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MICHELE CERES
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DALLA NEVIERA AL FRIGORIFERO
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Viaggio negli anni del dopoguerra e del miracolo economico
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Š by Michele Ceres & Delta 3 Edizioni Prima Edizione 2014 ISBN 978-88-6436-374-0
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Si parla molto di chi va a sinistra o a destra, ma il decisivo è andare avanti e andare avanti vuol dire andare verso la giustizia sociale. [Alcide De Gasperi]
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Umberto II lascia lâ&#x20AC;&#x2122;Italia
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E nella città dei fiori Adionilla raccoglieva gli applausi di un pubblico affamato di mondanità mentre il falco biondo Koblet staccava il vecchio Gino in salita seminando tra la folla invidia e rivalità
Amo il calcio, è la mia vita la guerra è stata lunga, la voglia del pallone non stanca mai Mondiale al sole caldo di terre appassionate Schiaffino e Ghiggia affondano il Brasile con grande umiltà
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Balli nelle strade, pane caldo amore e vino promesse urlate al vento di fedeltà ti darò il mio amore eterno avremo un figlio ed una casa ci lasceremo indietro tristezza e povertà
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Le strade disegnate dai sorrisi della gente siamo contenti, felici che la guerra è finita già anni cinquanta, pochi soldi nelle tasche valige di cartone e sogni in testa Fellini proponeva “Luci del varietà”
Lontani anni cinquanta spazzati come nuvole da un vento incosciente di insensibilità il nuovo secolo ci porta paure ed incertezze sciagure, tristi eventi ed un bagaglio di incredulità Amore mio, ti dedico questa canzone avrei dovuto scriverla tanti anni fa il cuore è sempre vivo i tempi son cambiati [Giuseppe Bevacqua]
Introduzione
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La mia è una generazione che è vissuta, potremmo dire, a cavallo di due epoche. Una generazione che, nata in tempo di guerra, ha conosciuto, nei primi anni di vita, le ristrettezze e i
De Gasperi alla Conferenza della pace
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disagi della guerra e del dopoguerra. È, però, anche la generazione che, educata prevalentemente nei modi e nelle forme proprie di una società preindustriale di un paese che stentava a inserirsi nell’alveo degli stati europei progrediti, ha potuto beneficiare, per prima, dello sviluppo economico e della crescita democratica che hanno interessato l’Italia a partire dagli anni Cinquanta. Una generazione che, in un breve intervallo di tempo, è passata, metaforicamente, dai ritmi del “liscio” a quelli frenetici del “rock and roll” e del “twist”, maturando, così, un’esperienza unica e irripetibile. Ho pensato, con questo volumetto, di delineare una sintesi, filtrata attraverso la microstoria dell’esperienza personale,
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dei grandi eventi della macrostoria, che hanno interessato il nostro Paese lungo un percorso che dagli anni Cinquanta conduce a quelli del “miracolo economico”. Non è stato facile. Ho dovuto percorrere i disagiati sentieri di ricordi lontani per far rivivere scene e fatti di vita quotidiana che le sabbie mobili della memoria avevano da tempo ricoperto. È ormai patrimonio comune di tutti gli storici la tesi secondo cui la grande storia è intimamente legata alla quotidianità e che, proprio dalla narrazione critica del vissuto quotidiano, essa si vivifica, prende corpo e diviene più concreta e più comprensibile al grande pubblico. In tal senso, l’esperienza personale e gli accadimenti interessanti il piccolo paese, in cui sono nato e tuttora vivo, possono costituire il riflesso, in sede locale, degli eventi che hanno determinato la grande trasformazione dell’Italia contadina e povera in uno degli stati più sviluppati al mondo.
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GLI ANNI DEL DOPOGUERRA
L’Italia nel dopoguerra- sguardo d’assieme
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La pace consegnò un’Italia vinta, prostrata, distrutta e immiserita. I vecchi problemi sussistevano indenni, ingigantiti negli animi e nella realtà dalle devastazioni della guerra. La demagogia, il pressappochismo e le deformazioni del passato regime avevano assopito le coscienze. Il risveglio fu brusco e amaro. Il 20% del patrimonio nazionale era andato distrutto. Grandi città erano state duramente provate: Milano, Torino, Genova, Napoli. Molti piccoli paesi erano stati sventrati o bruciati dal passaggio degli eserciti. La situazione alimentare era gravissima. Scarseggiavano le più importanti derrate alimentari, a cominciare dal pane. Disastrosa era la situazione dei trasporti: linee ferroviarie divelte, ponti distrutti dai bombardamenti o dalle truppe in ritirata; il 60% tra macchine e locomotive perdute; l’80% dei vagoni ferroviari inutilizzabile. Dal Nord al Sud
De Gasperi ed Einaudi
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si viaggiava nei primi tempi del dopoguerra con mezzi di fortuna, i più disparati. Ma una forte volontà di riscatto, prima sconosciuta, animava le coscienze, una volontà di rottura con il passato di una illusoria “grandeur”, che aveva portato il Paese alla rovina, una volontà proiettata verso un futuro diverso. Si diffuse, ben presto, un clima di operosità e di fiducia nell’avvenire del Paese, quale mai si era registrato nella storia politica e sociale della nostra Nazione. Il popolo partecipò attraverso i partiti democratici alla ripresa economica, con prontezza e grande spirito di sacrificio. Lo Stato che era nato dalle rovine della guerra e sull’onda dell’entusiasmo della Resistenza non era il vecchio Stato paternalista della tradizione liberale e moderata del Risorgimento. Le masse, che vi erano entrate di pieno diritto, non erano più oggetto ma soggetto della vita pubblica e della politica. I sindacati avevano acquisito una dimensione sconosciuta in precedenza. Iniziava una nuova era, l’età dell’“uomo senza miti”, come la definì un giovane filosofo cattolico, Felice Balbo, ossia l’età dell’uomo libero dalle aberranti ideologie irrazionalistiche e vitalistiche che erano state all’origine della più catastrofica delle guerre. Un modo nuovo di vedere le cose, che includeva il riequilibrio tra Nord e Sud in termini di sviluppo. Mentre procedeva celermente il ripristino del sistema dei trasporti, già in buona parte riattivato alla fine del 1946, il Nord, pur tra stridenti contraddizioni e non poche storture, tra cui una manodopera a buon mercato, cominciava a registrare una crescita dell’apparato industriale, la cui produzione, ben presto, superò i livelli dell’anteguerra. A un’organizzazione del lavoro disciplinata da un rigido
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autoritarismo, incarnato dal modello Valletta nella FIAT, ove tre operai su quattro erano addetti alle catene di montaggio, si contrapponeva quello voluto e promosso da Adriano Olivetti, l’imprenditore italiano più illuminato del dopoguerra, che trasformò la sua azienda in “un successo a misura d’uomo”, convinto com’era che solidarietà e profitto non fossero in antitesi. Nel Mezzogiorno, invece, ove già nel dicembre del 1944 il Partito d’Azione aveva organizzato a Bari un convegno meridionalistico presieduto da Adolfo Omodeo e con relatori illustri, quali Guido Dorso e Manlio Rossi Doria, quanto mai urgente si presentava la soluzione del problema fondiario. Il movimento contadino, che aveva ormai acquisito capacità e sicurezza prima sconosciute nelle rivendicazioni dei propri diritti, iniziava una lunga serie di occupazioni dei feudi. De Gasperi, Presidente del Consiglio, avvertì la necessità di riequilibrare non solo i rapporti tra le classi, ma anche quelli tra le diverse regioni del Paese, pena l’acuirsi della tensione sociale a danno della stessa stabilità della formula governativa. Tra il 1949 e il 1951 fu, quindi, varata la riforma agraria. Gli enti di riforma espropriarono terreni incolti per oltre settecentomila ettari, assegnandoli a contadini poveri, affinché li mettessero a coltura. Nel 1950 nacque la Cassa per il Mezzogiorno, ente speciale con il compito di effettuare investimenti nel Sud, utilizzando gli ingenti capitali messi a disposizione da un apposito organismo di coordinamento e propulsione. Funzione programmatica della Cassa fu di superare il vecchio sistema dei frammentari e insufficienti interventi statali, coordinando i propri lavori in una visione che configurava la re-
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altà meridionale come un insieme di necessità interdipendenti e connesse. Ci fu, dunque, nel secondo dopoguerra un innegabile sforzo da parte dei vari governi di integrare compiutamente il Meridione nella società nazionale, onde completare con l’unificazione economica e morale quella politica di circa novant’anni addietro. I risultati, nel loro complesso, non furono, però, quelli preventivati.
Silvana Mangano nel film “Riso Amaro”
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Disagi e speranze
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Nel 1946, al tempo del Referendum istituzionale e dell’elezione dell’Assemblea Costituente, avevo soltanto quattro anni. Tuttavia qualcosa ricordo, sia pure sotto forma di immagini sbiadite. Era stato indetto il referendum istituzionale per il 2 giugno. Gli Italiani dovevano scegliere tra monarchia e repubblica.
Qualche giorno prima delle votazioni accompagnavo una mia cugina più grande di me di circa dieci anni, che bagnava un pennello in un barattolo, in cui aveva sciolto della calce, per scrivere sui muri “viva il re”. Sì, la mia famiglia, almeno in apparenza, era monarchica. Mio nonno, che era un patriarca, era forse il monarchico più determinato del paese, ma non penso che i suoi tre figli lo seguissero nella sua appassionata riverenza per la dinastia dei Savoia. 19
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Un’altra immagine, che spesso mi torna in mente, risale al momento della proclamazione dei risultati del Referendum. Stavo giocando in piazza con alcuni compagni. Non molto distante da noi, un signore teneva per mano suo figlio, più piccolo di me. Alla notizia della vittoria della Repubblica, sollevò in alto il bambino ed esclamò: “Gioisci figlio mio, perché un giorno potrai essere presidente della Repubblica”. Quel ragazzo non è mai diventato presidente della Repubblica, ma l’auspicio del padre era il segno tangibile dello stato di esaltazione di una generazione desiderosa di mettersi alle spalle le angustie di un ventennio di dittatura e la tragedia di una guerra disastrosa e non voluta. Una generazione per la quale la ricostruzione del Paese, devastato dai bombardamenti, costituiva l’esigenza primaria, una ricostruzione che non riguardava soltanto l’aspetto materiale, ma anche la rigenerazione delle coscienze offuscate da vent’anni di oblio della ragione, in cui la parola “libertà” era stata come cancellata dal vocabolario della lingua italiana. Mio nonno, dopo la partenza di Umberto II per l’esilio in Portogallo a Cascais, spesso riuniva i nipoti più piccoli e ci faceva declamare una filastrocca da lui composta, che così diceva: “Viva l’Italia, eterna gloria, si chiama Umberto ritornerà…”. Erano anni di miseria, quelli del dopoguerra. Mia madre, per assicurare ai figli una ciotola di latte ogni mattina, comprò una capra e la consegnò, affinché la facesse pascolare, a una nostra mezzadra, verso la quale noi piccoli nutrivamo un affetto quasi filiale. Altre volte scioglieva in acqua del latte in polvere di provenienza americana, che aveva un sapore particolare che a me piaceva molto. Nel 1946 il popolo italiano votò anche per l’Assemblea Costituente. Per la prima volta nella storia d’Italia, un partito di cattolici, la Democrazia Cristiana, ebbe la maggioranza relativa con il 35,2% dei voti e 207 seggi su 556. 20
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Fiorentino Sullo, allora giovane di talento di sicuro successo, candidato alla Costituente, votò a Caposele, ove s’intrattenne per qualche giorno in attesa del giorno della votazione e dei risultati elettorali. Un giovane, Fiorentino Sullo che, alla pari degli altri, subiva le ristrettezze economiche dei tempi, se è vero, come mi fu detto, che indossava sempre lo stesso vestito, per giunta rivoltato. Nei giorni di permanenza a Caposele, Sullo ebbe modo di intrattenersi con amici e avversari. Un neolaureato di sinistra volle confrontarsi con lui in un bar, ma il confronto si risolse, com’era prevedibile, in maniera non positiva per il neodottore del posto. I bar del posto ancora non erano attrezzati della macchina per la produzione del gelato. Raramente e particolarmente in occasione di importanti festività, come il giorno di San Lorenzo, patrono di Caposele, arrivava un gelataio ambulante, che posizionava la sua gelatiera davanti al “Caffè di Romualdo”, con la quale faceva un gelato che a noi ragazzi faceva venire “l’acquolina in bocca”. La macchina era costituita, semplicemente, da un tino di legno a doppia parete, al cui interno si trovava una sorbettiera in rame, che il gelataio faceva ruotare con una manovella posta verticalmente sull’asse del recipiente. Poi, verso la fine degli anni quaranta, finalmente, i bar si attrezzarono con moderne gelatiere e il gelato divenne, anche in paese, un prodotto di facile consumo. Un cono piccolo di gelato costava cinque lire, quello più grande dieci Erano anni di disagi quelli del dopoguerra. Le strade che, tra l’altro, erano semplicemente brecciate, in gran parte erano state dissestate dai bombardamenti aerei e dai colpi di artiglieria. I mezzi di trasporto erano scarsi e ove esistevano non offrivano alcuna comodità. Una camionetta militare americana, che faceva capolinea a Laviano (SA), nera con due panche sul cassone, collegava il pa21
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ese con Salerno. A Caposele vi erano soltanto tre auto, tutte Fiat Balilla, di proprietà di tre noleggiatori, di cui uno era un mio zio. Lascio immaginare in quali condizioni si viaggiava. Sarebbe stata una grave negligenza mettersi in viaggio senza l’occorrente per riparare le sicure e ricorrenti forature delle camere d’aria e senza il gonfiatoio. Un viaggio fino a Napoli era nei fatti un’avventura.
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Dal Piano UNRRA al Piano ERP
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Ragazzi, quali eravamo, nutrivamo non poca invidia verso quei compagni che consideravamo più fortunati di noi, perché avevano in America parenti che non si erano dimenticati della loro famiglia d’origine con l’invio di pacchi di vera e propria sussistenza con dentro indumenti smessi, talvolta nuovi, e l’immancabile barattolo di caffè di marca “Medaglia d’oro”. La miseria era diffusa. C’era chi pativa letteralmente la fame, ed anche i cosiddetti benestanti raramente mangiavano carne. Vi erano due tipi di pasta. La più diffusa, perché costava Aiuti dall’America di meno, era quella che chiamavano nera, perché formata da farina ricca di crusca, e poi vi era quella bianca, costituita dal “fior di farina”, appannaggio quasi esclusivo dei benestanti e di chi, pur versando in condizioni non proprio agiate, aveva possibilità economiche in più rispetto alla grande massa della popolazione. Nelle città, rispetto ai paesi di provincia, la situazione era ancora peggiore. Quella che segue è la testimonianza di un operaio milanese riportata da Giorgio Manzini nel libro “Una vita operaia”: “Il salario non bastava mai, era sempre una gabbia stretta. Se oggi si comprava con dieci, domani erano dodici, quindici. Per avere un po’ di respiro bisognava muoversi. Gli scioperi si accendevano facilmente, non c’era bisogno di volantini, un’assemblea e via, si passava la parola, si partiva… Quasi tutto era razionato, olio, burro e zucchero costavano come alla borsa nera. Si usava molto lardo perché era l’unico genere che non era scomparso. Carne una volta alla settimana,… Ed era già una fortuna lavorare. I disoccupati arrivavano da tutte le parti, 23
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c’erano manifestazioni ogni giorno davanti alle fabbriche. Un esercito che voleva entrare ma i cancelli erano stretti”. La sopravvivenza era assicurata dai viveri americani che giungevano con le navi “liberty”. Nel periodo tra la metà del ’47 e i primi mesi del ’48, che costituiva una saldatura tra gli aiuti UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration), organizzazione della Nazioni Unite di assistenza ai paesi gravemente danneggiati dalla guerra, ormai alla fine, e gli aiuti del Piano Marshall , ancora da iniziare, Washington destinò all’Italia un contributo di emergenza di 300 milioni di dollari, essenzialmente in medicinali e alimenti. Nella campagna elettorale dell’aprile 1948, i comunisti accusarono il governo di svendere l’indipen-denza dell’Italia agli Americani in cambio di cibo, ma la loro propaganda non fu premiata dagli elettori. Influirono non poco sulla scelta politica degli Italiani i coevi tragici fatti di Ungheria e della Cecoslovacchia, ove i comunisti si erano impadroniti del potere con un colpo di stato. Gli Italiani, come dice Montanelli, “sapevano che l’URSS mai avrebbe voluto o potuto fare alcunché di simile e che se, per pura ipotesi, l’avesse fatto la gratitudine dei comunisti italiani verso la patria del socialismo avrebbe di gran lunga superato, in servilismo e piaggeria, ogni manifestazione filoamericana dei democratici cristiani e loro alleati”. Con il Piano Marshall, ufficialmente chiamato “European Recovery Program (ERP)”, gli Stati Uniti d’America, mossi dalla convinzione che lo sviluppo di libere economie fosse il miglior antidoto alla diffusione del comunismo, si addossarono in buona parte e per molti anni il costo della ricostruzione economica dei paesi occidentali. Ovviamente non erano estranee alla generosità americana mire di egemonia militare e politica nonché interessi economici da realizzare a ricostruzione avvenuta. Nella sola Italia affluirono, comunque, dal 1948 al 1952, ben 1474 milioni di dollari. Furono questi aiuti e altri concessi 24
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in prestito che consentirono all’Italia di uscire, man mano, dal tunnel della miseria. Già nel 1950 il reddito pro capite degli Italiani aveva superato il livello più elevato raggiunto prima della guerra. Ma gli aiuti americani non sarebbero stati certamente sufficienti a promuovere lo sviluppo del Paese se non fossero stati accompagnati dalla tenace volontà di risorgere del Popolo italiano, dalla sua inventiva, dalla sua creatività, dal suo spirito d’impresa, dalle libertà garantite dalla Costituzione Repubblicana entrata in vigore il 1° gennaio 1948, dalle rimesse degli emigrati e dai provvedimenti in materia economica e finanziaria del Governo. Certo, a tanto contribuì anche il basso costo del lavoro. Un avvenire migliore si profilava, comunque, all’orizzonte. Già nel 1945 l’ing. Corradino D’Ascanio aveva progettato per gli stabilimenti della Piaggio un motoscooter – la “Vespa”– che, insieme alla concorrente “Lambretta” della Innocenti, prodotta a partire dal 1947, avrebbero motorizzato l’Italia già verso la fine degli anni Quaranta. Vespa e Lambretta liberarono gli Italiani dalla schiavitù dei trasporti pubblici ancora precari e in alto mare. Questo, tuttavia, avveniva altrove, di vespe e di lambrette a Caposele e in tutta l’Irpinia ne circolavano ben poche.
Vespa 1946
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Le elezioni del 18 aprile 1948
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Le elezioni del 18 aprile 1948 hanno rappresentato nella storia d’Italia un evento unico e irripetibile. Da una parte il “Fronte Popolare”, un blocco costituito da comunisti, socialisti e altre formazioni politiche minori che accusavano il governo De Gasperi di essere succube degli Stati Uniti e del Vaticano, dall’altra la Democrazia Cristiana, i socialdemocratici, i repubblicani e i conservatori dell’alleanza tra liberali e Uomo Qualunque. In caso di esito incerto questi partiti minori si sarebbero affiancati alla Democrazia Cristiana.
“Il Fronte vince – vota Fronte” era lo slogan più in voga dell’alleanza di sinistra, corredato di altre frasi a effetto che insistevano sulla soggezione del governo italiano al capitalismo clericale e all’oscurantismo della Chiesa cattolica, all’imperia26
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lismo americano e alla dubbia italianità di Alcide De Gasperi, il cui cognome veniva distorto in “Von Gasper”. Chiaro il riferimento alle sue origini trentino- asburgiche. La posta in gioco era altissima e legittimava ogni mezzo. Dall’una e dall’altra parte “non si adoperò il fioretto, bensì il randello”. Nei loro comizi, gli oratori del Fronte, comunisti in particolare, prospettavano per il popolo italiano un avvenire radioso e democratico, ma poi portavano come modello politico e sociale l’Unione Sovietica, di cui descrivevano le grandi conquiste economiche e il meraviglioso benessere assicurato al popolo, in antitesi alla miseria e alle sofferenze degli operai e dei contadini italiani. La verità era diversa e gli Italiani lo sapevano: sapevano dei fatti di Ungheria del 1947 e si preoccupavano che lo stesso potesse verificarsi in Italia; sapevano del colpo di Stato comunista in Cecoslovacchia del febbraio 1948; sapevano che ovunque fosse arrivata l’Armata Rossa –Polonia, Bulgaria, Romania – i Comunisti avevano estromesso dal potere finanche i partiti alleati.
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La Democrazia Cristiana seppe utilizzare queste verità per smantellare la propaganda del Fronte, anche là dove la stessa era sorretta da buone ragioni. Le sinistre divennero, così, poco credibili. In un discorso elettorale il ministro dell’Interno Scelba avvertì che “nel caso di violenza o di attentati alla libertà di voto, il governo era pronto a intervenire anche durante le votazioni, per sospenderne lo svolgimento”. I sospetti e le accuse di brogli, di disordini e anche di programmato colpo di Stato, correvano in entrambi gli schieramenti. I capi delle brigate partigiane comuniste, che solo ufficialmente si erano sciolte tre anni prima, ricontattarono i loro uomini e dissotterrarono le armi, le prepararono e in molte zone addirittura le ostentarono. Gli Americani, gli italoamericani in particolare, si sentirono coinvolti nella contesa elettorale. Moltissimi inviarono lettere a cittadini italiani di loro conoscenza per esortarli a non dare il voto al Fronte Popolare, voto che avrebbe significato l’esclusione italiana dagli aiuti del Piano Marshall e il blocco dell’emigrazione italiana negli USA. La scristianizzazione e le persecuzioni religiose nei paesi a regime comunista preoccupavano non poco la Chiesa di Roma, che intervenne nella contesa elettorale, ostentando palesemente il suo interventismo e assicurando alla Democrazia Cristiana la penetrazione capillare in tutto il territorio nazionale attraverso le parrocchie. L’Azione Cattolica scese massicciamente in campo con la costituzione dei “Comitati civici” ad opera del presidente Luigi Gedda, esponente di un integralismo cattolico esasperato. Sull’esempio della “Peregrinatio Mariae”, un’iniziativa di culto mariano nata in Francia prima della guerra e diffusasi in Italia durante e dopo la guerra, i Padri Redentoristi del San28
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tuario di San Gerardo di Materdomini organizzarono una â&#x20AC;&#x153;Peregrinatio Gerardinaâ&#x20AC;? in vari comuni dellâ&#x20AC;&#x2122;Irpinia, del Salernitano e della Basilicata. Il giorno in cui il corpo del Santo doveva rientrare, i Caposelesi, almeno quelli di appartenenza democristiana, gli andarono incontro per accompagnarlo nel suo Santuario.
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Mio fratello più grande, mia madre, mia zia, alcune loro amiche ed io ci recammo, a piedi, lungo la strada nazionale al confine tra i territori di Caposele e Teora. Il camion dei monaci tardava ad arrivare. Incominciò a circolare tra la gente la voce che i Teoresi avevano bloccato il corteo per trattenere con loro San Gerardo. Poi finalmente il camion con sopra il Santo arrivò. Era un vecchio autocarro, forse un residuato bellico, con il serbatoio del gasolio sulla cabina di guida. Scroscianti furono gli applausi e fu cantato l’inno di glorificazione del Santo: “Sotto l’ombra del nostro Gerardo su venite giulivi e festanti… Simbol caro di grazie foriero di Gerardo la santa bandiera”. Bisognava rientrare a casa, ripercorrendo a ritroso il cammino fatto all’andata in allegria. Per fortuna, mio fratello ed io trovammo posto nella macchina dello zio autista, che era stata noleggiata dalla famiglia del notaio del posto. I risultati del voto furono favorevoli alla Democrazia Cristiana, che ottenne il 48,5% dei suffragi e la maggioranza assoluta alla Camera con 305 seggi su 574. Il Fronte Popolare conseguì soltanto il 31% dei voti. I Socialdemocratici ottennero il 7,1%, una buona affermazione realizzata in condizioni difficili, i Repubblicani il 2,5%, i Liberali e l’Uomo Qualunque il 3,8%.
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Il banditismo
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Spesso sentivo il conduttore del giornale radio parlare di un bandito siciliano, che si chiamava Salvatore Giuliano. Nel dopoguerra, la Sicilia era interessata da un movimento politico guidato da personaggi, anche di un certo spessore culturale, che volevano la secessione dell’isola dall’Italia. Il movimento era costituito da due tendenze. L’una, capeggiata da Andrea Finocchiaro Aprile, intendeva raggiungere l’obiettivo attraverso la diplomazia con il sostegno degli Inglesi e degli Americani; l’altra, più oltranzista, intendeva seguire le vie della forza e della violenza, costituendo, a tal fine, un gruppo armato chiamato EVIS (Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia). Giuliano fu nominato colonnello dell’EVIS e poté così blasonare le sue imprese criminali. Il Governo rispose non solo con la repressione. Il 23 dicembre 1945 la Commissione, all’uopo designata, approvò, infatti, la bozza dello Statuto di autonomia della Regione Siciliana. Le elezioni del 1946 significarono, così, il crollo delle fantasie separatiste, crollo che divenne ancora più pesante alle elezioni regionali siciliane del 20 maggio 1947. Il MIS (Movimento Indipendenza Siciliana) fu sonoramente sconfitto, conseguendo appena l’8,7% dei voti che, in termini di rappreSalvatore Giuliano
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sentanza, significava soltanto otto deputati in seno alla prima Assemblea regionale siciliana. Giuliano e la sua banda continuarono, però, a infestare il territorio attorno a Montelepre, paese in cui il bandito era nato e in cui risiedeva la sua famiglia. Il 5 luglio 1950, alle sette del mattino, il radiogiornale comunicò la notizia più sensazionale dell’anno: “Il bandito Salvatore Giuliano è stato ucciso stanotte in un conflitto a fuoco con i carabinieri”. Questa era la versione ufficiale, ma non pochi hanno messo in dubbio la veridicità dei fatti narrati dalle Autorità. Il mistero, ancora oggi, non è stato totalmente svelato. Di Giuliano noi ragazzi parlavamo spesso. La parola bandito per noi non aveva, quindi, un significato sconosciuto, quando fu affisso sui muri del Paese un manifesto corredato di due fotografie di un uomo, su cui era stata posta la taglia di “1 milione” a chi l’avesse catturato “vivo o morto”. Anche l’Irpinia aveva il suo bandito: Vito Nardiello di Volturara. Negli anni a seguire di Nardiello fantasticavamo molto. Non pochi, tra coloro che frequentavano le nostre montagne, dicevano d’averlo incontrato e di essersi intrattenuti a parlare con lui, alimentando in noi ragazzi la paura di andare di sera nella zona prossima alle sorgenti del Sele, situata alla periferia del centro abitato. 32
L’istruzione
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Nel 1945 gli alunni delle scuole elementari, medie e superiori erano complessivamente 5.236.691; gli insegnanti erano 211.496, vale a dire un docente ogni 24 alunni. Dieci anni dopo gli alunni erano diventati 6.240.000 e i docenti 307 mila 781: un docente ogni 20,7 alunni. Nel 1962, anno dell’avvio delle innovazioni conseguenti alla riforma della scuola media, il rapporto docente/alunni era di 1/16,3. L’Italia cresceva e, di conseguenza, si diffondeva l’istruzione. Negli anni Quaranta/Cinquanta, avere un figlio professionista era per i genitori, appartenenti ai ceti meno agiati, un sogno che, se realizzato, garantiva migliori condizioni di vita ed anche il presupposto necessario per l’ascesa sociale. Ma le scuole medie, in realtà, erano poche. In quasi tutti i piccoli comuni vi era soltanto la scuola elementare. Conseguita la licenza di quinta elementare, alla gran parte dei ragazzi non restava che imparare un mestiere o, peggio, aiutare i genitori nel lavoro dei campi. Mandare i figli agli studi, come allora si diceva, comportava costi enormi, che potevano essere affrontati solo con non pochi sacrifici. Caposele poteva dirsi un paese fortunato, perché, già dalla seconda metà degli anni Trenta, era sede di una scuola di avviamento professionale maschile di tipo agrario e femminile di tipo industriale, frequentata non solo da ragazzi del posto, ma anche da molti provenienti dai paesi vicini dell’Alto Sele. L’ordinamento scolastico del tempo prevedeva, dopo le elementari, un doppio percorso triennale. Vi era la scuola maschile di avviamento professionale, che era frequentata da chi non avrebbe continuato negli studi ed aveva un carattere professionalizzante a seconda del tipo di indirizzo. Quella femminile doveva invece preparare le ragazze a essere buone casalinghe. 33
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Vi era, poi, la scuola media (ginnasio inferiore), più selettiva, cui si accedeva tramite un esame di ammissione, scuola destinata ai futuri professionisti. I programmi della scuo la media prevedevano l’insegnamento privilegiato delle discipline umanistiche, quello della matematica, della lingua straniera (in prevalenza francese), della musica, del disegno e dell’educazione fisica. Tranne rare eccezioni, alla scuola media accedevano i figli dei professionisti o delle famiglie benestanti. Era, a tutti gli effetti, una scuola che si basava sulle differenze di classe. Era oggettivamente difficile che un artigiano o un contadino potesse permettersi di far frequentare ai figli la scuola media. Ma agli inizi degli anni Cinquanta, in maniera silenziosa, avvenne una trasformazione di enorme portata: la scuola media incominciò ad essere massicciamente frequentata da figli
Caposele, Scuola Elementare anni Quaranta/primi Cinquanta
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di artigiani, piccoli commercianti e contadini più evoluti. Nel 1953, per la prima volta nella storia del mio piccolo Paese, metà alunni di una quinta elementare sostenne, con esiti positivi, gli esami di ammissione alla scuola media. Tra questi c’ero anch’io. Il risultato fu reso possibile anche grazie alla disponibilità del nostro Maestro che, di pomeriggio, senza essere retribuito, ci preparò agli esami di ammissione. Sostenni gli esami a Lioni, che era uno dei pochi paesi in Alta Irpinia, insieme a Sant’Angelo dei Lombardi e a Nusco, a essere sede di scuola media e, cosa impensabile oggi, seguirono tre anni di collegio, due a Campagna e l’ultimo a Salerno, ove conseguii la licenza media.
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Il DDT e la Penicillina
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Il progresso che stava interessando l’Italia nella sua globalità non era testimoniato solo dalla diffusione dell’istruzione. Era l’intero sistema che cresceva. Nel 1945 l’Italia registrava un’alta mortalità infantile con 206 bambini morti per 1000 nati vivi. Dieci anni dopo, nel 1955, la stessa era scesa a 101,6 e vent’anni dopo, nel 1965, si era ulteriormente ridotta a 69,1. Migliori condizioni igieniche e un’alimentazione più ricca di proteine e più differenziata erano alla base di tale sensibile riduzione della mortalità infantile. Insieme alle gomme da masticare gli Americani avevano introdotto in Italia anche un potente insetticida, il DDT, grazie al quale fu possibile debellare malattie dovute alla presenza di parassiti. Ma il DDT era dannoso per l’ambiente e per le persone, solo che allora non lo si sapeva e se ne fece, di conseguenza, un uso eccessivo. Squadre di operatori sanitari, addetti alla disinfezione, muniti di pompa a spalla azionata da una leva laterale, giravano per i paesi spargendo ovunque, anche all’interno della case, un insetticida liquido biancastro. Oltre al DDT, gli Americani diffusero anche un potente antibatterico, la penicillina, con la quale fu possibile combattere efficacemente morbi fino allora letali
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Pompa per aspergere il DDT
Il barone del popolo
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La miseria nell’Italia del dopoguerra era avvertita in maniera ancora più grave dagli emigrati italiani negli Stati Uniti. Il caso di Gerardo Cetrulo, emigrato di prima generazione, barone per volontà popolare, è sintomatico di tale percezione. Verso la fine degli anni Quaranta, questo caposelese d’America aveva donato alla locale squadra di calcio un completo da calciatore di colore giallo-blu con la scritta sul petto “Leon del Sele”, senza, però, le scarpette. In possesso di un buon orecchio musicale, aveva, altresì, composto l’inno di Caposele, titolato appunto “Leon del Sele”, che, a scuola, il maestro ci faceva cantare dopo quello nazionale. Gerardo Cetrulo e i Caposelesi ignoravano, però, il fatto che lo stemma araldico di Caposele non era il leone bensì l’aquila. Il leone divenne così, impropriamente, lo stemma del paese. Nelle elezioni amministrative del 1952, la lista che si contrappose alla Democrazia Cristiana adottò il leone come contrassegno e vinse le elezioni. Le risorse finanziarie comunali erano piuttosto scarse. La nuova Amministrazione Comunale pensò di poter impinguare le magre casse del Comune con le eventuali donazioni di Cetrulo, di cui si diceva che in America avesse costituito un notevole patrimonio, più presunto che reale stando agli avvenimenti che seguirono. Gerardo Cetrulo, in occasione di una sua breve permanenza a Laviano, ove aveva dei parenti, fu ufficialmente invitato a Caposele per essere insignito dell’altisonante titolo onorifico di “barone del popolo”. Fu solennemente ricevuto con tutti gli onori e, per l’occasione, fu persino utilizzato il baldacchino mobile a sei mazze, normalmente usato dalla Giunta Municipale per la processione del “Corpus Domini”. 37
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E così nella mattinata dell’importante giorno dell’incontro, molti Caposelesi, per la gran parte sostenitori della lista del leone, si adunarono nella piazza principale del Paese. Anche noi alunni, perfettamente inquadrati e sorvegliati dagli insegnanti, fummo mobilitati per la speciale occasione, con disappunto di molti genitori appartenenti allo schieramento democratico cristiano. Finalmente, dopo un’attesa che mi sembrò molto lunga, giunse l’Americano, che avrebbe dovuto assicurare ai Caposelesi un futuro meno duro del presente. Giunse accolto da ovazioni di benvenuto e dalle Autorità con a capo il Sindaco agghindato con fascia tricolore. Ma la realtà si materializzò subito per quella che in effetti era. Le speranze in Cetrulo andarono ben presto deluse.
Il Sindaco Michele Farina e Gerardo Cetrulo
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Terminata la parte ufficiale e solenne della manifestazione, il presunto ricco paesano d’America pensò bene di ostentare la sua ricchezza con un lancio di monetine che gruppetti di ragazzi avidamente raccolsero. Non contento di tanto, forse perché riteneva che i Caposelesi patissero letteralmente la fame, fece consegnare a moltissime famiglie, che pur non versavano in misere condizioni, panini imbottiti con companatico di diversa natura. Tutti si sentirono offesi. E così, quella che avrebbe dovuto essere una giornata di festa solenne e foriera di destini migliori per il Paese, si chiuse in malo modo. Non molto tempo dopo, Gerardo Cetrulo tornò in America e a Caposele non rimise più piede. Finì ben presto con l’essere completamente dimenticato. Anche l’inno “Leon del Sele”, che era stato oggetto di strumentalizzazione politica, non fu più cantato nelle scuole e con gli anni se n’è quasi persa la memoria. Soltanto pochi Caposelesi, avanti con gli anni, ancora sono in grado di canticchiarlo. Anche i colori della locale squadra di calcio non sono più stati quelli giallo-blu con la scritta “Leon del Sele”.
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Il Trattato di pace e la questione di Trieste
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Avevamo in casa una grossa radio “Marelli”. Era un rito ascoltare i notiziari delle ore tredici e delle ore venti preceduti dal cinguettio dell’uccello meccanico della RAI. In famiglia eravamo particolarmente attenti alla questione di Trieste e alle continue manifestazioni dei Triestini, che chiedevano il ritorno della loro città in seno alla Patria italiana. L’interesse nasceva dal fatto che a Trieste viveva un fratello di mia madre con la sua famiglia. Ogni notizia suscitava grande apprensione, specie quando fu diffusa quella riguardante i concentramenti di truppe sul nostro confine orientale. La crisi triestina fu una diretta conseguenza dell’applicazione del Trattato di Pace del 10 febbraio 1947 che le potenze vincitrici della guerra imposero all’Italia, nonostante il dignitoso discorso di De Gasperi alla Conferenza della Pace, nonostante che l’esercito italiano, dopo l’8 settembre, avesse combattuto i Tedeschi a fianco degli Alleati, nonostante, infine, il contributo dato dai partigiani italiani alla vittoria finale. L’Italia fu costretta a versare la somma di 360 milioni di dollari che così fu ripartita: 125 alla Jugoslavia, 105 alla Grecia, 100 all’Unione Sovietica, 25 all’Etiopia e 5 all’Albania. Fu amputata di vaste estensioni territoriali: a Occidente a favore della Francia (Briga, Tenda, e zone alpine di elevato valore strategico); a Oriente a favore della Jugoslavia (Fiume, Zara, le isole Lagosta e Pelagosa, gran parte dell’Istria, del Carso triestino e goriziano e l’alta valle dell’Isonzo). L’Italia cedeva, inoltre, tutte le sue colonie. In base al Trattato di pace, la città di Trieste, i comuni circostanti e la parte dell’Istria non concessa alla Jugoslavia sarebbero entrati a far parte del Territorio Libero di Trieste (TLT), diviso in due Zone: A e B. La prima fu posta sotto il diretto controllo di Inglesi e Americani, la seconda fu assegnata al gover40
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no jugoslavo. Nelle intenzioni degli Alleati, il Territorio Libero di Trieste avrebbe dovuto essere un ministato autonomo, protetto dalle Nazioni Unite e destinato a fungere da cuscinetto tra Italia e Jugoslavia per evitare uno scontro diretto tra i due Paesi. Questa soluzione costituiva, però, una miscela esplosiva, creando forti tensioni tra i due Paesi, perché la Jugoslavia pretendeva l’annessione di tutto il territorio interessato. Cosicché il TLT non vide mai la luce. Circa 300 mila Istriani, Fiumani e Dalmati abbandonarono la loro terra e le loro case per sfuggire alle persecuzioni degli occupanti jugoslavi. Fu un vero e proprio esodo. Furono allestiti, prevalentemente in Italia settentrionale, 109 campi profughi. L’Italia del dopoguerra, tra le tante altre emergenze, dovette affrontare anche quella dell’enorme numero di esuli giuliano-dalmati, provvedendo anche al collocamento al lavoro dei capifamiglia, che avvenne, principalmente, nelle grandi industrie del triangolo industriale del Nord e nelle aziende parastatali. Gli esuli diedero una grande prova di civiltà e di spirito di abnegazione, nonostante le sofferenze, le violenze, i disagi e i torti subiti. Si verificarono, talvolta, episodi ignobili, compiutamente inquadrabili nel lacerante scontro politico-ideologico dell’epoca. Alla stazione ferroviaria di Bologna, ad esempio, attivisti comunisti impedirono di portare qualsiasi genere di conforto ai profughi su un treno in transito, rei soltanto di fuggire dalla Jugoslavia, un paese del mondo comunista irradiato dal “sole dell’avvenire”. Venni a contatto con il dramma dei profughi istriani e dalmati, in quanto una famiglia, proveniente dall’Istria, si era stabilita a Caposele. La presenza alleata a Trieste aveva ormai assunto, nell’ambito delle tensioni della guerra fredda, un grande valore stra42
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tegico. Nel novembre 1953 la popolazione triestina manifestò contro le autorità militari alleate, che reagirono duramente, uccidendo sei manifestanti, di cui il più giovane un ragazzo di appena quindici anni. Presidente del Consiglio dei Ministri era Giuseppe Pella, un uomo abbastanza energico. Fu in quell’occasione che vidi mia madre e mia zia impaurite per la sorte del fratello residente a Trieste, paura che si aggravò alla notizia di gravi e preoccupanti tensioni sul nostro confine orientale. Numerosissime furono le manifestazioni studentesche per il ritorno di Trieste all’Italia. Ero un ragazzo di undici anni e frequentavo la prima media a Campagna in provincia di Salerno. Gli alunni dell’Istituto Magistrale, che costituiva un tutt’uno con la scuola media, organizzarono una manifestazione per Trieste, che terminò con la deposizione di una corona di fiori innanzi al monumento ai caduti della prima guerra mondiale e la lettura da parte di uno studente dell’ultimo anno di un telegramma di solidarietà degli studenti di Campagna agli Italiani di Trieste. Nei primi mesi del 1954 plenipotenziari americani, inglesi e jugoslavi si riunirono a Londra e negoziarono l’accordo finale: la Zona B fu consegnata alla Jugoslavia, la Zona
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A e Trieste all’Italia. Il 26 ottobre 1954, le truppe italiane ritornarono a Trieste. Si concluse, così, l’esperienza del Governo Militare Alleato, che aveva retto la città dalla fine della guerra. L’Italia fu, però, costretta a rinunciare a ciò che restava dell’Istria, in cui ogni traccia di italianità fu cancellata da una sistematica politica di trasferimenti di popolazioni slave dall’interno verso la costa e dall’ultima diaspora verso l’Italia degli ultimi Italiani rimasti in Istria, tenacemente attaccati alla loro terra natia.
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GLI ANNI DELLA CRESCITA
La Riforma agraria
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Era il 1956, frequentavo a Salerno la terza media. L’insegnante di Geografia, che era il docente anche di Storia, Latino e Italiano, organizzò, cosa rara in quei tempi, una gita di istruzione nella Piana del Sele. Potemmo, così, visitare la zona archeologica con i famosi templi, le opere di trasformazione fondiaria in atto o già realizzate con l’applicazione della Legge di Riforma agraria e i lavori di bonifica, avviati già in epoca fascista e accelerati massicciamente negli anni del secondo dopoguerra. Già nell’ottobre 1944, il governo di unità nazionale presieduto da Ivanoe Bonomi, su proposta del ministro Fausto Gullo, aveva emanato nuove norme che modificavano, a vantag-
Casa colonica costruita con la Riforma
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gio dei contadini, le quote di riparto dei contratti di mezzadria e stabilivano la concessione di terre incolte o mal coltivate a gruppi di contadini associati in cooperative. Nel 1950 furono approvate le tre leggi di riforma agraria (la Legge Sila, la Legge stralcio e in seguito la Legge Siciliana), che consentì l’insediamento nelle diverse unità produttrici (poderi, quote e lotti) di ben 161.621 nuclei familiari, pari a circa trecentomila unità lavoratrici, previa espropriazione di 749.210 ettari per la gran parte nel Mezzogiorno d’Italia. Per la prima volta, nella storia della politica economica dei governi italiani dall’Unità in poi, veniva a essere colpita la grande proprietà terriera assenteista e, soprattutto, veniva ridimensionato il peso del grande latifondo e del blocco agrario meridionale verso cui i grandi meridionalisti, da Salvemini a Dorso, da Fortunato a Sturzo e a Gramsci, avevano scagliato i loro strali. Veniva infranta una struttura secolare, che aveva resistito alla riforma murattiana nel decennio francese e a quella promossa dallo Stato liberale dopo l’unità d’Italia, avendo l’una e l’altra colpito, principalmente, il patrimonio della Chiesa.
Costruzione di un acquedotto finanziato dalla Cassa per il Mezzogiorno
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Notevoli estensioni di terreni della Piana del Sele, una volta malariche, ci spiegava l’insegnante, erano state interessate da importanti trasformazioni che le avevano rese produttive. In tempi precedenti alla Riforma, la Piana, ci spiegava ancora l’insegnante, era costituita da circa cinquanta grandi proprietà, le cui estensioni variavano da un minimo di 500 a un massimo di 1000 ettari. Soltanto meno della metà di tali terreni erano destinati a coltivazioni più meno di pregio, il resto era latifondo incolto o adibito a pascolo brado. Quello che, però, noi vedevamo non erano lande paludose, ma terreni ordinati in lunghi filari di coltivazioni pregiate e case coloniche nuove del colore bianco della calce. In generale, pur con i suoi indubbi limiti, la riforma rappresentò il primo serio tentativo di risolvere l’antico problema della terra nel Mezzogiorno. 49
Gli interventi straordinari dello Stato a Caposele
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Caposele non fu interessata dalla riforma agraria, perché non vi erano i presupposti della riforma stessa, cioè estesi latifondi da espropriare, quotizzare e assegnare le singole quote ai contadini, che da secoli li coltivavano, subendo rapporti di lavoro che li condannavano a un’estrema miseria. La richiesta che la sinistra avanzava di estendere la riforma agraria all’Alto Sele acquistava, quindi, più il significato di Uliveti in c/da Buoninventre impiantati dall’Ente dell’Irrigazione in Irpinia una denuncia delle misere condizioni sociali ed economiche dei contadini, anche proprietari, che una vera e propria esigenza. Ciò non vuol dire che non vi fossero estese proprietà agricole, a bassa produttività, caratterizzate da coltivazioni estensive. La contrada Buoninventre, situata nel comune di Caposele, costituiva un esempio evidente. Se per un verso, ancora alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, tale Contrada poteva essere considerata esempio tangibile delle perduranti misere condizioni di vita delle plebi rurali del Mezzogiorno d’Italia, dall’altro, la stessa può assurgere a simbolo del progresso delle nostre campagne conseguente agli interventi straordinari dello Stato. Buoninventre era stata di proprietà dei marchesi d’Ayala Valva, che l’avevano venduta alla famiglia D’Amico. I D’Amico, ca50
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pirono in anticipo i tempi nuovi e, prima che la paventata minaccia della riforma diventasse una concreta realtà, quotizzarono i terreni di loro proprietà per venderli ai contadini che già li gestivano in fitto o sotto altra forma di conduzione agricola. Lo stesso fece il principe Diego Caiati D’Aragona, che era proprietario di ettari ed ettari di terreno in località Boiara e zone limitrofe. Il territorio di Caposele, pur non fruendo dei benefici della riforma, poté giovarsi, comunque, delle provvidenze di altre disposizioni normative, che permisero, specie per i contadini di Buoninventre, una profonda trasformazione fondiaria dei loro poderi, in particolare: l’istituzione nel 1948 della “Cassa per la formazione della proprietà contadina”; l’inclusione, con la Legge n. 1005/52, del Comune di Caposele e di altri diciannove Comuni irpini (Andretta, Aquilonia, Bisaccia, Cairano, Calitri, Conza della Campania, Greci, Guardia dei Lombardi, Lacedonia, Lioni, Montaguto, Monteverde, Morra De Sanctìs, Nusco, Sant’Andrea di Conza, Sant’Angelo dei Lombardi, Savignano di Puglia, Teora, Vallata), nelle aree d’intervento dell’ “Ente per lo Sviluppo dell’Irrigazione e la Trasformazione Fondiaria in Puglia e Lucania”; l’approvazione dei due “piani quinquennali di sviluppo dell’agricoltura”, più noti come “primo e secondo piano verde”, rispettivamente del 1961 e del 1966; e infine, i massicci investimenti della “Cassa per il Mezzogiorno”. A mero titolo esemplificativo riportiamo il contenuto degli Artt. 8 e 10 Titolo II della Legge 454/61 relativa al primo “piano verde”: Art. 8 - “Per la costruzione e il riattamento di strade vicinali e interpoderali, per la costruzione di acquedotti ed elettrodotti rurali, ivi comprese le cabine di trasformazione e i macchinari elettrici di utilizzazione dell’energia e le reti e condotte di adduzione e distribuzione, per l’azionamento di motori, di uso agricolo o domestico, o per la illuminazione di case rurali singole o raggruppate, ancorché rica-
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denti in territori non classificati territori di bonifica integrale e di bonifica montana, nel quinquennio dal 1960-61 al 1964-65, possono essere concessi sussidi nella spesa sino al 75 per cento e per i territori… classificati montani… sino all’87,50 per cento. [….]. In tutti gli altri casi il sussidio potrà essere concesso fino alla misura del 50 per cento, o del 60 per cento… salve le disposizioni vigenti più favorevoli”; Art. 10 - “È autorizzata la spesa di lire 30 miliardi, in ragione di lire 6 miliardi per ciascun esercizio finanziario dal 1960-61 al 196465, per la concessione a piccoli proprietari e piccoli enfiteuti coltivatori diretti di sussidi… nella misura massima del 50 per cento della spesa riconosciuta ammissibile, per la costruzione di fabbricati rurali destinati a loro abitazione, ivi compresi i servizi e gli impianti accessori, nonché dei vani per uso aziendale e per il ricovero del bestiame e per il deposito degli attrezzi”. Grazie a queste provvidenze di legge fu possibile riattare o costruire case coloniche, stalle, fienili, acquedotti e scuole rurali, acquistare macchine agricole ed elettrificare le campagne. Basti pensare che, ancora nella prima metà degli anni Sessanta, la gran parte delle zone rurali di Caposele non erano dotate di corrente elettrica. Dove la crescita si rese più manifesta fu, come già detto, a Buoninventre, ove si partiva da condizioni a dir poco pietose. Meritoria fu l’azione dell’Ente d’irrigazione, cui si deve la costruzione del primo acquedotto rurale di “Santa Cecilia - Fontana del Lago” e, vincendo l’opposizione iniziale degli stessi contadini, una profonda e importante trasformazione fondiaria della contrada con la messa a coltura di estesi oliveti, che oggi costituiscono una fonte importante di reddito. Nel 1956 l’on. Fiorentino Sullo volle rendersi conto di persona delle condizioni di vita degli abitanti di Buoninventre. L’impressione che ne ricevette fu scioccante, tant’è che si rese immediatamente promotore di un finanziamento all’Istituto autonomo delle case popolari di Avellino per la costruzione di 52
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un villaggio rurale fornito di scuola e di chiesa in località Santa Cecilia per l’allocazione di ventiquattro nuclei familiari. Il villaggio fu realizzato in brevissimo tempo, ma non tutti gli appartamenti furono occupati, benché fossero attrezzati di servizi, come il bagno, impensabili non solo per quella gente, ma anche per molti Caposelesi del centro urbano. Il fatto è che i contadini non avevano tutti i torti, perché quegli alloggi, oltre ad essere sconvolgenti per i loro tradizionali modi di vita, erano anche distanti dai loro terreni. La strada “Pomes”, che attraversa longitudinalmente la contrada, fu realizzata soltanto agli inizi degli anni Settanta, a seguito di apposito intervento della Cassa per il Mezzogiorno. Ci furono, tuttavia, nell’operato dell’Ente per l’Irrigazione in Irpinia anche scelte sbagliate, che costituirono uno spreco di denaro pubblico. Un esempio significativo fu la costruzione di un oleificio sociale in c/da “Castruzzo” a Calabritto, nonostante che la Sezione della DC di Caposele, di cui ero il segretario politico, avesse indicato e sostenuto con decisione, secondo logica, l’ubicazione dello stabilimento in località Temete, che era ed è baricentrica rispetto ai paesi produttori di olive della zona. Prevalsero gli interessi specifici di un singolo a danno di quelli generali. Il risultato fu che l’oleificio, che una cooperativa avrebbe dovuto gestire, non è andato mai in esercizio e, tuttora, rappresenta un monumento allo spreco di risorse pubbliche.
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Il cinema “Sele”
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Agli inizi degli anni Cinquanta le condizioni di vita, rispetto al 1945, erano notevolmente migliorate. Nel Paese si respirava un’aria diversa, la gente cominciava a uscire dalle ristrettezze dell’immediato dopoguerra. Segno percepibile di questa incipiente crescita, anche in un piccolo centro di provincia, fu l’inaugurazione, nel 1951, del Cinema Sele a Caposele, ubicato in un locale riattato a tal fine, in cui, in precedenza, era allocata l’ECA (Ente Comunale Assistenza). Non erano molti i paesi dell’Alta Irpinia e dell’Alto Sele che agli inizi degli anni Cinquanta avessero un cinema: Lioni, Montella e qualche altro comune. Per il resto del territorio, le uniche strutture di svago e d’intrattenimento continuavano ad essere i caffè e le cantine. A Caposele, prima della costruzione del cinema, solo nelle occasioni particolari, quale la festa patronale, la popolazione poteva assistere alla proiezione di qualche film nella piazza principale del paese. La proiezione, che era il più delle volte effettuata dalla ditta Troncone, proprietaria di un cinema ad Atripalda, iniziava di sera sul tardi, non prima delle ore ven54
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tuno. Ma già verso le 12,30 la piazza era strapiena di sedie, guardate con occhio vigile da noi ragazzi, incaricati a tanto dalle nostre madri. Si proiettavano film di ogni genere. Ricordo, in particolare, alcune scene di uno dei tanti film su Tarzan interpretati dal pluridecorato campione olimpionico di nuoto Johnny Weissmuller. Rimasi colpito dalla sua agilità nel volare da un albero all’altro, appeso a delle liane. Non sapevo ancora nulla dei trucchi usati in cinematografia. Non ho mai dimenticato la scena di un film in cui un uomo, stremato da un lungo cammino nel deserto, con un neonato in braccio, raggiungeva barcollante un villaggio del West. Dopo oltre sessant’anni ho rivisto il film per televisione e, finalmente, ho scoperto che si trattava di “In nome di Dio” film diretto da John Ford e interpretato da John Wayne, Pedro Armendàriz e Harry Carrey Jr. Il Cinema Sele fu inaugurato con la proiezione di un film di
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cappa e spada “La spada di Siviglia”. Il prezzo del biglietto era di quaranta lire per i ragazzi e di ottanta per gli adulti. Il cinema di Caposele, oltre ad essere un valido strumento di svago, fu anche un utile mezzo di comunicazione di massa e di elevazione culturale non solo per i locali, ma anche per cittadini dei comuni dell’Alto Sele che, maggiormente, di sabato e di domenica, accorrevano numerosi ad assistere alla proiezione del film in programma. Notevole successo di pubblico, nonostante fossero bistrattati dalla critica, riscuotevano allora i drammoni diretti dal regista Raffaello Matarazzo e interpretati dall’indimenticabile Amedeo Nazzari e dalla regina del “melò” Yvonne Sanson: “Catene, Tormento, I figli di nessuno, L’angelo bianco”, e altri ancora. Erano film talmente coinvolgenti che non pochi spettatori, durante la proiezione, avevano gli occhi pieni di lacrime. Stavamo assistendo alla proiezione del film “I figli di nessuno”. Un signore abbastanza avanti con gli anni, immedesimatosi totalmente nella narrazione del film, incominciò a singhiozzare rumorosamente fino a esplodere in un grido lacerante di disperazione: “Figli, figli miei abbandonati!”. Bastava poco, allora, per suscitare forti emozioni.
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La televisione
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Vidi per la prima volta un televisore funzionare nella primavera del 1955. Stavo in convitto a Campagna, ove frequentavo la scuola media. Tra i convittori si sparse la voce che nell’ufficio del direttore, che era anche il proprietario del collegio, era stato installato un televisore. Sapevamo che cos’era, ma nessuno di noi l’aveva mai visto. Durante la ricreazione, insieme ad altri mi recai nei pressi della direzione. Ci fu detto di entrare e ci fu consentito di assistere alla trasmissione per il tempo di durata della ricreazione. Non ricordo l’oggetto della trasmissione, ma ricordo chiaramente che dopo qualche giorno ci fu dato il permesso di assistere alla partita, sicuramente registrata, “Milan-Pro Patria di Busto Arsizio”. Ovviamente si era ancora lontani dalla nitidezza delle immagini delle trasmissioni d’oggi.
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La televisione nacque in Italia nel gennaio 1954 con notevole ritardo rispetto agli Stati Uniti, ove già 15 milioni di famiglie possedevano un televisore e in Gran Bretagna gli abbonati erano già 750 mila. Per di più, nemmeno tutto il territorio nazionale beneficiava del servizio televisivo, perché il segnale non arrivava dappertutto. Solo agli inizi degli anni sessanta il segnale televisivo fu diffuso su tutto il territorio nazionale grazie ad una fitta rete di ripetitori. Caposele, situata all’inizio della valle del Sele, fu raggiunta dal segnale RAI solo nel 1961. Soltanto chi abitava nelle parti alte dell’abitato, ad esempio sulla collina di Materdomini, fruiva delle trasmissioni televisive. Per vedere le Olimpiadi di Roma, ogni sera, per tutta la durata dei giochi, ero costretto a recarmi presso l’Hotel “Casa del Pellegrino” a Materdomini. Un pianerottolo divideva la casa di mio padre da quella di mio zio Lorenzo, che non avendo figli era per me e i miei fra-
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Lascia o raddoppia?
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telli un secondo padre. Quando finalmente Caposele poté beneficiare delle trasmissioni televisive, mio zio comprò un televisore marca “Geloso”. Ogni sera, dopo il telegiornale delle venti e prima di “Carosello” la sua abitazione diventava casa comune di buona parte del vicinato. Sembra la preistoria, eppure stavamo verso la metà dei mitici anni Sessanta.
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Il miracolo economico
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Nel 1945 il salario di un operaio non superava le dodici mila lire mensili, nel 1950 era già salito a circa 25 – 30 mila lire, sufficienti a condurre una vita dignitosa. Infatti un giornale costava 20 lire, una tazzina di caffè al bar 30 lire, il pane 100 - 110 lire al kg, il latte 75- 80 lire al litro, il vino 110- 120 al litro, la pasta 130- 140 lire al Kg, il riso 120- 130 lire al Kg, la carne bovina 800 - 810 lire al Kg, lo zucchero 275 lire al Kg, la benzina 116 lire al litro. Nell’anno scolastico 1957-58 frequentavo, a Napoli, il primo anno dell’Istituto Tecnico Industriale “A. Volta”. Oggi, può sembrare strano, ma allora in Campania vi erano soltanto due scuole di questo tipo. L’una era a Napoli e l’altra a Benevento. Una terza era a Foggia, al di fuori della Campania. Per raggiungere Napoli da Caposele si poteva arrivare col pullman alla stazione di Contursi Terme e prendere il treno per Salerno, proveniente da Potenza. A Salerno vi era la coincidenza per Napoli con un treno locale, del tipo “accelerato”, che per giungere a destinazione, cioè per percorrere poco più di 50 km, impiegava, se tutto andava liscio, un’ora e mezza. Non mancavano, comunque, i collegamenti stradali tramite bus. Anzi vi era un pullman che, via Avellino, collegava Senerchia, un piccolo paesino dell’Alto Sele, con Napoli. È facile immaginare il tempo di percorrenza. Spesso, però, utilizzavo, se vi era posto, una macchina di noleggio che ogni martedì si recava a Napoli per prelevare presso le case cinematografiche due film, massimo tre, per conto del Cinema Sele di Caposele. Si partiva la mattina verso le cinque e si arrivava a Napoli dopo circa quattro ore. Le autostrade ancora non erano state costruite. L’unica autostrada esistente in Italia meridionale era la Pompei-Napoli. Oggi sarebbe stata una normale strada a scorrimento veloce 60
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con una carreggiata a due corsie senza spartitraffico. Nel tratto Salerno – Vietri, guardando in alto, si vedeva, però, un viadotto in costruzione di notevole altezza. Era un segno evidente che qualcosa stava cambiando e stava cambiando in meglio. Si stava costruendo l’autostrada Napoli-Pompei-Salerno, che fu completata nel 1961 e poi prolungata fino a Reggio Calabria. Nello stesso tempo si mise mano alla costruzione della Napoli Canosa che fu completata nel 1969. Napoli ormai non distava più quattro ore da Caposele, ma poco più di un’ora e trenta sia per Salerno sia per Avellino. Il 22 settembre 1962 fu aperto il tratto Roma-Napoli dell’autostrada del Sole. Nella primavera del 1964 con una FIAT 600, di seconda mano, andai a Roma per la prima volta nella mia vita. Non mi sembrò vero raggiungere la Capitale in poco più di tre ore. In quegli stessi anni, oltre alla costruzione delle autostrade, furono riparate le linee ferroviarie distrutte dai bombardamenti, fu completata l’elettrificazione di quelle principali e furono raddoppiati i binari. Ai governi centristi va ascritto il merito di aver promosso e realizzato la costruzione delle infrastrutture necessarie allo sviluppo del Paese. Caposele è il paese in cui sorge il Sele. Nel 1906 le sorgenti del Sele furono captate per convogliare un volume di acqua variante da 4 a 6 mc/sec in una galleria che, valicando l’Appennino, variava il corso del Sele, dal Tirreno all’Adriatico e allo Ionio fino a Santa Maria di Leuca, estrema punta della penisola salentina. Si trattava di una colossale opera di ingegneria idraulica, che il mondo non conosceva uguali. Quando iniziarono i lavori di costruzione dell’Acquedotto Pugliese, Caposele divenne un immenso cantiere e un luogo di incontro tra tecnici e maestranze provenienti da varie parti d’Italia. Tradizioni diverse si incontrarono e si trasmisero l’un l’altra usanze culturali differenti, che de61
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terminarono notevoli cambiamenti degli usi e dei costumi dei Caposelesi. Il 24 aprile 1915 l’acqua di Caposele giunse a Bari, zampillando alta nella fontana di piazza dell’Ateneo. Eppure, nonostante tale ricchezza d’acqua, ancora nel dopoguerra, a Caposele, solo pochissime famiglie avevano l’acqua in casa. Il resto della popolazione era servito da fontane pubbliche a getto continuo, che, in verità, non erano poche. Una di esse distava da casa poco meno di cento metri. Non era molto, ma nemmeno poco per un ragazzo di età inferiore a dieci anni che, munito di un catino di metallo zincato di circa 10 litri, era costretto a compiere il tragitto diverse volte in una giornata. I recipienti di plastica più leggeri ancora non erano in commercio. Questo accadeva a Caposele, il paese dell’acqua. Figuriamoci il disagio esistente in altri comuni privi di sorgenti acquifere. Solo nel 1952 tutte le case del Paese furono alimentate da acqua corrente. Ancora nel 1951, solo il 7,4% delle case italiane possedeva contemporaneamente l’acqua potabile, la corrente elettrica e i servizi igienici interni. Tra il 1958 e il 1963 l’Italia conobbe uno sviluppo strepitoso, tale da far gridare al miracolo, sviluppo che le consentì di entrare nel club dei paesi più progrediti al mondo. Il suo PIL , infatti, in quel breve intervallo di tempo di appena cinque anni, ebbe un incremento del 138%. Stando a Napoli per motivi di studio, potei costatare in maniera concreta la crescita sociale ed economica del Paese. Uno sviluppo testimoniato, in primo luogo, dall’aumento del traffico cittadino e dal numero crescente di negozi di elettrodomestici, di apparecchi radiotelevisivi e di abbigliamento, che in maniera diffusa incominciava a differenziarsi secondo la stagione. A tale prodigioso sviluppo contribuì in maniera decisiva la stabilità della lira negli anni Cinquanta e Sessanta, stabilità coronata dall’“oscar monetario” assegnato alla nostra moneta dal “Financial Times” nel 1960. 62
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Gita domenicale
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Occorre, però, rilevare che il “boom” dell’economia non fu uniforme in tutta Italia. Anzi, in quegli anni si accrebbe il divario Nord-Sud, nonostante gli investimenti straordinari dello Stato nel Mezzogiorno, che continuò, purtroppo, ad essere terra di emigrazione. Il “mastino” dell’industrializzazione italiana fu la FIAT, ma per quanto concerne l’esportazione il comparto all’avanguardia fu quello degli elettrodomestici. La Candy, che nel 1947 produceva una lavatrice al giorno, nel 1967 ne sfornava una ogni quindici secondi. In quell’anno il nostro Paese diventò il terzo produttore mondiale di frigoriferi e il primo in Europa per lavatrici e lavastoviglie. La Zanussi, per un decennio azienda leader degli elettrodomestici, trasformò Pordenone, nel Friuli, in una “one company town” come lo fu Torino con la Fiat. Il “miracolo”, però, sarebbe stato difficilmente realizzabi63
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le se i Governi centristi, abbandonando le tradizionali politiche di protezionismo economico, non avessero adottato politiche di libero scambio, che avrebbero consentito alle merci italiane di vincere, spesso, la concorrenza straniera nel mercato mondiale. Il merito dellâ&#x20AC;&#x2122;adesione italiana al Fondo Monetario, alla Banca Mondiale, al Gatt e poi allâ&#x20AC;&#x2122;Ocse va attribuito interamente ad Alcide De Gasperi e a Luigi Einaudi.
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Le elezioni del 1953 e la “Legge truffa”
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Frequentavo la quinta elementare. Ero ormai grandicello. Ricordo chiaramente un discorso veemente di un giovane oratore comunista di Sant’Angelo dei Lombardi, Francesco Quagliariello, che si scagliava contro i democratici cristiani con parole di fuoco, accusandoli di voler distruggere la democrazia conquistata con la lotta partigiana. Per il 7 giugno 1953 erano state indette le elezioni politiche. De Gasperi e i partiti di governo ritennero di assicurare la governabilità del Paese approvando una nuova legge elettorale che prevedeva l’assegnazione del 65% dei seggi parlamentari alla coalizione di partiti che avesse conseguito alle elezioni il 50% + 1 dei voti validi. La storia successiva ha dimostrato che si trattava di una scelta giusta, opportuna e lungimirante, ma per il momento sembrò alle sinistre che fosse un tentativo di truffa verso l’elettorato e “Legge truffa”, infatti, la definirono. La proposta non passò per appena 57 mila voti.
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L’esito delle elezioni significò la fine dei governi guidati da Alcide De Gasperi, il quale si ritirò nel suo Trentino, a Borgo di Sella Valsugana, ove morì, dopo un anno, il 19 agosto 1954. Le elezioni del 1953 segnarono, di fatto, l’inizio del declino del “Centrismo” (la formula di governo voluta da De Gasperi all’indomani delle elezioni del 1948). Si aprì una lunga fase che portò al superamento di questa formula solo alla fine degli anni Cinquanta. Alle elezioni del 1953 i socialisti si erano presentati con una propria lista, anziché allearsi con i comunisti. E subito dopo, durante le consultazioni per la formazione del governo, Pietro Nenni disse a De Gasperi che il Partito Socialista intendeva camminare in autonomia rispetto al PCI e gli fece capire che non riteneva più improponibile un’eventuale alleanza di governo con la Democrazia Cristiana, seppure non immediata. Ad aumentare il distacco dei socialisti dai comunisti contribuiranno i fatti di Ungheria dell’ottobrenovembre 1956, quando i carri armati sovietici repressero nel sangue l’insurrezione ungherese antisovietica. Il Congresso di Napoli della DC (giugno 1954) e l’elezione di Giovanni Gronchi a presidente della Repubblica segnarono dei punti a favore di coloro che nella DC erano favorevoli alla “apertura a sinistra”. 66
Enrico Mattei
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Avevo l’opportunità di avere, spesso, tra le mani il periodico dell’ENI “Il Gatto Selvatico”, a cui era abbonato mio padre. Leggevo con interesse della crescente presenza dell’ENI nei paesi produttori di petrolio, presenza che limitava il potere di contrattazione delle più importanti e colossali aziende petrolifere, le famose “sette sorelle”. Era la classica lotta della formica contro l’elefante, solo che, in quel caso, la formica spesso era vincente sull’elefante. Enrico Mattei, partigiano e rappresentante della Democrazia Cristiana in seno al C.L.N., dopo la liberazione divenne re-
Pubblicità dell’AGIP – metà anni Cinquanta
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sponsabile dell’AGIP, l’ente petrolifero di Stato sorto sotto il fascismo, con il compito di procedere alla sua liquidazione. Il problema più grave e pressante per la ripresa del sistema produttivo italiano era costituito dalla mancanza pressoché totale delle materie prime e dei combustibili. L’unico fattore abbondante era il lavoro, certamente indispensabile, ma non sufficiente a riavviare l’economia. Abile, coraggioso, spesso spregiudicato, Mattei non solo evitò la liquidazione dell’AGIP, ma ne determinò il rilancio grazie alla scoperta di modesti giacimenti di metano in val Padana. Nel 1953 fondò l’ENI, di cui l’AGIP stessa divenne un’emanazione. Ben presto, l’ENI entrò in concorrenza con le grandi società petrolifere, che, allora, si spartivano il mercato mondiale del petrolio. Per vincere la concorrenza Mattei non badò ai mezzi. Fino all’entrata in scena dell’ENI, il massimo che le società petrolifere concedevano ai paesi produttori era il 50% del petrolio estratto. Mattei praticò condizioni più vantaggiose, arrivando perfino a corrispondere una quota pari al 75% delle risorse estratte. Questa politica tanto ardita, accompagnata da ripetute dichiarazioni anticolonialiste, gli procurò molti nemici e fu, probabilmente, la causa della sua morte, avvenuta per un misterioso incidente aereo il 27 ottobre 1962. La politica di penetrazione dell’ENI nei paesi ricchi di petrolio contribuì, in parte, al risveglio del mondo arabo, perché accrebbe in essi la consapevolezza della propria forza, derivante dalla presenza sul loro territorio di vastissimi giacimenti di una risorsa energetica indispensabile all’industria, all’economia e, in genere, alla vita dei paesi occidentali. La figura di Mattei esercitava su di me un fascino particolare. Prima della scoperta del petrolio in Sicilia, a Cortemaggiore e a Caviaga, rispettivamente in provincia di Piacenza e di Lodi, l’AGIP estraeva una quantità modesta di petrolio e di 68
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gas, eppure Mattei seppe stuzzicare il senso dell’italianità con uno slogan diffuso nel 1953 che stimolava l’orgoglio nazionale: “Supercortemaggiore, la potente benzina italiana” oppure “AgipGas, il gas liquido del sottosuolo italiano”. La presenza capillare sulle strade e autostrade italiane di stazioni di servizio dell’Agip, con annessi motel, bar e ristoranti, alimentava una percezione di tangibile crescita economica e di modernità. Mattei si distinse anche per una politica molto coinvolgente verso i propri dipendenti, che maturarono negli anni un forte orgoglio “di bandiera”. A Borca e a Corte di Cadore, a Cesenatico, ad Alfedena, a Pugno Chiuso, l’ENI costruì villaggi e colonie per il tempo libero dei dipendenti. Complessi residenziali per gli stessi edificò, invece, nelle sedi di Roma e San Donato Milanese (Metanopoli). Nel giro di pochi anni l’ENI poté contare su una robusta struttura organizzativa: 56 mila dipendenti, tecnici di grande esperienza, laboratori di ricerca d’avanguardia e una Scuola Superiore di Studi sugli Idrocarburi, istituita per la formazione dei quadri e dei dirigenti italiani e stranieri. Mattei non era quel cinico che molti suoi critici hanno voluto rappresentare. Una mattina fu svegliato dallo squillo del telefono. Era lo storico sindaco di Firenze Giorgio La Pira che gli chiedeva: “Enrico mi devi salvare la ‘Pignone’, ci sono duemila operai che rischiano la disoccupazione”. Nell’autunno del 1953 la “Pignone”, una delle più grandi e antiche fabbriche meccaniche di Firenze stava, infatti, sull’orlo del fallimento. Il Consiglio d’amministrazione della “Snia Viscosa”, cui l’azienda apparteneva, aveva deciso di chiudere la produzione. La telefonata di La Pira costituiva l’estremo tentativo di trovare uno sbocco alla crisi. Mattei, quasi infastidito, rispose che egli si occupava di petrolio e non di industria meccanica. Il candido La Pira, però, 69
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non si arrese e continuò: “Sarai tu a salvare la Pignone, me lo ha detto la Madonna”. Non è dato sapere quali furono le reali motivazioni che spinsero Mattei ad accettare, ma il 5 gennaio 1954 la fabbrica fu rilevata dall’ENI, che trasformò la “Pignone” in un’impresa meccanica, denominata “Nuovo Pignone”, collegata al settore energetico. La scelta si dimostrò vincente. In breve tempo il “Nuovo Pignone”, dopo le prime forniture alle aziende del Gruppo ENI, iniziò ad ottenere importanti commesse dall’estero, acquisendo, così, notevoli quote del mercato mondiale, tant’è che per soddisfare le crescenti richieste del mercato, fu necessario costruire, accanto a quelli iniziali di Firenze e Massa, altri sei stabilimenti sparsi su tutto il territorio nazionale: Talamona (SO), Vibo Valentia, Porto Recanati (MC), Schio (VI), Bari e Roma.
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Mattei con Nasser
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Mattei ebbe non pochi nemici, di tendenza liberale, che vedevano nell’ENI uno strumento potente che attentava alla libertà dell’economia di mercato. Indro Montanelli fu tra questi, apostrofando il presidente dell’Eni con una famosa espressione: “incorruttibile corruttore”. Sfuggiva, però, al grande giornalista l’obiettivo ultimo di Mattei, che era quello di favorire, con ogni mezzo, gli interessi italiani ovunque. E, per far questo, aveva bisogno di mani libere dalle pastoie burocratiche e dai lacciuoli della politica. Finanziò, per questo fine, i partiti ma, come lo stesso Montanelli riconosceva, fu un uomo di provata onestà. Altri hanno espresso su Mattei giudizi molto più lusinghieri. “Un condottiero italiano” l’ha definito Giorgio Bocca. “Figura straordinaria” ha aggiunto lo storico Nico Perrone. Certamente, Enrico Mattei fu un uomo di ampie visioni strategiche e di un coraggio non comune, ma, come dice Perrone, “[...] dietro di lui c’erano culture e partiti politici dotati ancora del senso della nazione. Mattei è stato un’espressione del genio italiano e del pensiero nazionale, ancora in grado di esprimere una classe dirigente”.
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La fiaccola olimpica
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La XVII Olimpiade si svolse a Roma dal 25 agosto all’11 settembre 1960. Fu un’edizione importante nella storia dei giochi. L’Italia dimostrò al mondo intero che, a buon diritto, poteva essere annoverata tra i paesi più sviluppati. Per la prima volta immagini di gare olimpiche furono viste in eurovisione, con la RAI che produsse più di 100 ore di trasmissione. I giochi olimpici del 1960 furono un evento rivoluzionario che coinvolse tutto il mondo, sia per le nuove tecniche di organizzazione e di comunicazione di massa, che vennero sperimentate per la prima volta, sia per la diffusione di idee nuove e per la presenza di popoli con modi di vivere diversi, che in quei giorni vissero insieme in un clima di fratellanza. Gli atleti italiani realizzarono risultati eccellenti, vincendo tredici medaglie d’oro e classificandosi, così, al terzo posto dopo l’Unione Sovietica e gli USA, che ne vinsero, rispettivamente, quarantatré e trentaquattro. Per conformare il percorso della fiaccola olimpica allo spirito dei giochi, si scelse un itinerario aderente al clima di classicismo, che fu scelto per conferire ai giochi medesimi un par72
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ticolare legame con la millenaria storia d’Italia. Così, si decise di far correre la Staffetta su un itinerario che rappresentava un ideale filo conduttore tra i due poli della civiltà classica, Atene e Roma, attraverso i luoghi della Sicilia e della Magna Grecia. La prima parte del viaggio avvenne interamente in territorio ellenico. Poi, la fiaccola, a bordo della nave scuola Amerigo Vespucci, giunse a Siracusa. Risalendo la costa ionica, sicula e calabrese, e quella tirrenica della Campania e del Lazio, il percorso toccò alcuni dei più famosi stanziamenti greci della Sicilia e della Magna Grecia: dopo Siracusa, Lentini, Naxos, Messina, Reggio Calabria, Locri, Crotone, Sibari, Siri, Metaponto e Taranto. Di qui, toccando Matera e Potenza, il “Fuoco di Olimpia” proseguì per Paestum, Pompei, Ercolano, Napoli, Cuma, Lago Averno, Literno, Minturno, Terracina, Castelgandolfo, via Appia, Arco di Costantino, Fori Imperiali, Campidoglio, Stadio Olimpico. Nel trasferimento da Potenza a Paestum la Fiaccola doveva percorrere un tratto di strada ricadente nel Comune di Caposele. Un atleta del posto l’avrebbe portata per quasi un chilometro fino a consegnarla a un altro giovane sportivo della vicina Calabritto. Come tedoforo fu scelto Rocco Freda, ala sinistra della locale squadra di calcio, non senza polemiche, immancabili in casi del genere. Il Commissario Prefettizio, Severino Freda, che allora amministrava Caposele, convocò un gruppo di giovani per organizzare l’evento. Cinque di noi avrebbero accompagnato il tedoforo nella sua breve corsa, correndo e facendo corona intorno a lui. A piedi ci recammo, insieme al Commissario Prefettizio, fino a Ponte Sele, che dista da Caposele 5 km, ove sarebbe transitata la torcia olimpica. All’evento straordinario partecipò quasi tutto il Paese in un entusiasmo incontenibile. Era il pomeriggio di lunedì 22 agosto 1960. Misto a tanta solennità vi fu, anche, un intermezzo di ilari73
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Passaggio della fiaccola olimpica per Caposele
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tà. Era stato concordato con un fuochista che, all’arrivo della fiaccola, a seguito di uno squillo di tromba, avrebbe fatto esplodere dei fuochi pirotecnici. Ma successe un inconveniente, tutto sommato gioioso. Al sopraggiungere di un corteo di auto, il trombettista, pensando che fosse arrivata la fiaccola, diede il segnale e il fuochista appiccò il fuoco alle polveri. Non era la fiaccola, bensì il Prefetto di Avellino e altre Autorità col loro seguito.
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L’altra faccia del miracolo economico
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Uno dei primi film che furono proiettati nel Cinema Sele di Caposele fu “Il cammino delle speranza” di Pietro Germi, interpretato da Raf Vallone ed Elena Varzi. Fu così che acquisii, per la prima volta, la conoscenza del problema dell’emigrazione. Il film narrava, infatti, le disavventure di un gruppo di disperati siciliani verso la Francia. Qualche anno dopo, precisamente nell’autunno del 1958, mi trovavo a Napoli per motivi di studio. Ero andato al porto perché partiva per il Venezuela la famiglia di un amico d’infanzia. Mi trovavo sulla piattaforma del molo d’imbarco, quando assistetti ad una scena che non potrò mai dimenticare. Un uomo e una donna, marito e moglie, con il volto letteralmente bagnato dalle lacrime, si tenevano stretti in un lungo bacio. L’uomo partiva e la moglie restava a seguire i figli e ad accudire la casa. Chissà, quando si sarebbero rivisti! Stavamo negli anni del boom economico, ma dai nostri paesi ancora si emigrava come ai tempi dell’emigrazione eroica. La meta privilegiata era, in quel momento, l’America del Sud, in particolare il Brasile e il Venezuela. Ma, ben presto, i flussi migratori si sarebbero indirizzati più verso i paesi europei e le città industriali dell’Italia del Nord, che verso altri continenti. Lo sviluppo economico italiano, che stava stupendo il mondo per la rapidità e l’intensità, stava, allo stesso tempo, determinando elevati costi sul piano sociale. Le opere di bonifica e di trasformazione industriale nel Mezzogiorno, che pure i governi della ricostruzione avevano e stavano attuando, riguardavano un complesso di zone limitate. C’era ancora troppa sperequazione tra il reddito pro capite di un lavoratore che risiedeva al Nord e un contadino del Sud, perché questi rimanesse legato alla sorte della sua terra. Il contadino meridionale continuava, così, ad abbandonare le proprie ter75
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re per trasferirsi nelle città del triangolo industriale a cercare l’agognato benessere. L’apertura del Mercato Comune Europeo favorì, inoltre, una larga emigrazione versi i più ricchi paesi europei, particolarmente in Germania e in Svizzera. Quello italiano fu, quindi, certamente un miracolo economico, ma fu accompagnato, purtroppo, da gravi squilibri e contraddizioni, che i governi non riuscirono a controllare. Ben sette milioni di meridionali, in vent’anni, si trasferirono nelle regioni
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settentrionali, trovando non sempre condizioni di favorevole accoglienza, a causa delle diffidenze, degli alloggi, talora negati, spesso stretti e malsani, delle notevoli differenze di forme di vita, di tradizioni, di lingua (dialetto) e di lavoro. L’imponente fenomeno migratorio dal Sud al Nord, dalle regioni depresse del Mezzogiorno verso quelle sviluppate e industrializzate del Settentrione, perlopiù, è stato visto come il riflesso di un Paese spaccato in due e come un dato di emarginazione e povertà. Tuttavia, allo stesso tempo, non sono mancate letture trasgressive che, pur non spogliando l’emigrazione dei suoi aspetti aspri e dolorosi, hanno individuato nel fenomeno un potente fattore moltiplicatore dello sviluppo, una molla per la modernizzazione del Paese e un importante elemento per la trasformazione urbanistica e per una diversa organizzazione sociale delle città di destinazione.
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GRAFICI E TABELLE
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G. De Rosa, La Storia Il Novecento, Minerva Italica, Milano 2002
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Fonte Istat, da Focus Storia, n.80, 2013 - rielaborazione
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TOTALE Incentivi a privati Miglioramenti fondiari Credito di miglioramento Industria Pesca Artigianato Credito alberghiero
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TOTALE Altri interventi Scuole Istruzione professionale Interventi sociali
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Fondi assegnati alla Cassa per il Mezzogiorno in miliardi di lire dal 1950 al 1960 Legge Legge Legge Legge Tipo di intervento 646/50 949/52 634/57 622/59 Infrastrutture Strade 90,0 115,0 167,0 166,0 Ferrovie e traghetti 75,0 93,0 93,0 Acquedotti e fognature 115,0 177,5 213,0 312,0 Bonifche e sistemazioni 380,0 478,0 650,0 662,0 montane Riforma 280,0 280,0 280,0 280,0 Opere turistiche 25,0 25,0 40,0 51,0
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AA.VV., I piani di sviluppo in Italia dal 1945 al 1960, GiuffrĂŠ, Milano 1960
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da C. Cocchioni, Sud e sviluppo capitalistico, in “La Critica Sociologica” n. 23, 1972
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CONCLUSIONI
È possibile un nuovo miracolo?
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Nel dopoguerra e fino agli anni Cinquanta gli Italiani non vivevano bene. I disagi erano molti e i benefici pochi. I ragazzi d’oggi vivono, indubbiamente, comodità e agi, impensabili per noi ragazzi di allora. Avevamo, però, un qualcosa che loro non hanno. Avevamo, non solo la speranza, ma anche la certezza che saremmo vissuti meglio dei nostri padri, sullo sfondo di un Paese che cresceva a ritmi di oltre il 6% l’anno. C’era voglia di crescere per superare una condizione di estrema e diffusa povertà. Ovunque, al Nord come al Sud, dominava l’ottimismo, derivante dalla palpabile percezione della continua diminuzione della miseria. Nel 1958 Domenico Modugno, cantando, diceva agli Italiani che potevano sperare nel futuro e gli Italiani seppero, infatti, “volare”. L’Italia divenne la settima potenza mondiale. Il “boom economico” fu l’affermazione di una Nazione che aveva saputo rinascere, nonostante la disastrosa eredità della guerra e le profonde divisioni ideologiche, molto più marcate e avvertite di quelle attuali. Avevamo, inoltre, un altro vantaggio rispetto ai giovani d’oggi. Diversamente da loro, potevamo contare su una classe dirigente politica (maggioranza e minoranza) e non solo politica, che sapeva anteporre l’interesse nazionale a quello individuale o del più gretto localismo. È possibile, oggi, ripetere il “miracolo”? Certo che è possibile, ma occorre che tutti acquisiscano la consapevolezza che non ci sono miracoli dietro l’angolo; non ve ne sono oggi, come non ve n’ erano nel dopoguerra. Cosa Fare? Bisogna, innanzitutto, che i giovani acquisiscano la fiducia in se stessi e la coscienza di quella che i sociologi definiscono
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“la cultura del lavoro”, definizione che non sta a significare la conquista del posto fisso, bensì la maturazione di capacità e competenze utili e valide in ogni circostanza, nella ricerca del posto fisso, ma ancor di più nell’avvio di attività utili per sé e per gli altri. Negli anni Cinquanta si emigrava dal Sud al Nord, nonostante i cartelli dicessero: “Non si affitta ai meridionali”. Allora l’emigrazione era vista, perlopiù, come un’opportunità; oggi, invece, si ha l’impressione che la stessa sia vissuta sostanzialmente come una sconfitta. Certo non è il massimo delle aspirazioni emigrare per lavorare. Tuttavia, rispetto al passato, i tempi attuali consentono una comunanza di problemi e di obiettivi tra genti diverse, dovuta alla straordinaria rapidità delle comunicazioni e all’eccezionale possibilità di coprire lunghe distanze in tempi brevi. In tal senso, il mondo sta diventando sempre più piccolo. Certo, se scorriamo le cronache politiche degli ultimi trent’anni, emergono, in tutta la loro gravità, i limiti di una classe dirigente, che è stata, prevalentemente, capace soltanto di perpetuare se stessa. D’accordo, ma ciò non può essere un alibi, che impedisca ai nostri giovani di sperare e di realizzare se stessi. Una classe dirigente, che non sa dirigere, si può sostituire. Basta poco per farlo. È necessario, però, credere in se stessi e nelle possibilità di crescita dell’intero Paese. L’Italia ha già altre volte dimostrato al mondo intero che, quando ha avuto fiducia in se stessa, ha saputo raggiungere livelli impensabili per tanti altri, visti alla luce delle condizioni di partenza.
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Indice ...........................................................
GLI ANNI DEL DOPOGUERRA
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GLI ANNI DELLA CRESCITA
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L’Italia del dopoguerra- sguardo d’assieme .......... Disagi e speranze ...................................................... Dal piano UNRRA al Piano ERP .............................. Le elezioni del 18 aprile 1948 .................................... Il banditismo .............................................................. L’istruzione ................................................................ Il DDT e la Penicillina ................................................ Il barone del popolo .................................................. Il Trattato di pace e la questione di Trieste ..............
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La Riforma agraria .................................................... Gli interventi straordinari dello Stato a Caposele .. Il cinema “Sele” ......................................................... La televisione ............................................................. Il miracolo economico ............................................... Le elezioni del 1953 e la “Legge truffa” ................... Enrico Mattei ............................................................. La fiaccola olimpica .................................................. L’altra faccia del miracolo economico .....................
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INTRODUZIONE
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GRAFICI E TABELLE
Crescita dell’economia ............................................. Immatricolazioni auto, abbonamenti televisivi e telefonici .................................................................. Variazioni del reddito ............................................... Dati occupazionali .................................................... Fondi assegnati alla Cassa per il Mezzogiorno ......
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Posti di lavoro nell’industria e immigrati in Piemonte e Lombardia .........................................
È possibile un nuovo miracolo? ...............................
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BIBLIOGRAFIA
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CONCLUSIONI
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Finito di stampare nel mese di Agosto 2014
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DELTA 3 Edizioni Via Valle, 89/91 • 83035 Grottaminarda (Av) Tel./Fax 0825.426151 www.delta3edizioni.com • e-mail info@delta3edizioni.com
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Printed in Italy • Stampato in Italia
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