Breve storia della scuola italiana

Page 1

Michele CERES

BREVE STORIA DELLA SCUOLA ITALIANA

Autoedizione


Michele CERES

G

EN

TE

SO R

AR

C

H IV

IO

LA

BREVE STORIA DELLA SCUOLA ITALIANA

Autoedizione

0


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

1


Introduzione

AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

Sono entrato nella Scuola, come tutti, all’età di sei anni e ne sono uscito all’età di sessantacinque anni. Ho vissuto, per intero, le vicende che l’hanno coinvolta dal dopoguerra a oggi. Ho assistito e anche partecipato, come insegnante, ai tentativi di positive innovazioni, talvolta riusciti, ma tante volte infruttuosi. La Scuola italiana sembra che sia l’eterna ammalata, cui non si riesce a somministrare la medicina risolutiva. E continua, così, a sopravvivere incapace, quasi sempre, di incidere positivamente sulle dinamiche dello sviluppo della società. Difficile storicamente è stata ed è tuttora la coesistenza e la reciproca collaborazione tra gli indirizzi classico e tecnico. Non pochi sociologi e pedagogisti, specie nel passato, hanno sottovalutato il valore formativo della scienza e della tecnica. La Scuola, per dirla in breve, è stata, non di rado, l’arena di scontri di natura ideologica. Ne è conseguita, ad esempio, ma non sono solo questi i motivi, l’annosa e non ancora compiutamente risolta questione dell’interazione della Scuola con il mondo imprenditoriale. Positive iniziative, ma pur sempre timide, sono state poste in essere con i cosiddetti corsi post-­‐qualifica degli istituti professionali. Intendiamoci, le colpe non sono da attribuire sempre e comunque alla Scuola. Spesso gli imprenditori, coloro cioè che più di tutti dovrebbero favorire l’osmosi tra scuola e mondo produttivo, dimostrano scarsa disponibilità a instaurare questo reciproco e fattivo rapporto di collaborazione, perché il loro interesse non è 2


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

proiettato verso il futuro, ma è rivolto prevalentemente al guadagno immediato. Eppure le analisi economiche sulla formazione e sullo sviluppo del “capitale umano” si sprecano. Se un tempo era possibile tenere separati il momento dell’apprendimento a scuola da quello in fabbrica, in ufficio o nell’esercizio della professione, quasi fossero due scansioni biologiche della vita della persona, oggi questa distinzione non è più assolutamente giustificabile. I tempi dell’apprendere e del lavorare, del sapere e del saper fare non possono più restare separati, ma si debbono sovrapporre. In breve, con questo volumetto ho voluto offrire a insegnanti, alunni e a operatori scolastici, in genere, un modesto compendio della storia della nostra Scuola dalla proclamazione del Regno d’Italia a oggi, delle vicende che l’hanno vista protagonista, delle controversie ideologiche che spesso l’hanno interessata, con l’auspicio che possa anche costituire un arricchimento utile a promuovere negli operatori scolastici più coscienza e consapevolezza della loro alta e insostituibile funzione. In tal senso, ho ritenuto, altresì, utile, ai fini di una più approfondita conoscenza della presenza dell’istituzione scolastica nel Mezzogiorno d’Italia, di riportare in appendice una mia precedente analisi sulle condizioni della scuola al tempo dei Re Borbone, tratta dal libro “Il Re è morto, viva il Re”. L’Autore

3


Capitolo 1° -­‐ Dall’Unità al fascismo

AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

Nel 1861, anno dell’unificazione nazionale, la scuola italiana si trovava in una drammatica situazione. Su ventidue milioni di Italiani ben diciassette milioni erano analfabeti. Su 100 cittadini 78 non sapevano né leggere né scrivere. Certo il quadro era diverso da regione a regione e il divario tra Nord e Sud, anche nel caso della scuola, era enorme. Nel Piemonte sabaudo gli analfabeti erano cinquantasette persone su 100, in Lombardia cinquantanove, in Toscana settantasette. Il record negativo spettava alla Sardegna e alla Basilicata con il 91% di analfabeti. In totale i bambini italiani che frequentavano le scuole elementari (esclusi quelli del Veneto che resteranno sotto l’Austria fino al 1866) erano un milione e otto mila, di cui 579.000 maschi e 429.000 donne. Queste scomparivano quasi del tutto nelle scuole superiori. Solo 6 Italiani su 10.000 frequentavano le scuole secondarie e solo 3 su 10.000 andavano all’università. Ben diversa era la situazione nel resto d’Europa e in America del Nord. In Germania, Svizzera e Stati Uniti gli analfabeti costituivano il 20% circa della popolazione, il 31% in Inghilterra e il 47% in Francia. La scuola italiana era, in sostanza, appannaggio delle classi sociali più agiate e due terzi degli insegnanti erano preti e frati. Gran parte delle scuole era, infatti, in mano alla Chiesa, che da secoli, in molte regioni, gestiva, pressoché totalmente, l’istruzione. 4


EN

TE

Oltre al tasso di analfabetismo più basso, il piccolo Piemonte poteva vantare un altro primato, quello degli asili infantili. Ne contava poco più di un centinaio. E gli asili erano una di quelle istituzioni cui i liberali e i patrioti delle altre regioni italiane guardavano con simpatia. Ancor più sconfortante si presentava il quadro dell’istruzione nell’ex Regno delle Due Sicilie. Di fronte a tale desolante panorama scolastico è chiaro che l'imperativo dei politici, che stavano per prendere in mano le redini dell’Italia unita, era di affidare alla scuola il ruolo fondamentale di unificare la coscienza degli italiani. La missione costituiva una vera utopia. Un’istituzione carente, retriva disorganizzata e bisognosa essa, per prima, di investimenti e risorse difficilmente avrebbe potuto assolvere la funzione di formare la coscienza nazionale. Forse sarebbe stato meglio scegliere l’opposto. In tal senso il pedagogista Aristide Gabelli così avvertiva: “Il miglioramento della nazione migliora anche le scuole. Un popolo libero e colto non tollera scuole in cui si insegni la servitù, si infiacchisca e si prostri l'ingegno. Più difficile è certamente il contrario: che cioè le scuole fatte migliori, migliorino anche il Paese”. Altre voci autorevoli denunciavano, inoltre, l’esistenza di problemi assai più a monte e assai più impellenti. «Che volete che faccia dell'alfabeto colui al quale manca l’aria e la luce, che vive nell'umido, nel fetore, che deve tenere la moglie e le figlie nella pubblica strada tutto il giorno?» scriveva Pasquale Villari. «Se gli date l'istruzione, se gli spezzate il pane della

AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

5


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

scienza, come oggi si dice, risponderà come ho inteso io: "lasciatemi la mia ignoranza, poiché mi lasciate la mia miseria"». Non pochi, infine, temevano che la scuola, se allargata indiscriminatamente a tutti, comprese le "classi subalterne", non potesse che fatalmente trascinare con sé germi di futuri scontenti e di ribellioni. Non a caso, nel suo conservatorismo illuminato, il Gabelli proponeva la formula tranquillizzante di una scuola formatrice di «gente seria, ordinata e tranquilla, che attendesse ai fatti suoi, che riponesse fiducia nel proprio lavoro, invece che nel nuocere agli altri, retta, leale, senza fisime e senza sogni tormentatori». Una soluzione prudente e paternalistica che s’inseriva nella concezione che già altri liberali progressisti avevano assunto. Lo stesso Francesco De Sanctis, dando corpo al suo progetto di riforma, comprese che doveva procedere secondo un approccio graduale e per tappe per non creare situazioni dirompenti sul piano sociale e politico difficili da controllare. Così, infatti, si esprimeva nel suo libro <Scritti e discorsi sull’educazione>: "Dare a tutti gli ordini sociali la medesima istruzione è non solo vanità ma danno; che un'istruzione superiore al bisogno ed al proprio stato alimenta disordinati desideri, desta passioni che non si possono soddisfare, rendeci inquieti e scontenti, e nutre di ambizione, di vanità e di superbia i nostri animi. Ma vi è un’istruzione necessaria a tutte le classi, ordinata a darci una chiara coscienza della nostra dignità e de’ nostri doveri, ed a formare la ragione pubblica, 6


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

che tempri e regga i moti inconsulti dell’anima, e dia all’opinione un indirizzo costante e sereno”. Da un lato, quindi, vi era l'istanza di far coincidere progresso scolastico con progresso democratico, dall'altro si prospettava l’opportunità di cautelarsi contro l'ascesa di forze nuove e potenzialmente sovvertitrici. Dal canto suo, il Gabelli sintetizzava il problema dell'istruzione con un apologo, de-­‐ stinato a rimanere famoso nelle cronache della pedagogia, la storia del pesce vivo e del pesce morto. Un paese si era diviso in un accesissimo diverbio attorno al quesito se pesasse di più un pesce vivo o un pesce morto, finché ad un uomo saggio non era venuto in mente di pesare un pesce prima vivo e poi morto e stabilire, di conseguenza, che il peso era identico. «Ecco» concludeva il Gabelli «lo scopo della nuova scuola deve essere quello di accrescere di mano in mano il numero di coloro ai quali venga in testa di pesare il pesce innanzi di darsi a credere, nonché a dimostrare, che morto pesi più che non vivo». Con la proclamazione del Regno d’Italia, fu estesa a tutto il territorio nazionale la legislazione vigente nel Regno di Sardegna e, quindi, anche la legge Casati, dal nome del ministro dell’istruzione Gabrio Casati che l’aveva predisposta. Questa legge era stata promulgata il 13 novembre 1859, quattro mesi dopo l’armistizio di Villafranca. Essa poneva termine alla grande difformità di organizzazione dell’istruzione pubblica esistente tra gli Stati italiani preunitari e confermava la volontà del nuovo Stato unitario di farsi carico del diritto-­‐ 7


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

dovere di intervenire in materia scolastica. Dal punto di vista legislativo la legge Casati organizzava, in modo centralizzato ed uniforme, ogni settore dell’Amministrazione scolastica, da quella centrale a quella periferica, sia sul piano amministrativo sia su quello della didattica. Istituiva, altresì, a livello centrale un Consiglio superiore della pubblica istruzione, formato da personalità del mondo della scuola, della cultura e della politica, come organo consultivo del Ministro. Quest’ultimo era coadiuvato dagli Ispettori nominati dallo stesso Re. A livello periferico la Legge prevedeva un Rettore per ogni università, un regio Provveditore per le scuole secondarie e i regi ispettori per le scuole primarie. Composta di ben 734 articoli, la legge Casati rendeva obbligatoria e gratuita l’istruzione elementare per un biennio, ma solo, dove i comuni avevano possibilità finanziarie per farlo. Cosicché al centro e al sud, cioè nelle zone d’Italia più povere, questa nuova regolamentazione influì poco o nulla sull’istruzione delle masse. Più importante fu invece la sua influenza nelle scuole secondarie e superiori. La legge, inoltre, suscitò diffidenze e riserve nel mondo cattolico perché, in sostanza, laicizzando la scuola, finiva per intaccare il tradizio-­‐ nale monopolio della Chiesa nel campo dell’istruzione. Il suo asse portante continuava a essere il ginnasio-­‐liceo, mentre disattendeva, quasi totalmente, l'esistenza delle scuole tecniche e il loro adeguamento ai nuovi ritmi di produzione. In altre parole, la Legge Casati trascurava un aspetto che già, allora, stava assumendo un carattere sostanziale nel campo 8


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

dell’istruzione, cioè il collegamento tra il mondo della scuola e quello del lavoro, un nodo difficile da saldare. Lo sperimentarono, da subito, legislatori e pedagogisti in un'alternanza di progetti, ipotesi e sperimentazioni a volte ardite, a volte più improvvisate che sensate. In campo didattico, il metodo più caldeggiato dai pedagogisti era quello sperimentale della lezione oggettiva o "lezione per mezzo de' sensi", come veniva chiamata, in contrapposizione alla tradizionale lezione espositiva. Contro tale metodo non tardarono a sorgere serie e insistite reazioni. “I programmi in tal modo risultano troppo folti e caotici» era la più comune obiezione «è necessario sfrondarli, abolire l’insegnamento scientifico dalla scuola primaria. A che serve al fabbro conoscere la classificazione del mondo animale?”. E ancora: «La scienza non è pane per i denti dei fanciulli». «Voi ammettete tre gravi errori» era la risposta dell’ala progressista: «Il primo è una mera calunnia contro la capacità dei fanciulli. Il secondo è di voler prevedere quello che sarà il nostro fanciullo una volta fatto adulto, il terzo consiste nel non credere necessaria la scienza del mestiere». Qualcosa, però, pur tra la diversità delle opinioni, si fece. Fu introdotto, fra i programmi, il lavoro manuale e la ginnastica. Considerati i tempi, non erano innovazioni di poco conto; anzi, apparivano rivoluzionarie. L'esempio giungeva dall'estero, specie dalle scuole tedesche. Il principio pedagogico, come scrive Dina Bertoni Jovine, era di «porre in primo piano la cura delle energie fisiche dell'alunno, la formazione di abitudini alla 9


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

solerzia, come mezzi per vincere la poltroneria e quel senso di apatica rassegnazione alle cose che era il vizio morale più grave della popolazione». E fu tutto un fiorire di manifestazioni pubbliche. Saggi ginnici, feste ginniche per i maschietti, esercitazioni ritmiche e danze per le ragazze con partecipazioni di autorità e personalità di rilievo, quando non membri della famiglia reale. Si rispolverarono informazioni sull'importanza dell'attività ginnica nell'antica Grecia. La ginnastica venne improvvisamente da molti considerata materia primaria, al centro, addirittura, dell'azione educativa. In un crescendo di entusiasmi e di proposte riformatrici si anticiparono di molte lunghezze (anche come audacia) gli attuali concetti d’interdisciplinarietà e si parlò di abbinare la ginnastica alle lezioni di lingua, matematica e altre materie. Dopo la "lezione per mezzo de' sensi" e dopo la ginnastica giunse un nuovo metodo a sollevare entusiasmi, dibattiti, contrasti: il gioco o meglio il gioco-­‐lavoro. Anche in questo caso si trattava di un metodo importato dall'estero, più precisamente dalla scuola del pedagogista tedesco Friedrich Fròbel. Il gioco–lavoro era qualcosa di più che non un semplice metodo didattico. Era un principio mistico-­‐spirituale, secondo il quale l’istruzione era considerata come un processo formativo della personalità dell’alunno, attraverso il quale il ragazzo acquistava conoscenza del divino che si realizzava nell'universo e s’identificava con esso. Scopo della scuola era 10


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

di condurre la vita individuale a partecipare coscientemente all'attività dello Spirito Assoluto. Il collegamento gioco-­‐lavoro-­‐cultura pareva destinato a trovare la sua soluzione più spontanea nelle scuole rurali, là dove già il mondo del lavoro era parte integrante dell'attività degli scolari. Nacquero, così, i «campicelli scolastici», che nelle intenzioni del legislatore avrebbero dovuto avviare un rinno-­‐ vamento dell'attività agricola con l’insegnamento e l'adozione di tecniche e teorie moderne. Già, ma i maestri non possedevano le necessarie competenze per poterle insegnare. Così anche i «campicelli scolastici» finirono presto nel limbo delle buone intenzioni, relegati a orari e interessi sempre più marginali e riempitivi L’aggancio tra scuola e mondo del lavoro non si riuscì a trovarlo neppure con la scuola tecnica. Si provava ora ad aggiungere ora a togliere qualche materia, a ispirarsi ora a questa ora a quella nazione europea, a trasferire le responsabilità da un ministero all'altro (dalla P.I. all'Agri-­‐ coltura, all'Industria e Commercio), ma proprio non si decollava. «Nella nostra scuola tecnica» commentò amareggiato alla camera Quintino Sella, «di tecnico non c'è assolutamente nulla». E Aristide Gabelli, più demolitore ancora, rincarava: «Le scuole tecniche in Italia sono sorte sotto l’influenza di una stella comica».». Ma di comico c'era poco: classi superaffollate (con punte di 70-­‐80 allievi), insegnanti che si sentivano (e in parte lo erano) declassati nei confronti dei colleghi dei ginnasi, ambiguità di 11


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

programmi, a loro volta rivaleggianti con quelli delle scuole a indirizzo classico. In altre parole, insegnanti e allievi non volevano sentirsi di categoria B nei confronti delle "classi privilegiate". Soprattutto le famiglie degli allievi non intendevano che i figli dovessero essere fatalmente destinati a rimanere entro l'ambito di determinate fasce sociali. L'ordinamento scolastico della legge Casati, invece, aveva previsto una collocazione per ogni ordine sociale attraverso i tre tipi di scuola: per la borghesia il liceo e l'università, per i figli "degli artieri e piccoli commercianti" la scuola tecnica, per il popolo le scuole elementari con le discrezionali appendici di scuole domenicali, di arti e mestieri eccetera. Un filo esile ma esistente, collegava, tuttavia, i tre ordinamenti, consentendo, quantomeno teoricamente, la possibilità di circolazione fra le classi. Ed era a questo filo che si attaccava tenacemente l'ambizione degli artigiani e dei piccoli commercianti, ansiosi di far compiere ai loro figli un salto di classe sociale. «Di qui» -­‐ annotava il Gabelli -­‐ «il volgersi alle professioni di un numero sempre crescente di giovani che non hanno in famiglia esempi e tradizioni di studi. II figlio del pizzicagnolo vuol fare il medico, quello del falegname si avvia a diventare avvocato. È un bene se hanno volontà e ingegno che basti. Ma purtroppo nella maggior parte dei casi questo spostamento di condizioni è una difficoltà di più per la scuola».

12


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

Nel 1871, dieci anni dopo l'Unita d'Italia e un anno dopo l’ingresso dei bersaglieri a Roma, il quadro non era granché mutato. La piaga dell'analfabetismo restava ancora gravissima, anche se, in percentuale, gli analfabeti costituivano non più il 78 ma il 73 per cento della popolazione italiana. In Piemonte il tasso di analfabetismo era sceso al 50 per cento, in Lombardia al 52,8, in Liguria al 62,2 e in Veneto al 69,9 per cento, ma in Basilicata era ancora dell’89,9 %. Nel complesso, il problema scuola era ancora di una gravità enorme. Ed era sempre e innanzitutto un problema politico. Per attenuarne i mali erano necessari maggiori stanziamenti. Invece, all’epoca, le spese per l'istruzione pubblica erano pressoché insignificanti. Occupavano il settimo posto nelle spese dei vari dicasteri e venivano di gran lunga (con uno stanziamento globale di appena 16 milioni di lire) dopo quello delle finanze (391 milioni), della guerra (250 milioni), dei lavori pubblici (95 milioni), della marina (78 milioni), degli interni (71) e di grazia e giustizia (31). Un rapporto di spesa che rimarrà invariato per decenni. Nel 1870 l'ala pedagogica più progressista fece la proposta di annullare il divario fra liceo e scuola tecnica. Il ministro Cesare Correnti presentò alla camera un progetto che prevedeva la fusione fra i due tipi di scuola. Ma la riforma Coppino nel 1879 ignorerà tali istanze rifiutando ogni progetto di unificazione, nell'assunto che «anche il senso comune dice utopia il voler obbligare tutti allo stesso sistema di educazione e poterla dare a tutti nel medesimo grado». La severità degli studi classici fu anzi accentuata; fu resa sempre più rigorosa, più selettiva e 13


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

più classista, fino a toccare la sua punta estrema nel progetto Nasi del 1902, che, suddividendo gli alunni fra coloro che avrebbero interrotto gli studi e coloro, invece, che li avrebbero proseguiti, sanciva una discriminazione fin dalla scuola elementare Contro la scuola media unica, pur nelle diversità della loro appartenenza culturale, si schierarono voci autorevoli di eccelsi e valenti studiosi, da Gaetano Salvemini che diceva “Tutto sta a vedere se sia migliore democrazia quella che dà a tutti i piedi la stessa scarpa, o quella che dà ad ogni piede dia la scarpa che gli abbisogna” a Giovanni Gentile, il quale contestò l'intera impostazione del progetto, formulato, a suo avviso, su un errato concetto di cultura. “Cultura” non è un determinato patrimonio di nozioni» -­‐ sostenne -­‐ «ma sviluppo spirituale»; conseguentemente la scuola media non doveva essere “scuola di scienza ma di «preparazione alla scienza”, vale a dire di «quelle qualità spirituali con le quali qualunque scienza può essere conquistata». Nel febbraio del 1908, la commissione reale per la riforma della scuola media, di cui fino al 1906 fecero parte Salvemini, come rappresentante della Fism (Federazione insegnanti scuola media), presentò uno schema di progetto, che prevedeva una scuola unica della durata di tre anni preparatoria di cultura, in cui non era previsto lo studio del latino. La riforma prevedeva, inoltre, l’acceso alla scuola superiore con studi differenziati: liceo classico, scientifico e moderno. 14


SO R

G

EN

TE

Anche la scuola elementare fu oggetto di riforma. Ma anche in questo caso, la sua conclusione sarà una legge, la riforma Orlando del 1904, che deluderà un po' tutti per la modestia dei risultati. La nuova legge contemplava l'estensione dell’obbligatorietà scolastica dal 9° al 12° anno di età e un corso comune fino alla quarta classe. Dopo di che un esame di maturità immetteva nella scuola media gli allievi che intendevano proseguire negli studi; per gli altri era previsto un "corso popolare" di tre ore quotidiane di lezione (per evitare interruzioni dell'eventuale attività lavorativa) della durata di due anni: la quinta e la sesta. La nuova scuola elementare, con l’aggiunto onere del pa-­‐ tronato scolastico, rimaneva affidata alle singole ammini-­‐ strazioni comunali. Tale scelta, come era facilmente prevedibile, accentuò il solco tra le scuole dei comuni più ricchi o più organizzati e quelle dei comuni poveri o trascurati, specie quelli rurali. All'insostenibile situazione si cercò di porre rimedio nel 1911 con la Legge Daneo-­‐Credaro, che trasferiva l'amministrazione delle scuole elementari (salvo la gestione degli edifici e del materiale scolastico) dai comuni ai consigli provinciali, migliorava la condizione dei maestri, che diventarono dipendenti dello Stato, e costituiva il patronato scolastico in ente pubblico. Ma tutto procedeva fra lentezze e delusioni. Rimanevano undici milioni di analfabeti e un'edilizia scolastica quasi inesistente (lo stato, in quel periodo, era più preoccupato a turare le falle della guerra di Libia che non quelle dell'istruzione pubblica). I problemi più gravi erano

AR

C

H IV

IO

LA

15


EN

TE

rimasti insoluti, i lati positivi continuavano a rimanere sulla carta. Ripresero i dibattiti, le altalene di proposte, i fermenti delle associazioni degli insegnanti, ma già l'orizzonte si stava incupendo per i bagliori della prima guerra mondiale.

SO R

G

H IV

IO

LA

AR

C

Refezione in una scuola di fine ‘800 16


Capitolo 2°-­‐ Gli anni del fascismo, libro e moschetto

AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

Nel 1921 Giovanni Giolitti, per l’ultima volta presidente del consiglio dei ministri, affidò la carica di ministro dell’istruzione a Benedetto Croce. Una scelta di altissimo profilo culturale. Ma era troppo tardi. Il sistema liberale stava ormai cedendo il passo al fascismo. Toccò all'altro grande maestro della filosofia italiana, Giovanni Gentile, varare una riforma radicale della scuola italiana. Gentile fu ministro dell’istruzione dal 30 ottobre 1922 al 26 giugno 1924. La sua riforma fu un complesso d’indirizzi teorici, scelte politiche e provvedimenti organizzativi, che costituì una svolta storica nella vicenda della scuola italiana. Fu, contemporaneamente, considerata dai fascisti “fascistissima” e dai liberali come esito naturale di un lungo e sofferto processo di elaborazione culturale. Sta di fatto, però, che le idee si tramutarono in fatti allora e non prima. Non a caso, la valutazione della riforma Gentile, la creazione dell'Enciclopedia italiana e altre realizzazioni culturali animate dal filosofo siciliano costituiscono, ancora oggi, dei nodi da sciogliere per gli studiosi che pongono il problema dei rapporti fra liberalismo e fascismo e tra fascismo e cultura. Gentile risolse con una sterzata in senso autoritario i problemi del governo della scuola. Al vertice tornarono a essere di nomina regia i componenti del Consiglio superiore della pubblica istruzione, mentre nelle singole scuole un potere enorme fu conferito a quello che, non a caso, fu chiamato il "preside-­‐duce". Nelle scuole elementari, fino allora 17


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

sufficientemente larghe di autonomie comunali, si accentuarono le forme di controllo e d’intervento statale. La scuola media e il liceo classico videro restaurato il loro ruolo centrale di canale di selezione sociale e di formazione culturale delle classi dirigenti. In subordine, seguiva il liceo scientifico e, in posizione ancor di più marginale, il liceo femminile, una tipica creazione fascista e gentiliana, ove elegantemente erano ghettizzate le donne, ancora non considerate nate per pensare e per dirigere. Il carattere fortemente selettivo su base sociale e disciplinare, la riduzione degli spazi e della dignità della cultura tecnica e degli itinerari professionalizzanti trovarono resistenze all’interno stesso del fascismo e negli ambienti industriali, tant’è che si resero necessari, negli anni successivi, ritocchi e aggiustamenti. Al termine del percorso di studi, la riforma Gentile prevedeva un esame di Stato, magnificato e temuto ancora oggi nel ricordo di quanti l’hanno sostenuto. L’ostacolo maggiore che impediva al fascismo il pieno consenso del popolo era rappresentato dalla Chiesa, la quale, tuttavia, avvertiva la necessità di porre fine alla sua resistenza verso lo Stato liberale, dissenso che datava sin dall’ingresso dei bersaglieri a Roma. Un accordo era auspicato da entrambi i poteri. Ma, a chi spettava educare la gioventù? Gentile era ben disposto a lasciare all’insegnamento fideistico e dogmatico della Chiesa i ragazzi delle scuole elementari. Altra cosa era, invece, l’insegnamento nella media, nelle superiori e 18


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

nell’università, ove lo stesso si sarebbe dovuto uniformare alle teorie dell’idealismo moderno. Il Concordato del 1929 rappresentò un accordo politico che, per il momento, sembrava vantaggioso sia per il fascismo sia per la Chiesa, ma, nei fatti, era foriero di scontri e polemiche. Fu proprio sul terreno dell’educazione della gioventù che di lì a poco si sarebbero scatenate le tensioni, per il momento latenti. La presenza della chiesa, riconosciuta ed estesa dal patto concordatario, fu, comunque, fortissima nella scuola. Preti e suore dei diversi ordini controllavano un cospicuo numero di scuole private. In quelle elementari pubbliche, la religione cattolica si vide riconosciuto un ruolo fondamentale; nelle secondarie, invece, fu introdotta come disciplina facoltativa, che il conformismo sociale la rese, comunque, quasi un obbligo. In campo universitario, a Milano, frate Agostino Gemelli, filosoficamente e politicamente una sorta di anti-­‐Gentile di parte cattolica, anche se vicino al fascismo, irrobustiva le strutture e l'influenza dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, destinata a diventare il principale centro di preparazione della classe dirigente del secondo dopoguerra. Intanto, dopo aver modificato le strutture della scuola, il fascismo mise mano alla "bonifica" dei libri di testo, in particolare di quelli in uso nelle varie classi delle elementari, che furono preparati da uomini di fiducia del governo. Stampati a cura dello Stato, sulla scorta di una vera e propria pianificazione culturale, i nuovi testi furono imposti a tutte le scuole del Regno. 19


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

Un imponente meccanismo di trasmissione del sapere, ispirato alla triplice parola d'ordine Dio-­‐Patria-­‐Famiglia, adeguato, di volta in volta, ai bisogni del regime (colonialismo, imperialismo, razzismo, preparazione alla guerra), si irradiava, con sempre nuove edizioni, dal centro verso le più remote scuole rurali. Non si pensi che si trattasse sempre e solo di banali catechismi politici. Erano dei catechismi, è vero, ma gli uomini che il regime reclutava e metteva al lavoro nei diversi campi disciplinari erano, non di rado, rinomati tecnici del ramo e uomini di grande spessore culturale, disponibili a una professionalità militante in camicia nera: Grazia Deledda (premio Nobel per la letteratura 1926), Angelo Silvio Novara (poeta e scrittore), Cesare Angelini (scrittore e critico letterario), Roberto Paribeni (archeologo e storico dell’antichità), Luigi De Marchi (geofisico), Gaetano Scorza (matematico) furono la punta di diamante dei tanti studiosi impegnati dal fascismo in quella colossale impresa di direzione statale delle coscienze. Non meno significative furono le iniziative di autori e di editori di adeguare alla mistica fascista e al clima politico imperante ("Libro e Moschetto") anche i libri per le scuole secondarie. Un’attenta e oculata regia rappresentava con racconti, episodi e apologhi della storia d’Italia le glorie nazionali dall’antica Roma all’avvento del fascismo.

20


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

Anche l’università fu fascistizzata ed ebbe le sue forme di coin-­‐ volgimento e di militanza: Littoriali, Gruppi universitari fascisti, Milizia universitaria. Nel 1927 l'Opera Nazionale Balilla assunse il controllo dell'educazione fisica nelle scuole elementari e medie, controllo che fu solo l'inizio di un progressivo allargamento degli spazi sottoposti alla sua giurisdizione (assistenza, tempo libero, attività parascolastiche, scuole rurali ecc.). Non a caso il presidente di tale organizzazione rivestiva anche la carica di sottosegretario del Ministero della Pubblica Istruzione, ribattezzato nel 1929 più ambiziosamente Ministero dell'Educazione Nazionale. Dal 1936 e fino alla caduta del regime nel 1943, ministro dell'Educazione Nazionale fu Giuseppe Bottai, uno dei gerarchi fascisti più lucidamente impegnato a studiare le forme e le condizioni di formazione di una classe dirigente capace di proseguire e perpetuare l’opera della generazione fondatrice del fascismo. La sua maggiore intelligenza, rispetto alla media della classe dirigente fascista, gli consentì di elaborare una proposta di riforma scolastica, detta “Carta Scolastica”, che fu, però, disattesa per lo scoppio della guerra. La riforma Bottai, varata nel 1939, istituiva la scuola media unica, prevedeva la biblioteca di classe, aboliva il voto e, pur mantenendosi in linea con lo spirito autoritario del fascismo, si poneva l’obiettivo di superare il nozionismo. Agli strati sociali non protetti e alla donna, della quale la “Carta della scuola” ribadiva con fermezza il tradizionale ruolo 21


SO R

G

EN

TE

di sposa e madre esemplare, si aggiunsero, per effetto della legislazione razziale del 1938, ripresa e applicata in campo scolastico e culturale, nuovi emarginati: gli ebrei anzitutto, che, sia come docenti sia come autori o editori, furono buttati fuori dalle scuole pubbliche. Nelle università, ove i professori e gli assistenti "non ariani" erano numerosi, la falcidia fu durissima, perché, non di rado, colpì anche fascisti di provata fede. Docenti e ricercatori di grande fama furono costretti, perché ebrei, a trasferirsi all’estero, interrompendo, così, ricerche d'avanguardia, come quelle nel campo della fisica.

IO

LA

H IV

Lezioni di fisarmonica per Balilla e Piccole italiane

AR

C

22


Sfilata di giovani ginnaste

TE

Capitolo 3° -­‐ Dal dopoguerra agli anni Novanta

AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

All’indomani della Liberazione, la classe dirigente repubblicana si trovò ad affrontare un compito difficilissimo in campo scolastico. La Resistenza non si era occupata molto della scuola, se si eccettua qualche analisi fatta dal movimento “Giustizia e Libertà” e alcune brevi esperienze maturate nelle repubbliche partigiane, che riguardavano perlopiù questioni di autogoverno e di responsabilità locali. È pur vero che, laddove erano arrivati gli Alleati, c'era stata un'opera di de-­‐ fascistizzazione, che, però, era stata limitata, prevalentemente, ai programmi e ai libri di testo. Gli studenti costituivano una moltitudine che, di anno in anno, accresceva, moltiplicando geometricamente le difficoltà dei problemi da risolvere. Ma quanti erano? Nell’anno scolastico 1945-­‐46, nonostante il calo delle nascite verificatosi durante la guerra, il totale degli iscritti era di: 870.000 nella scuola materna, 4.360.000 nelle elementari, 508.000 nella media, 369.000 nella scuola secondaria superiore, 190.000 nelle diverse facoltà universitarie. Poco prima dello scoppio della guerra mondiale, nel 1939, tra maschi e femmine c'erano, invece, 772.000 allievi nelle scuole materne, 5.149.000 nelle elementari, e 860.000 (di cui 321.000 femmine) nelle scuole secondarie superiori. Ad aggravare la situazione vi era, poi, la diversità ideologica dei partiti rispetto alla riforma scolastica. Da una parte le sinistre pervase da una visione laicista della scuola, dall’altra 23


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

la democrazia cristiana, schierata a difendere i diritti della fa-­‐ miglia e delle scuole private religiose. Questa diversità spiega, almeno in parte, il carattere inevitabilmente ambiguo del compromesso raggiunto nella stesura del Testo costituzionale, ove si sanciva un diritto all'istruzione per tutti, ma in particolare per i "capaci e meritevoli" e la libertà della scuola privata, ma "senza oneri per lo stato". La soluzione di tutti questi problemi fu delegata a una Commissione d'inchiesta, che, nelle intenzioni del governo, avrebbe dovuto agire come una vera e propria costituente della scuola. Ma il difficile clima del dopoguerra, le divisioni e la mancanza di una cultura adeguata erano, invece, destinate a perpetuare un progetto vecchio, che bocciava la scuola media unica e teneva in vita gli “avviamenti professionali”. Per un decennio, tuttavia, lo scontro più duro s’incentrò sull’istruzione privata, essenzialmente religiosa, tenacemente difesa dalla Democrazia Cristiana. La svolta avvenne alla fine degli anni Cinquanta, in un contesto nazionale e internazionale sostanzialmente nuovo, dominato da non pochi processi di trasformazione profonda, che richiedevano una più complessa cultura delle riforme. Da una parte le sinistre avevano arricchito il loro bagaglio delle meditazioni che Antonio Gramsci aveva elaborato in carcere, dall'altra, gli economisti della sinistra democristiana (da Ezio Vanoni ad Amintore Fanfani, a Giuseppe Medici) ebbero il merito di considerare il problema dell'istruzione in termini di 24


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

programmazione, riconoscendo che la scuola non era soltanto un mondo di valori, ma anche una componente concreta e fondamentale dello sviluppo economico. Fu proprio in quella situazione di profonde trasformazioni della società e d’impetuoso sviluppo economico che maturò, in campo scolastico, la più efficace riforma degli anni del "miracolo economico": la scuola media unica, che divenne realtà con la Legge 1859 del 31 dicembre 1962. La realizzazione non fu senza traumi. Soprattutto per gli insegnanti, che si trovarono ad affrontare del tutto impreparati il mutamento e i problemi di una scuola di massa. La considerazione che la scuola fosse una variabile significativa del sistema economico fu causa e effetto della riforma. Intorno all'istruzione e ai suoi complessi meccanismi si giocò, infatti, una difficile ridefinizione dei ruoli sociali e professionali. Dopo l’introduzione della scuola media unica, ben presto co-­‐ minciarono a fiorire proposte di riforma della scuola secondaria e dell’università. Per quest'ultima, più specificatamente, le proposte più significative volevano tener conto, tra l’altro, della volontà europea di sfidare la più avanzata ricerca americana, spingendosi fino a ipotizzare l’abolizione delle facoltà e dei dipartimenti. Per la scuola secondaria superiore altre proposte ipotizzavano un sistema binario, con possibili scambi tra cultura umanistica e quella tecnico-­‐scientifica. 25


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

Altre proposte, infine, riguardarono quel prodotto "dimezzante" che era ed è, tuttora, l'istituto professionale. Ma i progetti e le proposte, che si basavano anche sulle previsioni fornite dagli istituti specializzati (Svimez, Censis, ecc.), erano destinati nel giro di pochi anni a rivelarsi clamorosamente errati. L'idea dominante era che, senza uno sviluppo dell'istruzione, il meccanismo dell'economia si sarebbe inceppato per mancanza di tecnici capaci di gestirlo. Nella realtà, invece, fu tutto il contrario. Nel giro di pochi anni una scuola ormai di massa fornì al Paese un numero di diplomati e laureati che superava largamente le previsioni del fabbisogno. Nel 1965 dalle scuole uscirono, licenziati o diplomati, 51.710 studenti degli istituti professionali, 73.005 degli istituti tecnici, 31.358 degli istituti magistrali, 13.727 dei licei scientifici, 28.583 dei licei classici, 1.911 dei licei artistici e 3.787 degli istituti d' arte. Nello stesso anno, nelle 35 sedi universitarie, i laureati furono 29.054. Ma, mentre aumentava il numero di diplomati e di laureati, sul mercato del lavoro la domanda andava, invece, riducendosi. Le ipotesi degli economisti presupponevano uno sviluppo del prodotto nazionale che proiettava anche negli anni successivi la crescita avvenuta alla fine degli anni cinquanta. Il Paese conobbe, viceversa, una crescita di molto inferiore. Restava, però, molto alta la spinta alla scolarità, che finì per provocare un inatteso squilibrio, dal momento che forniva quantità di diplomati e laureati eccedente alle necessità. 26


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

Il meccanismo della secondaria superiore rimase inalterato, continuando a svolgersi in tre rami: umanistico -­‐ scientifico (licei e magistrali), tecnico (istituti per geometri, ragionieri e industriali) e professionale. Gli anni Settanta furono interessati dalla cultura della contestazione, che partiva dalle scuole. Dopo una prima fase che riguardò, soprattutto, la critica dei contenuti, dei valori, dell'autoritarismo e della selezione, la protesta degli studenti investì direttamente la società, tentando di presentarsi e di assumere le forme della protesta operaia. Si sprecarono le analisi sulla scuola, come istituzione funzionale al capitalismo, mentre, nella cultura labile e perentoria del "vogliamo tutto e subito", riuscì a infiltrarsi il terrorismo. Per gli insegnanti furono anni difficili. Il 3 giugno del 1985 fu stipulato un nuovo Concordato tra l’Italia e la Santa Sede. Con il nuovo accordo, siglato in Vaticano da Craxi e dal cardinale Casaroli, la religione cattolica cessava di essere religione di Stato e il suo insegnamento nelle scuole diventava facoltativo. Tale accordo, però, ha aperto più problemi di quanti non sia riuscito a risolverne. In particolare, resta aperto il problema di cosa far fare, in alternativa, agli studenti che non scelgono l'ora di religione. Così proprio quella condizione, che sembrava liberare i non cattolici da una disciplina che non potevano accettare, resta disattesa, perché ancora non è stata individuata e definita una disciplina alternativa. L'unica cosa corretta da fare, forse, sarebbe quella 27


storia

delle

religioni

o

TE

dell'insegnamento della dell’antropologia religiosa

LA

SO R

G

EN

AR

C

H IV

IO

Assemblea di studenti nel liceo Parini di Milano “occupato”

28


EN

Capitolo 4° -­‐ Declino e segni di risveglio

TE

AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

Qualsiasi discorso si voglia fare sulla scuola italiana, lo stesso non può che partire dalla considerazione che essa è in una crisi gravissima che, se dovesse durare ancora qualche tempo, senza interventi radicalmente innovatori, avrebbe come unico sbocco il declino irreversibile del sistema scolastico e la degenerazione della compagine sociale. Di fronte ai dati sconfortanti delle varie indagini “PISA” si resta quanto meno sconcertati. PISA” (Programme for International Student Assessment) è un’indagine internazionale che, con periodicità triennale, valuta conoscenze e capacità di ragazzi quindicenni appartenenti ai trenta Paesi dell’OCSE più altri paesi sviluppati. Questa ricerca relega, di solito, i nostri ragazzi tra gli ultimi posti riguardo al possesso di conoscenze scientifiche, alla comprensione della lettura e alle abilità della matematica. Al primo posto della classifica si trovano, quasi sempre, i ragazzi della Finlandia, seguiti da quelli di Hong Kong, Canada, Taipei, Estonia, Giappone, Nuova Zelanda e, in ambito europeo, dopo la sorprendente Estonia, Olanda, Slovenia, Germania, Regno Unito, […….]. Tra i fanalini di coda l’Italia. Ovviamente vi sono realtà scolastiche italiane i cui alunni, in tema di conoscenze e competenze, nulla hanno da invidiare 29


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

agli eterni primi finlandesi, ma come comunemente si dice: “Una rondine non fa primavera”. Che cosa è successo alla scuola italiana? È mai possibile che sia diventata una fabbrica d’ignoranti? Le indagini “PISA” hanno testato ragazzi quindicenni, cioè alunni che frequentano il primo anno dell’istruzione secondaria superiore. Oltre a queste ricerche, ne sono state condotte altre, in ambito internazionale, dalla “IEA” (International Association for the Evaluation of Educational Achievement) su alunni del quarto anno dell’elementare di quaranta paesi, dalle quali, di solito, è emerso che i nostri alunni dell’elementare, per capacità di lettura e comprensione, hanno poco da invidiare ai coetanei degli altri paesi, perché, non di rado, hanno conseguito un buon risultato. Appare chiaro, allora, che il problema non riguarda tanto la scuola elementare o quella superiore, quanto la scuola media. Prima della riforma del 1962, che introdusse nell’universo scolastico italiano la scuola media unica, un ragazzo, all’uscita dalla elementare, poteva seguire due strade: la prima prevedeva l’iscrizione alla scuola di avviamento professionale, la seconda la frequenza della scuola media, previo un esame di ammissione. La scuola media unica pareggiava i conti, perché consentiva a tutti, non solo a pochi privilegiati, di continuare gli studi fino al diploma o alla laurea. Tutto bene in teoria. In pratica le cose non andarono secondo le aspettative. La realizzazione della riforma non fu senza 30


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

traumi, soprattutto per gli insegnati, che dovettero affrontare un cambiamento epocale, senza una preventiva e adeguata formazione. La riforma rese facoltativo lo studio del latino. Al suo posto fu introdotta una nuova disciplina, le “Applicazioni Tecniche”, che si pensava potesse favorire uno sviluppo armonico e organico della complessa personalità dell’alunno. Tutto bene, ma, ancora oggi, si fa fatica a capire i veri motivi dell’abolizione del latino, se non ricorrendo all’ideologia, che allora dominava le scelte politiche. Ma, come ben si sa, spesso, l’ideologia offusca la concretezza e la bontà dei risultati. È come se a Renzo e Lucia fosse stata negata la possibilità di “leggere le carte di Azzeccagarbugli”, nel momento in cui, finalmente, avrebbero potuto farlo. Probabilmente cinque ore settimanali di latino, così com’era prima, potevano essere troppe. Bastava, semplicemente, ridurle per far coesistere una disciplina teorica, ma da tutti riconosciuta altamente formativa, con una disciplina che, nelle intenzioni del legislatore, avrebbe dovuto dare dignità al lavoro, sviluppando le capacità progettuali e le abilità manuali degli alunni. Nel 1978 le “Applicazioni Tecniche” divennero “Educazione Tecnica”; il concetto di “operatività” prese il posto di “manualità”. Nel 2004 una successiva innovazione ha interessato la disciplina, trasformandola in “Tecnologia”. Il tutto è avvenuto senza tener conto degli insegnanti e delle loro difficoltà di fronte a questi continui cambiamenti. Di sicuro, traumatica è stata l’odissea degli insegnanti di 31


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

esercitazioni pratiche della vecchia scuola di avviamento, che si dovettero, all’improvviso, riconvertire prima in insegnanti di Applicazioni Tecniche, poi in quelli di Educazione Tecnica ed infine, per chi non ancora in pensione, in docenti di Tecnologia. I mali della scuola media sono, quindi, per lo più di natura strutturale e non dei docenti i quali, in un siffatto contesto, fanno quello che umanamente sia possibile fare. Occorre, allora, ripensare al ruolo di questa scuola. Essa, in genere, opera a prescindere dai legami di continuità, che pur dovrebbe avere, quale istituzione di mezzo, con la elementare e con la superiore: approfondimento dei programmi della prima, acquisizione, da parte dei ragazzi, delle strategie e tecniche della seconda, finalizzate ad agevolare la conoscenza e l’applicazione di contenuti di discipline, spesso di non facile comprensione. Tuttavia, sembra che, negli ultimi tempi, la situazione si stia evolvendo in senso positivo, perché l’accorpamento delle scuole materne, elementari e medie in istituti comprensivi può consentire al Collegio dei docenti, unico, di adottare una programmazione didattica in continuità e in osmosi tra le scuole interessate. Anche la scuola superiore non versa in condizioni ottimali. Il primo elemento di crisi di questa istituzione è dovuto a un orientamento che, spesso, non tiene conto delle reali tendenze del ragazzo in uscita dalla scuola media. In genere, i migliori sono indirizzati verso i licei; seguono nell’ordine gli istituti tecnici ed infine i professionali. È questo un grave pregiudizio, che danneggia la 32


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

scuola nel suo complesso, perché nocivo per il futuro professionale dei ragazzi medesimi. Il dibattito sulla riforma della scuola superiore ormai si sta trascinando stancamente da decenni, ma una riforma è essenziale. Vi è la necessità di aggiornare i programmi di studio alla realtà esterna in continua evoluzione; vi è l’esigenza che la scuola deve sapersi relazionare al mondo produttivo, non semplicemente attraverso gli schemi stereotipati dell’alternanza scuola – lavoro, ma tramite un rapporto organico di scambio di esperienze e di costruttiva e quotidiana collaborazione. La scuola superiore in primo luogo, ma il discorso vale per tutti gli ordini e i gradi della scuola italiana, soffre, ancora oggi, delle conseguenze della contestazione studentesca negli anni Settanta. Basta solo un esempio, ma molto indicativo. Nel 2007 è stato commemorato don Lorenzo Milani, autore nel 1967 del libro denuncia “Lettera a una professoressa”, con la quale il priore di Barbiana censurava il metodo di insegnamento molto selettivo della scuola italiana. La denuncia di don Milani voleva essere un appello ai docenti a tener conto, nella valutazione dei ragazzi, non solo della loro capacità di saper applicare le regole grammaticali e di sapersi esprimere in un linguaggio fluente ma, principalmente, della loro preparazione complessiva, incluse le esperienze di vita maturate all’esterno della scuola. Questo messaggio fu ben presto deformato. Diventò il manifesto del rifiuto di qualunque forma di selezione e di impegno, il manifesto dell' antiscuola negli anni 33


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

delle lotte e della contestazione studentesca. Le richieste dei collettivi studenteschi, come si legge in vecchi fogli ciclostilati, erano un insieme di corbellerie e di assurdità: “la scuola dell’obbligo non può bocciare”; “bisogna assicurare a tutti il 6 politico”; “la meritocrazia deve essere combattuta”; “la matematica nell' istituto magistrale deve essere abolita”, perché si diceva che "per insegnarla alle elementari basta sapere quella delle elementari". Chi ha fatto terza media ne ha tre anni di troppo. Nel programma delle magistrali si può dunque abolire". Era, come appare evidente, a prescindere dal rispetto della grammatica e della sintassi, l’appiattimento verso il basso, che molti danni ha causato e sta causando, ancora oggi, alla scuola italiana nella sua globalità. Un altro elemento di crisi è dato dal comportamento di molti genitori, i quali immaginano che i loro figli siano dei geni incompresi e che, se gli stessi non hanno un buon profitto, non è perché essi non studiano, ma è per colpa dei docenti i quali, quando bocciano, provano una sadica soddisfazione. Da tutto ciò emerge il dramma dei mali della scuola italiana, che possiamo così riassumere: strutturali, investimenti insufficienti, alunni poco impegnati nello studio a casa, docenti che non si aggiornano, forse perché non sufficientemente retribuiti, genitori vanagloriosi e iperprotettivi. Che fare? Occorrono determinazione, entusiasmo e lucidità per aggredire i problemi sul tappeto. Non sembra un’impresa facile, ma è essenziale condurla in porto. Diversamente, la crisi definitiva farà andare a fondo la società così com’è oggi 34


EN

Capitolo 5° -­‐ Leggi scolastiche dall’Unità a oggi

TE

strutturata e, con essa, anche quei valori di libertà e di democrazia che hanno determinato i progressi realizzati, pur tra tante carenze, in circa settant’anni di democrazia.

AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

Legge Casati Redatta nel 1859 (quattro mesi dopo l’armistizio di Villafranca), rifletteva la realtà piemontese. Nel 1861, con la proclamazione del Regno d’Italia, fu estesa a tutto il Paese. Prevedeva ! la gratuità e la obbligatorietà della scuola elementare; ! l’uguaglianza dei sessi di fronte alla necessità dell’educazione; ! l’introduzione di norme precise per l’abilitazione all’insegnamento (diploma); ! la concessione di diplomi e licenze soltanto da parte delle scuole pubbliche; ! l’obbligatorietà della frequenza del primo biennio della scuola elementare

Legge Coppino Fu emanata nel 1877. Prevedeva: 35


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

! la durata quinquennale della scuola elementare; ! l’obbligo della frequenza dei primi tre anni; ! l’irrogazione di sanzioni per la non osservanza dell’obbligo di frequenza; ! la gratuità della frequenza della scuola elementare; ! la sostituzione nella scuola elementare dell’insegnamento della religione con quello dei doveri dell’uomo e del cittadino; ! l’assegnazione ai comuni del carico delle spese per il mantenimento delle scuole. Legge Orlando Fu emanata nel 1904. Introduceva: ! l’obbligo scolastico fino al compimento del dodicesimo anno d’età; ! un “corso popolare” formato dalle classi quinta e sesta che, però, non consentiva ulteriori sbocchi. Legge Daneo -­‐ Credaro Fu emanata nel 1911. Prevedeva: ! il trasferimento dell’amministrazione delle scuole elementari dai comuni alle province; ! il miglioramento delle condizioni dei maestri; ! la costituzione del patronato scolastico; 36


G

l’innalzamento dell'obbligo scolastico sino al 14° anno di età. Dopo i primi cinque anni di scuola elementare uguali per tutti, l'alunno doveva scegliere tra quattro possibilità: il ginnasio, di durata quinquennale, che consentiva l’accesso al liceo classico, al liceo scientifico o al liceo femminile; l’istituto tecnico, triennale, cui facevano seguito quattro anni di istituto tecnico superiore; l’istituto magistrale, della durata di sette anni; la scuola complementare, al termine della quale non era possibile iscriversi ad alcun altra scuola; l’insegnamento obbligatorio della religione cattolica nelle scuole elementari, la creazione del liceo scientifico; la creazione dell'istituto magistrale per la formazione dei futuri insegnanti elementari l’istituzione di scuole speciali per gli alunni portatori di handicap; la graduale soppressione degli istituti scolastici di ogni ordine e grado delle comunità etniche appena annesse all'Italia (tedesche, slovene e croate); l'accesso a tutte le facoltà universitarie riservato solo ai diplomati del liceo classico. Ai diplomati del liceo scientifico era possibile accedere alle sole facoltà tecnico-­‐

!

H IV

!

IO

!

LA

SO R

!

EN

TE

! l’ apertura di nuovi spazi per l’insegnamento della religione, resa possibile dal nuovo clima di pacificazione tra lo Stato liberale e i Cattolici Riforma Gentile Fu varata nel 1923. Prevedeva:

!

AR

C

!

!

37


TE

scientifiche. Agli altri diplomati era invece impedita l'iscrizione all'università.

Ritocchi alla riforma Gentile in epoca fascista

EN

AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

! Trasformazione della scuola complementare in scuola di avviamento professionale; ! trasferimento dell’Istruzione Professionale dal Ministero dell’Economia a quello dell’Educazione; ! istituzione dell’Opera Nazionale Balilla – 1926 -­‐; ! introduzione dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole medie di 1° e 2° grado, a seguito della stipula del Concordato -­‐ 1929; ! approvazione della riforma di Giuseppe Bottai “Carta della Scuola” (mai attuata per lo scoppio della 2a guerra mondiale). Anni ‘60 " La Legge n. 1859 del 31 dicembre 1962, riforma della Scuola Media, prevedeva: a) l’unificazione di tutti i corsi inferiori in un solo triennio; b) il ridimensionamento dell’insegnamento del latino (obbligatorio in 2a media come “Elementi” insieme all’italiano, facoltativo nel terzo anno, ma necessario per l’accesso al liceo. Nel 1977 l’insegnamento del latino sarà totalmente abolito); c) la riconferma dell’obbligo scolastico fino a 14 anni; d) l’esame di licenza media con valore di esame di Stato; 38


e) l’accesso ad ogni indirizzo di scuola secondaria superiore.

TE

" La Legge n. 444/68 istituiva la Scuola materna statale;

G

EN

" la Legge 119/69 introduceva il nuovo esame di maturità, strutturato in due prove scritte (una fissa di italiano e l’altra in funzione del tipo di scuola) e una orale a scelta del candidato. La Commissione d'esame era composta da docenti esterni all'istituto, salvo uno proveniente dal gruppo di insegnanti della classe.

SO R

" Anni ‘70

" La Legge 146/71 consentiva l’accesso libero a tutte le facoltà universitarie per i diplomati di qualsiasi tipo di scuola secondaria superiore e la personalizzazione dei piani di studio; elementari;

LA

" la Legge 820/71 introduceva il tempo pieno nelle scuole " la C.M. 71/74 stabiliva i permessi retribuiti di 150 ore relativi al diritto allo studio;

IO

" la Legge delega 477/73 e i DPR 416 – 417 – 419 e 420 introducevano i decreti delegati;

H IV

" la Legge 517/77 aboliva l’esame di riparazione nella Scuola elementare e nella Media.

" nel 1979 furono introdotti i nuovi programmi della Scuola

AR

C

Media

Anni ‘80 " Si fece ricorso a diverse sperimentazioni, prima autonome e casuali poi assistite; 39


TE

" nel 1985 furono introdotti i nuovi programmi della Scuola Elementare; " la Legge 148/90 introduceva i moduli nella Scuola Elementare

EN

Anni ‘90

G

" Nel 1991 – 1992 la Commissione Brocca elaborò i nuovi programmi per i licei e, in parte, per gli istituti tecnici. Il cosiddetto Progetto 92 ridisegnò gli Istituti professionali;

SO R

" la Legge 148/90 riformò la Scuola Elementare;

" la Legge 34/90 riformò degli ordinamenti universitari; " nel 1991 furono introdotti i nuovi ordinamenti della Scuola Materna/Scuola dell’Infanzia;

LA

" nel 1994 furono aboliti gli esami di riparazione sostituiti dagli IDEI; " la Legge 425/97 riformò l’esame di maturità;

IO

" il DPR 249/98 introdusse lo statuto degli studenti.

H IV

Anni 2000

Sono state approvate:

C

" la Legge 53/03, varata dal ministro Letizia Moratti;

AR

" Le Leggi 133/08 e 169/08, note come riforma Gelmini.

40


TE

Capitolo 6° -­‐ Appendice

G

La scuola nel Regno delle Due Sicilie

EN

AR

C

H IV

IO

LA

SO R

Difficile e carente si presentava il quadro dell’istruzione nell’ex Regno delle Due Sicilie agli albori dello Stato italiano. Eppure non erano mancate iniziative di riforme tendenti a favorire la frequenza scolastica e a diffondere l’istruzione. L'esordio borbonico era stato, infatti, abbastanza promettente. Nel 1767, con l’espulsione dei Gesuiti, fu ridotta notevolmente la presenza clericale nella scuola. Governando Bernardo Tanucci, furono proposti alcuni progetti, che miravano alla diffusione dell’istruzione. Tra i più significativi quelli del Filangieri, del Genovesi e la bozza di riforma universitaria di Beccadelli Gravina marchese di Sambuca. Ma si trattò, per lo più, di iniziative che non conobbero mai una pratica attuazione. Il periodo francese Il 16 febbraio 1806 le armate napoleoniche invasero il Regno di Napoli, che fu assegnato da Napoleone Bonaparte al fratello 41


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

Giuseppe. Ferdinando IV riparò in Sicilia sotto la protezione della flotta inglese. Due anni dopo, allorché a Giuseppe fu data la corona di Spagna, il titolo di re di Napoli passò a Gioacchino Murat, cognato di Napoleone, che resse le sorti del Regno fino al 1815. In questo periodo la scuola fu, come non mai, destinataria di particolare attenzione. Uno dei primi provvedimenti di Giuseppe Bonaparte fu il Decreto del 15 agosto 1806, che rendeva obbligatoria l’istruzione elementare, attribuendo ai comuni l’onere di nominare un maestro e una maestra. Ma la legge non ebbe facile applicazione, principalmente per difficoltà finanziarie e per mancanza di personale idoneo, tant’è che, alla fine del 1808, le due Calabrie e la Basilicata ancora erano prive di scuole primarie. Tuttavia, la validità della norma, per i tempi in cui fu emanata e per il contesto in cui doveva operare, apparve innegabile, tanto da restare sostanzialmente immutata anche con la restaurazione borbonica. Nel 1807 fu emanata la Legge n. 140 che disciplinava l’istruzione secondaria e istituiva, in ogni provincia, i Reali Collegi, guidati da rettori e dotati di una rendita annua di 6000 ducati. Nei centri più importanti, che non erano capoluogo di provincia, furono istituite al posto dei collegi le cosiddette “Scuole secondarie” con programmi d’insegnamento meno estesi rispetto ai collegi. 42


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

La vera organizzazione dell’istruzione superiore avvenne, però, nel 1811 con l’emanazione del Decreto n. 1146, che istituiva i Reali Licei, quattro per ogni regione del Regno. Presso ogni liceo, accanto all’insegnamento delle discipline di base, operava un “ramo d’istruzione”, che costituiva, in pratica, una scuola di primo grado universitario, corrispondente a una delle quattro facoltà universitarie: Lettere, Scienze matematiche e fisiche, Medicina, Giurisprudenza. Le discipline di studio erano specifiche per ogni ramo d’istruzione. Ogni liceo conferiva la “licenza” in conformità al proprio specifico “ramo d’istruzione“. La laurea veniva, invece, conferita dalle università. La “licenza” in teologia era conferita dai seminari. La riforma scolastica varata da Gioacchino Murat portava la firma del ministro Giuseppe Zurlo, il cui progetto fu preferito a quello elaborato da Vincenzo Cuoco, perché considerato, quest’ultimo, troppo dispendioso. Tuttavia, non poche proposte del progetto Cuoco, che ancora oggi ci sorprendono per l’attualità delle tesi avanzate, entrarono a far parte della riforma. La scuola primaria e quella secondaria nel periodo della Restaurazione Dopo la sconfitta di Gioacchino Murat a Tolentino il 20 maggio 1815 ad opera degli Austriaci, Ferdinando IV, divenuto Ferdinando I re del Regno delle Due Sicilie, riottenne il trono 43


LA

SO R

G

EN

TE

che aveva perduto nel 1806. Nei primi anni della Restaurazione, il Borbone non abolì completamente la legislazione napoleonica, perché innegabilmente si adattava alle mutate trasformazioni sociali ed economiche maturate a cavallo tra Settecento ed Ottocento. Nel settore scolastico, in particolare, la politica oscillò tra aperture e chiusure. Da una parte si voleva mantenere l'efficienza del sistema scolastico messo su da Murat e dall'altra si aveva paura di turbare l'ordine costituito con una scuola troppo avanzata. Da un lato si volevano cittadini dotati di un minimo di istruzione, dall'altro si promoveva una scuola diretta più ad indottrinare che a istruire, una scuola che doveva essere di sostegno al sistema sociale e politico esistente. I comuni furono delegati ad istituire una scuola primaria

IO

«assistita da uno, o più maestri secondo i bisogni della popolazione per istruire i fanciulli ne' primi elementi di leggere e scrivere correttamente, nell'aritmetica elementare, e nelle istruzioni morali del Catechismo, e de' doveri sociali adottati dal Governo».

AR

C

H IV

Relativamente all’istruzione superiore, con Decreto del 14 gennaio 1817, sulla base delle riforme del decennio francese, furono istituiti cinque “Reali Licei” con sede: a Napoli, a Salerno per il Principato Citeriore, a Bari per la Terra di Bari, a Catanzaro per la 2a Calabria, all’Aquila per il 2° Abruzzo. In ciascuna delle altre province “di qua del Faro”, cioè nella parte continentale del Regno, furono, complessivamente, istituiti dodici Collegi Reali: a Maddaloni per Terra di Lavoro; 44


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

ad Arpino; a Potenza per la Basilicata; ad Avellino per il Principato Ultra; a Lucera per la Capitanata; a Lecce per la Terra d’Otranto; a Cosenza per la Calabria Citeriore; a Monteleone per la 2a Calabria Ulteriore; a Reggio per la 1a Calabria Ulteriore; a Campobasso per il Molise; a Chieti per l’Abruzzo Citeriore; a Teramo per l’Abruzzo Ulteriore. Difficoltà di vario genere ne ritardarono, tuttavia, le realizzazioni, tant’è che solo il 1°dicembre 1831 fu inaugurato il Collegio di Avellino. La vera svolta reazionaria si ebbe, successivamente, dopo i moti del 1820-­‐21, quando le classi al potere scatenarono una sorda avversione verso la scuola e verso ogni forma di cultura. Con decreto del 2 giugno 1821 fu istituito l'indice dei libri proibiti e con i successivi decreti del 13 novembre e del 15 dicembre 1821 la scuola fu ancor di più imbrigliata in un clima di chiuso confessionalismo. Gli insegnanti furono sottoposti a un esasperato controllo poliziesco e le scuole in cui erano praticati i nuovi e più liberi metodi di insegnamento furono soppresse. Ferdinando II, salito al trono nel 1830, completò l’opera di conservazione, firmando il 10 ottobre 1843 un decreto col quale lo Stato rinunciava completamente all'istruzione, per affidarla ai vescovi, che avevano persino l’autorità di “destituire i maestri e le maestre delle scuole primarie, a sospenderli e a rimuoverli…" Una ventata di libertà sembrò investire la scuola con i moti rivoluzionari del 1848, che diedero, per una breve stagione, il 45


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

potere alla borghesia liberale. Fu costituito il Ministero della Pubblica Istruzione, che tentò la riorganizzazione in senso democratico della scuola pubblica, in particolare di quella primaria. Notevole, per i contenuti democratici, fu il progetto redatto da Francesco De Sanctis, Segretario del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, i cui elementi fondanti possono essere così riassunti: a) l'istruzione, almeno quella primaria è un diritto di ogni cittadino; b) l'insegnamento non può essere una funzione dello stato, ad esso compete invece vigilare tramite gli ispettori per garantirne il buon funzionamento e per garantire la sicurezza sociale; c) poiché è un diritto dei genitori educare i propri figli, ai genitori deve essere assicurato il diritto di entrare nelle scuole, ove viene educato il figlio, di prendere informazioni sul loro andamento, e richiamarsi ancora presso le autorità superiori; d) dell'istruzione primaria devono farsi carico i comuni essendo questi le naturali aggregazioni delle famiglie; e) l'istruzione primaria è «un gravissimo interesse sociale per cui è dovere dello stato rimuovere ogni impedimento, che nascer possa alla sua diffusione e progresso; perciò essa è impartita a tutti gratuitamente nelle scuole pubbliche; [...] f) essendo l'istruzione un bene non ancora compreso dalle masse popolari lo stato la impone a tutti come un obbligo, lasciando però libertà di adire le scuole pubbliche o le private. 46


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

Ma una nuova restaurazione ancora più radicale di quella del 1821 fece precipitare l’ipotesi di riforma in brevissimo tempo. Fu ancora la Chiesa a gestire il tutto, una Chiesa onnivora e onnipresente, che fu la migliore alleata dei Borbone, una Chiesa pletorica che, all'inizio dell'Ottocento, su un totale di circa 4 milioni di abitanti del regno, annoverava ben 120 mila addetti al culto. Ma una nuova restaurazione ancora più radicale di quella del 1821 fece precipitare l’ipotesi di riforma in brevissimo tempo. [….]. Le donne che assumono la qualità di maestre per insegnare sia le arti donnesche, sia il leggere e scrivere, saranno tenute ad insegnare eziandio il Catechismo suddetto". Furono le scuole private laiche a sopperire ai disastri di quella pubblica. Da queste scuole vennero e in queste scuole insegnarono personaggi eminenti della cultura, non solo del Meridione, ma dell'Italia intera, come Basilio Puoti, Silvio e Bertrando Spaventa, Francesco De Sanctis, Pasquale Villari e tanti altri. Tuttavia, è doveroso precisare che, in molte realtà, spesso la Chiesa, con tutti i suoi vistosi limiti, costituiva l’unica possibilità per chi avesse voluto ricevere una sia pur elementare istruzione e, in certi casi, anche una più completa erudizione. I vescovi, inoltre, si impegnarono anche ad aprire scuole serali e festive per i figli di contadini e artigiani impossibilitati a frequentare quelle diurne, mobilitando i parroci per tale servizio. 47


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

L’università Le università del Regno inizialmente erano tre: Napoli, Palermo e Catania. Nel 1838 anche Messina ebbe il suo ateneo, giacché la locale Accademia Carolina con decreto del 29 luglio fu elevata ad università. Ogni università era diretta da un rettore e comprendeva le facoltà di: teologia, giurisprudenza, medicina, fisica, matematica, filosofia e letteratura. Le cattedre venivano spesso conferite a docenti non all’altezza del compito, se non addirittura improvvisati, che, essendo mal retribuiti, ricorrevano spesso al doppio lavoro, con ovvie conseguenze negative sui livelli di preparazione degli studenti. Le università non erano molto frequentate, non tanto a causa delle pastoie burocratiche, quanto per i disagi dovuti alle pessime condizioni delle strade e, ancor di più, alla politica dell’amministrazione borbonica, che prevedeva, da un lato un opprimente controllo clericale sull'amministrazione e sui contenuti delle materie d’insegnamento e, dall’altro, una soffocante sorveglianza poliziesca. Il Governo vedeva di malocchio l’agglomerarsi nella capitale degli studenti. Tollerava soltanto quelli già muniti di licenza professionale rilasciata dai licei di provincia. La vigilanza della polizia era particolarmente dura. Gli studenti erano obbligati a munirsi di permesso di soggiorno, alla cui scadenza dovevano far ritorno nei luoghi di provenienza, onde non incorrere nell'accusa di vagabondaggio. 48


SO R

G

EN

TE

Il Real Rescritto del 5 marzo 1856 prescriveva che ogni studente, nei quindici giorni successivi al suo arrivo a Napoli, doveva presentarsi innanzi a una speciale commissione di vigilanza per dichiarare il suo nome, la località d’origine, l'età, gli studi, l'abilità, la congregazione di spirito cui egli era ascritto e così via. Gli studenti delle province venivano divisi per quartiere e sorvegliati dai parroci, dai commissari di polizia e dagli ispettori di pubblica istruzione, che dovevano “informare se lo studente coabitasse con altri suoi compagni, quali case fosse solito frequentare, e prender nota dei libri che leggeva e dell'ora in cui rincasava".

AR

C

H IV

IO

LA

La “carta di soggiorno” si rinnovava ogni mese, a discrezione della polizia, il più delle volte a seguito di regali e mance. Obbligatoria era l’iscrizione alla congregazione di spirito dell’Università o a quella di San Domenico Soriano, iscrizione che comportava la costrizione della frequenza domenicale per ascoltare la messa, la predica, per cantare l’ufficio e per confessarsi. Senza il certificato del prefetto di spirito, che attestava la partecipazione alle suddette funzioni, gli studenti non erano ammessi a sostenere gli esami. La polizia, inoltre, teneva d’occhio le case e i caffè frequentati dagli studenti più in vista. Le perquisizioni erano frequenti. Guai se trovava qualche libro messo all’indice. I nomi di certi autori portavano diritto all’arresto: Machiavelli, Botta, Giannone, Colletta, Leopardi, Gioberti, Massari, Berchet, Giusti. 49


SO R

G

EN

TE

Prima del 1848, diversamente dalle università pubbliche, erano molto accorsati gli studi privati, tenuti da uomini di grande valore. Primeggiavano quelli: di Roberto Savarese, che insegnava diritto romano, diritto e procedura civile; di Luigi Palmieri, che insegnava chimica sperimentale, filosofia e diritto di natura; di Giuseppe Pisanelli docente di diritto penale; di don Carlo Cucca, ritenuto somma autorità in diritto canonico. Erano, altresì, molto frequentati gli studi di Paolo Tucci e Salvatore De Angelis, che insegnavano matematiche elementari e sublimi, e quelli di Francesco De Sanctis e Leopoldo Rodinò succeduti, nell’insegnamento delle lettere italiane, al marchese Basilio Puoti.

LA

H IV

IO

AR

C

50


TE

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

EN

AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

• AMBROSOLI Luigi, La scuola italiana dal dopoguerra ad oggi, Il Mulino, Bologna, 1982 • BERARDI Roberto, Scuola e politica nel Risorgimento, Paravia, Torino, 1982 • BONETTA Gaetano, Storia della scuola e delle istituzioni educative. Scuolla e processi formativi in Italia dal XVIII al XX secolo, Giunti, Firenze, 1997 • BOSNA Ernesto, Tu riformi…….io riformo. La travaglia storia della scuola italiana dall’Unificazione all’ingresso nell’Unione Europea, ETS, Pisa, 2005 • CANESTRI Giorgio – RICUPERATI Giuseppe, La scuola italiana dalla legge Casati a oggi (1861 – 1983), Loescher, Torino, 1983 • CORBI E. – SARRACINO V, Scuola e politiche educative in Italia dall’Unità a oggi, Liguori, Napoli, 2003 • D’AMICO Nicola, Storia e storie della scuola italiana, Zanichelli, Bologna, 2009 51


AR

C

H IV

IO

LA

SO R

G

EN

TE

• DECOLLANZ Giuseppe, Storia della scuola e delle istituzioni educative. Dalla Legge Casati alla riforma Moratti, Laterza, Roma – Bari, 2005 • DE VIVO Francesco, Linee di storia della scuola italiana, La Scuola, Brescia, 1994 • DI POL Redi Sante, Il sistema scolastico italiano, Marco Valerio, Torino, 2002 • GENOVESI GIOVANNI, Storia della scuola in Italia dal Settecento a oggi,Laterza, Roma, 2006 • ISNENGHI Mario, L’educazione dell’italiano. Il fascismo e l’organizzazione della cultura, Cappelli, Bologna, 1979 • PISCOPO Ugo, La scuola del regime, Guida, Napoli, 2006 • RAICICH Marino, Scuola, politica e cultura da De Sanctis a Gentile, Nistri – Lischi, Pisa, 1982 • RICUPERATI Giuseppe, La scuola italiana e il fascismo, C.P.P.L., Bologna, 1977 • SANTONI Antonio, Il professore nella scuola italiana, La Nuova Italia, Firenze, 1968 • SEMERARO Angelo, Il sistema scolastico italiano, Carocci, Roma, 1999 • VERTECCHI Benedetto, La scuola italiana da Casati a Berlinguer, Franco Angeli, Milano, 2001 52


SO R

G

EN

TE

• ZUNINO Pier Giorgio, L’ideologia del fascismo, Il Mulino, Bologna, 1985 INDICE Capitolo

Dal dopoguerra agli anni Novanta

Pag. 21

Declino e segni di risveglio

Pag. 27

Leggi scolastiche dall’Unità ad oggi Appendice:la scuola nel Regno delle Due Sicilie

Pag. 33

H IV

LA

Pag. 2

Dall’Unità al fascismo Gli anni del fascismo – libro e moschetto –

IO

AR

C

Riferimenti bibliografici

53

Pag. 15

Pag. 41 Pag. 51


La Scuola italiana sembra che sia l’eterna ammalata, cui non si riesce a somministrare la medicina risolutiva. E continua, così, a sopravvivere incapace, quasi sempre, di incidere positivamente sulle dinamiche dello sviluppo della società.

Michele Ceres è coautore del libro”Il Sud, un problema aperto”, autore dei volumi ”La Donna nella Storia (domi mansit, domum servavit, lanam fecit), “Il re è morto, viva il re (Il Sud dai Borbone ai Savoia)” e la Notte del Risorgimento (cause e sviluppo del brigantaggio postunitario). Ha vinto nel 2011 il primo premio ex aequo del XLII Concorso Letterario della rivista “Sìlarus” con il saggio”L’Unità d’Italia e i pregiudizi antimeridionali”.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.