la l’idea di una città del sole che qualche settimana più tardi sarebbe stata cancellata dalle memorie. Le prime squadre di soccorso, organizzate alla meglio, scavavano ovunque ci fosse indizio di qualche corpo: prima i vivi si disse, poi i morti. E c’era già chi inchiodava quattro tavole per approntare una bara, chi scavava fosse nel Cimitero, Don Vincenzo, tutt‘altro che stanco di una notte trascorsa tra case in rovina alla ricerca di voci flebili o invocanti, era già all’ opera, a dare coraggio tra al suo popolo che stava piombando nella disperazione. Si seppe a mezzogiorno dei tre ragazzi di Caposele morti a Lioni nei crolli di palazzi che avevano ingoiato tante famiglie e fra queste tanti caposelesi. Leo e sua moglie non seppero mai del recupero dei corpi dei loro figli. Quando la loro morte fu certa, la moglie di Leo uscì dalla sua pietrificata solitudine: sentì che sarebbe dovuta diventare compagna e madre di Leo, avvertiva che sarebbe stato fatale abbandonarlo al suo dolore incapace di esplodere. Sapeva, pure, che quel ruolo spettava a lei e non ad altri perché solo lei sapeva leggere pazientemente nella mente di lui, solo lei poteva decifrare quell’apparente calma di uomo forte e inflessibile. Non l’avrebbe lasciato nemmeno per un momento solo: doveva reprimere il dolore che la corrodeva dentro e rimandarlo a tempi più sereni. NA
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Ora non era tempo di piangere e disperarsi. Le sembrò una liberazione e un sollievo la notizia del fratello venuto per portarli lontano da Caposele. Comunicò subito la notizia al marito e non le sembrò che si opponesse. Certo aveva perduto la capacità di decisione che in passato non delegava a nessuno. La donna, allora, quasi ad anticipare i tempi per staccarsi da un posto familiare e carico di ricordi che poteva essere pericoloso per il marito, già nel primo pomeriggio aveva riempito valigie e pacchi. Li aveva posati nel1’androne per convincere se stessa e Leo di una decisione ormai assunta dalla quale non era più possibile ritrarsi. Non le era, però, servito a niente affrettarsi , prima che calasse il sole. Le rimaneva ancora qualche ora e queste inevitabilmente le consumò vagando in quelle due stanze che pure aveva serrato per vietarle a suo marito. Stanze chiuse che già risentivano di una assenza. Ogni cosa era al suo posto; la scrivania con libri e quaderni aperti, come il fotogramma di un film interrotto da uno spot, l’armadio socchiuso, la maglia rossa sulla spalliera di una sedia. Nella penombra di quelle stanze, la donna esplose in lacrime soffocando ogni lamento: un pianto abbondante che tratteneva da giorni e che le aveva inondato tutto il viso. Non appena sentì il rumore di passi familiari, corse nel bagno, facendosi cogliere nell’atto di lavare la faccia. Indugiò, vedendolo sulla porta, prima nell‘ asciugarsi e poi nel pettinarsi. Scesero entrambi giù nel cortile. Trascorsero un‘ altra notte in macchina avvolti tra coperte di lana. La donna non chiuse occhio pensando al viaggio: fu la stessa sensazione della prima partenza da Caposele, quand’aveva vent‘anni ed era combattuta tra il desiderio di andare e quello di restare. Suo fratello arrivò puntualmente, caricò le valigie e i pacchi m macchina giusto il tempo per i convenevoli tra amici e parenti lì accorsi per salutarli. Leo sembrava aver riacquistato una rassegnazione, se non proprio la serenità, ed era lì appoggiato alla macchina ad ascoltare sua moglie che discuteva con i vicini. Si era lì per mettersi in macchina; dopo un momento di indecisione, Leo corse su per le scale dicendo che
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aveva dimenticato la sua carta di identità. La donna ebbe appena il tempo di dire a suo fratello di raggiungere in fretta suo marito in casa, che si sentì un forte sparo di fucile e dopo qualche secondo un grido. Le si rizzarono i capelli in testa e un brivido l’attraversò tutta. Ora era “veramente sola: non era stata capace di salvare il suo uomo e il suo uomo non le aveva permesso di condividere la sua scelta di morte. Le ritornarono nella mente questi pensieri, stretta lì tra la vetrata fumé e i loculi di marmo, quando sentì qualcuno tossire. Non si curò nemmeno di sollevare la testa, si alzò, lanciò uno sguardo alle lapidi, fece un segno di croce e usci sul vialetto. Il cielo era quello di sempre, l’aria alquanto più fredda del solito. Sperava in cuor suo che l’indomani non piovesse; la tristezza della pioggia avrebbe attutito la sua voglia di sofferenza.
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L’ultimo racconto
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n una stanza bianca ed angusta, era serenamente assopito sotto il peso silenzioso delle lacrime dei suoi cari. Pietrificato? Non direi. Il suo viso non era ancora vinto dal pallore; giurerei che sorrideva ancora, sembrava che sfidasse beffardo la morte. Che brutti scherzi ti fa l’amicizia! Fuori splendeva un sole tanto atteso, dopo giorni e giorni di una uggiosa pioggia incessante che aveva annacquato la primavera.... L’ultima volta che l’avevo visto, Donato mi aveva parlato, appunto, di una stagione che s’era presa gioco di noi tutti, mentre incombeva una campagna elettorale. Lo vedo ancora là, seduto dietro la sua scrivania che, all’occorrenza, si trasformava in laboratorio “tipografico”, stretto tra scaffali ed il suo computer, con un occhio intento a sbirciare sul cortile chiassoso, dove, in genere, i bimbi giocano e le donne, sedute su scanni, ragionano. E lì a farsi in quattro tra montagne di carte, pressato dalle scadenze e dai committenti che riceve cordialmente e pazientemente nello studio. “Chiedi a Donato!” dice Nicola”Parla con mio Zio”! gli fa eco Salvatore. Si, perché Donato, in fondo, è l’anima di quello studio, è il testimone muto e laborioso di tante vicende che si sono sgranate come un rosario, in questi ultimi trent’anni... Ha fretta Donato in questi giorni: è come se non voglia concedere più tempo al tempo. Eppure è sempre calmo ed imperturbabile, per niente nervoso, non ti nega l’ascolto e meno che il suo inconfondibile sorriso. Si intuisce, però, che tenta di accelerare il corso delle cose. Discutiamo di tutto partendo dal nulla e alla fine si affastellano idee, timori, ricordi e progetti futuri. Ripercorriamo assieme, come solo sanno fare due vecchi amici, gli anni del terremoto, NA i primi vagiti de “La Sorgente” ormai PAGI
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adulta che reclama di esistere. Mettiamo alla prova la comune passione per l’Inglese. E, alla fine, il discorso va sempre a cadere su un libro di “acquerelli Caposelesi” che pure reclama di vedere la luce. “Me lo prometti una buona volta di incollarti a quella sedia e di discutere seriamente di questo progetto? In fondo, tutto è pronto, si tratta solo di dare ordine cronologico ai racconti e poi per il resto sarà cura mia?” Io gli dico per l’ennesima volte si ed egli prontamente mi risponde: “Speriamo che sia la volta buona!”. Tento di mollargli istintivamente una sigaretta, dicendogli che Nicola non c’è....Declina gentilmente e mi e mi ricorda che ormai non fuma più da mesi. Aggiunge:”Non posso più scherzare col fuoco, la cosa è diventata tremendamente seria e non mi posso permettere il lusso di trasgredire”: Avverto che si sente appeso ad un filo: è il suo prolungato silenzio a farmelo capire. Gli chiedo come stanno a casa. E come un fiume in piena, ritrova vigore e parla di Rosetta, della figlia lontana di cui sente nostalgia dell’altra così premurosa, del suo adorato ometto e dell’ altra ancora che lo ha reso nonno per la prima volta. Ritorna a sorridere e non sta più nella pelle: non è cosa da niente essere nonno quando si deve sentirsi ancora necessariamente padri. Lasciamo lo studio per andare a bere un caffè al solito bar; si rientra e si lavora duro sulle bozze di un altro racconto che egli ha corretto meticolosamente e con discrezione. Ormai è tardi e decide di rientrare a Petazze. Lo attende la sua casa; a guardarla bene, sembra un cottage inglese, immerso in un giardino lussureggiante su una collina brulla e frustata incessantemente dal vento. Quel giardino è curato nei minimi particolari tanto da apparire artificiale... Sarà vero? Ad un tratto mi sovviene che Donato è un Conforti e allora mi convinco che quello è un miracolo verde che solo chi ama la natura, come i Conforti, sanno fare.
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ACQUERELLI CAPOSELESI
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I CAPOSE
On line su “SELETECA” 2014
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