TERRA DI CAPOSELE - Gerardo Montverde

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Gerardo Monteverde

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Terra di Caposele

Caposele 2012 3


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‌un viaggio nella storia di “muri e fondamentaâ€?, di uomini e donne, delle loro fatiche, dei loro sogni, delle loro sconfitte e delle loro vittorie quotidiane.

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Caposele, ottobre 2011

Stampa: Valsele Tipografica s.r.l. Materdomini (AV) Tel. 0827 58100 e-mai: valsele@netlab.it 4


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A Maria e ai miei figli

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TE G EN R SO LA IO IV C H AR Un ringraziamento va a Teresa Castello che, con il suo accurato e competente lavoro, ci ha permesso di pubblicare l’ultimo appassionato impegno di sull’amata terra di Caposele. 6


PREMESSA

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Tante cose sono state dette sul valore della storia come “maestra di vita” e sull’importanza della memoria come fondamento di civiltà. Questo volumetto, concepito in maniera semplice, senza accademiche pretese, non è solo un modo per sottolineare il valore del passato, è certamente un’appassionata testimonianza di affetto reso alle proprie radici umane e culturali. Nel ricercare e riproporre fatti, leggende e memorie, la mia mente, slargandosi in più ampie visioni, tra sentimenti contrastanti di rabbia e tenerezza, si approfondiva contemporaneamente in più delicate analisi e il lavoro, gli sforzi diventavano gioia dello spirito, alimento dell’intelletto e, al tempo stesso, motivo di soddisfazione. Spero che dalla lettura del testo ciascuno trovi lo stimolo a ricostruire una memoria responsabile per ritrovare se stesso e la propria umanità in un periodo così travagliato da problemi socio-economici e tanto offuscato da incognite per l’avvenire. Le “narrazioni” si snodano in massima parte in ordine cronologico, riproponendo, in maniera integrale o con parziale, personale rielaborazione, quanto è stato possibile reperire in archivi civili e religiosi, in libri, articoli e pubblicazioni di scrittori locali, in cronisti e cultori del passato. A loro sento il dovere di rivolgere il più sentito ringraziamento, scusandomi fin d’ora per le eventuali manchevolezze. Affido al lettore invece e al suo libero sentire l’analisi delle vicende con la speranza che egli sappia trarre gli

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spunti e le motivazioni necessarie per intraprendere un nuovo cammino di rivincita riappropriandosi, prima di tutto, della propria cultura di villaggio, dei propri valori comunitari. Mi auguro pure che nel ripercorrere la propria storia anche i giovani ritrovino il completamento del loro presente, le ragioni e gli stimoli a vivere migliorandosi.

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L’ Autore

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“La storia è un tempo senza padrone e senza verità assolute”. I personaggi che la vivono sono famosi, ricchi, potenti oppure poveri, umili, soli ed indifesi, spesso travolti dagli eventi, umiliati, sfruttati ed offesi, ma in ogni modo plasmati dalla propria personalità, dalle proprie emozioni e passioni, dalla propria volontà di decidere ed agire.

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“Si può scrivere la storia cercando tra vecchie carte le testimonianze del passato o spendendo la propria vita chini ad interrogare la terra, dove la vicenda umana si conclude sempre in una sepoltura. Quando la memoria scritta viene meno, questo viaggio a ritroso diventa forse ancora più affascinante, perché l’uomo lascia sempre un segno del suo passaggio, un segno eloquente, anche se solo per pochi. E lo affida alla terra, perché non sia subito disperso, ma custodito nel tempo…” (Arturo Fratta)

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La terra custodisce i nostri ricordi, le nostre ansie, le nostre aspirazioni. Ogni luogo, perciò ha le sue caratteristiche. Solo la somma di esse lo rende vivo ed interessante.

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Cronistoria di Caposele

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“Il passato rivive nel nostro presente e si proietta nel futuro…”.

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- 71 a.C. - Spartaco (gladiatore tracio) veniva sconfitto da Crasso in Lucania “apud caput Silaris”. La località precisa è oggetto di discussione tra gli studiosi, alcuni indicano la sella di Conza, altri la zona di confluenza del fiume Tanagro col Sele, altri la zona tra Quaglietta e Calabritto ed altri ancora la piana di Paestum.

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- 568 d.C. - Un nuovo popolo germanico, i Longobardi, muovendo dalla Pannonia, forzava la tenue difesa bizantina e conquistava parte dell’Italia entrando dalle Alpi orientali e scendendo rapidamente verso il Sud. Guidati dal loro re Alboino, essi stabilivano la loro capitale a Pavia e fondavano due importanti ducati a Spoleto e a Benevento (l’antico nome Maleventum era stato mutato in Beneventum dai Romani nel 275 a.C., anno della loro vittoria su Pirro che, desideroso di conquistarsi un impero greco occidentale, comprendente la Magna Grecia e la Sicilia, aveva preso le difese di Taranto allora in conflitto con Roma). - 571 d.C. - Primo insediamento dei Longobardi nel Sannio. (Sant’Angelo dei Lombardi e Guardia dei Lombardi sono di origine longobarda, Caposele continuava a far 11


parte dei Lucani nella III Regio1 secondo la divisione augustea).

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- 590 - Fondazione del ducato di Benevento (primo duca Zottone succeduto da Arechi I), come riportato dallo scrittore dell’ VIII secolo Paolo Diacono (monastero di Montecassino).

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- 774 - Il Ducato di Benevento veniva diviso in una quantità di distretti amministrativi raggruppati intorno a centri maggiori, chiamati Acta (terre del fisco ducale), Iudicaria o Gastaldato.

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- 774 - Carlo Magno conquistava il regno longobardo; con il trono longobardo vacante il duca Arechi II tentava un colpo di mano per impossessarsi della corona, innalzava la propria dignità fregiandosi del titolo di principe di Benevento ed elevava il suo dominio a Principato.

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- 851 - Divisione del principato, sancita dall’imperatore Ludovico II il Germanico con il capitolare dell’851. Dalla divisione nasceva il Principato di Salerno (diviso in castaldati e contadi) e si riduceva il Principato di Benevento.

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- Fra l’880 e l’886, approfittando della richiesta di aiuti dei principi longobardi per fronteggiare l’avanzata musulmana, i Bizantini riprendevano il controllo dei territori della costa pugliese e del principato di Salerno e di Benevento su cui, da quel momento, i principi longobar1

La I Regio comprendeva il Lazio, la II la Puglia, la III la Lucania.

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di avrebbero esercitato una autorità puramente formale. I Bizantini intanto costruivano torri e castelli sulle alture per controllare le posizioni degli Arabi, ben assestati lungo i fiumi e la costa ionica.

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- 25/10/990 Terremoto.

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- 1000 - Si diffondeva l’utilizzo degli opifici azionati dalla forza dell’acqua. - 1018 - Presenza dei cavalieri normanni.

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- 1022 - Anni dell’arrivo dei Normanni. I castaldi, immutati, diventavano giustizierati (giustiziere).

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- 1076 - Fine del periodo longobardo ed inizio di quello normanno.

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- 1079 - I Balbano entravano in possesso delle terre di Caposele.

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- 1140 - Caposele faceva parte del Ducato di Puglia (art. 702 del Catalogo dei feudi e dei feudatari, A.S.N.)

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- 1160 - Dal Catalogo dei Baroni Normanni si legge “Comes Philippus de Balbano dixit quod demanium suum, quod tenet in Ducatu, videlicet de Sancto Angelo feudum quattuor militum, de Calabretta feudum trium militum, de Capusele feudum duorum militum, de Viaria feudum unius militis: Demanium eius feudum decem militum”. (Il conte Filippo di Balvano disse che il suo demanio era quello che possedeva nel Ducato, cioè in Sant’Angelo un feudo di quattro militi, in Calabritto un feudo di tre militi, in Caposele 13


un feudo di due militi, in Viaria un feudo di un milite. Nel complesso il suo demanio costituiva un feudo di dieci militi).

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- 1187 - Il conte Filippo di Balbano forniva per S. Angelo dei Lombardi, Calabritto, Caposele e Diano e per i suoi suffeudatari 34 uomini armati e 60 fanti per la Terra Santa.

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- 1198 - Iniziava il periodo svevo.

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- 1196 - Moriva Filippo di Balvano e il feudo passava a Ruggiero (che aveva vita breve).

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- 1205 - Moriva Ruggiero e gli succedeva nel 1231 il fratello Raone.

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- 1230/31 - Dagli “Acta Imperii” e precisamente negli “Acta 764” la gente di Caposele poteva contribuire alle riparazioni necessarie del castello di Campagna di proprietà della Corona. “Castrum Campanile - dice il decreto di Federico II - debet reparari per nomine eiusdem Terrae, Senerclae, Balbae, Colini, Contursi; et potest reparari per homines Calabricti, Capitis Sileris, Pali, Alcini, Balsiniani, Sancti Nicandri, Sperlongae, Sancti Menane, Castelli Novi, Mali in ventre, et per homines Lariani”. (Il castello di Campagna… deve essere riparato per opera degli uomini della Terra stessa di Campagna, di quelli di Senerchia, di Valva, di Colliano, di Contursi; e può essere riparato anche per opera degli uomini di Calabritto e Caposele, Palomonte, Alcino, Balsiniano, San Nicandro, Sperlonga, Malinventre e per mezzo degli uomini di Laviano.) 14


- 1239 - Si estingueva la famiglia dei Balvano/Balbano. - 1241 - Dopo re Manfredi di Svevia, donna Minora Gentile portava le terre di Caposele in dote a Federico Maletta, conte di Apice.

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- 1271 - Caposele aveva 17 fuochi.

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- 1266 - Il 26 febbraio terminava il periodo svevo ed iniziava il periodo angioino. Carlò di Angiò, fratello del re di Francia Luigi XIV, richiamato in patria dalla Terra Santa da papa Clemente IV, sconfiggeva Manfredi, figlio di Federico II di Svevia nella famosa battaglia di Benevento.

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- 1272 - Carlo d’Angiò assegnava la provincia di governo, comprendente Caposele, al figlio principe Carlo donde poi essa prendeva il nome di principato.

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- 1279 - Caposele chiedeva la divisione dei confini territoriali che aveva, invece, in comune con Calabritto.

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- 1284 - Con la cacciata degli Svevi re Carlo I d’Angiò dava il feudo a Pietro d’Annibaldo. Successivamente il feudo passava ad Anselmo di Caors che, allontanatosi e non ritornando in tempo, ne veniva privato da Carlo II.

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- 1289 - Carlo II concedeva le terre di Caposele per 80 deca annue a Guglielmo della Marra, il quale poi le assegnava al suo secondo genito Roggiero de Marra de Barulo, marito di Regasia Manzella di Salerno. (Regest. 1339 et 1340 . B. fol.I) - 1292 - Per liberare Castellabate, località del Principa15


to conquistata da truppe nemiche, tra il 17 e il 27 luglio veniva ordinato per il successivo 8 agosto un raduno di balestrieri a Eboli. A Caposele con Montefredane veniva chiesto di inviare 6 balestrieri.

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- 1299 - 9 giugno. Carlo II decretava da Salerno la divisione della provincia in due principati: Citra (al di qua delle alture di Montoro) ed Ultra (al di là).

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- 1320 - Presenza nella “Generalis Subventio” angioina dei valori di imposta per la frazione di Malum in Ventre (1 once, 10 tari, 08 grana), per Vianum (…) e per Baianum (0 once, 16 tari, o grana).

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- 1369 - Veniva eletto vescovo di Bisaccia da Urbano V fra Francesco Fonzo dei Padri Conventuali, che aveva edificato un Cenobio al suo ordine2.

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- 1376 - Il feudo di Caposele, rimasto a Ruggero della Marra, era venduto a Giacomo Arcuccio, conte di Minervino.

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- 1380 - Il bisavolo Nicolò di Iacopo Sannazaro, avendo ben meritato presso Carlo III degli Angioini nell’acquisto del Regno di Napoli avvenuto circa nel 1380, riceveva in dono molti possedimenti e si trasferiva col figlio Giacopo a Napoli.

Successivamente, Chiesa Madre di San Lorenzo, protettore del paese, in cui veniva conservata la reliquia del Santo insieme a quelle di Santa Emerenziana, di San Nereo ed Achilleo.

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- 1416 - La regina Giovanna, figlia di Carlo III succeduta al fratello Ladislao, perseguitava tutti i beneficiati del padre e del fratello, affidava le rendite del feudo di Caposele ad Antonello Gesualdo, la cui famiglia nel 1417 mandava in loco Luigi Sansonetto.

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- 1416 - La Gran Corte della Vicaria il 14 febbraio condannava l’università di Caposele, comune con la facoltà di eleggere i suoi rappresentanti amministrativi, al pagamento di 100 once d’oro alla R. Corte e alcuni cittadini al pagamento di 60 once d’oro per aver illecitamente disturbato Nicola e Francesco de Aprano nel possesso di un territorio detto Pasano nelle pertinenze del castello di Laviano (Princ. Citra). Perg. n. 34. L’istr. è trascritto nel 1416, marzo 17, indiz. IX, Laviano. Notaro Giovanni de Castello di Laurenzana, giud. A contr. Andrea... di Buccino. Segnatura archivistica: Mazzo 846, n° 4 - cm 52x29 - Scrittura gotica.

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- 1441 - Inizio del periodo aragonese.

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- 1442 - Alfonso I Re di Napoli

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- 1445 - 75 fuochi 75x4=300 abitanti (ogni fuoco era considerato uguale a 4 abitanti in considerazione anche del numero dei cittadini esenti dalla tassa, tipo ecclesiastici, nobili, militari etc). Da questa data in poi mancanza delle imposte per Malum in Ventre, Vianum, Baianum - 1445 - Il feudo di Caposele passava a Roberto Gesualdo e, successivamente, ad Elia Gesualdo. - 1458 - Il feudo diventava di Luigi Gesualdo, poi di San17


sone, di Nicolò I, zio di Antonello Gesualdo, succeduto da Luigi II, figlio di Sansone I e nipote di Nicola I. - 05/12/1456 - Terremoto. - 1467 - Ferrante I d’Aragona, re di Napoli.

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- 1471 - Alla morte di Luigi II il feudo passava a Nicolò II, figlio di Sansone II Gesualdo.

- 1480 - Alla morte di Nicolò II, Luigi III, fratello di Nicolò II, diventava feudatario di Caposele.

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- 1483 - Luigi III sposava Giovanna Sanseverino.

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- 1494 - Caposele raggiungeva 150 fuochi. Approvazione da parte di Alfonso II d’Aragona degli “Statuti, plebisciti e consuetudini, a memoria di uomo esistenti per comune consenso, e per libera ed espressa volontà di tutti, e singoli cittadini stabiliti e le antiche immunità e franchigie” di Caposele.

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- 1494 - Luigi III Gesualdo si ribellava al re Alfonso II d’Aragona per seguire il cognato Antonello Sanseverino (che parteggiava per i francesi) e perdeva le terre di Caposele. - 1496 - Re Ferrante II d’Aragona perdonava Luigi III e gli riconcedeva il possesso dei feudi di Boiaro, Buoninventre, Caposele,… - 1498 - Luigi III, divenuto di nuovo ribelle, perdeva un’altra volta il feudo ed esso veniva venduto a Caterina Pignatelli. 18


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- 1498 - 7 novembre. Federico d’Aragona, re di Napoli, ordinava “si immettano in possesso della terra di Caposele, donna Caterina Pignatelli Contessa di Fondi, sua vita durante, e don Ettore Pignatelli, fratello di lei, dopo la morte della medesima, e che siano prestati loro il ligio omaggio e il giuramento dei vassalli”.

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- 1501 - Federico d’Aragona concedeva a Jacopo Sannazaro (1456-1530) le terre di Caposele.

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- 1503 - Fine del periodo aragonese - Inizio della dominazione spagnola.

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- 1505 - Jacopo Sannazzaro ritornava a Napoli. I nuovi dominatori spagnoli annullavano le concessioni di Federico d’Aragona. Sannazzaro perdeva i possedimenti di Caposele.

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- 1507 - Con il perdono e la sottomissione a Ferdinando il cattolico, il feudo di Caposele ritornava a Luigi III.

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- 1517 - Moriva a Conza Luigi III Gesualdo, gli succedeva Fabrizio I Gesualdo, quarto Conte di Conza, nono Signore di Gesualdo etc, sposato con Sveva figlia di Troiano Caracciolo, Duca di Melfi, fedele alla Spagna e a Carlo V sostenuto con la fornitura delle armi. - 1524 - Fra Jacovo da Caposele era il guardiano del convento dei frati minori S.Francesco a Folloni di Montella.

- 1527 - Il clero di Caposele gestiva la Chiesa di S. Maria Mater Domini. Essa, contesa, veniva concessa al capitolo di Caposele da Camillo Gesualdo, arcivescovo di Conza 19


(archivio di Conza fatto da Bardars, foglio 26 dell’inventario, “in reservatione pro ecclesia composana et assensu apostolico obtinendi sumptibus Capituli”). - 1532 - Caposele veniva tassata per 182 fuochi (182x4 =728 abitanti).

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- 1543 - La famiglia Gesualdo acquistava il feudo di Venosa.

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- 1545 - Moriva a Napoli Fabrizio I Gesualdo, gli succedeva Luigi IV, primo principe di Venosa(1561), quinto conte di Conza, 10° Signore di Gesualdo etc, che moriva a Venosa il 17.5.1584, sposato con Isabella. Aveva ricevuto il titolo di principe dopo il matrimonio del figlio Fabrizio nel 1561 con la nipote di papa Pio IV.

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- 1545 - 253 fuochi (253x4=1012 abitanti).

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- 1554 - Zanca Gio.(o Gian) Tommaso, familiare del capitano di gente d’arma Fabrizio Gesualdo, nativo di Caposele e rettore dello studio di Napoli, pubblicava un’opera “Solutiones contradictionem in dicitis aristo. In prologo primi phisicorum dilucidatae” Napoli pe’ tipi di mattia cancer) in 4° di P. 20, dedicata a Pietro De Mauris protomedico del regno di Napoli. (Vita di Giordano Bruno di Vincenzo Spampanato pg. 90-91). - 1561 - 321 fuochi (321x4 = 1284 abitanti). - 1561 - 31 luglio, ore 22.00, terremoto. - 1563 - Dopo il Concilio di Trento obbligo per le parrocchie di tenere i registri. 20


- 1584 - Moriva a Venosa il 17.5.1584 Luigi IV; gli succedeva Carlo Gesualdo, terzo Principe di Venosa, settimo Conte di Conza, 12° Signore di Gesualdo etc, famoso musicista ed eccellente madrigalista, nato a Venosa l’8.3.1566.

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- 1590 - Un tristissimo fatto avveniva a Napoli: Maria, figlia di Carlo d’Avalos, Principe di Montesarchio, veniva uccisa da suo marito Carlo nella notte tra il 16 e il 17.10.1590.

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- 1594 - 14 giugno - Alfonso Fontanelli, diplomatico di casa d’Este, scriveva al duca di Ferrara Alfonso II “ci avviammo verso Caposelle per molte terre...”.

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- 1594 - Con l’aiuto dello zio Alfonso Gesualdo, cardinale di Napoli, Carlo Gesualdo sposava in seconde nozze Eleonora d’Este, nipote del duca di Ferrara Alfonso II.

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- 1595 - 321 fuochi - (321x4=1284 abitanti, pari a quelli del 1561).

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- 1597 - Papa Clemente assegnava la chiesa S. Maria di Materdomini al clero di Caposele.

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- 1613 - Il giorno 10 settembre moriva a Gesualdo Carlo. Avendo questi il 23 agosto dello stesso anno perso l’unico figlio maschio Emanuele, caduto da cavallo durante una battuta di caccia, il feudo passava alla figlia Isabella, principessa di Venosa e signora, tra l’altro, di Caposele, Boiaro, Boninventre, Teora e Torrelenocelle. - 1625 - Padre Orazio da Caposele, Francescano dei Min. 21


Conv. maestro di musica, mandava alle stampe di Napoli l’opera “Pratica del canto piano o canto fermo”; diventava Superiore di Provincia dell’ordine di appartenenza.

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- 1627 - Isabella Gesualdo, principessa di Venosa, sposava Nicolò Ludovisi, vicerè di Aragona e Sardegna, principe di Piombino, Duca di Fiano e Zagarolo, nipote del Papa Gregorio XV. - 1629 - Morta Isabella, succedeva la figlia Lavinia.

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- 1631 - 16-18 dicembre - Pioggia di cenere per l’eruzione del Vesuvio.

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- 1634 - Lavinia moriva senza eredi e tutti i possedimenti passavano alla Reale Corte di Napoli.

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- 1636 - Il feudo, con l’aggiunta di Montefusco, passava, per compravendita, a Nicolò Ludovisi, marito di Isabella e padre della premorta Lavinia.

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- 1647 - 7 luglio - Sommossa di Masaniello a Napoli.

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- 1647 - 8 settembre - L’Arcivescovo di Conza Ercole De Rangone (abitante per molto tempo presso i Benincasa) teneva un Sinodo a Caposele. “Questa terra fu abitata per qualche tempo da Monsignore Arcivescovo Ercole De Rangone, il quale stava con grandissima soddisfazione per le delizie dell’acque e de vini, habitando nella casa de signor Benincasa e nell’anno1647, sotto il di 8 settembre vi celebrò il suo sinodo, che fu dato alle stampe nel 1649, e detto Arcivescovo avrebbe continuato a stare in detta Terra”. 22


- 1648 - 300 fuochi - (300x4 = 1200 abitanti). - 1656 - La peste: 642 morti, tra cui frate Francesco Masucci di Volturara che tanto si era prodigato ed aveva profuso abnegazione e carità cristiana.

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- 1659 - Abitanti 500.

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- 1657 - Fine peste; in uno dei punti più antichi del paese veniva eretta per ringraziamento una colonnina di pietra, su basamento, sormontata da una croce viaria in pietra (Croce dell’Angelo) ora in via Ogliara. Alla base veniva scolpita l’arma civitatis del Comune, ancora evidente in parte (tre gigli, la testa di un’aquila dal cui becco sgorga un profluvio d’acqua e tre cime di monti).

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- 1664 - A Nicolò Ludovisi succedeva il figlio Giovan Battista.

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- 1669 - 204 fuochi (204x4=816 abitanti).

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- 1671 - Moriva Nicolò Ludovisi, marito di Isabella Gesualdo.

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- 1685 - Si celebrava una Platea Rinomata nella terra di Caposele, primicerio Paolo Ilaria. - 1691 - Abitanti 1185. Don Antonio Castellano scriveva “La Cronista Conzana”.

- 1694 - 8 settembre ore 17,45 - Terremoto: 150 case distrutte, 40 morti e 60 feriti. Il terremoto non lasciava che un torrione del castello, già abbandonato. 23


- 1696 - A Giovan Battista succedeva il figlio Marcantonio Ludovisi. - 1707 - Nuovo governo austriaco: Carlo VI metteva fine a due secoli di viceregno spagnolo.

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- 1710 - L’immagine della Madonna della Sanità, dipinta da Fra Paolo veniva posta in una chiesetta, vicino alle sorgenti, là dove un tempo si ergeva un tempio pagano a Giunone Argiva.

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- 1714 - Per vendita, il feudo passava al nobile Inigo Rota che sposava Beatrice Mastrullo ed otteneva dal re il titolo di principe di Caposele.

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- 1731- Il terremoto che devastava il tavoliere pugliese cagionava danni anche a Caposele: crollava la chiesetta di Materdomini, già conosciuta nel 1500 e meta di molti pellegrinaggi.

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- 1731-17.09. - Nascita di padre Donato Antonio del Guercio, morto a Ravello (Sa) in odore di santità.

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- 1732-29.11 - Terremoto con scossa di replica il 29.01. 1733.

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- 1734 - Inizio del Regno dei Borboni. - 1740-1742 - Istituzione del catasto onciario da parte di Carlo III di Borbone. - 1743 - La peste. Per intercessione della tenera Madre Maria il popolo di Caposele veniva totalmente liberato. 24


- 1746 - Missione di S. Alfonso de Liguori, sotto il principe di Caposele Inigo Rota e la principessa Cornelia Sanfelice. Invito del vescovo del luogo a fondare una casa per i missionari nel romitorio vicino alla chiesa.

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- 1747 - La chiesa di S. Maria Mater Domini veniva ceduta ai Redentoristi. Sottoscriveva l’atto il Clero locale.

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- 1748 - Inizio della costruzione del cenobio di Materdomini. Il principe Inigo Rota, metteva a disposizione i suoi boschi per ricavarne le travi e il legname occorrenti per la costruzione.

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- 1754 - Nel mese di giugno Gerardo Maiella giungeva a Caposele.

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- 1755 - Morte di Gerardo Maiella.

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- 1755 - Padre Antonio Donato Del Guercio condivideva con i frati conventuali minori una casa a Caposele.

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- 1764 - Una terribile carestia si abbatteva sul regno e su Caposele: 329 morti.

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- 1764 - 5 agosto- Moriva Padre Andrea Morza, il santo Redentorista caposelese, nato nel 1739. - 1771 - Inigo Rota lasciava il principato alla figlia Ippolita che lo portava in dote al marito Carlo Lagni. - 1788 - 16 luglio - Nasceva il Ven. P. Salvatore Grasso (v. anno 1868). - 1789 - 3512 abitanti. 25


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- 1799 - Anno della rivoluzione napoletana. A febbraio arrivavano i Francesi, al comando di Don Pasquale de Laurentiis, a piantare l’albero della libertà. A fine maggio l’esercito borbonico ristabiliva la calma con il ritorno del re sul trono di Napoli. Si scatenavano sanguinosi regolamenti di conti, uccisioni, carcerazioni, estorsioni e vendette private. Seguiva la repressione giudiziaria borbonica.

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- 1799 - Gli eletti di Vaglio di Caposele s’opponevano a dare il comando della Guardia Nazionale ai nobili e perché il comando fosse diviso fra nobili e borghesi.

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- 1806 - 7 aprile- Napoleone ritornava e collocava suo fratello Giuseppe Napoleone Buonaparte sul trono di Napoli.

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- 1806 - Con decreto del re Giuseppe Bonaparte abolizione dei feudi. Carlo Lagni (Carlo de Ligny principe di Caposele) ultimo signore. Re Giuseppe Bonaparte emanava la legge eversiva con la quale i terreni del feudo venivano assegnati al demanio comunale, la cui amministrazione doveva gestire la quotizzazione e l’assegnazione ai contadini.

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- 1806 - 8 agosto - Nuova organizzazione amministrativa: 13 province governate da un Intendente, ogni provincia divisa in distretti e ogni distretto in mandamenti, ogni mandamento in comuni. Il comune era affidato al governo di un Consiglio Decurionale, costituito da cittadini integerrimi, estratti a sorte tra una determinata classe di eleggibili, formata in base al censo. 26


- 1809 - Re Gioacchino Murat istituiva lo Stato civile con i registri anagrafici.

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- 1810 - Fino a tale data Caposele apparteneva al mandamento o circondario di Laviano, comprendente anche Quaglietta, Senerchia, Calabritto, Valva, Colliano, Santomenna, Castelnuovo di Conza e facente parte del distretto di Campagna.

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-1811 - Re Gioacchino Murat istituiva per decreto il mandamento di Calabritto comprendente anche Senerchia e Caposele.

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- 1812 - Trasferimento del dipinto della Madonna della SanitĂ nella chiesa Antoniana perchĂŠ nel tempietto si erano aperte delle larghe fenditure prodotte dalla frana del suolo.

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- 1810-1820 - Nascita della Carboneria.

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- 1816 - Ferdinando I di Borbone ritornava sul trono di Napoli.

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- 1817 - Ferdinando I emanava la legge per la creazione del camposanto pubblico entro il 1820.

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- 1834 - Ritrovamento della stele dedicata al Dio Silvano. - 1835 - Epidemia in autunno (116 morti). - 1837 - mese di luglio - Il colera (226 morti). Episodio riportato sul registro parrocchiale dei morti. I Caposele27


si si ricordavano di avere una tenera e potente Regina, Maria della Sanità. A Lei ricorrevano, ed oh prodigio! Il giorno in cui se ne celebrava solennemente la festa, il fiero morbo come per incanto cessava.

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- 1837 - Dal mese di agosto tumulazioni non più in chiesa, ma al camposanto, solo successivamente inaugurato e registrato nell’elenco dei cimiteri borbonici.

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- 1839 - Iniziava la costruzione della chiesa dedicata alla Madonna della Sanità. Alla conclusione dei lavori quel pezzo di muro su cui era dipinta l’antica immagine veniva ripreso dalla chiesa Antoniana e riportato al suo posto.

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- 1842 - Per la costruzione del camposanto col Decreto Regio n° 7593 dell’8 giugno si dava facoltà al Comune di Caposele in Principato Citeriore di prendere censo di due porzioni di suolo appartenenti la prima al Sig. Gennaro Chiaravallo e l’altra a D. Camillo Bozio, pagando al primo di essi canone ducati 2 e grana 48 l’anno, e ducato 1 e grana 88 al secondo, depurati dal quinto, e con la cessione della contribuzione fondiaria a carico del Comune stesso. Inaugurazione ufficiale del cimitero.

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- 1848 - La peste (190 morti). - 1853-09/04 - Terremoto: 12 morti. Crollava la chiesa dedicata a san Lorenzo. - 1853 - Si allargava la chiesa degli Antoniani per essere utilizzata come chiesa parrocchiale. 28


- 1857 - Terremoto tra la notte del 16 e 17 dicembre. - 1860 - Nasceva a Caposele Gerardo Grasso, musicista compositore del Pericon, inno nazionale dell’Uruguay.

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- 1860 - Terminava il Regno dei Borboni -Unità d’Italia Decennio del brigantaggio fino al 1870. Dopo il 1860 la tripartizione della Campania si modificava (divisione in 5 provincie)

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- 1861 - Eugenio, principe di Savoia Carignano decretava che i mandamenti di Calabritto e di Montoro dovevano passare alla provincia di Avellino.

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- 1863-16.05 - Morte del sac. Lorenzo Santorelli.

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- 1866 - Soppressione degli ordini religiosi. Il collegio dei Redentoristi rimaneva quasi deserto, la chiesa semi-abbandonata.

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- 1868 - 29 febbraio - Nel convento di Torchiati, frazione di Montoro Superiore (Av), moriva il Ven. P. Salvatore Grasso, vissuto lì santamente per 40 anni.

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- 1871 - Caposele passava dalla circoscrizione provinciale di Salerno a quella di Avellino. - 1889 - Iniziava l’emigrazione di tanti compaesani verso le Americhe. - 1892 - 6 dicembre - Beatificazione di Gerardo Maiella da parte del pontefice Leone XIII. - 1887 - Presenza in Caposele di opifici di proprietà del 29


principe di Caposele Luigi de Vera d’Aragona e anche del duca di Castellaneta Francesco de Mari che da oltre 70 anni li aveva ereditati dalla madre marchesa Olimpia De Lignì, entrambi di Napoli.

- 1899-16.12 - Frana nell’abitato di Caposele.

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- 1899 - Morte di Nicola Santorelli.

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- 1904 -11.12 - Gerardo Maiella veniva proclamato Santo.

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- 1906 - Inizio dei lavori di captazione delle sorgenti della Sanità.

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- 1907 - Inizio dei lavori per lo spostamento della chiesa della Sanità a causa dei lavori di captazione delle sorgenti.

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- 1910 - Terminavano i lavori di costruzione della chiesa dedicata alla Madonna della Sanità e il sacro dipinto di fra Paolo veniva solennemente traslato nel nuovo tempio.

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- 1913 - Trasferimento dal vecchio al nuovo cimitero, sito alla c/da Ionda. - 1915 - Inizio della prima guerra mondiale. - 1918 - Epidemia “la Spagnola”- Numerose le vittime. - 1928 - Una zona disabitata di 102 ettari veniva staccata a Laviano (Sa) ed aggregata a Caposele. 30


- 1930 - Notte 22-23 luglio, ore 1,08 - Terremoto, senza danni. - 1934 - Il poeta Giuseppe Ungaretti visitava le sorgenti del Sele.

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- 1938-16 luglio - Visita di S.A.R. Umberto di Savoia a Caposele e a Materdomini.

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- 1938 - Nei primi mesi di giugno si dava inizio ai lavori di costruzione dell’acquedotto per la contrada Materdomini.

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- 1939 - 27 maggio-Rivolta dei Caposelesi per il prelievo della restante parte d’acqua delle sorgenti Sanità.

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- 1940 - Scoppio della seconda guerra mondiale.

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- 1946 - 2 giugno - Plebiscito tra monarchia e repubblica. A Caposele vinceva la monarchia.

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- 1946 - Prima elezione diretta del Sindaco.

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- 1952 - 19 aprile. Veniva effettuata la ricognizione canonica del corpo del Ven. P. Salvatore Grasso: le ossa venivano murate accanto all’altare di S. Francesco. - 1956 - Un nevone sommergeva il paese. Per poter entrare nelle case a piano terra era necessario scavare i gradini nella neve. - 1962 - Scossa di terremoto. 31


- 1963 - 23 febbraio - Frana - Paura per il possibile distacco della pietra dell’orco?

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- 1969 - Inizio dei lavori per costruire in Materdomini una nuova basilica, più grande, per accogliere i numerosi pellegrini provenienti non solo dall’Irpinia, dalla vicina Basilicata, dalla Puglia, ma da tutto il Sud.

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- 1974 - Conclusione dei lavori della nuova basilica progettata dall’architetto Giuseppe Rubino.

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23/11/1980 Terremoto - Diroccava buonissima parte delle case e dei luoghi sacri e morivano persone tra giovani, anziani e bambini. Per ricostruire l’abitato e per consentire la dignitosa rinascita della vita religiosa e civile passavano più di venti anni. “Accanto al terremoto delle case v’era cocente ed insanabile un vero terremoto delle anime”.

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STORIA DI MURI E FONDAMENTA

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“Tra i dintorni più vicini alle sorgenti del Sele, che più attraggono lo sguardo, è il paese che leva il capo sul fiume, onde fu detto Caposele e nelle carte dei bassi tempi Caput Silaris”

CAPOSELE OGGI

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(ab. 3605; 415 m s.l.m.)

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(Nicola Santorelli)

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Situato nel territorio del Parco dei Monti Picentini, in un’atmosfera di monti, colli e valli, Caposele1 è un caratteristico paese della zona interna dell’Irpinia (Campania), ricco di elementi di interesse turistico ed ambientale. L’area, ai piedi del monte Paflagone, da cui nasce il fiume Sele, è particolarmente pittoresca. Qui il verde è dappertutto dominante e la natura conserva la sua incontaminata identità; qui le fresche, scintillanti acque delle sorgenti carsiche con una portata di 4000-5500 litri al secondo, alimentano l’acquedotto più lungo del mondo, noto come “Acquedotto Pugliese”, un’opera ciclopica profondamente legata alla vita, ai problemi e alla crescita del territorio. Ricostruito dopo il terremoto del 1980, il paese conserva in più di un posto l’originale trama urbanistica con strade e stradine strette e sinuose, in gran parte ridise-

Il nome è a volte pronunciato erroneamente Caposselle, anticamente veniva diviso in due: Capo a Sele, Capo Sele (v. De Luca), Capo del Sele (il fiume che nasce non molto distante dall’abitato in un luogo piano fatto di selce a mò di mezza luna).

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gnate con bianchi e scuri sanpietrini, laddove non è bastata la pietra lavorata anticamente da abili scalpellini. Le stradine si diramano in salita e in discesa dalle principali aree dell’antico castello, dei casali2 e delle sorgenti per confluire nel lungo corso centrale, che da un capo all’altro attraversa l’abitato e si congiunge con la strada provinciale. Nel centro urbano giocano ancora un ruolo insostituibile “le scale esterne, sia come elementi appartenenti alla casa, sia come entità appartenenti alla strada… Nelle parti più impervie - esse - sono meno imponenti e più strettamente funzionali; continuano tuttavia a vivere in simbiosi con le frequenti gradonate e con i residenti che se ne appropriano con intelligenza e originalità3”. Il nuovo tessuto urbanistico, al contrario, lascia le ultime propaggini bagnate dal fiume e sale a scala sulle pendici del colle vicino, formando la zona Piani, per poi raccogliersi sulla assolata cima dominata da un santuario semplice e lineare nella forma, dedicato a san Gerardo Maiella, o distendersi nelle ombrose conche, fino ad unire le preesistenti frazioni (Materdomini, Boiara, Buoninventre, ecc.) in un’unica solida comunità. Il nuovo centro spirituale, sorto dopo il terremoto del 1980, nel luogo dove insisteva la vecchia chiesa madre dedicata a San Lorenzo martire si impone tra le costruzioni che lo circondano per la sua particolare e moderna architettura. Su progetto dell’ing. Vittorio Gigliotti, tra l’altro insignito del primo premio alla Mostra Internazionale di Architettura di New York dove il progetto venne Originariamente presidi agricoli fortificati, poi trasformati in dimore per gli addetti alla pastorizia.

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Da “Campania, l’habitat tradizionale” di S. Rossi.

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Materdomini (600 m s.l.m.): un luogo che è più di una frazione

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presentato nel 1988, la chiesa ripropone, secondo una felice interpretazione del brano del profeta Ezechiele (Ez. 47, 1-23) la visione dell’acqua che fluisce e dona la vita. I voluminosi vortici del soffitto richiamano il fragoroso mulinare dell’acqua così come le sinuose forme delle pareti portanti che, in un alternarsi di sporgenze e rientranze accolgono le statue dei Santi cari alla pietà caposelese, il pregevole altare, l’ambone e il Battistero, opera dell’artista bergamasco Mario Toffetti.

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Conosciuto in tutto il mondo più di Caposele, di cui è frazione, oggi è un tranquillo, laborioso centro, con impianti ricettivi ben attrezzati. Situato in cima ad un colle circondato da folti boschi, secolari ulivi e campi coltivati, dove il verde cambia spesso colore e il giallo spazia dall’ocra, al marrone, al ruggine scuro, è anche luogo di assorta devozione e francescana poesia. Qui riposano i resti mortali di san Gerardo Maiella, venerato taumaturgo, qui la natura sembra dominare su ogni altra cosa e la dolcezza supera l’orizzonte e si perde, o si ritrova, nel cielo. Questa polarità è, in effetti, la chiave per capire il segreto dell’interesse che attrae nel posto turisti italiani e stranieri in numero sempre crescente, circa un milione all’anno. Nel pittoresco tessuto urbano caratterizzato da un severo geometrismo, addolcito dalle luminose vedute sulla valle del Sele, si ha l’opportunità di godere il paesaggio in maniera completa. 37


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Per una vacanza piacevole e rilassante, l’amenità del luogo, l’aria frizzante offrono la possibilità per passeggiate ed escursioni, giri in bicicletta e cavalcate lungo i sentieri della valle e della montagna, ricca di fragole, funghi, origano ed ogni altro tipo di piante officinali. Quelli che amano l’avventura possono praticare il volo con il deltaplano, o semplicemente la pesca della trota sulle rive del fiume o nei numerosi torrenti. Il turista che vuole rinvigorire le sue forze può far uso della locale piscina e dei due campi di calcio, o gustare i prodotti gastronomici e la robusta, naturale cucina che rende l’area particolarmente attraente. Se l’attenzione è rivolta più ai valori dello spirito e al bisogno di una rinnovata professione di fede, qui si è pienamente immersi nel silenzio della meditazione e della contemplazione.

Cenni storici su Materdomini

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“Vi è in detta Terra una bellissima chiesa sotto il titolo di S. Maria Matris Domini con famosa cupola e l’altare maggiore, dentro del quale sta collocata l’immagine di detta Madre S.S. e questa anticamente per li tanti miracoli che faceva fu accresciuta di elemosine, colle quali fu edificato detto Tempio con molte offerte di forestieri che solevano venire ed in atto vengono alla divozione di detta Madre SS.” . (Nicola Santorelli).

Il nome Materdomini deriva dall’unione di due parole latine “Mater Domini” (Madre del Signore), titolo 38


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dato alla Vergine nel 431, quando la gente e i Padri del Concilio di Efeso acclamarono con entusiasmo la divina maternità di Maria. La storia di questa ridente frazione è avvolta nel velo della poesia e della leggenda. Il nome dice chiaramente che all’origine di essa ci fu un avvenimento religioso: una statuetta di nostra Signora casualmente ritrovata da alcuni pastori in una boscaglia di sambuco e la richiesta della Madonna stessa, qualificatasi Madre di Dio, di erigere una cappella nello stesso luogo in cui era stata rinvenuta la statua4 rappresentante elegantemente la Madonna con le sembianze di una dolce adolescente in ginocchio, come in attesa di un fatto misterioso. Il turismo religioso ha scoperto Materdomini e il Santuario di S. Gerardo solo diversi decenni fa, ma la storia di questo bellissimo luogo dell’Irpinia è antica di vari secoli, la data più lontana risale al 1527, l’anno del sacco di Roma da parte di Carlo V e dei Lanzichenecchi; a quel tempo i copiosi prodigi di amore e di misericordia della Madonna attraevano già numerosi pellegrini alla cappella. Nel 1731 il terremoto devastò il Tavoliere pugliese e causò danni all’Irpinia, così la piccola chiesa sul colle fu distrutta. Ma nel registro delle visite pastorali dell’Arcidiocesi di Conza si rileva che nel 1736 Mons. Giuseppe Nicolai, nella sua visita a Materdomini, trovò un piccolo santuario in ricostruzione. Nel 1746 S. Alfonso Maria dei Liguori fu inviato da Mons. G. Nicolai a predicare una straordinaria missione in Caposele con l’intento di far

La statua, alta 84 cm, è formata di malta durissima, ma gli esperti non sono riusciti ad individuarne i principali elementi.

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aprire una comunità per la nuova congregazione del SS. Redentore in Materdomini. La chiesetta, data a S. Alfonso, successivamente divenne una sontuosa Basilica dedicata alla Madre di Dio e a S. Gerardo Maiella, con un grande convento e, più tardi, impianti ricettivi attrezzati per pellegrini e turisti. Dato l’afflusso di numerosi pellegrini la Basilica fu ampliata nel 1929; successivamente negli anni ‘70 si costruì una nuova chiesa dall’architettura moderna e lineare, che contrariamente alla vecchia Basilica, resistette, grazie alla Provvidenza, al terremoto che devastò l’Irpinia nel 1980. Costruita su progetto dell’arch. Giuseppe Rubino ed inaugurata nel 1974, la nuova chiesa, ricca di simbolismo liturgico, e tutta uno slancio verso l’alto, si richiama alla struttura di una tenda per due motivi: primo, in ricordo della Tenda del Tabernacolo dell’Antico Testamento, luogo ove erano poste le tavole della legge e nel quale si poteva incontrare Dio; secondo, perché la Chiesa è un popolo in cammino e per chi cammina la tenda è il luogo di riposo. Infatti è nella “Tenda” che si celebra “la sosta che ci rinfranca nel cammino verso la Patria”, cioè la Santa Messa. Il Cristo Risorto che alto troneggia sull’altare è fonte e culmine della celebrazione della Santa Messa, centro della nostra vita e sicuro riposo alle fatiche di ogni giorno.

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Pochi sono stati i ritrovamenti archeologici nella zona di Caposele, anche perché scarse, se non nulle, sono sempre state le ricerche. Sono soprattutto le pietre, qui, a parlare. Quelle delle mura poligonali disseminate nei boschi alla località Oppido di Lioni, alle falde del monte Calvello, quelle delle mura nei boschi, dove si trovano tracce, a volte prorompenti dal terreno, di mura in pietra che seguono, in senso longitudinale, le curve di livello e, in senso trasversale, le linee di massima pendenza, delimitando i ripiani pianeggianti o con lieve declivio verso valle. Qui si riconoscono camminamenti fortificati, mura difensive, tumuli di varia grandezza, strade pianeggianti in senso longitudinale, sentieri stretti e ripidi in senso trasversale e, un po’ dappertutto, polle d’acqua, sorgenti, pozzi, resti di capanne in pietra. Presso le sorgenti, invece, l’aratro ha portato alla luce solo pochi scudi, spade, corazze, cumuli di ossa e sepolcri, dato che il luogo, non adatto ad accampamenti per la sua posizione geografica, ma piuttosto facile trappola per gli accerchiamenti, non è mai stato teatro di battaglie e importanti fatti di guerra.

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CAPOSELE: LE ORIGINI

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“L’acqua è nel sangue della nostra gente; è la nostra storia, fin dai tempi più remoti. Se non ci fosse stato un bene così prezioso, non avremmo avuto la presenza dei Greci, dei Sanniti, dei Romani; noi stessi oggi non esisteremmo”.

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Come è facilmente comprensibile tutta la storia del comune si è svolta in parallelo a quella del fiume e questo fin dal tempo della colonizzazione greca della costa campana, come lasciano supporre alcuni toponimi della zona. La disponibilità abbondantissima di acqua avrebbe determinato i primi insediamenti documentati e mantenutisi nel corso dei secoli. Sulle origini di Caposele non si trovano, però, notizie certe, pertanto chiunque voglia tentare di esprimersi su questo tema deve lavorare su memorie episodiche o su delle supposizioni, suggerite dalla propria sensibilità e conoscenza. Tanto premesso, l’unico punto di partenza, riconosciuto un pò da tutti, è la derivazione greca del nome del Paflagone, monte alle pendici del quale sgorgano le sorgenti del Sele. Tale nome viene da alcuni collegato ad una regione conquistata dai Greci, la Paflagonia, la cui radice viene fatta risalire al verbo greco paflazo (gorgogliare di polle, bollire) e al cui tema si è aggiunto, per assimilazione, il tema forte di ghignomai (nascere = ghen). La letteratura antica (v. Senofonte) descrive tale 42


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regione come montuosa e ricca di fertili valli, ove abbondano corsi d’acqua che rompono il silenzio col loro caratteristico tintinnio dello scorrere e le valli stesse incantano i passanti per la ricchezza di frutteti ed ortaggi. Le testimonianze in nostro possesso parlano di Greci che provenienti da Sibari in cerca di nuove terre fertili da colonizzare, arrivarono nella piana dove si trova la foce del fiume Sele. Il fiume presso la loro gente era considerato come qualcosa di sacro atteso che in Grecia scarseggiavano i corsi d’acqua e si avvertiva la difficoltà del reperimento di essa. Con maggiore sicurezza si può affermare che alcuni greci, dopo la fondazione di Posidonia nel 273 a.C. partirono per esplorare le terre bagnate dal fiume Sele e le sue sorgenti e che ai loro occhi la somiglianza con la Paflagonia dovette essere tale da spingerli ad indicare il monte delle sorgenti col nome Paflagone. L’indicazione di tale nome si è tramandata sicuramente per via orale con i primi insediamenti. Gli storici riferiscono che nel 271 a.C. Pirro, re dell’Epiro, durante la III guerra Sannitica, vinse i Romani sulla destra dell’Alto Ofanto, tra Ferentino ed Oppido, località ad Ovest e a Nord di Caposele, distanti circa 4 Km dal paese. Ed è probabile che in quella occasione il re attraversasse i luoghi immediatamente prossimi alle sorgenti del Sele e, dopo un inseguimento, affrontasse il nemico fin sotto Caposele1. La posizione geografica del luogo non adatta

Fino alle sorgenti del Sele erano i confini dell’antica Italia nella parte della Lucania. Furono i Lucani a contrapporsi alla colonizzazione greca sulla costa tirrenica e non è improbabile che proprio i Lucani costringessero i Greci di cui si è parlato, riferendoci al Paflagone, a portarsi presso le sorgenti del Sele.

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ad accampamenti e di facile trappola per accerchiamenti non poté però essere teatro di una vera e propria battaglia. Altri riferiscono che vi fu una grande battaglia del Silaro, estesasi dalla foce del Sele alla valle di Conza nel 71 a.C. e che Spartaco, dopo aver devastato la Campania e la Lucania con una moltitudine di schiavi, Galli e Traci, sopraffatto cercò scampo verso Aquilonia, dove le sue forze furono completamente sterminate dai Romani. È probabile anche che la sua sconfitta avesse avuto inizio presso le sorgenti del Sele e che, rimasto intrappolato nell’anfiteatro naturale delle sorgenti stesse, egli avesse trovato scampo sulle colline, andando verso Boiara, l’agro di Teora, Buoninventre, prima di giungere alla valle di Conza ed essere definitivamente sconfitto dal grande esercito di Crasso. Secondo l’Antonini la nascita di Caposele potrebbe invece risalire al periodo delle lotte romane con le tribù sannitiche. Vero è che se la presenza dei greci sul territorio va ipotizzata su parole di origine greca, quella romana ha lasciato reperti archeologici e nomi di chiara provenienza latina. Con la stele dedicata al dio Silvano, ritrovata nel 1834 nel bosco alla località Preta (Caposele), sita ai piedi del monte Oppido, troviamo un’importante testimonianza epigrafica del possesso nel territorio di vasti terreni da parte di un certo Domitius Phaon. La presenza di mura ciclopiche sulla vicina collina che oggi è ancora denominata Oppido era ed è un segno della presenza di un castrum romano per controllare la valle dell’Ofanto e la Sella di Conza, zona di vitale importanza in cui scorreva la strada di accesso al porto di Brindisi. Vero è anche che i primi colonizzatori della zona, Sanniti (Irpini) prima e Romani dopo, abitanti del ca44


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strum, avevano greggi che nel periodo estivo portavano a pascere sul monte vicino, più alto e ricco di pascoli (per tali caratteristiche ancor oggi il monte è chiamato Calvello, dal latino carne e vello) e che certamente d’estate essi scendevano verso la valle dove oggi è Caposele per coltivare i terreni e rifornirsi di frutta, legumi e grano. Le sorgenti del Sele non erano ancora di primaria utilità in quanto le montagne erano disseminate di piccole sorgenti che facilmente riuscivano a soddisfare i loro bisogni di vita ed essi non avvertivano alcuna necessità di accamparsi o vivere nelle loro vicinanze. È allora probabile che solo più tardi, spinti da sentimento religioso, avvertissero il vivo desiderio di abitare proprio vicino alle sorgenti del Sele e di godere del beneficio dell’acqua (fonte assoluta di vita sociale)2.

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1.1 L’evoluzione della comunità

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Per parecchio tempo la valle di Caposele restò abitata da contadini e pastori. La gente umile e laboriosa si accontentava di poco. La povertà c’era e si faceva sentire, ma non bastava a frenare i sogni e il desiderio di migliorarsi.

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Nel corso degli anni e precisamente intorno all’anno mille, iniziò l’aggregazione edilizia a Capo di fiume, là dove una copiosa quantità di polle sorgive - quasi cento - formavano un laghetto, prima di dare origine con salI popoli antichi erano soliti fondare i loro borghi presso i luoghi ricchi di acqua ed onorare i fiumi come divinità. È stato anche dimostrato che spesso il modo di origine delle stesse città non è avvenuto simultaneamente, ma per fusione di borghi e villaggi.

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ti e cascatelle ad uno spumeggiante fiume diretto verso Posidonia (l’attuale Paestum). Nel periodo del feudalesimo, per meglio difendere le proprie terre e i propri privilegi gli abitanti iniziarono ad arroccarsi e a costruire mura di cinta; su solida roccia nacquero così il castello e le case intorno ad esso, l’una all’altra addossate ed intersecate da vicoli strettissimi. Col tempo al borgo superiore, attaccato alle sorgenti, si unì il borgo inferiore, proprio là dove il fiume, trovando il piano, rallentava il suo corso e dove le acque si prestavano mirabilmente ad irrigazioni, a mulini3 per macinare frumento, a mole per premere olive, a gualchiere4,

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L’impiego dei primi mulini ad acqua (già noto ai Romani agli inizi dell’età imperiale, per averne essi appreso il funzionamento al tempo delle loro conquiste in Siria, Asia Minore) divenne comune nel Medioevo. Di solito i signori feudali riservavano a sé stessi il diritto di impiantare mulini e da questa sorta di monopolio traevano un cospicuo reddito. Col tempo vennero perfezionati due tipi di mulino: quello a ruota orizzontale, che sfruttava la velocità e la pressione dell’acqua ed era particolarmente diffuso nelle zone collinari e montane, e quello a ruota verticale, che aveva un rendimento più alto, ma aveva bisogno di molta acqua e quindi veniva costruito prevalentemente in pianura, in prossimità dei fiumi più grandi o presso le sorgenti particolarmente ricche. Quasi tutti i mulini dell’Alta Irpinia erano a ruota orizzontale. Solo i mulini di Caposele utilizzavano il principio della ruota verticale.

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Quando uscivano dai telai i tessuti di lana non erano ancora pronti per l’uso: erano sporchi, ruvidi, laschi. Occorreva allora sgrassarli, ammorbidirli, serrarne le maglie. Venivano quindi immersi in una soluzione di acqua e soda o di altri reattivi alcalini (l’urina era quello più a buon mercato e perciò il più usato). Successivamente venivano trattati con argille da purgo (ammorbidenti). Durante tutta questa operazione le stoffe dovevano essere pigiate e battute energicamente, ed infine lavate perbene con acqua limpida. Il tipo di trattamento, dagli antichi Romani chiamato follatura ed eseguito a forza di braccia e di gambe, nel Medioevo veniva detto gualca e la macchina più diffusa per la lavorazione era la gualchiera, specie quella a due magli che era più facile da costruire e

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1.2 Quando Caposele lavorava le stoffe

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tintorie, macchine tessili e altre macchine idrauliche. Si sviluppò così un apparato produttivo a spiccato carattere commerciale, basato sulla lavorazione della lana e la tintura delle stoffe. L’insediamento di Capo di Fiume divenne il quartiere popolare più produttivo e, a seconda della disponibilità del suolo, si diramò in due zone conosciute ancora oggi come “Capriumu r’cimma” e “Capriumu r’sotta”.

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La lana è stata per molti secoli la fibra più largamente impiegata nella fabbricazione delle stoffe. Dalla metà dell’VII sec. in poi il più significativo traffico commerciale diretto dalla costa verso l’interno interessò in modo particolare questa fibra e gli Irpini insediati nell’area delle alte valli dell’Ofanto e del Sele5. La lana, materia

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da far funzionare. Per quanto facile, il meccanismo era ingegnoso. Una ruota mossa dall’acqua faceva girare il fuso, lungo 3-4 metri, con un diametro di una quarantina di centimetri. Il fuso portava una coppia di camme per ogni maglio, disposte a croce. Le camme facevano oscillare due bielle (lunghe circa 2 metri e mezzo) sospese con apposite cerniere ad un sistema di travi. A ciascuna biella era attaccato un maglio (cioè un altro blocco di legno ricavato da un tronco). Il sistema biella-maglio aveva la forma di un gigantesco martello e del martello riprendeva anche il movimento. La corsa dei magli si arrestava contro il bordo di una vasca, nella quale venivano disposte le stoffe da gualcare. Al momento del risciacquo la vasca veniva allagata con acqua limpida, mentre i magli continuavano il loro lavoro. Nella gualchiera, quindi, l’acqua aveva una duplice funzione, serviva a lavare le stoffe e contemporaneamente ad azionare il meccanismo battente.

5 Fino a quando le industrie tessili e le tintorie furono operanti in Caposele, fu anche fiorente l’allevamento del baco da seta. Le donne che vi erano dedite usavano portare nel seno, avvolte in un panno di lana, le uova dei filugelli fino a che esse non si schiudevano.

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prima, prodotta nella Daunia6 in gran quantità per la vasta disponibilità dei pascoli che affacciavano sulle rive dell’Adriatico, prendeva varie direzioni, lungo i diversi tratturi, in particolare verso le regioni appenniniche interne e verso la costa tirrenica (soprattutto in direzione di Cuma e Amina - Pontecagnano, città proto-etrusca fondata da un popolo civile e laborioso più noto come Irpini che, partendo dal cuore dell’Appennino campano si era spinto fino alla vasta piana del Sele). Dai centri dell’Irpinia la lana greggia, lavorata in modo raffinato ed originale dalle donne, e i prodotti finiti (specie tappeti, arazzi), molto apprezzati, riprendevano la via verso l’emporio di Amina. Qui venivano in gran parte scambiati con i Greci, padroni della via del mare, ed avviati verso altre destinazioni sulla via che univa l’Atlantico ispanico alle coste asiatiche della Siria. Fu proprio questo fenomeno commerciale uno dei motivi dell’accresciuto benessere delle comunità irpine, tra cui non mancò quella di Caposele. Qui arrivava per il trattamento finale quasi tutta la lana tessuta nei paesi vicini dell’Irpinia come del Salernitano e il paese per la grande disponibilità di acqua divenne un centro famoso per l’arte della gualca, nonché della tintura delle stoffe7, al punto da conoscere un periodo di forte crescita e prosperità. A raccontare la storia di quello che fu un piccolo polo manifatturiero, oggi sopravvivono unicamente suggestive foto d’epoca e qualche struttura abbandonata. Mulini Antico nome attribuito dai Greci a tutta l’Apulia, regione abitata dai Dauni.

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A Caposele c’è ancora la “preta de la tenta”, una roccia su sui venivano stese ad asciugare le stoffe dopo la tintura, in attesa dell’ultimo lavaggio in gualchiera. 7

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e gualchiere cessarono la loro attività con la costruzione dell’Acquedotto Pugliese, quando, catturate ed incanalate, le acque del fiume furono dirottate in Puglia. Il rapporto venne reciso e si disperse una storia ed una tradizione di concreta operosità che dovrebbe essere ricordata anche per il valore esemplare ed educativo che essa rappresenta. Non conosciamo il destino che mulini, cartiere e gualchiere8 avrebbero potuto avere, probabilmente la forza motrice rappresentata dalle sorgenti del Sele si sarebbe dimostrata insufficiente a sostenere una trasformazione produttiva delle attività avviate. Questo nulla toglie a quella che fu una reale esperienza di crescita economica e civile costruita con risorse e imprenditoria locali.

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2. Dall’XI al XX sec.

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Per un millennio e più, dal 71 a.C. all’inizio dell’XI sec.(primo Medio Evo) non vi sono purtroppo notizie certe su Caposele. Avulso dagli avvenimenti storici che interessarono i paesi vicini (Conza, Sant’Angelo dei Lombardi, Guardia dei Lombardi, ecc.), non rappresentando anche per le ragioni innanzi espresse alcun punto nevralgico per il transito, il borgo rimase pressoché quello primitivo, teso a difendere la sua economia, gli scambi commerciali con la gente lungo il fiume, le conquiste sociali proprie e a respingere i soprusi da qualsiasi parte venissero. I resti di una gualchiera sono ancora riconoscibili presso il greto del fiume, alla confluenza del torrente Tredogge con il vecchio alveo principale che scendeva dalla Sanità.

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Intorno all’anno mille troviamo il paese nel territorio del Principato di Salerno, poi Principato Citra. E questo ci conferma che la forza gravitazionale, sia territoriale che civile, per Caposele è sempre stata esercitata dalla valle e non dalle montagne e che per effetto di questa situazione il paese si è sempre mosso nell’orbita dello sviluppo e del progresso della piana del Sele. Le notizie di un feudo e un probabile castello risalgono al periodo normanno, probabilmente al 1160, quando Filippo di Balvano (o Balbano) ne divenne il proprietario. Nel corso dei secoli, il territorio passò nelle mani degli Svevi e degli Angioini. Sotto gli Aragonesi, una parte, probabilmente la zona chiamata Capodifiume, venne data a Jacopo Sannazzaro (1456-1538). Nel 1416 la regina Giovanna II di Napoli affidò le entrate del feudo ad Antonio Gesualdo. E fu con Luigi II Gesualdo che Caposele raggiunse il suo grande vigore. Il paese aveva ottenuto il titolo di “Universitas” (nel senso di tutti i cittadini = universi cives) cioè di Comune autonomo in grado di eleggere liberamente un sindaco per alzata di mano dei suoi abitanti e di amministrare la giustizia. Un grande privilegio questo dato ai sudditi, che, nel frattempo, scelsero anche un santo patrono, San Lorenzo, per la chiesa madre (“grande e di begli altari marmorei”)9 ed uno stemma per il proprio comune. Nel XVII sec. il territorio di Caposele passò ai Ludovisi che l’acquistarono e rivendettero più di una volta. Tutto ciò spesso li costrinse a lasciare il castello. Allora

Sacerdoti nel ‘500 furono Guglielmo Tonto, Paolo Cotirrella, Giovanni Sapia. 9

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comunità religiose10 e confraternite11 occuparono l’intera zona, le chiese aumentarono di numero12 e famiglie di estrazione ed origine diversa si affiancarono sempre più ai casali intorno alla Chiesa e alle proprietà private. La peste del 1656 ed il terremoto del 1694 sfortunatamente decimarono il borgo. Nel 1714 fu nominato principe della Terra di Caposele Inigo Rota, lo stesso che pose i suoi boschi a disposizione di S. Alfonso quando c’era bisogno di legna per costruire la Basilica di Mater Domini. Nel 1771 il territorio passò nelle mani di Carlo Lagni, marito di Ippolita Rota, figlia di Inigo. Nel 1806 una legge francese abolì la feudalità, così i signori preferirono la vita mondana di Napoli alle rupestri montagne del borgo. Nel XVIII sec. Caposele aveva comunque già assunto l’attuale caratteristico assetto di un paese con il suo

Nei primi anni del XIV secolo la confraternita dei francescani, costruì, a poca distanza dal castello, il proprio convento con annessa chiesa di San Francesco. “Vi è di più un Monastero sotto il titolo di S. Francesco di Minori Conventuali, che sta ricchissimo di rendite, è ben ornata la sua Chiesa, ed in esso vi sono stati degnissimi suggetti di detta religione che sono ascesi al grado Superiore di Provincia, come Maestro Orazio, che ha stampato un libro di canto piano, oltre il vescovo di Bisaccia…” “Vi è stato anco Francesco Vitamore…Antonio Parente (celebre medico che illustrò le teorie di Galeno)…Vincenzo Vistuta, medico insegno, oltre l’esservi stati infiniti dottori, notari e altri virtuosi” (da Cronaca Conzana).

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11 Confraternite sotto il titolo dell’Immacolata Concezione, della S.S. Annunziata (anticamente costituita in una chiesa posta nel luogo detto Casale di Malogna), del Corpo di Cristo, di S. Donato, di Santa Lucia.

Anche il vicinato del paese e le campagne erano di “sacelli” cosparsi: S. Maria della Neve, S. Donato, S. Sebastiano, S. Antonio, S. Biase, S. Nicola, S. Rufia (documenti editi dal tribunale di Salerno). 12

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castello, gli agglomerati dei suoi notabili fuori le mura13, l’area di Capo di Fiume, il casale di Pianello, le Grotte, ecc. Di pari passo con i progressi delle tecniche costruttive cominciarono a svilupparsi nuovi nuclei nella zona dei Casali, di Pianello, delle Grotte, con insediamenti spontanei ed altri elementi coagulanti della vita civile, finché il borgo raggiunse più o meno la fisionomia attuale. Lo spazio intermedio alle due parti del paese, a dire dei nostri avi quanto mai franoso ed attraversato da un grosso torrente (attuale vallone Cannavale) non consentì però la costruzione di case14. Nella prima metà del XIX sec. il paese fu variamente coinvolto nei fatti che vanno dalle guerre di Indipendenza all’unità d’Italia. Dopo l’unità la sua storia si confuse con quella di altri paesi limitrofi e centri d’Italia: brigantaggio, latifondismo baronale, lotte per la spartizione della terra, decollo industriale del primo decennio del nuovo secolo, emigrazione verso le Americhe, poi la Svizzera, la Germania, il Belgio, e negli anni 50/60, il Nord Italia. Verso la fine dell’800, infatti, pur di non rassegnarsi alla loro miseria molti contadini e piccoli artigiani, non ebbero altra scelta che emigrare, nel tentativo di fare fortuna. La vita nei campi era molto dura e poche se non rare erano le occasioni di altri lavori stagionali. La giornata lavorativa cominciava all’alba per terminare al tramonto. L’economia del tempo, ancora ristretta In gran parte professionisti che curavano gli affari del principe ed esponenti del nuovo ceto emergente (famiglie Cozzarelli, Ilaria, Ceres, Santorelli, Benincasa, De Rogatis). 13

14 Con i lavori di captazione delle sorgenti una strada venne costruita per collegare i due principali nuclei abitativi.

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negli scambi, nei traffici e nei collegamenti sociali, era primitiva, il reddito proveniente dalla terra e dall’attività agricola vera e propria era molto basso. Le rese produttive condizionavano, così, ogni forma di sviluppo. Si produceva principalmente per i propri bisogni e si limitava la vendita di alcuni prodotti allo stretto necessario. L’agricoltura era prettamente di tipo collinare. Per il dissodamento del terreno si usava quasi sempre la zappa, raramente l’aratro tirato dai buoi, vista proprio la natura spesso collinare del suolo. La mancanza di ampie zone pianeggianti condizionava l’agricoltura. Poche erano le varietà colturali come i cereali e le foraggiere, diffusa era la presenza del promiscuo con alberi da frutto (meli, peri e ciliegi), frammisti disordinatamente a viti e ortaggi ed altre colture arboree (es. piante legnose). Le strade che conducevano ai campi, o meglio le mulattiere, erano sconnesse, a volte zeppe di grossi massi di pietra sporgenti e numerosi ciottoli sparsi ovunque, a volte fangose. All’inizio del ‘900 la maggior parte delle terre di Caposele era di proprietà di famiglie non contadine, ma, a cominciare dalla fine del primo conflitto mondiale, molte di esse, e per le rimesse degli emigrati (soprattutto dalle Americhe) e per l’indebitamento dei padroni, specie quelli che, non esercitando di fatto alcuna attività, pretendevano di vivere di rendita, e per la svalutazione galoppante della moneta, passarono nelle mani dei contadini. In quel periodo, data la svalutazione, questo era, ad esempio, il potere d’acquisto della lira: il prezzo medio di un quintale di grano era di circa 20/25 lire, le uova costavano 3 cent. l’una, il vino 2 soldi (10 cent.) al litro, un pollo medio 1 lira, il caffè 5 cent. la tazza, il cemento e la 53


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calce viva tre lire e cinquanta al quintale, la sabbia 8 lire al mc; 1000 mattoni 30 lire, 1000 tegole 85 lire, le tavole di abete per costruzione 65 lire al mc. La giornata lavorativa di un manovale edile che durava 10-12 ore veniva pagata circa 3 lire, un bracciante agricolo guadagnava, invece, circa 1,25 lire al giorno, sicché gli toccava lavorare dai 15 ai 20 giorni per comprare un quintale di grano. Questo spiega perché in quegli anni, oltre ai Caposelesi, masse enormi di persone (operai, contadini, artigiani) provenienti da tutto il Sud lasciarono i loro paesi afflitti da crisi agricole, siccità, crisi industriale, disoccupazione, ed emigrarono verso gli Stati Uniti, l’America Latina, il Canada, l’Australia o le molte regioni europee, dove era richiesta abbondante manodopera, anche se non qualificata.

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L’Arma Civitatis del Comune di Caposele

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Il primo stemma simbolico del paese, presentato dal Castellano1 nel suo libro “La Cronista Conzana2” rappresentava un drago spruzzante acqua dalla bocca. Sullo sfondo tre monti con tre stelline e la dicitura “Syleris Spectabile Caput” (Capo del Sele). A tal proposito il Santorelli3 così si esprime: “…nascendo (il Sele) in detto luogo pare che sia una cosa misera d’acqua, ma dieci passi distante forma un fiume sì terribile che non si può guazzare, anzi è divoratore de poveri vigneti e perciò si domanda drago, e in detto fiume vi è acqua freddissima che s’è vista spezzar li vetri per la gran freddezza, così anche vi sono freddissime cantine4 di vino che non hanno bisogno di

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1 Nativo di Bagnoli Irpino, Donatantonio Castellano fu nominato Vicario Capitolare il 26-1-1681 dai canonici della Cattedrale di Conza, dopo la morte dell’Arcivescovo Paolo Caravita e tenne questa carica per nove mesi. L’11 gennaio 1685 Gaetano Caracciolo, eletto Arcivescovo da Innocenzo XI il 30 aprile 1682, lo nominò Vicario Generale della diocesi di Conza.

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La “Cronista Conzana”, divisa in 5 libri, è un’opera manoscritta inedita di Donatantonio Castellano redatta tra il 1689 e il 1691 e dedicata a Gaetano Caracciolo, Arcivescovo di Conza dal 1682 al 1709. Tratta delle origini di Conza; delle guerre da essa sostenute e della distruzione subita; dell’intera diocesi e delle terre e dei feudi da essa posseduti; delle rendite giurisdizionali delle altre terre; delle città, delle Diocesi e dei Vescovi suffraganei; conclude con un’appendice, un supplemento ed una aggiunta.

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Nicola Santorelli (1811-1896), insigne medico di Caposele, autore tra l’altro, del libro “Il fiume Sele e i suoi dintorni”. 3

Singoli manufatti con un minimo di muratura e copertura in tegole, disposti in linea lungo il fianco della montagna, al di sopra dell’abitato

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neve, e le cantine sono tanto fredde d’estate che è pericoloso per la salute starci dentro.” Il primo stemma con una certa ufficialità “giacente nell’archivio di Stato di Napoli, ove è stato rinvenuto al vol. 4092, contenente il catasto onciario del Comune stesso, usato fino al 1754”, non presentava però più il drago, ma un collo d’aquila con 26 bizantini5 d’argento ordinati da sopra a sotto in 5,7,8,3,2,1 (gli ultimi sei posti sulla destra e sinistrati da una testa a collo d’aquila), tre gigli d’oro in capo e sempre presente la dicitura “Syleris Spectabile Caput”. Per rispettare l’art. 39 del R.D. 21.01.1926 n. 61 che prevedeva l’obbligo dello scudo di tipo sannitico o italico, lo stemma subiva poi altre modifiche. Il successivo art. 95 del R.D. n. 652 del 1943 prescriveva infatti, che la corona doveva essere in metallo nobile e che nella parte sottostante lo scudo doveva essere riportato un “serto” (sorta di ghirlanda aperta) con due rami di lentisco tra loro incrociati, circondanti lo scudo stesso e annodati con un nastro di colore azzurro nella parte interna e con colori nazionali nella parte esterna.

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originario di Caposele. “I manufatti che oggi tutti i Caposelesi conoscono come Le cantine sono il risultato di un ingegno particolare (XVIII sec.) teso ad utilizzare l’enorme serbatoio di energia refrigerante ubicato nella pancia della montagna dove rigurgita, prima di prorompere nelle Sorgenti del Sele, una falda acquifera a cinque gradi e sempre in pressione, che attiva, attraverso le fenditura della roccia moti convettivi di aria fredda che abbassano la temperatura nelle “grotte”. (da: “Caposele, una città di Sorgente” di Nicola Conforti e Alfonso Merola, 1994, Elio Sellino Ed.).

La presenza di bisanti in Araldica rappresenta il simbolo della funzione di tesoriere o di maggiordomo di Corte o anche il diritto di batter moneta. 5

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Si arrivò così allo stemma di oggi privo della summenzionata dicitura, e così descritto: di azzurro, a 26 bizantini d’argento ordinati 5,7,8,3,2,1, gli ultimi 6 posti sulla destra e sinistrati da una testa a collo d’aquila al naturale uscente in banda dal cantone sinistro della punta a tre gigli d’oro in capo, ordinati in fascia, ciascuno in corrispondenza ai bizantini centrali della prima fila.

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Il castello di Caposele

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In mezzo all’antico abitato del paese, su uno spiazzo sovrastante tutte le case che fiancheggiano le tortuose stradine che portano a valle si vedono ancora grandi massi coperti di calcinacci ed erbacce, ultimi segni di un castello con torre quadrata, dimora di nobili, principi e baroni. In tutte le ricerche effettuate non si è però incontrata alcuna fonte che facesse riferimento al Castello di Caposele. Per intuizione si pensa che con gli altri presenti nella valle del Sele il castello risalente all’XI sec., contribuisse a difendere la valle stessa dalle incursioni dei nemici che, di volta in volta, potevano essere i Saraceni o altri, piuttosto che essere una sontuosa dimora signorile. L’assenza di notizie, comunque, non ha impedito alla mente sognatrice di Mario Giordano di produrre quell’ articolo pubblicato sul Corriere dell’Irpinia che qui si vuol riportare per poter continuare il nostro sogno.

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Quanti castelli antichi dell’Irpinia? Quanti ruderi di rocche e di manieri feudali? Nessuno che noi sappiamo li ha mai enumerati. Nessuno distinguendoli cronologicamente per zone e caratteristiche strutturali, ha mai atteso alla compilazione di un’opera organica su questo argomento. Eppure sui castelli irpini, su quelli integri e su gli altri ruinati e abbandonati, è tessuta la trama della più pittoresca storia da spalto a spalto, da torre a torre, su pei gruppi del basso Appennino, in cima ai tondeggianti colli sempre verdi, realtà e leggenda s’intrecciano a questi avanzi. 58


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Non è facile, spesso, scindere l’una dall’altra: spesso la tradizione le fonde in un solo bellissimo romanzesco racconto, ma la fisionomia storica dell’Irpinia vi si rispecchia ugualmente e se qualche volo fiabesco ne sfuma i contorni, ciò che è perduto per l’esattezza scientifica è guadagnato invece dalla poesia popolare. Comunque, son questi castelli che riassumono le loro origini, coi grandi fatti di cui furono testimoni, con le illustri famiglie che li abitarono, con le imprese ora fosche ora magnanime che entro e intorno ad essi svolsero, l’intiera storia medievale irpina. La quale ha, fra le storie regionali italiane, un carattere tutto proprio e inconfondibile, fatto con episodi locali, di competizioni politiche e militari limitate al palmo di terra del proprio paese. Naturale, perciò, che in siffatte condizioni storiche intimamente legate agli interessi familiari dei maggiori feudatari, il castello dominante dall’alto del poggio la soggetta contrada, abbia avuto qui una funzione talvolta più importante della stessa città; specie se si tien conto che spesso questo si riduceva ad un centro abitato da scarna abitazione, come ad esempio Caposele, che ebbe il vanto d’un rinomato castello. Caposele, ricca di monumenti e di antiche dimore patrizie, giace tra due colline: a settentrione il Paflagone, lembo meridionale degli Appennini, lussureggiante di vegetazione; a mezzogiorno una rupe isolata, in cima alla quale si profila la rocca. Centro preistorico, il suo nome attuale deriva dal romano “Caput Silari”. Poco o niente rimane oggidì dei cinque ordini di mura che proteggevano la cittadella e che cingendo per tre lati la collina giungevano fino alla rocca. Il nostro, posto sopra uno spazio, consiste in un torrione quadrato, che sorge da una base piramidale in trachite. Una porta a nove metri dal suolo serviva d’accesso, e sono ancora visibilissimi i fori praticati nel muro per apporvi la scala mobile. Si entra in un vasto locale che comunicava, mediante botola, col piano superiore e con la base, dalla quale, secondo tradizione, forse esatta, si partivano 59


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due viottoli: l’uno conducente al grosso del paese, l’altro al corso tortuoso del Sele. Di data imprecisata è, invece, la costruzione della cittadella. La sua origine sarà romana, barbara o medievale? Certo, in uno stato di perfetta efficienza essa rimane sempre, data l’importanza militare della posizione, la grande arteria romana che congiungeva la Campania Felix alla Lucania. La rocca ha sempre formato l’orgoglio del paese. Mancano purtroppo, notizie di tempi lontani, e le distruzioni e i saccheggi, più volte ripetuti nei secoli, non permettono di ricavarne dall’attuale costruzione, che nella parte più vecchia, secondo il Santorelli, dovrebbe risalire alla fine del XI o all’inizio del XII sec. Folco d’Este1, come ricorda il Muratori, aveva qui tenuto, nel 1115 un placito nella “domus dominicata” che alcuni vollero identificare in quella parte del castello a monte, nata col nome di casa “romanica”, opinione non condivisa dal Santorelli. Si sa di certo che nel castello di Caposele abitò Alfonso di Aragona, principe nobilissimo e di invitta potenza, verso la fine del XIV sec. Sicuro la sua numerosa corte non poté trovare alloggio nella rocca. Troppe volte la complessa e vasta costruzione venne rimaneggiata, alterata e rifatta. La parte più antica, tuttora esistente, è forse, la già mentovata “casa romanica” probabilmente anteriore al massiccio occidentale che si fa risalire a Federico di Aragona, non molto tempo prima della cacciata degli Angioini coi vespri siciliani. Dunque sembra che il castello sia di schietta origine Aragonese. A questi spetta indubbiamente la costruzione ad oriente dell’edificio merlato in cotto, che addossarono alla casa romanica. Anche la decorazione interna degli ambienti vastissimi risale a quell’epoca, sia nella semplice pittura rurale a scacchi 1

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rossi, propri della dinastia e che si ripete quasi ovunque, sia nella costruzione dei caminetti, fra cui quello monumentale di una delle sale superiori, “sotto la torre dalla cappa altissima; fatta preziosa dall’ornamentazione complicata, dal chiaro scuro degli architetti molteplici”. Così descrive il Santorelli, che asserisce non esser stato costruito altro camino, neppur nella regia di Napoli, superiore in magnificenza a questo, che “si aderge gigantesco e fantastico come nello sfondo di una piazza”. Al tempo dell’autore, si vede chiaro, esisteva ancora qualche traccia di quell’opera meravigliosa, ch’egli chiama “uno dei più espressivi monumenti del viver civile”. Sotto il dominio degli Aragonesi, il castello venne qualche volta allietato da feste e da banchetti, come nel 1375, per le nozze di Margherita d’Aragona, che giunse a Caposele seguita da nobile e smagliante corteo e da gran numero di alfieri. Brevi parentesi di sereno queste nozze, poiché le mura del castello risuonavano più spesso dei lamenti dei condannati, anziché di risa gioconde, e la cupa fortezza accoglieva, qualche tomba, i familiari dei truci signorotti. Dopo i Vespri Siciliani e la conseguente cacciata dei tiranni del patrio suolo, il castello fu abbandonato dagli Aragonesi che si stabilirono definitivamente nell’Italia insulare, poco curandosi delle antiche dimore. E così Caposele insieme al suo castello passò nelle mani del principe di Castellaneta, che trasformò, ampliò il castello riducendolo ad una fortezza delle più temute della Regione. Scene di sangue si rinnovarono tra quelle mura e le torri merlate furono testimoni di aspre e sanguinose lotte che si combatterono nella valle sottostante. Il fiume più volte con la sua piena negò il passaggio ai belligeranti, ma il signorotto del castello continuò la lotta dall’alto della rocca. Il terremoto del 1694 che distrusse quasi Caposele, demolì buona parte del castello, che rimase per decenni abbandona61


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to. Sembra però che più tardi, verso il sec. XVIII i principi di Caposele abbiano ridato il primiero splendore. Il poeta Iacopo Sannazzaro, amicissimo dei principi, avrà trascorso i giorni migliori della sua villeggiatura irpina in questo superbo maniero, che prima del predetto terremoto era di un fasto ammirabile. E si crede che il poeta abbia lavorato qui molto intorno al “De partu Virginis”. E la cosa è molto attendibile, giacché la quiete del luogo e la presenza dell’acqua potevano ispirargli scene dolcissime ed immagini d’una delicatezza nuova, di cui abbonda il bel poema. E così fino al secolo della rivoluzione, il castello visse di vita propria e indipendente, finché tutto il principato venne assorbito dalla Signoria dei Duchi di Salerno, che curarono punto o poco Caposele e castello, lasciandovi una università che reggeva le sorti dell’abitato con una indispettita sovranità. Ed ora il bel maniero giace silenzioso e tetro: non più voci, non lamenti, non allegre serate di una volta. Tutto è tramontato senza speranza di risveglio. Le sale, le torri, le pietre stesse parlano al viandante di una storia che fu. Ora tutto è mutato. V’è solo la foresta che guarda estasiata e compassionevole tanta abbondanza di vita abbattuta e dimenticata.

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(Dal “Corriere dell’Irpinia” sabato 20 dicembre 1941, Mario Giordano)

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NOTIZIE STORICHE: NOTE CHIARIFICATRICI

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Folco d’Este a Caposele?

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La notizia della tenuta di un placito da parte di Folco d’Este a Caposele nell’anno 1115 è stata riportata da alcuni autori nelle loro pubblicazioni, fra l’altro compare, come si è detto, anche nell’articolo pubblicato dal Corriere dell’Irpinia negli anni 1940, a firma del giornalista Mario Giordano. Evidentemente la citazione della fonte “Delle Antichità Estensi ed Italiane”, trattato di Ludovico Antonio Muratori, bibliotecario del serenissimo Signor Duca di Modena, ha dato loro ampie garanzie di veridicità. La notizia, invece, di primo acchito pone un interrogativo: come mai in quegli anni troviamo presente a Caposele un membro della famiglia D’Este ?. Il dubbio viene sciolto solo consultando il trattato e, senza alcuna difficoltà, si chiarisce il frainteso. Nel trattato citato, infatti, viene riportata la notizia che nel 1115 si tenne un placito nella terra di Monte Silicis (Monteselice) nel Padovano, che apparteneva alla Casa D’Este, per decidere su una lite sorta tra i Monaci di S. Giustino e le Monache di S. Zaccheria di Venezia. Evidentemente, è solo per superficialità che si è scambiata la parola Silicis con Silis, termine con cui viene riportato in latino il fiume Sele.

1322: Anno di partecipazione alle crociate? Nella “Cronista Conzana” di don Antonio Castellano, scritta nel 1691, viene riportata la notizia che nell’anno 1322 Caposele, Sant’Angelo dei Lombardi e Calabritto fornivano 34 uomini d’arma e 60 fanti per la terra Santa, 65


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per cui l’avvenimento è stato successivamente riportato in tutte le pubblicazioni riguardanti la storia di Caposele. La notizia è senz’altro veritiera, ma la sua collocazione temporale lascia qualche perplessità in quanto in quegli anni non ci fu alcuna crociata. Ebbene, per chiarire tale dubbio si è consultato il succitato testo che, fortunatamente, riporta come fonte il testo seicentesco di Gio. Vincenzo Ciarlante “Memorie Storiche del Sannio”. A pagina 320 si trovano le poche righe di interesse per la nostra ricerca “Il Conte Filippo di Balbano per S. Angelo, Calabretta, Caposele e Diano, e per i suoi suffeudatari offerse 34 huomini d’arma e 60 fanti”. Le righe sono inserite alla fine della seguente descrizione: Morto a Ferrara Urbano III a. 19 di Ottobre 1187, il giorno seguente fu con applauso grande eletto Papa il nostro Cardinal Alberto, a. 25, vi fu coronato e chiamato Gregorio ottavo. Fu egli come dice il Baronio, successore di dolore, erede di calamità, perché in cinquantasette giorni, che visse, non fa altro, che incitar Principi Cristiani ad andare alla recuperatione di Terra Santa, occupata dal Saladino. Re Guglielmo, come ch’era tutto pio, e buono volle concorrere e chiese a questo fine a i Baroni del Regno duplicatoli servitio de loro feudi. E perché D. Ferrante della Marra Duca di Guardia nei suoi focosissimi discorsi ha notato buona parte de i Baroni e Feudatari di quei tempi, che vi concorsero, cavati da una scrittura dell’Archivio vecchio di Napoli, posta nel Registro del 1322, la cui copia dice di aver avuto dal Padre Carlo Borrello de Chierici Regolari Minori tra quali sono anche molti di queste parti… Storicamente si sa che nel 1187 Saladino, sultano d’Egitto e Siria, sconfiggendo i Crociati nella battaglia di Hattin pose di fatto fine alla dominazione cristiana in Terra Santa. 66


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Iacopo Sannazzaro a Caposele?

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Bene è che il testo del Ciarlante continua riportando la fonte storica. Si evidenzia così con chiarezza che la citazione “nel registro del 1322” deve essere interpretato come “nel registro 1322” per poter collimare l’evento col tempo delle crociate e della presenza dei conti Balbano su queste terre. Di ciò si trova riscontro presso l’archivio di S. Severino nel quale l’antica indicazione del registro 1322, successivamente, prende il numero 242. Di ciò si occupa anche il testo (“Catalogo dei feudi e feudatari della provincia napoletana sotto la dominazione normanna1”) di Bartolomeo Capasso edito da Arnaldo, consultato presso la biblioteca provinciale di Avellino.

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Dopo la presa di Capua, avvenuta il 25 luglio 1501, i francesi entrarono in Napoli. Il re Federico d’Aragona aveva dovuto lasciare la città due giorni prima per rifugiarsi sull’isola d’Ischia, nonostante il parere contrario del Sannazzaro che in quelle giornate tumultuose si era distinto per la sua bella condotta. Prima di lasciare Napoli il re aveva convocato tutti i suoi sudditi più cari e fedeli per salutarli e nell’occasione, anche se tutto sembrava perduto, li aveva gratificati con ampie concessioni (poi annullate il 10 febbraio 1505). “Il Catalogo dei Baroni Normanni” è un documento visionato in epoca sveva, successivamente trascritto nei registri angioini e pubblicato a opera di Del Re. Il Catalogo, rispecchiando la concezione socio-politica medievale, elenca i feudi e i feudatari compresi nella circoscrizione militare della “comestabulia” (da comes=compagini=accoliti) di Giliberto di Balbano, a cui fanno seguito i feudi intestati a Gionata di Balvano, conte di Conza, e i suffeudi da lui dipendenti.

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A favore del Sannazaro si trova scritto “Jacobi Sannazarii: concessio terre Caposele”, ma non è stato mai possibile rinvenire l’atto scritto di concessione. Probabilmente, vista la trepidazione di quelle ore, esso non fu mai stilato. Di fronte a tanta generosità e anche per onorare, con ampia fedeltà, l’amicizia col suo re, il 6 settembre Iacopo Sannazzaro seguì Federico verso l’esilio in Francia. Salpò, malgrado la sua malattia di stomaco, lasciando dietro di sé la dolce e tranquilla vita di Napoli. Qui si fermano le notizie storiche che fanno pensare che il poeta dell’Arcadia non abbia potuto godere delle bellezze naturali del nostro paese. Quando esse gli appartenevano lui si trovava in Francia. Comunque piace ancora credere che il poeta abbia chiesto la concessione delle nostre terre perché affascinato dai panorami bellissimi di Caposele, terra dell’acqua. Il sogno del giornalista Mario Giordano espresso in un articolo pubblicato nel 1942 sul Corriere dell’Irpinia è dopotutto troppo affascinante e merita di essere qui riproposto ad ogni Caposelese.

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Nella parte occidentale della cittadina di Caposele, tra il corso del fiume e la piazza plebiscito, all’ombra degli olmi antichi, si annida un fiorito covo di ricordi Sannazzariani. La piazza, le costruzioni nuove, le villette disseminate sul declivio della montagna han cambiato il volto del paese, hanno cancellato in gran parte i segni e le impronte dei fatti storici, ma non potranno mai scacciare gli echi dei ricordi che sono nell’aria, e ad ogni richiamo del pellegrino sentimentale risuonano tra le pietre nuove ed antiche. Qui il poeta visse uno dei suoi amori, il culminante che cominciò con l’idillio e poteva condurre al matrimonio, ma finì 68


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nel dramma. Avrebbe potuto quell’amore dare equilibrio alla sua vita inquieta e invece la spezzò. Egli vi andò la prima volta nell’agosto del 1486, aveva esattamente trent’anni. Carlo Aragonese, principe di Caposele, lo aspettava a braccia aperte nel suo splendido maniero in riva al Sele. Il vecchio signore, umanista e cattolico, era ansioso di conoscere questo giovane poeta dotto, ispirato e scapigliato, col quale da tempo tesseva un’assidua corrispondenza. I suoi figli, Federico e Alfonso, che frequentavano a Napoli, con altri giovani, la casa del poeta, insistevano perché egli li accompagnasse al ritorno loro a Caposele. Figurarsi dunque come lo accolsero il vecchio principe, la principessa e le figlie giovanette, quando il poeta illustre ed elegante apparve al castello. Il sole era il dio del poeta, nemico in vita e morte del freddo, e della bruma, e i due giovani amici lo ubriacavano di sole, di aria silvestre, di odor di bosco e di pomario. Cercavano nel parco gli antri solitari, tra le siepi di bosco e i padiglioni rampicanti. Contemplavano il plenilunio sul fiume, tra il tonfo sommesso del boscaiolo del barcaiolo in acqua e il corteo delle bionde nuvole in cielo. Dopo un sonetto ed una sestina di Petrarca, declamati da Iacopo col suo vocione, ascoltavano in silenzio il canto notturno dell’usignolo. Maturavano le regine claudie2 e i giovani amici ne facevano raccolta al tramonto: Alfonso arrampicato su gli alberi facea scrollare i rami carichi e la sorella minore giù a ricevere le dolci frutta nel serico grembiule teso tra le braccia, gentile immagine botticelliana. Con Alfonso, vivace giovinetto di sedici anni, Iacopo divenne un ragazzo anche lui, e facevan le corse a gara su per l’erta fino alle sorgenti alte, per godere di lassù lo scenario della riva opposta del Sele e la valle ridente. 2

Una qualità di prugne.

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Lo spirito del poeta era sempre il migliore condimento della conversazione imbandita su le terrazze del castello la sera. Le dame lo ascoltavano incantate. Un uomo eguale a questo non era mai venuto a rimuovere le acque della loro placida villeggiatura. Ma venivano anche le ore nere e allora non c’era anima vivente che riuscisse a cavargli una parola di bocca. Se ne stava appartato e aggrondato; per non essere tentato a parlare, si alzava e usciva con uno di quei gesti che parevano teatrali ed eran la sua natura. Passava lunghe ore invisibile a tutti, poi andavano a scortarlo sotto i cipressi della Pliniana, che lo avrebbero scambiato per una statua sepolcrale. Bisognava lasciarlo andare, bisognava rispettare la malinconia l’originalità dell’ospite. Al ritorno sfogato il malumore, diventava più loquace e spiritoso. Quando era “indemoniato dal diavolo delle chiacchiere” chi lo teneva più? Così il Cardella dipinge nella sua letteratura l’animo di Sannazzaro, che passò la sua vita più nell’allegria che nel dolore; però i pochi giorni di malinconia gli furon d’un peso e d’una insofferenza inconcepibile. Amò Caposele Iacopo e vi ritornò una seconda volta, ed una terza volta. Forse la malia del luogo e il canto tanto armonioso del Sele dovevano esercitare un fascino potente sul suo animo di poeta nato. E qui diè principio al poema che lo immortalò e lo rese tanto grato al Pontefice Leone X. Io credo che pochi caposelesi conoscono le glorie patrie, e pochi anche si danno premura di conoscerle. Ma il loro paese è pieno di poesia vera e di arte sentita. Questa poesia la sentì Iacopo per cui lasciò più di una volta Napoli con il suo incanto e venne a ispirarsi qui a Caposele. E la cosa è tanto attendibile. Il Santorelli ci dice che le scene campestri idilliche nel suo “De partu Virginis” riproducono i luoghi più suggestivi dell’Irpinia. E’ questo è tanto naturale per chi conosce questi luoghi. Già nel proemio dell’opera il poeta annunzia cose umili, ma di 70


(Dal Corriere dell’Irpinia 17 gennaio 1942, MARIO GIORDANO)

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incantevole bellezza. E questa bellezza incantevole sembra data appunto dalle scene mirabili che si susseguono con un tono di crescente meraviglioso. A chi ben conosce questi luoghi nel leggere quelle pagine profumate sembra trovarsi sul pianoro di S. Biagio o a sera presso il campanile della Sanità ove è tanta poesia e tanta cornice di vita campestre ma beata. Lontano da Caposele, Iacopo sentiva una nostalgia come chi la sente pel focolare lontano o per una persona cara. Lo pianse più volte. In una lettera scritta al principe Carlo fa sentire tutta la sua simpatia per quel castello e per le tante cose rimaste a Caposele “mi trovo solo benché in mezzo al fasto delle case patrizie. Penso al castello e mi sento triste…Addio con tutta l’anima, addio…”. Un addio che non era un addio. Infatti il Sannazzaro ritornava per l’ultima volta nel 1525 a Caposele e quasi presago di ciò volle godere lungamente del beato soggiorno. E stette due mesi sul fiume. Insieme a Federico si abbandonava a lunghi convegni per i notturni silenzi del Sele. I grandi antichi olmi del parco furono indulgenti alle dolci fantasie, ai dubbiosi desiri. Cantò alle piante, alle acque, al fiume, l’ultima rima e il concerto dell’arpa si diffuse per la valle felice che guardò il poeta che partì e per sempre in quel caldo agosto del 1525.

1879: Morte della duchessa Filomena de Mari nel castello di Caposele? Un componimento poetico di Nicola Santorelli intitolato “In morte di Filomena de Mari duchessa di Castellaneta”, contenuto nel libro dello stesso autore, “Il fiume 71


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Sele e i suoi dintorni”, ha indotto più di qualcuno a credere che la suddetta nobildonna morisse nel castello di Caposele, il giorno 11 agosto 1879. La notizia, riportata anche in qualche altra pubblicazione, ha stimolato la mia curiosità al punto da spingermi a ricercare in altri testi dei riscontri oggettivi per confermare o meno tale avvenimento. La prima curiosità è stata quella di capire chi fosse la duchessa Maria Filomena de Mari e come mai avesse delle proprietà a Caposele. Le ricerche mi hanno portato all’anno 1714 quando, probabilmente per vendita, il nobile Inigo Rota diventò feudatario di Caposele ed ottenne dal re il titolo di principe di tale terra. Il fatto che il feudo fosse poi continuamente venduto starebbe a significare che il castello non era più abitato in quanto i padroni preferivano ad esso gli agi ed il fasto della città di Napoli. Nel 1771 il feudo arrivò nelle mani della figlia di Inigo, Ippolita Rota, che lo portò in dote al marito Domenico di Ligny, Duca di Marzano3. Principe di Caposele, Domenico Ligny, fu protagonista di un grave episodio, riportato nella Cronaca del convento di Sant’Arcangelo Bajano (estratta dagli archivi di Napoli) che vale la pena descrivere brevemente perché ci permette di conoscere il personaggio. Egli era persona attaccabrighe, violenta, cattiva e di pochi scrupoli e per questo, ogni tanto, veniva rinchiuso nelle celle del carcere. Amante della suora Camilla Origlia, rinchiusa nel convento di Sant’Arcangelo Bajano, si vantava con tutti e spesso lo si sentiva dire che andava al convento per incontrare l’innamorata, benchè questa avesse pronunziato i voti. Avvenne così che proprio dopo uno dei suoi continui misfatti gli fosse imposto il carcere per alcuni mesi, e che Camilla, stanca della violenza dell’amante, ma soprattutto perché convinta che la tresca amorosa non poteva durare a lungo con una persona piena di debiti, concedesse i suoi favori a Pietro Antonio Mariconda, cugino di Domenico. Tutto filò liscio fino al giorno della scarcerazione del principe, quando Laura Sanfelice, confidente della suora, sicura che Domenico ben presto sarebbe

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Con la morte di Ippolita il 03.07.1799 il feudo passò al figlio Carlo di Ligny e successivamente al figlio di quest’ultimo Ranieri. Morto Ranieri, senza lasciare prole, la proprietà dei mulini, delle gualchiere e dei trappeti, siti nei pressi delle sorgenti del Sele, passò alle di lui sorelle Maria Domenica ed Olimpia. Quest’ ultima la lasciò al figlio Francesco (1828-1894) che, trasferitosi a Roma per seguire la corte in qualità di Gentiluomo di Camera con esercizio del re Francesco II delle due Sicilie, nel 1861 sposava donna Maria Filomena de Mari duchessa di Castellaneta. Donna Maria Filomena conosceva la famiglia Santorelli in quanto questa si prendeva cura degli interessi in loco della sua famiglia; da quello che è dato sapere, ella doveva essere una donna di grandi virtù umane, se a più riprese andava in soccorso dei poveri Caposelesi che abitavano nei tuguri attorno al castello e che a stento riuscivano ad andare avanti. Certo è che il Santorelli doveva avere un’alta considerazione di donna Filomena se nel suo libro dedicava una toccante lirica alla duchessa per la morte dovuta ad

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andato a trovare l’amante, e nell’intento di evitare atti di violenza, informò il principe della nuova situazione che si era creata tra Camilla e Pietro Antonio, pregandolo al tempo stesso di rivolgere il suo affetto ai suoi familiari. Perché l’antagonista era il cugino Domenico, ella pensò si sarebbe certamente convinto. Ma il caratteraccio del principe prese, come al solito, il sopravvento; ad alta voce e con rabbia egli giurò di vendicarsi. Quella notte stessa iniziò ad appostarsi intorno al convento e quando vide avvicinare Pietro Antonio, accompagnato da sette uomini armati, perse la ragione, spinto solo dalla rabbia e dalla gelosia assalì il cugino trafiggendolo con due colpi di pugnale. Seguì una tremenda colluttazione e il principe ne uscì con una grave ferita alla coscia. Per evitare lo scandalo tutti scapparono nel buio della notte portando via anche i feriti.

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un parto ed avvenuta l’11.08.1879. L’autore immagina segnata a lutto, mediante un drappo nero, l’entrata del castello già rivestita di erbacce e descrive lo stesso castello, di proprietà di donna Filomena, mal ridotto irrugginito e guasto dal tempo. Una conferma dell’abbandono del castello ci viene dal dizionario corografico dell’Italia di Amato Amati edito nel 1868, in cui si riporta che Caposele un tempo aveva un castello di cui si scorgono tuttora le rovine nella pendice… Questo chiaramente contrasta con l’ipotesi che la morte della duchessa fosse avvenuta nel castello di Caposele, ma tracce della proprietà dei Castellaneta (due mulini, due trappeti e due gualchiere in vicinanza delle sorgenti) vengono menzionate nel ricorso prodotto avverso la captazione delle sorgenti del Sele del 1887 da parte del duca di Castellaneta ed inviato alla prefettura di Avellino. Analogo ricorso fu, in effetti, presentato anche dal Principe di Caposele Luigi de Vera d’Aragona che vantava la proprietà di opifici in prossimità delle stesse sorgenti. Egli era diventato proprietario del manufatto per lascito del papà Giuseppe de Vera d’Aragona che, a sua volta, lo aveva ereditato dalla mamma Maria Domenica Ligny, figlia di Carlo, maritata con Luigi de Vera d’Aragona, Duca di Verzino4.

Oggi uno di questi opifici è individuabile nel mulino di proprietà della famiglia Russomanno, sito in prossimità del ponticello che attualmente unisce le due sponde del canale realizzato dopo la captazione delle acque, all’inizio del novecento, e nel quale scorre il fiume Sele allorquando si effettuano dei lavori in galleria. In esso si trova attualmente un grosso blocco di pietra locale su cui è inciso il nome del principe d’Aragona. 4

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NOTE DI APPROFONDIMENTO

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Da Inediti Valselesi di Giuseppe Chiusano, Poligrafica Irpina - Lioni.

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Al tempo di Mons. Campagna (1658) vi erano in Caposele le chiese di S. Nicola, S. Sebastiano, S. Antonio di Padova, Sant’Antonio Abate, S. Lucia, S. Rocco, S. Elia, S. Michele Arcangelo, Santa Maria degli Angeli, S. Giovanni, S. Maria della Consolazione, S. Donato, S. Maria delle Grazie. Erano

Diacono:

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Sacerdoti: Francesco D’Amico, Melchiorre Ruglio, Domenico Fungarolo, Vincenzo Parente, Giuseppe di Popolo, Camillo Guarnaccia, Francesco Ciampa, Francesco Figurella, Carlo Bozza, Giuseppe Peluso, Natale Bozza; Bonifacio Ceres.

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Subdiaconi: Francesco Gaeta, Guglielmo Grippo, Leonardo Mollica, Giacomo Lupo.

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Alla fine del ‘600, vivevano in Caposele le seguenti famiglie, parecchie delle quali o si sono successivamente trasferite altrove o sono estinte: Fungaroli, Cafullo, Di Masi, Sturchio, Bozio, Rosa, Melchionna, Rullo, De Vincentis, Guarnaccia, Santoro, Fonzo, Di Minico, De Leonardo, Zicola, Grillo, Colatrella, D’Amico, Gaieta, Ilaria, infantozzi, Cetrulo, Longo, Passolo, Suozzo, Basile, Fasulo, Freda, Scolavino, D’Elia, Nesta, Russomando, Pizza, Del Buono, Gobitosa, Lione, Pontanaro, Pallante, Castagno, Colella, Sena, Malanga, Nisivoccia, Peccatiello, Caruso, Casiero, Rosania, Sozio, Di Cesare, Scavamuzza, Zigna, De Luca, Cozzarelli, Merola, Milano, Della Fera, Linarduccio, Laoro, Paularcia, Marianello, Grasso, Corona, 77


Mazzariello, Curcio, Vitamore, Sabatino, Infante, Del Guercio, Cione, ecc. Queste le vie cittadine: Santa Elia, Sicignano, Duomo, Castello, San Biaso, S. Maria, Piazzale.

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Queste le contrade campestri dell’epoca: Piano Grande, Peschiera, Vado Del Guercio, Chianelle, Fasso, Perreta, Serra dell’Abate, Serra Castello, Serro del Lupo, Serra del Pasano, Sconfitta, Avigliano, Pantanella, Costa, Quercia di Cavante, Chiusa, Vallone della Cupa, Acquaviva, Materdomini, Sopra il Convento, Croce della Vendetta, Tratturo Regio, Demaniali, Vallone di Sotto, Vallone del Minuto, Tasso, Piani, Cannavale, Aria delle Rose, Vado del Torrione, S. Maria alle Fornaci, Fontana dell’Olmo, Fontana di Mappetiello, Serra di S. Maria, Polcito, Beni di S’Anna, Piano di Limbia, Santa Catarina, oltre a quelle più antiche di:

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1. La Terra di Boiaro: anticamente indicata Pietra Boiara, verso Teora, con Casale e, sopra una pietra altissima e spaziosa, un castello (1200) oggi distrutto e una Chiesa1 e Remitaggio sotto il tito-

Nella Chiesa, decentemente restaurata dal gentiluomo di Volturara, fra Francesco Masucci che ivi fu eremita, “vi era una bellissima cupola edificata dall’ill/mo Dr. Fisico Donato Antonio Parente per cagione che ivi sono seppellite 2500 anime, che morirono in tempo di peste in detta Terra nell’anno 1656, restando solo anime viventi 500, e questa è sotto il titolo di anime del Purgatorio, con dotarla di tutti i suoi beni ereditari, com’ ha fatto Geromina sua moglie, compreso di messe”. Donato Antonio Parente, celebre medico, “che illustra le teorie di Galeno ancor poeta e istoriografo e sì versato nelle scienze da esser stimato enciclopedico”.

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lo di S. Maria di Boiaro, oppure ad Nives, con la cappella di S. Vito, assai miracoloso. 2. La Terra di Buoninventre prima Malinventre: “così nominata forse perché li cittadini havevano ivi poco da magnare…” Pochi edifici si conoscono dell’antica Terra; confina questo fondo con quello di Castelnuovo. 3. La Terra della Torricella: posta sopra un “montello dentro la defesa attaccata al feudo di Boninventre e vi parono la vestigia antica d’una torre, fontana ed altro; questa hoggidì sta sotto il dominio del Barone di Castelnuovo e notata nel Conservatorio di Conza del 1200, e vogliono che li cittadini di questa Terra essendo distrutta andassero ad habitare a S. Menna e a Teora”.

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1748-1900: nomi e cognomi nei registri parrocchiali e in quello dell’anagrafe civile

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Con la conclusione del Concilio di Trento del 1563 entrò in vigore l’obbligo di tenere i registri dei battezzati e dei morti in ogni parrocchia. Poiché tale direttiva fu attuata in tutte le parrocchie dopo un periodo di incertezza, durato pressoché trenta/quaranta anni, solo le parrocchie più attente posseggono registri che partono dagli anni immediatamente successivi al concilio. E’ certo, comunque, che a partire dai primi anni del 1600 tutte le parrocchie tenevano e aggiornavano i registri. Quelli presenti oggi nella parrocchia di Caposele partono dal 1748, con un buco che va dal 1816 al 1824. Viene spontaneo chiedersi a cosa sia dovuta questa situazione, dove siano i registri mancanti o in quale circostanza siano andati perduti. Chiaramente non ci sono notizie certe e non si possono fare che delle supposizioni, tenendo presenti le vicende più traumatiche che hanno interessato il paese. L’ipotesi più plausibile è quella che essi siano andati perduti in seguito ai sismi del 1694 e del 1853, visto che le cronache di quegli anni riportano anche il crollo di alcune chiese. E’ difficile pensare, altrimenti, che la poca diligenza di qualche parroco abbia potuto togliere ai Caposelesi una delle poche fonti scritte del loro passato. Poiché solo nel 1809 venne istituita l’anagrafe civile, i dati di nascita e di morte a partire dal 1748 sono stati da me trascritti su supporto informatico allo scopo di costruire una banca dati e permettere ad ogni Capose80


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lese di rintracciare le linee della propria discendenza. Il lavoro è stato lungo, ma alla fine il risultato ha ben ripagato gli sforzi profusi. Con un po’ di perizia nell’uso del programma ognuno potrà così costruire il proprio albero genealogico in pochi secondi o ricavare dati statistici sull’andamento demografico della popolazione caposelese. Si è provveduto anche ad inserire nello stesso programma le fotografie dei Caposelesi ricavate da quelle presenti nel locale cimitero e ci si augura che tutti possano fornire nel tempo le fotografie dei propri cari nati prima del 1900, per lasciare anche una banca delle foto quanto più completa possibile. Dalle annotazioni contenute nei registri si evince soprattutto il fatto che, prima del 1860, il parroco usava annotare i nomi tenendo conto della flessione dialettale, per esempio troviamo Rafaele per Raffaele, Caitano per Gaetano, Tomaso per Tommaso, Catarina per Caterina, etc. E’ solo dopo il 1871 che il parroco Pizza, con l’intento di modernizzare i nomi, iniziò a riportare nella trascrizione piccole modifiche così Carmina diventò Carmela, Antonia diventò Antonietta - Antonella, Giuseppa divenne Giuseppina, Jesummino cambiò in Gelsomino, Margarita in Margherita ed alcuni cognomi vennero riportati sempre allo stesso modo così che Rossomanno, Russomando, Rossomando cominciarono ad essere trascritti sempre come Russomanno; Malanca sempre come Malanga etc. Quasi sempre, dalla meticolosità del parroco, dipendono le notizie riportate nella trascrizione, la loro completezza e l’assenza di errori di trascrizione. I Caposelesi che hanno una certa età sanno che l’onomastico delle persone che portano il nome Gelsomino/a viene festeg81


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giato il giorno del Corpus Domini: ciò trova spiegazioni nel fatto che, le prime volte che si trova scritto, tale nome viene riportato come JesusMinus (piccolo Gesù), e che ancora oggi in dialetto il nome viene pronunciato Gesumminu. E’ senz’altro da scartare l’ipotesi che tale nome derivi, come in Francia, dove è molto frequente, dalla pianta del gelsomino. Nello scrivere i tanti cognomi ritrovati nei registri consultati ci si accorge della genesi di quelli che iniziano col di o col de. In passato si usava individuare una persona facendo seguire al nome il nome o cognome paterno. Così troviamo e possiamo spiegare cognomi come D’Elia, Di Nicola, De Stefano, D’Auria, Di Lauro, Di Vincenzo, Di/De Luca etc. Alcuni cognomi sono cambiati nel tempo, probabilmente, per errore del trascrittore o perché mal riferiti dalla persona che denunciava la nascita; tra questi troviamo: Linarduccio-Linarducci, Petruccio-Petrucci, Scaramorza-Scamorza, Iannuzzo-Iannuzzi etc. Qui si ritiene riportare i nomi e i cognomi dei Caposelesi con l’indicazione del numero delle loro presenze nei registri di nascita consultati. Cognome

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ACCETTA AIELLO ALBANESE ALFIERI ALIFANO ALTOPIANO AMADIO AMARO AMASSAI AMORASINO

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Numero 15 2 19 26 68 1 1 1 1 1

Cognome ANZALONE ARCELLA ARMEI AURIA AVVENTURATA BARATTINI BARBAROSSA BARBONE BARRA BASILE

Numero 1 1 1 1 1 1 1 10 23 74


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1 1 1 1 2 17 322 46 2 10 7 1 1 1 3 2 1 15 165 521 1 1 170 1 13 63 23 2 1 1 4 395 1 4 1 2 2 7 1 1 1 1 1

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CANCELLIERI CANNELLA CAPODANNO CAPONE CAPOZZA CAPPETTA CAPRIO CAPUTO CARCAGNO CARCHIO CARDILLO CARDUCCI CARILLI CARLETO CARLUCCI CARLUCCIO CARMELIA CAROLA CARRIONE CARUSO CARVADO CASA CASALE CASARULO CASCIANO CASIERI CASIERO CASILLO CASOLA CASONE CASSESE CASTAGNO CASTANO CASTELFRANCO CASTELLINA CASTELLUZZA CASULLO CATALDI CATALDO CATRIONE CAULIO CECCATIELLO CELSO

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7 2 1 2 2 1 2 1 52 4 1 1 1 2 3 6 2 5 2 2 1 2 1 95 11 1 56 4 2 1 1 4 7 2 10 15 4 1 3 1 1 92 1

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BATTISTA BELLEZZA BELLISARIO BELLO BELLOSGUARDO BELMONTE BELTEMPO BELVEDERE BENINCASA BEVILACQUA BIANCO BIFANIA BISCIONE BLASUCCIO BOFFA BOLINO BONOCORE BORBONE BORIO BORRECA BOTTARI BOTTEGLIERI BOTTIGLIERO BOTTIGLIERI BOTTIGLIERO BOVINO BOZIO BRACCIA BRANIA BRUNELLI BRUNETTI BRUNO BUONOCORE CACCIAFUMO CAFULLI CAFULLO CAIATI CAIATO CALABRESE CALABRESI CALANTRIELLO CALCAGNO CAMBIONE

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5 1 1 4 1 6 84 119 45 2 1 9 1 1 178 1 193 1 1 3 13 51 1 16 3 1 2 1 1 113 1 3 1 1 3 15 9 1 16 1 34 1 1

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CORRADO CORRIACE CORUSO CORVINO CORVO COSTABILE COZZA COZZARELLA COZZARELLI COZZI CRAVALLESCO CRAVALLESE CRESCENZIO CRISTIANO CUOZZO CUPONE CURCIO D’ELIA DADDEO D’ALLIEGRO D’AMATO D’AMELIO DAMIANI DAMIANO D’AMIANO D’AMICO D’ANDREA D’ANDRETTA D’ARGENIO D’AURIA D’AVENA DE CIONE DE FEO DE LARA DE LUCA DE MASI DE MITA DE NASI DE NICOLA DENISI DE ROGATIS DE ROSA DE SANCTIS

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1 2 1 56 571 2 20 1 1 1 7 1 610 8 1 295 2 6 3 2 28 26 23 1 33 1 135 1 266 20 1 1 47 1 1 52 2 5 3 1 2 1 214

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CENTANNI CENTOLELLA CENTULELLA CERA CERES CERRATO CERVONE CESARE CESARO CESTANO CESTARO CETRULLO CETRULO CETTA CHIAMATA CHIARAVALLO CHIOLA CHIUSANO CIARCA CIBELLI CIBELLIS CICCONE CIENTANNI CIMAROSA CIONE CIRIACO CLEFFI COLAGIACOMO COLATRELLA COLELLA COMPETIELLO COMPITIELLO CONFORTI CONNA CONTINO CONTURSI COPPOLA CORBO CORDASCO CORDINO CORLETO CORNETTA CORONA


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1 1 4 14 236 1 1 1 62 41 6 33 1 1 1 1 1 4 1

21 1 1 1 1 4 2 46 3 97 1 1 1 7 2 25 33 17 14 5 277 1 1 20 1 18 6 1 2 1 1 1 4 1 15 11 1 88 52 1 122 70 13

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DELLO BUONO DELL’OSSO DELLOSSO DI AMELIO DI BIASI DI BIELLO DI CAMILLO DI CESARE DI CICCO DI CIONE DI DOMENICO DI ELIA DI GREGORIO DI GUGLIELMO DI LAURO DI LUCA DI MAIO DI MAJO DI MARCO DI MARTINO DI MASI DI MATTIA DI MITA DI MURO DI NATALE DI NICOLA DI NISI DI NOLA DI PAOLO DI ROGIERO DI RUGGIERO DI RUGIERO DI SABATO DI SABBATO DI SANTO DI SAPIA DI SAPIO DI STEFANO DI SUNNO DI VECE DI VICIENZO DI VINCENZO DI VITA

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1 2 2 1 1 34 1 1 2 185 1 1 24 19 5 1 1 1 127 5 1 1 1

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DE SANTI DE SANTIS DE SANTO DE STEFANO DE SUNNO DE VITA DE VITO DEGLI ANGELI DEL BOSCO DEL BUONO DEL CARDILLO DEL CASALE DEL CORBO DEL CORVO DEL DUCA DEL FUSO DEL GIUDICE DEL GUERCE DEL GUERCIO DEL MALANDRINO DEL MALANTRINO DEL ONDA DEL PARADISO DEL PONTE GUARDIOLA DEL SERRETIELLO DEL TRE DEL TUFO DEL VECCHIO D’ELIA DELLA BAMBINA DELLA CASTELLUZZA DELLA CURVA DELLA FERA DELLA MANNA DELLA NOTTE DELLA REZZA DELLA SORTE DELLA VALLE DELLA VECCHIA DELLA VOLPE DELLE ONDE DELLE ROSE DELLI LEONI

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4 439 1 2 18 31 1 1 28 1 52 2 1 2 1 1 1 18 1 1 3 26 66 6 1 1 1 1 2 1 1 123 1 10 1 1 3 1 2 5 342 1 1

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FRANNICOLA FREDA FRITTOLA FUCCI FUNGAROLI FUSCO GABBAMONDI GALANTE GALASSO GALLUCCIO GAMMONE GAMONE GANNIELLO GARGANO GARIBALDI GARRIONE GASPARRO GATTA GELO GENTILDONNA GENTILELLA GERVASI GERVASIO GESSIMONDO GESTARO GIALANELLA GIANNATTASIO GIANNINI GIANNOTTI GIARDINELLA GIARDINETTO GIGANTIELLO GIGLIO GIOINO GIOLITTI GIORGIO GISSIMONDI GIULIANO GIUSEPPE GIZZO GONNELLA GORRASO GRANATO

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1 1 1 5 1 1 2 2 1 1 1 147 1 1 5 1 1 6 188 24 1 1 1 15 100 21 1 3 1 11 1 1 18 1 5 3 1 2 1 15 13 1 1

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DI VOCE DIALBAIO DIOSA DONATIELLO D’ONOFRIO DORRE DUCA D’URSO EBRIANTE ELIA ERCOLANO ESPOSITO/A EZZOLINA FABIO FABRICATORE FAFTA FALCO FAMIGLIETTI FARINA FASULO FATTOBELLO FERDINANDO FERRANUOVA FERRARIELLO FERRIERI FERRIERO FICCIO FICETOLA FIGURELLI FILIPPONE FIORATA FIORAVANTI FIORE FIORENTINA FIORENTINO FOCETOLA FOGLIAVERDE FONGAROLI FONTANA FORCELLA FORLENZA FORMOSA FRANGHERA


AR

C H

IV

R

47 1 1 1 62 80 1 74 1 1 30 2 22 5 6 1 1 18 4 22 247 51 87 1 1 1 140 433 26 1 1 1 1 2 41 2 1 1 49 2 2 1 7

TE

G EN

LAURO LEMMO LIBARDI LIBERTUCCIO LINARDUCCI LINARDUCCIO LINARDUZZI LIONE LISIA LO BELLO LO BUONO LOISI LOMBARDI LOMBARDO LONARDUCCIO LUCANO LUCENTE LUISI LUNGARI LUNGARO LUONGO LUPO MACCHIELLO MAGGIORE MAGGIORINO MAJO MALANCA MALANGA MANCINO MANETTI MANNA MANNELLA MANZO MARANIELLO MARENIELLO MARIANIELLO MARIA MARINARI MARINIELLO MARINO MARTINO MARZO MASI

SO

8 156 1 102 1 10 25 2 1 1 43 8 1 1 7 1 77 252 3 1 459 1 9 2 1 14 1 2 1 1 1 2 1 5 26 63 61 86 1 14 25 4 1

LA

IO

GRANDE GRASSO GRAZIOSOTTO GRILLO GUADAGNA GUADAGNO GUARINO GUBITOSA GUERRIERI GUGLIELMO HILARIA IACANGELO IANDOSCO IANNELLA IANNELLO IANNUNZIO IANNUZZI IANNUZZO INTOSCA IGNOTO ILARIA IMBRIANO INFANDOZZI INFANTE INFANTI INFANTOZZI INFANTOZZO INTINGOLI INTINGOLO IOCA IORIO IULIANO IUSTO IZZO JANNUZZO LA FERA LA MANNA LA REZZA LAMBARIELLO LAMBIASI LAORO LARDIERI LAURENZI

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R

1 1 13 1 9 2 1 3 1 220 2 375 1 3 1 1 1 1 1 1 1 1 7 275 1 1 1 3 1 36 64 2 1 3 2 1 1 6 1 3 4 56 256

TE

G EN

MUCCALDI MUCCIDELLA MUCCIOLELLA MUSTELLA NAPOLIELLO NAPPA NAPPI NARIA NATALINO NESTA NIGRO NISIVOCCIA NOTARI NOTARO NOVIGIANO NOVIZIANO OLANDESE OLIVETA ORLANNO OTTAVIANO PADRONE PAGANNANZI PAGNOTTA PALLANTE PALUMBO PALUMBO PANGO PANICO PANZERRA PAOLERCE PAOLERCIA PAOLERCIE PAOLERCIO PAPA PARADISO PARISI PARLANTE PASSOLO PATINNI PATRONE PAULERCE PAULERCIA PECCATIELLO

SO

45 73 1 1 1 3 14 4 1 4 1 10 2 1 1 654 1 7 1 21 1 3 1 1 1 3 2 1 3 1 1 1 31 1 1 79 1 2 4 1 73 2 1

LA

IO

MATTIA MAZZARIELLO MAZZARINO MAZZELLA MAZZEO MAZZIOTTA MAZZIOTTO MEGARO MELA MELCHIONNA MELCHIORRE MELE MELOGRANO MEOLI MERAVIGLIA MEROLA MIELE MIGNOLA MIGNONE MILANO MILORO MINUTO MIRAFIORI MIRANDOLA MISERELLO MOCCALDI MOCCALDO MOLFEO MOLLICA MONETTI MONTANARA MONTEBELLO MONTEFORTE MONTELLESI MONTESERRA MONTEVERDE MORCALDI MORCALDO MORETTI MORETTO MORZA MOSCARIELLO MOSCATIELLO


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1 1 5 1 1 8 1 11 1 1 6 2 1 1 1 1 1 2 17 1 4 6 1 1 8 133 10 337 1 1 2 1 329 20 1 14 1 1 2 1 1 504 1

TE

G EN

PROJETTA PROSPERO PRUDENTE PULCARI QUARANTA RAIMO RASIMO REA REGA RENDONA RENNA RICCARDI RICCIARDELLI RICCIARDI RICCIO RIDENTE RIZZI RIZZO RIZZOLO ROBERDIELLO ROBERTAZZI ROBERTIELLO ROSALINDA ROGATA ROMANO ROSA ROSAMILIA ROSANIA ROSELLI ROSETO ROSIELLO ROSSIELLO ROSSOMANNO ROSSOMANDO RUBERTAZZO RUBINO RUDENTE RUFO RUGGIERO RUGIERI RUGIERO RUGLIO RULLO

SO

9 1 1 41 1 1 12 1 17 18 1 1 35 138 1 1 1 1 3 1 14 20 1 163 1 1 1 1 8 61 1 1 2 1 1 1 1 3 1 1 1 1 76

LA

IO

PECCE PECERILLO PELLECCHIA PELLEGRINO PENCO PENTOLELLA PEPE PERGOLESI PETOIA PETOJA PETRONE PETROSINO PETRUCCIO PETRUCCI PEZURRO PINTAROSA PICARDI PIETRAQUARESIMA PIEZZIRUSSO PISERCHIA PITOIA PITOJA PIZUORNI PIZZA PIZZIRUSSO POGGIO POLCARA POLITELLA PONTARA PONTARO PONTERO PORCARI PORCARO PORRECA POSCARIELLO POTOLICCHIO PRIETTO PRIMAVERA PRI’OIETTO PRIVATO PROBISANO PROIETTA PROIETTO

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1 2 1 1 1 188 52 2 5 1 392 1 1 292 1 5 1 1 1 2 1 3 7 45 827 1 4 2 1 5 1 2 1 1 89 42 5 1 2 3 2 1 12

TE

G EN

SIERCHIO SIGISMONDI SILVANO SILVESTRE SILVESTRI SISTA SISTO SMARRITA SONATORE SORRIDENTE SOZIO SPANTATO SPARAVIGNA SPATOLA SPIGUOIO SPIOTTA SPIOTTI SPIRATO SPURIO STELLA STRANIERI STRANIERO STROLLO STROZZI STURCHIO SUEVA SUNNO TAJANI TARTARELLA TELESE TELESIO TENCO TEOROSINA TITTA TOBIA TOBIO TORSIELLO TORSILLO TORTORA TORTORELLA TORZA TOSTO TOZZA

SO

85 2 681 87 29 1 1 1 4 187 1 2 2 1 1 25 1 1 85 6 1 1 81 44 86 1 2 1 245 1 6 1 3 243 2 1 6 12 1 1 10 161 47

LA

IO

RUSSO RUSSOMANDO RUSSOMANNO SABATINO SABBATINO SAGLIOCCA SALERNO SALGANO SALVADORIELLO SALVATORIELLO SALVIATI SANTAMARIA SANTO SANTOLO SANTOMARIA SANTORELLI SAPIA SAPIO SCAMORZA SCANSERRA SCANSERRE SCANZA SCANZERRA SCANZERRE SCARAMORZA SCHERZOSA SCINNO SCIPIONE SCOLAVINO SCOSTATI SCUTESE SEBASTIANO SECIGNANO SENA SENATORE SENCO SENISI SEPE SERRA SERRETIELLO SIBILIA SICA SICIGNANO


AR

C H

ABELE ACHILLE ADAMASIA ADAMO ADDONE ADELAIDE ADELIA ADELINA ADIOMIRA ADOLFO ADONE ADRIANA AGATA AGNESA/E

SO

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3 1 1 3 1 2 1 5 1 3 3 1 22 26

Cognome AGOSTINO AGRIPPINO ALBERTO ALBINA ALBINO ALDINA ALESSANDRA ALESSANDRO ALESSIO ALFONSA/ ALFONSINA/ ALFONZA/ ALFONZINA ALFONSO/A

41 53 8 1 1 55 1 2 1 1 7 1 6 1 1 13 18 3 16 96 1 1 4 1 33

TE

G EN

VISCIDO VITALE VITAMORE VITELLINO VITERBO VITIELLO VOCE VOLTURA ZACCARDA ZACCARIA ZAMPAGLIONE ZAMPAGLIONI ZAMPANO ZANARDI ZANARDO ZAPPALE ZARRA ZECCA ZICOLA ZIGNA ZINDI ZOLLA ZOPPI ZOTTOLA ZUCCARO

LA Numero

IV

Cognome

4 20 17 53 2 1 5 1 1 1 1 3 31 3 1 1 24 1 32 2 1 3 1 1 1

IO

TOZZI TREMANTE TRILLO TUBIA TULINO TULIPANO TUOSTO TURI VECE VENDEMMIATO VENERE VENEZIANO VENTRE VENTURI VERDE VERDOLINA VERONESE VERONESI VETROMILE VETROMILLE VICINO VIGNOLA VILLECCO VIOLA VISCIDI

Numero 5 1 1 1 1 1 19 30 38

142

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IO

IV

C H AR 92

R

694 3

330 3 5 1 479 115 79 1 2 3 2 392 1 1 7 4 958 85

24 8 12 3 1 1 1 1 1 3 2 1 6 2 1 1 1 1 9 1 93 2 14 1 3 1 5 9 7 1 1 6 2 4 5 2 1 15 6 1 10 5 3

TE

G EN

ARCANGELA ARCANGELO ARCANGIOLA ARCANGIOLO ARCHIMEDE ARGENTINA ARMANDO ARMINDA ARMINDO ARSENIO ARTEMISIA ARTURO ASSUNTA ATTILIO AURELIO AUSONIA BALDOINO BALDUINO BARBARA BARTOLO BARTOLOMEO BATTISTA BEATRICE BELLISARIO BENEAMINO BENEDETTA BENEDETTO BENIAMINO BERARDINO BERNARDO BERNIERO BIAGGIO BIAGI BIAGIO BIASI BIRGITTA BLASIO BONAVENTURA BONIFACIO BRIGGIDA BRIGIDA BRIGITTA CAETANA

SO

369 4 2 1 1 1 3 105 1 1 1 1 1 5 5 10 1

LA

ALFONSINO/ ALFONZO ALFREDO ALMELINDA ALMINIO ALVINA AMADIO AMALIA AMATO AMBROGIO AMEDEO AMELIA AMILCARE AMINA AMODIO ANASTASIA ANDREA ANELLO ANGELA/ ANGELINA/ ANGIOLA/ ANGIOLINA ANGELICA ANGELO/ ANGIOLINO/ ANGIOLO ANGIOLANTONIO ANIELLO ANITA ANNA ANNAMARIA ANNAROSA ANNIBALE ANNITTA ANNUNZIATA ANSELMO ANTONIA ANTONETTA ANTONIETTA ANTONINA ANTONINO ANTONIO APOLLONIA


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1 1 5 7 273 324 1 6 2 1 1 2 1

TE

G EN

CLEMENTINA CLEOFA CLORINDA CLORINTA COLOMBA CONCETTA CONSACRA CONSOLATA CONSIGLIA COSIMO COSTANTINA COSTANTINO COSTANZA CRESCENZA/ CRESCENZIA CRESCENZIO CRESTINA/ CRISTINA CRISTINO DANIELE DANTE DAVIDE DECIO DESIDERATA DIADEMA DILETTA DINFA DIOMEDA DIOMIRA DIONISIA DOMENICA DOMENICANTONIO DOMENICO DONATA DONATANGELO/ DONATANGIOLO DONATANTONIO DONATELLA DONATO DORIO DOROTEA DORODEA EDOARDO

SO

4 6 17 245 64 3 5 1 155 1 124 3 4 13 1 188 158 3 5 21 1 5 712 1 192 3 79 16 30 15 1 3 87 1 27 1 1 8 1 1 1 4 3

LA

IO

CAETANO CAJETANA CAJETANO CAMILLA CAMILLO CANDIDA CANIO CARLANTONIO CARLO CARLOTTA CARMELA CARMELINDA CARMELO CARMENA CARMENO CARMINA CARMINE CARMINELLA CARMINO CAROLINA CASOMIRRO CASSANDRA CATARINA CATELLO CATERINA CATTARINA CATTERINA CECILIA CELESTA CELESTE CELESTINA CELESTINO CESARE CESARINA CHIARA CHIARAMARIA CICILIA CIRIACO CIRILLO CIRO CLARISIA CLELIA CLEMENTE

5 6 65 1 3 1 1 1 5 3 1 1 1 3 3 8 2 119 181 8 12 8 438 1 14 7 1

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1 1 5 2 6 1 49 4 1 6 2 12

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3 1 46 1 7 4 1 2 1 2 24 1 8 3 2 3 1 1 11 1 1 2 2 1 1 1 1 2 2 8 1 1

FABRIZIO FEBO FEDELE FEDERICA FEDERICO FELEPPA FELICE FELICIA FELICIANO FELIPPO FENIZIA FERDINANDO FILIMENA/ FILOMENA FILIPPA FILLIPPANTONIO FILIPPO FIORAVANTI FIORAVANTE FIORE FIORENTINA FIORENZA FIORITA FLORINDA/ FLORINTA FORTUNATA FORTUNATO FRANCESCA FRANCESCANTONIO FRANCESCO FRANCO GABRIELA GABRIELE GAETANA GAETANELLA GAETANO/ GAIETANO/ GAJETANO GELSOMINA/ GELSOMMINA/ GELSUMMINA GELSOMINO GELTRUDA

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1 3 3 1 2 1 16 42 15 1

IO

EDUARDO ELENA ELEONORA ELETTRA ELIA ELIODORO ELISA ELISABETTA ELVIRA EMANUELA EMANUELE/ EMMANUELLE EMERENZIANA EMIDDIO/EMIDIO EMIDIA EMILIA EMILIO EMIRA EMMA ENRICHETTA ENRICO ERBERTO ERCOLE ERMELINDA ERMENEGILDA ERMINIA ERMINIO ERNESTA ERNESTINA ERNESTO ERPLIA ERRICA ERRICHETTA ERSILIA ESPOSITO ESTER EUFEMIA EUFRAZIA EUGENIA EUGENIO EVANGELISTA EVAZIO EVELINA

205 1 2 105 1 1 6 2 1 1 3 11 10 87 16 611 6 3 19 115 5 286 45 44 1


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2 1 1 8 1 2 1 25

8 1 1 5 2 1 7 1 208 2 302 3 15 8 1

6 4 3 1 109 3 1 5 921

TE

G EN

SO

129 5 1 2 33 248 4 1 2 1 1 26 10 1 1

GIUDITTA GIULIA GIULIETTA GIULIO GIUSEPPA GIUSEPPAMATO GIUSEPPANGIOLO GIUSEPPANTONIO GIUSEPPE GIUSEPPINA/ GIOSEPPINA GIUSTINA GIUSTINO GLIODONO GOFFREDO GRAZIA GRAZIANTONIO GRAZIELLA GREGORIO GUGLIELMO GUIDO IDA IESUMMINA IESUMMINUS IMMACOLATA IMPERATRICE INCORONATO INCORONATA INNOCENZIO IPPOLITA IPPOLITO IRENA IRENE ISABELLA ISAIA ISIDORO LAMBERTI LAORA/ LAURA LAURO LEONARDO LEONE LEONIDA

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4 5

LA

GEMMA GENEROSO GENNAJO/ GENNARO GENOVEFFA GENUINA GERARDA GERARDINA GERARDO GEREMIA GERMANIO GERMANO GEROLIMA GEROLIMO GERONIMA GERONIMO GESOLMINO GESOMINA GESSUMINA/ GESUMMINA GESUALDA GESUELE GESUMMINO GIABELLA GIACCHINO GIACINTA GIACOMO GIAMBATTISTA/ GIANBATTISTA GIANDONATO GIOACCHINO GIOSA GIOSAFATTA GIOSUE’ GIOVANBATTISTA GIOVANGIACOMO GIOVANNA GIOVANATONIO GIOVANNI GIOVANNINA GIROLAMA GIROLAMO GIROLOMA

69 3 3 1 1 342 1 5 1 59 1 4 7 5 2 3 6 5 1 3 3 9 16 35 3 4 1 56 1 39 1 2

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4 1 1 2 8 16 1912 6 1 25 267 235 1 3 3 10

4 5 5 1 1 1 65 14 3 25 5 1 234 1 1 1 3 2 1 5 1 1 1 455 9 5 4 1 1 3 13 1 1 6 1 17 1 1 15 3 5 1 1

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G EN

TE

MARIO MARSIA MARTA MARTINO MARZIA MATILDO MATTEO MATTIA MICHELA MICHELANGELO MICHELANGIOLO MICHELANTONIO MICHELE MICHELINA MODESTIA MODESTINA MODESTINO MOSE’ NAPOLEONE NATALE NESTORE NEVICELLA NICCOLO’ NICOLA NICOLETTA NICOLINA NICOLO’ NOCIRIO NUNTIO NUNZIA NUNZIANA NUNZIANO NUNZIATA NUNZIO OLGA OLIMPIA OLINDA OLINDO ONOFRIO ONORIO ORAZIO ORESTE ORLANDO

SO

2 1 1 3 2 6 7 1 6 1 4 5 26 31 1308 22 15 347 3 4 155 3 1 2 9

IO

LEONILDA LEONORA LEOPOLDO LETIZIA LIBERATO LOBORIA LIBORIO LIDIA LIONARDO LIONE LISABETTA LIVIA LONARDO LORENZA LORENZO LORETA LUCA LUCIA LUCIO LUCREZIA LUIGGI/LUIGI LUIGIA LUIGIMARIA LUIGINA LUISA MADALENA/ MADDALENA MAFALDA MARCANTONIO MARCELLO MARCO MARGARITA MARIA MARIAGIUSEPPA MARIALUIGIA MARIANGELA/ MARIANGIOLA MARIANNA MARIANTONIA MARIANTONIO MARIAROSA MARIETTA MARINO


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27

185 387 1 1 1 3 1 1 2 399 1 1 325 1

1 1 5 3 107 24 7 5 1 1

TE

G EN

ROSALIA ROSALINA ROSAMARIA ROSANTONIA ROSARIA ROSINA ROSOLINA RUGGIERO SABATINA SABATINO SABATO/ SABBATO SABINA SABINO SALERIA SALOMONE SALVATORE/ SALVADORE SANITA’ SANTA SANTO SAURO SAVERIA SAVERIO SAVINA SAVINO SEBASTIANO SERAFINA SERAFINO SEVERINO SILVIA SILVIO SIMONE SOLERZIA SPERANZA STANISLAO STEFANIA STEFANO SUEVA SUSANNA TEODOLINDA TEODORO TERESA

SO

20 1 1 1 5 1 19 3 459 56 1 1 4 1 1 6 1 4 1 219 1 3 4

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IO

ORSOLA OTTAVIANO OVIDIO PANTALEONE PAOLINA PAOLINO PAOLO PASQUA PASQUALE PASQUALINA PASQUALINO PASSOLO PATRIZIA PAULINA PAULO PETROMILLA PIA PIERO PIETRANTONIO PIETRO POLIDORO PORZIA PRISCO RACHELA/ RACHELE RAFFAELA/ RAFAELA/ RAFFAELINA/ RAFFAELLA RAFFAELE/ RAFAELE RAFFAELLO RAIMONDO REGINA RESOLINA RICHETTA RITA ROBERTO ROCCO RODOLFO ROMOALDO ROSA ROSALBA

5 3 6 1 2

444 15 25 4 1 2 6 1 1 2 209 7 1 4 3 1 1 1 10 1 8 2 1 1 6 630

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49 4 8 1 2 1 1 1 1 1 21 1 1 26

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4 1 8

545 6 1 73 6 315 70 3 3

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TERESIANA TERESINA TOBIA TOMASO/ TOMMASO/ TOMASI TOMMASA TUBIA UGO URSOLA URSULA UTILDA VALENTINO VATERINA VENCESLAO VENERANDA VENEZIA VICESLAO VINCENZA VINCENZO/ VINCENZINO VIRGINIA VIRGINIO VITALE VITANTONIO VITO VITTORIA VITTORIO ZACCARIA


Cenni storici sulla prodigiosa immagine di Maria SS. della Sanità

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Caposele, il paese decantato dal poeta Dione Afranio è terra privilegiata e benedetta perché gode dell’alta protezione di Maria SS. della Sanità e di San Gerardo Maiella.

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Il culto alla Madonna della Sanità presso le sorgenti del Sele non va oltre l’anno 1710. Miseri pastori, abitanti in poverissime capanne, con fede viva veneravano la celeste Madre di Dio nel misterioso titolo di S. Maria della Sanità. La tradizione popolare ci dice che in una nicchietta sulla parete esterna di una di quelle antiche catapecchie un certo frate Paolo, che si intendeva di pittura, avesse dipinto a fresco l’immagine della Madonna quasi ad invitare il passeggero a fermarsi e a pregare perché lo soccorresse e ristorasse negli affanni quotidiani. Il dipinto raffigurava la Vergine su un gruppo di nubi avvolta da un largo manto ceruleo che dal capo le scendeva all’intorno e si stendeva sulle spalle del Bambino, abbracciato dalla madre con la mano sinistra. Quel pezzo di intonaco avrebbe fatto parte integrante di un antico tempio pagano dedicato a Giunone Argiva, dea della fertilità, che sorgeva là dove oggi è rimasto solo il campanile di una precedente chiesa intitolata a S. Maria della Sanità. Il frate avrebbe in seguito provveduto a costruire un piccolo riparo al dipinto per dare degna lode alla Madonna e, a distanza di qualche anno, i semplici silerini, mattone dopo mattone, avrebbero eretto una graziosa 99


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cappella diventata poi meta di numerosi fedeli provenienti dai paeselli della valle del Sele, dall’Irpinia e da regioni lontane per domandare grazie alla Vergine e per ringraziarla di quelle ricevute. Tutti quelli che erano fortunati di visitare la cara Madre, tutti, come i discepoli del Battista, all’invocazione del suo aiuto sentivano scorrere per le membra insolito vigore e ripetevano con entusiasmo: “andate, correte lì dove sorge limpido e cristallino il Sele, là dove regna Maria della Sanità; i ciechi veggono, gli zoppi camminano, i sordi riacquistano l’udito, gli alienati, gli ossessi tornano in senno”. Tanti lasciavano tavole votive appese alle mura laterali della cappella, tanti appendevano giare, tabelle, modelli in cera di bambini, di occhi, di braccia, di gambe, di teste, offerti alla Vergine, secondo le grazie ricevute. Proprio presso la chiesetta si recò la gente e pregò perché con la sua potenza e protezione Maria della Sanità facesse dileguare la feroce pestilenza che nel giugno del 1743 assalì anche il popolo di Caposele, dopo che aveva già desolato la Sicilia e il Napoletano. Per intercessione della tenera Madre di Dio i Caposelesi furono totalmente liberati dall’orrendo flagello della peste sicché posero nell’immagine la più grande fiducia1. Si era nel luglio del 1837 e Caposele era infestata di nuovo dal colera che, con egual furore, distruggeva forti e deboli, fanciulli e attempati, ricchi e poveri di quasi tutto il Regno di Napoli. Vi erano dei giorni, dice il Santorel-

1 Dopo alcuni anni D. Donato Bozio, pio e dotto primicerio di Caposele, studiosissimo del culto di S. Maria della Sanità mandò alle stampe la seconda edizione della “Novena della Vergine SS. Della Sanità che si venera in Caposele” (Napoli 1783, presso Giuseppe Porcelli).

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li, in cui mancavano i becchini per seppellire i cadaveri, tanto era il numero delle vittime. Per evitare il contagio erano negati i funebri rintocchi delle campane, lo stesso domestico compianto e le pubbliche preghiere. A nulla valeva l’isolamento e la fuga dal paese. Ma i Caposelesi si ricordarono di avere una tenera e potente Regina, Maria della Sanità. A Lei ricorsero e, oh prodigio! Il giorno in cui se ne celebrava solennemente la festa, il fiero morbo, come per incanto, cessò, restituendo alla vita anche quelli che si trovavano sull’orlo della tomba. A distanza di due anni, nel 1839, in molti paesi della valle del Sele, in Valva, Colliano, Contursi ed Oliveto Citra il colera gettò nuovamente la desolazione e la morte; per intercessione di Maria della Sanità, Caposele ne rimase illeso e i popoli della valle silerina ne furono subito e completamente liberati. Col tempo la originaria cappella andò in rovina sia perché nelle pareti si erano aperte delle larghe fenditure a causa della frana del suolo, della corrente impetuosa del Sele, sia per la vecchiezza delle mura stesse. Il 4 ottobre 1812, in mezzo ad un gran popolo riverente, la prodigiosa immagine della Vergine fu allora portata nella chiesa che si ergeva in mezzo al paese, la chiesa degli Antoniani, dedicata al patrono San Lorenzo. Per oltre 40 anni il sacro dipinto di fra Paolo rimase in una nicchia del più splendido altare della chiesa parrocchiale, dove la Madre di Dio venne sempre venerata ed invocata dai suoi amati e cari figli. In seguito, visti gli straordinari benefici ricevuti, il clero, il municipio e il popolo, con animo di gratitudine decisero di erigere una nuova e più sicura chiesetta sul suolo delle sorgenti del Sele. Quando il nuovo tempietto fu compiuto, quel pezzo 101


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di muro, su cui era dipinta la sacra immagine, tra i canti melodiosi di un popolo devoto e commosso, fu portato all’antica sede. Da quel giorno una nuova vita di amore e di pietà incominciò a svolgersi. Ne fu stabilita la festa per la domenica dopo il 16 agosto e nulla fu trascurato per ornare splendidamente la nuova dimora di S. Maria della Sanità. La chiesetta fu in breve tempo fornita di altari marmorei, di lampadari e di tutti gli arredi per i riti sacri. Che dire poi dell’amorosa sollecitudine dei nostri fratelli residenti nelle due Americhe? “Tutti, tutti si sono sempre ricordati di mandare il loro obolo e per la chiesa della nostra amata Regina e per solennizzare la festa”. Animati dalla stessa fede i popoli della valle selerina, tra cui molte donzelle con corona di spine quale ghirlanda di penitenza, provenienti cantando da Contursi, Palomonte, Valva, Colliano, Oliveto Citra, Laviano, Senerchia, Calabritto e i paesi dell’Irpinia, tra i quali Calitri e Pescopagano correvano in numerosi pellegrinaggi a venerare Colei che sedeva Regina sul Sele per confortare e sanare. I numerosi doni d’oro, che un tempo si conservavano in apposite vetrine, predicavano elegantemente un culto secolare e costante e l’universalità delle grazie prodigate da Maria. Più tardi, per i lavori dell’acquedotto pugliese, la chiesetta, edificata dopo l’epidemia del 1839, fu demolita e la miracolosa Madre della Sanità fu riportata nella chiesa parrocchiale dove rimase per più di due anni. Il popolo di Caposele unanime fece intanto sentire il suo pio ed ardente desiderio, cioè che la Società Concessionaria dell’Acquedotto Pugliese, Ercole Antico e Ci. riedificasse anche presso le sorgenti un tempio alla Madre tenera ed amorosa dei figli del Sele. E i voti della civile e religiosa cittadina furono pienamente soddisfatti. Poco lontano 102


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dall’antica chiesetta sorse maestosa la nuova più grande e bella chiesa della Madre di Dio, lasciando a torreggiare sulla vasta conca delle limpide acque l’alto campanile in stile romanico, a ricordo del posto dove i nostri padri aprivano il loro cuore a Maria. Il 3 aprile 1910, nelle ore del mattino, il Sacro Dipinto di fra Paolo fu solennemente traslato nel nuovo tempio. All’imponente processione intervenne il M.R. Clero e un popolo immenso che, riverente e commosso, cantò le melodiose strofette del Padre Enrico del SS. Redentore. Erompeva intanto a Caposele da tutti i cuori un pio e ardente desiderio: offrire alla Madre SS.della Sanità una ricchissima corona d’oro per darle, ancora una volta, una prova di profonda gratitudine e di affetto santo e perenne. L’idea fu palesata nel giorno di Pasqua del 1910 dal Sac. Arsenio Prof. Caprio, Rettore della nuova chiesa. L’entusiasmo superò ogni previsione. Fu nominato subito un eletto Comitato che con diligenza e assiduità curò i preparativi delle splendide feste. I nostri fratelli, residenti nelle due Americhe, con amorevole premura risposero all’invito, poiché mandarono centinaia di lire per la solennità e per le corone d’oro che furono lavorate dalla Casa La Perla di Napoli. E venne il tempo tanto sospirato. Un solenne novenario precedette le grandiose feste. La strada che dalla chiesa parrocchiale menava alle sorgenti fu riccamente pavesata da luminarie e drappi, e due concerti musicali allietarono il paese in quei giorni. Merita però speciale ricordo il famoso concerto di S. Severo di Puglia, diretto dal valente Prof. Luigi Santori che in due sere fece gustare ai presenti il sublime suono della musica. Ma quello che rese più bella e più attraente la festa del cuore fu l’amabile e nobile presenza dell’Ec103


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cellentissimo Mons. De Nicola Piccirilli, Arcivescovo di Conza e Campagna. La nuova chiesa fu benedetta il 20 agosto 1910 e il 21 fu fatta l’incoronazione della Vergine e del Bambino. Non si può descrivere la pompa di quel giorno. Verso le otto, tutto il popolo, già pronto per formare il solenne corteo, fu così disposto: procedeva con due stendardi l’associazione delle Gerardine; seguiva poi il M.R. Clero, S.E. III. ma e Rev.ma Mons. Are. Piccirilli, fra due angioletti che portavano le corone, il Municipio in forma ufficiale, il concerto di S. Severo e una immensa folla, formata da Caposelesi e moltissimi pellegrini, venuti dai paesi della valle del Sele e dell’Irpinia. Fra melodiosi canti si giunse al caro tempio che già era gremito di gente. Momenti teneri e solenni! L’Angelo della nostra amata Arcidiocesi, in abiti pontificali, benedisse le due ricchissime corone d’oro e, al canto solenne del Magnificat, le depose sulle auguste fronti di Maria e del vezzoso Bambino. La maestà del sacro rito fu coronata dalle dotte parole del pio Arcivescovo, il quale seppe trovare la nota tenera ed occasionale per commuovere tutti i presenti. Più tardi, nella chiesa parrocchiale seguì solenne Messa Pontificale, celebrata da S.E. Mons. Piccirilli e, dopo il canto del vangelo, salì il sacro pergamo, a tessere le lodi di Maria, il colto P.D. Antonino Di Coste del SS. Redentore. Non mancò un’imponente processione: fu portato per le vie principali del paese, su di un ricco tronetto, il bel quadro della SS. Vergine della Sanità, donato dai due devoti concittadini in Montevideo, Raffaele Gatta e Alfonso Grasso. La musica sacra nei due giorni fu eseguita da eletta palestrina, diretta da valente Sacerd. Maestro Di Vincenzo Saetta, da Napoli. Chiusero le grandiose fe104


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ste delle belle proiezioni cinematografiche e splendenti fuochi pirotecnici, preparati da due valenti artisti. L’incoronazione di S. Maria della Sanità rimase scolpita a caratteri d’oro nel cuore dei Caposelesi. Da quel giorno, essi frequentano con amore ed assiduità il caro tempietto. Nei giorni festivi vi si celebra il divin Sacrificio e si recita il S. Rosario; e in tutto il mese di agosto la divina Madre è venerata con fioretti e preghiere che guidano un popolo intero per i sentieri difficili della virtù.

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(Tratto da “Il mese di agosto a Maria SS. Della Sanità” del Sac. Arsenio Dott. Caprio, Rettore di S. Maria della Sanità. Stabilimento tipografico Silvio Marano, Napoli 1913).

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Le sorgenti del Sele

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Le sorgenti del Sele, prima del loro incanalamento forzato, dovevano essere uno di quegli spettacoli mozzafiato che solo la natura sa offrire. Veder disposte a semicerchio, ai piedi del monte Paflagone, contrafforte del monte Cervialto, decine e decine di zampilli fuoriuscenti dalle fratture delle rocce con leggero scroscio, che una volta riunitisi, si preparavano a scendere a valle con violenza rumorosa e spumeggiante per muovere le pale degli opifici, era qualcosa di meraviglioso e straordinario. Tutto questo dono di madre natura si incastonava in un ambiente verdeggiante e continuamente animato dalla presenza degli uomini che utilizzavano siffatta risorsa.

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La grandezza consisteva e consiste anche nella grande quantità di acqua che fuoriusciva, basti pensare che nell’anno 1924 si ebbe una portata massima di 6,74 mc/s e nel 1941 la portata media annua risultò di 5,61 mc/s.

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La portata - si sa - dipende dalla quantità di pioggia o neve che si ha durante l’inverno; l’intervallo di tempo tra la portata minima e massima è di circa sei mesi. Questo è il periodo necessario affinché le gocce d’acqua, filtrando nella roccia calcarea, arrivino nel bacino. Generalmente le portate minime si verificano ancora oggi nei mesi di dicembre, gennaio e febbraio; quelle massime, nei mesi di maggio, giugno e luglio. Le acque cristalline fuoriescono ad una temperatura costante, per tutto l’anno, di circa 9 gradi. 106


gocce d’acqua, filtrando nella roccia calcarea, arrivino nel bacino. Generalmente le portate minime si verificano ancora oggi nei mesi di dicembre, gennaio e feb quelle massime, nei mesi di maggio, giugno e luglio. Le acque cristalline fuoriescono ad una temperatura costante, per tutto l’anno, di circa 9 gradi

Queste le ultime Queste le ultime

ANALISI CHIMICO-FISICO-BATTERIOLOGICHE DELLE ACQUE DI CAPOSELE Parametri Colore

Unità di misura mg(sca Pt/Co)

Torbidità

NTU

Sorgenti Sanità 1.10

D.P.R. 236/88 C.M.A. 20.00 4.00

inodore

-

Sapore

insipida lt/s

3780.00

Tempratura acqua

°C

9.10

Ph

7.70 uS/cm 20°C

276

mg/l

193.20

Durezza totale

G.F.

15.66

Calcio

mg/lCa

48.80

Magnesio

mg/lMg

8.41

-

25

6.85-8.50 -

1500.00 ** -

50.00

6.98

<200

147.80

-

180.30

-

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Conducibilità Residuo a 180°C

-

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Portata

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0.18

Odore

mg/lCl mg/lCaCO3

Ione idrocarbonico

mg/lHCO3

Ossigeno disciolto

mg/lO2

9.60

-

mg/lNa

3.47

150.00

Sodio

1.23

-

0.00

0.50

mg/lNO2

0.00

0.10

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Nitriti

Mg/Lk

mg/lNH4

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Potassio Ammoniaca

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Cloruri Alcalinità

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3.30

50.00

Ossidibilità

mg/lO2

0.24

5.00

Solfati

mg/lSO4

2.51

250.00

Fosfati

µg/lP2O5

0.00

5000.00

Solfuri

ug/lH2S

0.00

-

Silice

Mg/lSiO2

7.15

0.20

Alluminio

mg/lAl

0.01

0.2/td>

Fluoro

mg/lF

0.14

1.5-0.7

Ferro

µg/lFe

2.30

Manganese

µg/lMn

0.24

Cromo

µg/lCr

0.41

Rame

µg/lCu

7.55

1000

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mg/lNO3

200 50 50

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Nitrati

µg/lZn

11

3000

µg/lPb

0.14

50

Cadmio

µg/lCd

0.01

5

Nichel

µg/lNi

0.00

50

Tensioattivi (MBAS)

µg/lLaurisolfato

0.00

200

Cloro res. Libero

mg/lCl

0.00

0.20

VOC*

mg/l

1.01

30

0.65

-

Coliformi tot.

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-

ufc/100ml

0

0

ufc/100ml

0

0

Streptococchi f.

ufc/100ml

0

0

Sopre di Clostr. S.R.

/250

0

0

Col. In Agar a 36°

ufc/ml

0

10

Coliformi in Ager a 22°

ufc/100ml

0

100

Stafilococchi pat.

/250

0

0

Pseudomonas Aeurug.

/250 ml

0

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Funghi e Lieviti Salmonelle

/250 ml /1000

0 0

-

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Coliformi fecali

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Ind. Langelier Ind. Todd

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Zinco Piombo

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IL CORSO DEL FIUME SELE

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…“le acque sul primo scorrere, declinando dal piano delle sorgenti, dividonsi in due grossi rami, ma ben presto convergono e fanno grande impeto” scrive Nicola Santorelli.

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In tutto il suo corso, verso mezzogiorno, il fiume riceve per prima le acque di Calabritto, di Senerchia e di Quaglietta alla sua destra, più sotto quelle di Apiceglia, e di Oliveto.

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Altre acque vi scendono a sinistra, quelle di Temite, poi quelle dei monti di Valva, di Laviano e di Colliano. Laddove il letto del fiume si stringe sotto Oliveto, nelle vicinanze di un bel ponte di pietra sgorga una fonte d’acqua minerale fresca, acidula e ferruginosa; più in là, a circa mezzo miglio, verso Contursi, ve ne è un’altra simile, e poi un’altra ancora solfurea e termale, le cui acque gareggiano con le più celebrate per le cure cutanee ed articolari.

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Dopo il ponte detto di Contursi, il fiume Negro, confonde le sue acque col Sele, così come fanno a destra le acque del Troiente, della Tensa e di molte altre, che sparsamente vi accorrono dalle campagne di Eboli. A sinistra si aggiungono le acque del Monte Alburno e poi quelle del Calore, diverse da quelle del fiume dallo stesso nome, che è presso Benevento. Così arricchito il Sele allarga il suo letto, guadagnando anche in profondità cinque miglia lontano da Paestum e, dopo 40 miglia di corso, sfocia infine nel Mar Tirreno. 109


I vetusti popoli che questo fiume tenne divisi

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Col suo corso il Sele divideva antichi popoli e poneva confini a famose regioni. Secondo Strabone il Silaro divideva la regione picentina dall’antica Campania, secondo Corcia (“Storia delle due Sicilie”), il fiume per poche miglia separava gli Irpini dai Lucani, e verso la fine del suo corso i Lucani dai Picentini. Cluverio ritenne per certo che i confini dell’Enotria erano sino al Silaro.

Curiosità

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Non lontano dal luogo dove il Sele termina il suo corso nel Tirreno avvennero come si è già accenato, grandi fatti d’armi. Lì, secondo alcuni storici, fu sconfitto Spartaco quando il Senato mandò Crasso con le legioni a combatterlo. Frontino (Stratag., libro II, p.249) riferisce, che Crasso, cominciata la battaglia, fece uscire da dietro il monte Calimarco, presso la vecchia Capaccio, C. Prontino e Q. Marzio Rufo con 12 coorti, e così ebbe vittoria su Spartaco.

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In tempi meno remoti G. Albino pose nello stesso luogo (“apud Silarum amnem in Lucanis, ubi exit in mari”) un’altra battaglia, quella tra Agostino Fregoso da Genova, sceso in campo per soccorrere Sanseverino, tenuto dai ribelli, e Guglielmo Sanseverino, conte di Capaccio, comandante delle truppe del Re Ferrante. Le sponde del Sele furono anche tinte dal sangue dei martiri fin dai tempi del Cristianesimo. Presso il Silaro avvennero i martiri di S.Vito, di Crescenza e di Modesto, siculi di nascita, tormentati per la loro fede in Cristo.

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IL FIUME SELE: L’etimologia e le varianti del suo nome

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Anche se “Sel” o “Sil” in lingua celtica significa “acqua/fiume”, l’etimologia del fiume Sele è probabilmente di origine greca, poiché il corso d’acqua nasce ai piedi del monte Paflagone1, e la Paflagonia era una regione greca. Considerato, poi, che su una moneta d’argento di Paesto2 (antica Posidonia), vicina allo sbocco del fiume nel mare, si legge la parola Seila alle spalle di Nettuno, tanto il Millingen che il nummologo Avellino hanno ritenuto che Seila probabilmente si riferisse al Sele/Silaro. Fortifica tale congettura il fatto che anche in altre medaglie di Posidonia, oltre le iniziali della città si leggono arcaiche e retrogade lettere che presentano la voce Is, nome di uno dei fiumi nei pressi della città, insieme al nome primitivo del fiume Seila. Secondo l’Avellino lo stesso nome Laris nominato da Licofrone nella sua Cassandra insieme all’Is non è altro che un’abbreviazione di Silarus.

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Nome antico di uno dei più alti gioghi dell’Appennino, che in passato divideva gli Irpini dai Lucani. Il nome è di origine oscura, probabilmente fu imposto al luogo dai migratori Greci che per altezza paragonarono il monte a quelli della Paflagonia descritta da Senofonte come paese di altissime montagne. Paflagonio è anche il nome di un fiume ai piedi del monte Ida, e il nome del figlio di Fineo, mitologico re di Tracia, pietrificato dalla testa di Medusa mostratagli da Perseo. La derivazione dal greco Paphlegon “tutto ardente” non è ammissibile in quanto nel luogo e nei dintorni non si trovano fenomeni di carattere vulcanico. 1

Paesto fu detta Posidonia dai Trezeni la cui madre terra Trezene era sacra a Nettuno, cioè Posidone. La città Greca decadde con l’occupazione prima dei Lucani e poi dei Romani. 2

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Il fiume è stato nominato da scrittori come Strabone, Lucilio, Plinio, Virgilio, Tolomeo, Pomponio Mela, Aristotele (che sembra averlo chiamato Cetes/Ceton), Orosio, Lucano (Siler), Probo, Boccaccio, Vibio Seguestre, Tasso, Ungaretti ed altri. E, anche se vari popoli si sono succeduti nella regione, il nome ha avuto pressocché sempre il suono di quello attuale. Nel dizionario del Nebristense si legge Silaris fluvius, nel Virgilio dell’antico codice Mediceo… est lucus Sileri; nel commento di Probo a Virgilio e nella tavola Peuntingeriana Silarum (p. 5), Silarius in Boccaccio, Selo in Ligorio, Silarem in Muratori. Tra le tante varianti Silaro, Sillaro, Sillero, come scrisse Vibio, il fiume fu Silarus o Siler per i Latini, Silaris per i Greci, e Sele è oggidì. Nella Descr. Regn. Napolet. P. 15 il Bacco riporta che il nome del fiume è legato alla leggenda di Sole/Sele (cambiata la o in e), compagno di Obolo, capitano del re Teseo, annegato nelle sue acque.

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Presso gli antichi popoli il Silaro, ebbe anche una specie di culto, tant’è che vi alzarono are e statue nei dintorni. Il Rota lo appellò padre del fiume Selefone, un dì chiamato Accio (…Selephon cui Silaris pater est… Eleg. 8). Su una delle monete di Posidonia le lettere seila aggiunte alla voce Poses, secondo Sampon, autore di “Ricerche sulle antiche monete d’Italia Meridionale”, (pag. 149) non solo determinano la posizione di Posidonia, ma provano il culto reso al fiume Sele dai Posidoniani. Altrettando sostiene l’Avellino nel vedere sulla moneta di Posidonia i due celebri fiumi, il Seila e l’Is, che stavano d’appresso alla città. 114


“Fantasticando alle sorgenti del Sele”

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Le suggestive ipotesi sulle origini della radice Sel da cui deriverebbe il nome delle sorgenti e del fiume Sele hanno ispirato il racconto che qui mi piace riportare.

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Alle prime luci dell’alba, Posidonia si rivelava in tutto il suo splendore e, al cospetto dei tremuli bagliori mattutini, appariva il suggestivo scenario della polis, la quale sembrava in tal modo smaterializzarsi, immersa in un’inconsistente e sognante atmosfera. Proprio nel momento iniziale della giornata, sotto il benefico influsso di Venere, cominciavano i preparativi atti a celebrare la divinità protettrice della città, Era, e presso il tempio a lei consacrato si radunava la maggior parte della popolazione per assistere alla fase principale del rito. Alla foce del fiume, il santuario si ergeva luminoso e sereno e, nel piazzale antistante la basilica, le sacerdotesse ornavano con grande minuzia l’altare preposto al sacrificio, intrecciando tra loro ghirlande di fiori di estrema raffinatezza e di intensa policromia. Con egual grazia ai suoi lati erano stati posti due bracieri che diffondevano nell’aria l’aromatica fragranza dell’incenso e donavano al luogo circostante un’aura di profonda e partecipe religiosità. Tutto era ormai pronto per l’inizio del sacrificio e ognuno meditava, assorto, in mistico silenzio per accogliere con maggior intensità l’evento prodigioso, espressione autentica di intima comunione con la dea, che di lì a poco si sarebbe manifestato ai loro increduli occhi. La fanciulla che, dopo aver interpellato gli oracoli, era stata scelta per assolvere l’onere di recare l’offerta in onore delle dea, si chiamava Cloe. 115


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A prima vista, quello che immediatamente di lei colpiva era la sua straordinaria bellezza, che durante il tragitto, dai propilei in fondo all’agorà fino al tempio, si intensificava sempre più, velandosi di mistero e di sfuggevole leggiadria. Procedeva con passo cadenzato e ogni cosa al suo passaggio si vivificava acquistando una superiore luce e armonia. La fanciulla indossava una veste di preziosa manifattura che ne esaltava ancor di più la beltà e ad ogni passo aderiva maggiormente al corpo così che questo diveniva quasi inconsistente, svelandone i lineamenti più sinuosi. Tra la folla, Dafni osservava attentamente la cerimonia, enormemente affascinato dalla presenza di quell’eterea fanciulla, dalla quale trapelava un forte misticismo e che sembrava davvero avere le sembianze di un essere disceso dal cielo. Così il giovane, terminata la celebrazione e sospinto da un’irrefrenabile curiosità, seguiva la fanciulla, che, come tutte le ragazze rispettabili dell’epoca, era accompagnata sempre dalla propria fedele serva, Maia, eludendo entrambe, fino alla dimora della soave creatura. In tal modo, vagheggiando ancor più intensamente un loro possibile incontro, si apprestava a partecipare alla cerimonia dello Scudo: un evento che attendeva con ansia per poter rivedere finalmente la ragazza che con tanta prepotenza si era impadronita del suo cuore. Lo stadio, in cui era solita svolgersi la cerimonia, consistente in una gara di atletica cui liberamente potevano partecipare tutti coloro che avevano raggiunto la maggiore età, si trovava poco distante dall’agorà e da ognuno veniva agognato con grande ardore, come luogo in cui dar prova del proprio vigore fisico e delle proprie qualità intellettive. Dafni, pertanto, si accingeva a raggiungere con i suoi coetanei il punto prefissato per l’inizio della corsa e ripetutamente, con malcelata smania, volgeva il capo sugli astanti, ricercan116


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do disperatamente l’incantevole fanciulla. Ma oramai l’agone doveva aver inizio: tutti diedero un’impeccabile dimostrazione della propria bravura in campo atletico, ma solo uno, Dafni, ne fu il vincitore. Così, in conformità a quanto stabilito dalla tradizione, gli venne affidato lo Scudo della dea e sul capo gli fu posta una corona d’alloro con la quale il giovane appariva davvero l’incarnazione vivente di Apollo. Ma la cosa più inaspettata fu che il premio cinse le sue tempie tramite le delicate mani di Cloe, e nel momento in cui i due giovani incrociarono i loro sguardi, inconsapevolmente, si insinuò nei loro corpi il sottile fuoco di Amore suscitando, sull’amabile volto della fanciulla, un manifesto, pudico rossore. E così Dafni ebbe la prova tangibile che il suo sentimento era realmente corrisposto con egual ardore da Cloe, la donna da lui tanto intensamente vagheggiata; gli sembrò ormai di aver raggiunto il colmo della più ambita felicità. Immediatamente incominciò tra i due una fitta corrispondenza che venne prolungata grazie soprattutto alla parca collaborazione loro offerta dalla servitù; ma non per questo diminuiva l’ardore della loro passione, che anzi si esprimeva sempre con maggior intensità e assiduità. Dopo diversi giorni, Dafni ebbe la possibilità, ardentemente attesa, di rivedere la sua amata: infatti ella si sarebbe recata al foro, in compagnia della sua inseparabile ancella, per partecipare al settimanale mercato cittadino. E così i due giovani avviarono una serie di rapidi incontri, al riparo degli sguardi indiscreti della gente e agevolati in particolar modo dal tacito assenso di Maia, nell’agorà o presso il tempio in occasione delle festività pubbliche in onore delle divinità protettrici del paese. Ma ecco che finalmente il caso si volse in loro favore. I genitori di Cloe avevano intenzione di partecipare, o meglio, di beneficiare dalla vendita dei loro prodotti artigianali, alla 117


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fiera che annualmente aveva luogo per vari giorni a Neapolis, e che richiamava una moltitudine di Greci, soprattutto fra gli abitanti dei luoghi circostanti. Così, Dafni e Cloe, avvalendosi dell’insperata assenza dei due inflessibili supervisori, designarono come luogo del loro successivo incontro un’ansa del fiume che, lontana dai tumulti della città e al riparo dall’indiscrezione della gente, era raramente frequentata. Giunti nel luogo prefissato e adagiatisi sul prato, costellato da una miriade di fiorellini che diffondevano nell’aria un intenso profumo, contemplavano il lento movimento delle acque, le quali, animate dalla piacevole brezza di Zefiro, si increspavano lievemente in una danza continua di indefiniti bagliori. E infatti i due giovani ammiravano in silenzio il meraviglioso paesaggio che li attorniava, riconoscendosi intimamente legati in quest’atto, in cui avvertivano la più totale e profonda comunione delle loro anime. Mentre si trovavano totalmente assorti, giunse in quel luogo un viandante che, smarrita la strada, si rivolse loro con estremo garbo e cortesia: “Graziosi giovani - disse - per amor di Zeus sapreste gentilmente indicarmi il sentiero più breve che conduce a Posidonia? Sono tre giorni che cammino ininterrottamente per recarmi ad onorare Era, poiché per sua intercessione mia moglie ha dato alla luce una splendida coppia di gemelli, tanto belli da apparire Apollo e Artemide in persona: gli dei non me ne vogliano!”. Dafni cortesemente rispose: “Non angustiarti, o straniero, perché Zeus Xenios, o chiunque qui conducendoti ti ha protetto, non ti ha abbandonato. Basta infatti che tu segua fedelmente la corrente del fiume e in breve tempo giungerai a destinazione”. Ed egli: “Vi ringrazio infinitamente, possano gli dei concedervi ogni onore e grazia, siate tre volte beati”. Ma prima che lo straniero si allontanasse diretto per la sua strada, Dafni e Cloe, come richiedevano le ferree leggi dell’ospi118


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talità, accolsero l’uomo con estrema cortesia e lo invitarono a prendere parte al loro pasto, frugale e rapido, secondo la tradizione: maza (farina d’orzo impastata in gallette) e formaggio. Dopo aver concluso l’ariston, lo sconosciuto xenos (straniero) volle contraccambiare l’inattesa gentilezza di Dafni e Cloe raccontando loro il mito di Selemnos e Argira che si tramandava ormai da molte generazioni in una cultura sostanzialmente orale, qual’era quella greca. E così cominciò a narrare tale vicenda effondendo intorno a sé un’aura di mistero fuggevole, oltre che di incomprensibile enigmaticità: «Quando sulla terra ancora risiedevano e indisturbate operavano le divinità, prima che quest’ultime l’abbandonassero ritirandosi definitivamente nelle sedi Olimpiche, in una remota e sperduta regione della Grecia, in Arcadia, si svolse la storia di Selemnos e Argira. Selemnos era un pastorello che ogni mattina conduceva al pascolo il suo gregge in un bosco, nelle vicinanze del tempio di Asclepio, che con i suoi alberi maestosi difendeva il bianco candore marmoreo dell’edificio dall’intensa luce solare. Un giorno, mentre osservava il suo bestiame che pascolava tranquillamente brucando la tenera e verdeggiante erba primaverile, rimase affascinato dalla splendida visione di una ninfa, molto pudica. Questa, infatti, essendosi accorta della sua presenza, si ritraeva al suo sguardo indiscreto che diveniva sempre più penetrante, appartandosi dietro le fronde maestose dei pioppi. E così, dopo un iniziale e giocoso nascondersi, la deliziosa Argira, finalmente svestendosi della sua naturale ritrosia, lasciò che il giovane l’ammirasse in tutta la sua abbagliante bellezza. Allora i due giovani, dopo un attimo di iniziale impaccio, intrapresero spontaneamente una fitta conversazione, durante la quale ebbero l’opportunità di fare l’uno la conoscenza dell’altra, ed in questo intimo colloquio il giovane, colpito a tradimento dall’ invisibile freccia d’amore, manifestava tutto il suo ardore e la propria inaspettata passione. 119


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Quando ebbero finito di parlare, l’incantevole Argira per suggellare il loro primo incontro donò al pastorello una splendida corona di fiori, simbolo insperato del loro amore, ed entrambi, con scambievole e reciproca determinazione, confermarono per l’indomani il loro prossimo incontro. E così il loro amore, sentimento spontaneo ed immediato, giorno dopo giorno accrebbe vivificato dalla naturale affabilità e complementarietà dei due giovani. Ma purtroppo Argira, con il passare del tempo, diveniva sempre più pallida senza per questo diminuire la sua straordinaria bellezza; anzi, sul diafano volto della fanciulla, amabilmente circonfuso dalle sue bionde chiome, essa ne risultava paradossalmente accentuata. Nel mentre si indeboliva e dimagriva progressivamente facendo apparire ormai palese la malattia agli occhi di Selemnos, Argira si schermiva, infastidita, dinanzi alle accurate premure del giovane, rifuggiva, impaurita, e per non obliarsi nel baratro inalienabile della morte, si avvinghiava con maggior tenacia alla vita. Infatti giunse il giorno in cui Argira, sopraffatta dalla rassegnazione di dover morire, invocò con queste parole Proserpina: “O dea dell’oltretomba, eterna compagna di Ade, fa’ sì che io oltrepassi senza alcun dolore la soglia del tuo sacro regno, e voi pure, o Parche, quando reciderete l’ultimo fiore della mia labile vita!” Così, la fanciulla esausta, avendo con quest’atto disperato esaurite tutte le sue energie, piombò a terra e attese che la Morte, sorretta dalle sue ali nere, infondesse in lei un eterno sopore. Ma nel momento stesso, in cui l’anima immortale di Argira si apprestava ad abbandonare le sue spoglie mortali, davanti agli occhi stupefatti di Selemnos accadde un evento prodigioso: l’amata si era trasformata in una fonte. Allora il giovane si rammentò del giuramento, foedus di eterno amore e fedeltà, e sconcertato dalla morte prematura di Argira cominciò a girovagare senza trovare requie per il suo animo straziato, tormentato dall’immenso dolore e dall’in120


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dissolubile ricordo della fanciulla. In tale stato di turbamento e folle per amore, addolorato per la perdita della sua amata, invocò Afrodite e la sua voce risuonò intensificata dall’azione premurosa di Eco: “Ti scongiuro, tu sola conosci il mio ardente e appassionato amore e la ferita, generata dal tuo giocoso figlioletto Eros, che mi brucia senza remore in petto…Per questo ti supplico: trasformami in fiume così che io possa eternamente essere congiunto alla mia dolce amata. La dea non fu insensibile alle preghiere del giovane ed accolse con benevolenza le sue accalorate richieste trasformandolo in fiume”. Detto questo lo straniero si congedò dai due giovani e si allontanò dallo sguardo entusiasta di Dafni e Cloe. Intimamente e profondamente colpiti dalla loro struggente passione d’amore, essi decisero di andare alla ricerca dell’originaria fonte da cui scaturiva il fiume che fluiva placidamente ai loro piedi. Così, quando ormai il carro del dio Apollo dopo una lunga e faticosa giornata si apprestava a ritornare nel giardino delle Esperidi, stabilirono che avrebbero intrapreso il viaggio il giorno seguente, all’apparire dei primi tenui raggi solari. Infatti all’alba Dafni indossò l’imation per proteggersi dall’eccessiva frescura della brezza mattutina e Cloe, con l’aiuto della fedele ancella, ripose con grande cura in una cesta il viatico necessario ad affrontare il lungo cammino che cominciava a delinearsi in tutta la sua interezza dinanzi ai loro occhi. Attraversarono luoghi impervi e percorsero sentieri su cui nessuno prima d’allora aveva mai messo piede. Si riparavano dalla calura estiva sotto le fronde maestose dei salici, che fiancheggiavano il fiume a mo’ di sorveglianti discreti, con la speranza di trovare un luogo in cui poter facilmente ristorarsi dal caldo, che sembrava beffardamente schernirli soprattutto nelle ore più calde della giornata. Esso serpeggiava dapprima all’interno di una splendida pianura per poi inerpicarsi su dolci pendii. Trascorrevano invece la notte servendosi di ripari na121


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turali, come antri e grotte, che in abbondanza si offrivano loro lungo l’apparentemente illimitato tragitto. Il loro passo deciso fu per essi guida sicura e spinta certa a superare l’asprezza di taluni luoghi e l’innata ed austera sontuosità di altri; captavano poi e percepivano le diverse fragranze che riempivano l’aria circostante impregnandola della propria essenza. Vennero soprattutto turbati quando attraversarono una landa desolata da cui emanava un lezzo acre e repellente che, per la sua consistenza, rammentava ai due giovani l’entrata dell’ Ade ubicata per i Greci a Menfi. Per ben tre giornate di ininterrotto cammino essi seguirono l’alveo del fiume che si trovava ora immerso in una rigogliosa e lussureggiante vegetazione, la quale mutava man mano che i due giovani procedevano nel loro cammino, assumendo tratti sempre più montani. Ma il loro faticoso viaggio venne ampiamente ripagato dall’incantevole spettacolo che si prospettò davanti ai loro increduli occhi: un’immagine di incontaminata e virginea bellezza. Giunsero infatti in una zona straordinariamente impreziosita dal caratteristico rigoglio di una flora che lì aveva trovato un posto ideale per attecchire e che veniva amabilmente lambita da un monte maestoso. Esso costituiva così, in modo stupefacente, il termine necessario allo splendido proscenio che si dischiudeva alle proprie pendici e un’eccezionale prova di geometrie di colori in particolar modo rivitalizzati dalla ferma e diretta luce solare. Dinanzi ad esso un gruppo di rocce si disponeva elegantemente a formare un emiciclo nel quale fluivano, da diverse fenditure di natura sedimentaria in un’unica fonte, acque di varia provenienza ma che avevano la stessa consistenza calcarea testimoniata dal colore biancastro delle pietre su cui scorrevano ininterrottamente. Questa naturale compagine architettonica donava al luogo, in cui armonicamente era inserita, un alto grado di magnificenza, tanto da meravigliare 122


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intensamente i due giovani. In tal modo la sorgente adornava questa stupefacente ed artistica composizione, la quale riempiva visivamente, oltre allo scroscio continuo e ridondante delle acque che si propagava armoniosamente all’interno della valle, l’intera pianura: un’ampia distesa placidamente adagiata di fronte all’imponente monte. Proprio da qui discendevano diversi rigagnoli che, riunitisi, simultaneamente convogliavano le loro limpide acque nel fiume che scorreva imperturbabile sotto lo sguardo estasiato di Dafni e Cloe. I loro sguardi vennero infatti attirati repentinamente dalla similarità di questa fonte che confluiva nel fiume sottostante con quella, richiamata immediatamente alla memoria dei due giovani, in cui fu trasformata Argira, dopo la morte, e la successiva metamorfosi dell’amato in fiume, il quale ebbe così la possibilità di eternare la loro unione. Proprio così intimamente coinvolti dalla natura del luogo avvertirono più indissolubile e profondo il loro legame e decisero in tale maniera di sacralizzarlo e di renderlo perenne come in un lontano passato avevano già fatto i due suddetti amanti. Infatti evocarono su di loro la protezione di Afrodite e dopo essersi purificati nelle limpide acque del fiume, imponendo su di esso le loro mani gli diedero il nome di Selemnos e per tramandarlo intatto ai posteri incisero un’epigrafe su una roccia vicina a caratteri evidenti e leggibili. Quindi invocarono Argira affinché con l’aiuto del proprio Amato proteggesse questo luogo, mantenendone pure e intatte le acque, sgorganti imperturbate dal gigantesco monte soprastante, insieme alle popolazioni che sulle sue sponde avrebbero eretto le loro dimore. Infatti a distanza di tempo, grazie al fascinoso racconto che Dafni e Cloe tramandarono per intere generazioni, proprio in quella valle sorse una fiorente cittadina, che in onore di Selemnos e Argira eresse un armonico tempietto divulgando così per sempre gli onori tributati ai due giovani. 123


Citazioni del Sele nel passato 1. At noton est longe supra sirenida rupem Picentis Silari gurges spectabile flumen (Dionysus Afer, De situ orbis, ver. 297)

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2. ... tesca Siler nullasque vado qui Macra moratus ... (Lucano, Pharsalia II 421-427) 3. Radensque Salerni culta Siler (Vibo Seguestre, De flumin. p. 194)

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4. Tra i boschi del Sele e i querceti fitti dell’Alburno Vive in grandi sciami un insetto Che in romano ha nome assillo e i Greci chiamano estro; aggressivo, col suo fastidioso ronzio atterrisce e disperde in fuga nelle selve intere mandrie di animali; (Virgilio, Georgiche 2° libro)

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5. Silaro inchoat Lucania (Pietro Diacono in Muratori)

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6. …in Caput Silarum fluminis… (Orosio, lib. 5 cap. 24) 7. Ligna iniecta in lumen …….; et Picentinorum Silarum, lapidescunt (Plinio,1.2 c. 103) 8. …quatuor hinc ad Silari flumen…

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(Lucilio - il più antico scrittore che lo disse Sylarus -)


9. Virgulta in Silarum fluvium Samnitum demissa, lapidescunt. Nunc Silaris, quos nutrit aquis quo gurgite tradunt duritiem lapidum mersis, inolescere ramis. (Silio Italico, lib. 8)

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10. Ad caput Silaris fluminis (probabilmente la foce del Sele in quanto Caposele non aveva nelle vicinanze un luogo adatto per accampamenti militari) v. Tolomeo

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11. Usque ad fontem Silari (Cluverio)

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12. … Silerus amnis… (Pomponii Melae, De situ orbis, liber II cap. IV) 13. Attraversato lo sbocco del Silaris, entriamo in Lucania

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(Strabone, Geografia libro VI,1)

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14. …là ove, come si narra, e rami e fronde Silaro impetra con mirabil onde…

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(T. Tasso, Gerusalemme Conquistata, Cant. 2)

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15. … e proprio ai piedi della buia parete del monte Rotoli (Paflagone) è captata l’acqua per l’acquedotto.Ora sono polle non meno vive di prima,ma sepolte. Al loro posto dove formano lago a ferro di cavallo appare un prato, e da un lato nello stesso sfondo sorge su un salto un povero campanile distaccato dalla sua chiesa trasportata altrove.

(G. Ungaretti, Il deserto e dopo)

16. Bulla ex papiro expedita in anno 1107 per Gregorium 125


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Archiepiscopum compsanum manu Rufi Canonici compsani et Notarii commorante cum fratibus suis in domo S. Martini de Sylere per quam contenebatur quod quodam vinea cum olivis, quae est iuxta Sylerem recuperata ab Alferio de Montella habitante Capitis Sylaris teneretur ab eodem Alferio sua vita durante et reddere ecclesiae compsanae.

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“Nunc Silarus, quos nutrit acquis quo gurgite tradunt/ Duritiem lapidum mersis inolescere ramis”

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CURIOSITà

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(Silio Italico, lib. 8)

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Molti autori nel passato hanno attribuirono al Sele la proprietà di pietrificare qualunque oggetto ligneo immerso per qualche tempo nelle sue acque. Tra questi Aristotele, Strabone e poeti come Silio Italico e Tasso. Aristotele, il sommo filosofo greco vissuto nel IV sec. A.C., scrisse: “dicono che questi luoghi siano tenuti dai Lucani e che vi sia in questi posti un fiume di nome Ceto - così egli chiamò il Sele - nel quale le cose che vi si gettano, in un primo momento galleggiano e poi si induriscono come pietre”. Il geografo Strabone a sua volta disse quasi la stessa cosa, chiamando il fiume col suo vero nome: “i virgulti (ramoscelli) immersi nelle sue acque sassificano pur conservando la forma e il colore primitivo”. Il naturalista Plinio fu più dettagliato nella sua pur breve notizia: “similmente nel fiume Sele oltre Salerno, si trasformano in pietra non solo i rami che vi si immergono, ma anche le foglie”. Con due bellissimi versi Silio Italico volle trasmettere ai posteri questo singolare fenomeno: “con quei che beon del Silaro che i rami, come si narra, entro ai suoi gorghi impietra”. E Tasso l’ultimo grande poeta del Rinascimento, così cantò: “quivi insiem venìa la gente esperta/ del suol che abbonda di vermiglie rose,/ là ove, come si narra e 127


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rami e fronde/ Silaro impetra con mirabil onde”. Successivamente, Beckam, che commentò il libro di Aristotele sulle mirabili “udizioni” (notizie), avvertì che la pietrificazione non era altro che il deposito di particelle calcaree e tufacee, che alla periferia delle cose immerse generava una crosta lapidea. Il geografo Raffaele Vollaterrano riferì che il fiume Sele, scorrendo dai monti Sanniti, (voleva forse dire lucani) aveva questa proprietà, che i rami in esso immersi, pietrificavano, mentre altri geografi come Giannattasio e Cluverio risero di queste antiche favole. Agli inizi del ‘700 un ecclesiastico di Capaccio scrisse: “Il fiume Sele è quello, che dagli antichi, si Greci che Latini fu chiamato Silaro, di cui ha esperienza che cangi in pietra ciò che in esso si gitta, avverandosi quello che da Plinio, da Silio Italico, e da Aristotele sotto il nome di Ceto si riferisce; checchè ne dica il contrario il Cluverio”. L’ottimo barone Antonini non si accontentò della notizia e volle sperimentare personalmente la cosa, venticinque anni dopo. In termini scientificamente validi per i suoi tempi egli riuscì a spiegare le reali dimensioni del fenomeno. Non trovo di meglio che riferir per intero qui il suo discorso: “Ho voluto in varie maniere sperimentare, se ancora duri nelle acque del Silaro quella qualità, che da tanti attribuita gli viene di pietrificare i legni; ed ho in ciascuna volta trovato non già pietrificarsi, ma che intorno ad essi attacchi una certa scorza, o sia crosta, che facendo più grosso il legno, niente al di dentro cangia la natura di quello. Ecco quel che in ciò io ho potuto riflettere: L’acqua del Silaro è sempre alquanto torbida; onde che seco trae un certo loto glutinoso, che attaccandosi al legno, quando poi è asciutto, lo fa parere come se fosse di pietra. Aggiungesi che un bastone stando nel fiume un mese di inverno (allorchè l’acque sogliano essere torbide) fa 128


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assai più che per tre mesi d’està. Ho provato ancora a far in un luogo stesso stare uniti due bastoni, uno liscio e senza scorza, e l’altro noderoso, crespo e non levigato: levatoli dopo alcun tempo dall’acqua, ho trovato, che al liscio s’era attaccata meno crosta dell’altro. L’acqua di questo fiume presa in tempo d’està, e quanto per pioggia non siasi intorbidata, posta in un vaso con un pezzo di legno dentro appena v’imprime il segno di corteccia. Quella fatta torbida per pioggia ve n’imprime moltissima, e quando depone nel fondo del vaso è così pesante e duro, che eguaglia i sassi, e il ferro. Ho similmente osservato, che questi legni stati nel fiume, e così pietrificati, tanto più duri diventano, quanto più s’asciugano, e l’acqua con l’umido si dissipa. Di tali cose non sono stato a credito a nessuno”.

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(Brano tratto dal libro L’alta valle del Sele di Amato Grisi)

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CAPOSELE E L’ACQUEDOTTO PUGLIESE (A.Q.P.)

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L’ACQUEDOTTO PUGLIESE

“Un’opera che sfida qualsiasi altra anche per bellezza”

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(Giuseppe Ungaretti, “Il deserto prima e dopo”)

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Nessun dato, nessuna descrizione sarebbe sufficiente a dare l’idea chiara non tanto della grandezza dell’opera quanto della bellezza di essa. Di questo Caposele va fiera e ringrazia Iddio di averle fatto dono di tanta ricchezza d’acqua, di tanta purezza. Chiunque abbia avuto la gioia di ammirare l’opera alle sorgenti non ha potuto dire altro se non che la mano dell’uomo e il genio della mente umana si accostano a quelli di Dio e si fondono con Questo in una singolare opera di sintesi creatrice, in cui si evidenziano i caratteri della bellezza pura e della suggestione. (Vincenzo Malanga “Caposele”)

Di questa colossale opera di ingegneria idraulica realizzata anche con il concorso delle vigorose forze della gioventù caposelese del tempo, diamo una sintetica descrizione, rimandando gli interessati al sito del Comune di Caposele per ulteriori approfondimenti. 133


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I lavori per lo scavo della grande galleria dell’Appenino, il primo importante tronco del condotto principale dell’Acquedotto Pugliese, compresa la rete di diramazioni al servizio di molti centri abitati e per la quale furono adoperate in prevalenza condotte in cemento armato, al posto di tubature metalliche, andati all’appalto, furono assegnati alla ditta concorrente, la ditta ERCOLE ANTICO, nel 1906. La realizzazione dell’opera avvenne tra il 1906-7 e il 1914, sotto i governi di Giolitti, Sonnino, Luzzati e di nuovo Giolitti, essendo ministri dei Lavori Pubblici il Bertolini, il Rubini, il Sacchi. Una imponente quantità di persone tra tecnici e maestranze, provenienti dal Piemonte, dalla Liguria, la Calabria, la Toscana, la Puglia, la Sardegna e le Marche, fu sistemata in alloggi provvisori costruiti per l’occasione; scuola, ospedale e pronto soccorso furono attrezzati per le nuove esigenze e non pochi benefici di ordine sociale e culturale ricaddero sulla popolazione locale oltre a quelli di carattere igienico (un sistema fognario e un complesso di scolo delle acque bianche, acqua continua dalle fontane installate in tutte le strade e le piazze dell’abitato). Inizialmente i lavori di allacciamento consistettero in una grande diga di sbarramento dello spessore di 2 metri, costruita attraverso la depressione sottostante alle sorgenti, ed in un canale collettore; quasi nel bel mezzo del bacino naturale di raccolta, al quale facevano capo, dei canali secondari o cunicoli di presa, che s’intestavano nella roccia, nei punti dove le acque scaturivano all’aperto. I vuoti rimasti tra il canale collettore, i cunicoli e la roccia furono colmati con gettate di sassi di maggiori dimensioni nello strato in fondo, in maniera da costituire 134


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un solo vespaio, attraverso il quale le acque delle sorgenti avevano libera circolazione ed uscita. Il tutto venne coperto da una platea in cemento con pozzi di visita per eventuali verifiche e riparazioni; ed un muro di cinta fu elevato tutt’intorno e sul ciglio della roccia, per impedire alle sorgenti inquinamenti ed altri danni. Al canale collettore, cioè l’arteria maggiore del sistema di canalizzazione, fece seguito un canale di arrivo, un pozzo di raccolta ed infine le camere di manovra e di misura, che precedevano l’incile dal quale aveva inizio l’Acquedotto. Secondo il progetto governativo, la portata iniziale del canale principale doveva essere di 4 mc al minuto secondo. La società concessionaria, prevedendo di poter utilizzare per i maggiori futuri bisogni delle popolazioni pugliesi, oltre le acque del Sele eccedenti i 4 mc. al secondo, anche altre acque del pari ottime, di sua iniziativa e a sue spese volle dare all’Acquedotto una portata di mc. 5.5001. Il canale principale risulta oggi costituito da una serie di gallerie vere e proprie e di gallerie artificiali (canali in trincea e in rilevato), unite fra loro, da ponti e da sifoni per superare gli avvallamenti di terreno. L’acquedotto supera in lunghezza tutti gli acquedotti costruiti nel mondo e in tutti i tempi, a partire dai celebri acquedotti di Roma fino a quelli più recenti. Mentre

“… il lavoro nei primi anni svoltosi in buone condizioni, negli ultimi quattro si trovò contrari gli elementi naturali: gli scoppi di gas…causarono molti gravi infortuni. E così anche sulla “galleria” (come i vecchi di Caposele chiamano ancora oggi i tre cantieri) si proiettò l’ombra cupa degli scialli neri a ricordarci che le migliaia di vittime disseminate sui posti di lavoro…costituiscono le innegabili prove di una grande battaglia perduta dalla civiltà (da: …”Tra filantropia e sindacalismo” di L. Malanga in “La Sorgente”.

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infatti il più lungo acquedotto di Roma era lungo 93 Km circa, il gigantesco acquedotto del Catskill di New York (U.S.A.) 148 Km circa, quello di Los Angeles (California) 378 Km, la lunghezza del solo canale principale dell’Acquedotto Pugliese supera i 213 Km. Da Caposele a Santa Maria di Leuca l’intero sistema idrico corre in galleria per 97 Km, in trincea per 103 Km, sui ponti per 8,5 Km, e per più di 7 Km di discesa e risalita nei sifoni. Nel 1915 l’acqua del Sele giunse nel capoluogo pugliese ed in altri 27 comuni del barese; nel 1916 ad altri 6, oltre che a Taranto e Grottaglie; nel 1917 furono serviti i comuni di Noci, Bisceglie, Trani nonché la frazione di Bari. Alla data del 30 giugno 1940, oltre alle opere di primo impianto dell’Acquedotto (canale principale) già si contavano 1933,6 Km di diramazioni primarie e secondarie e di condotte esterne agli abitati; 1004,2 Km di canalizzazioni interne agli abitati: 165 serbatoi; 29 impianti di sollevamento della potenza complessiva di 5960 KW; 4 centrali di produzione di energia elettrica; 36,45 Km di linee elettriche ad alta tensione; 1966,85 Km di linee telefoniche con 29 centralini e 262 posti di trasmissione; 71 case cantoniere e 273 Km di strade carreggiabili. La popolazione servita ammontava a 2.591.889 unità. Date le esigenze sempre complesse delle civili popolazioni, successivamente nel condotto principale della Galleria Pavoncelli, in attuazione del progetto Rosalba, furono immesse le acque tributarie del fiume Calore2, (altre acque irpine dei comuni di Cassano e Montella), Le acque del Sele e del Calore, insieme, hanno una portata media di circa 6500 mc al secondo, equivalente al massimo delle capacità adduttive della stessa galleria Pavoncelli.

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CAPOSELE e l’A.Q.P.: Storia delle captazioni delle sorgenti del Sele

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mediante la costruzione di un’altra galleria lunga circa 15 Km che dalle sorgenti parte da Cassano Irpino e giunge ad ovest della galleria di Caposele.

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Con l’aiuto di documenti e tenendo presente il contesto economico, sociale e politico del tempo (fine ottocento-inizio novecento), a distanza di un secolo e più si è sentita la necessità di ripercorrere tutte le tappe che hanno segnato per sempre la storia e lo sviluppo del nostro territorio. In particolare si metteranno in luce gli aspetti oggettivi di quelle vicende che ancora oggi costituiscono motivo di discussione e di contrasto. Di grande aiuto ci sono stati il resoconto fatto sulla storia della captazione delle sorgenti dal nostro concittadino Vincenzo Malanga, autore, tra l’altro, del volumetto “Caposele” e la documentazione consultata presso la sede municipale e/o reperita in biblioteche ed altre fonti. Nel CD, già distribuito ai vari Enti e cultori, sono riportati tutti i documenti di cui si è venuti in possesso. Dal loro studio ognuno potrà entrare nei fatti, rendendosi conto del clima socio-politico dell’epoca e ricavare un proprio giudizio sulla vicenda. La conoscenza dei fatti da parte soprattutto dei Caposelesi, potrà essere la base per una lotta da portare avanti, richiamando l’intervento soprattutto della Regione Campania, Ente distratto su queste tematiche, per il riconoscimento di un ristoro al territorio, la sua salvaguardia e il suo sviluppo sostenibile. La compilazione del CD ha inoltre lo scopo di far conoscere a tutti la grossa realtà presente nel nostro paese, 137


per stimolare un turismo naturalistico, purtroppo finora impedito ed ostacolato dai detentori delle nostre acque. Per tali motivi esso contiene anche foto, pagine di storia e un compendio sui lavori dell’acquedotto.

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I fatti:

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Alla fine dell’Ottocento, il problema della captazione delle sorgenti non era molto sentito dalla maggior parte dei Caposelesi, che attanagliati più dai problemi di miseria e fame, davano per scontata la presenza di acqua un po’ dappertutto sul territorio, potendola usare facilmente per il fabbisogno familiare. Di certo comprendevano l’importanza dell’acqua e l’utilizzo della stessa per uso industriale e per irrigazione solo le poche persone ricche e istruite dell’epoca presenti nel paese, tant’è che il principe di Caposele Luigi D’Aragona, il duca di Castellaneta, il marchese D’Ayala e il sindaco Antonio Pizza, tutti proprietari di trappetti, gualchiere e mulini, furono i soli a produrre in Prefettura formale protesta contro il convogliamento delle acque del Sele in Puglia. Risultò invece di più facile presa sull’animo generoso dei cittadini di Caposele la necessità di convogliare le acque per soccorrere le popolazioni pugliesi, spesso flagellate da catastrofiche epidemie per la continua siccità di quelle terre. Ma come più volte avviene, lo spirito del mutuo soccorso, che nasce spontaneo tra la gente bisognosa, viene vissuto come una cosa dovuta, e così chi elargisce il bene porta sulla propria carne le cicatrici inferte dal momento del bisogno, mentre nell’animo dei beneficiati non rimane l’amore ricevuto tramite un gesto di carità. 138


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Per la particolare formazione geologica la regione pugliese, simile a quella del Carso, avente per base fondamentale la roccia del periodo secondario, detto cretaceo, che non consente accumuli e riserve d’acqua, ha avuto sempre un regime idrografico superficiale povero3. Tant’è che per secoli la “sitibonda” regione ha avuto problemi di siccità e di epidemie. Ripropostasi la necessità di approvvigionamento idrico per soddisfare il fabbisogno di tutta la popolazione, nel 1847, sotto il governo di Federico II di Borbone fu nominata una commissione per studiare il modo più pratico per rifornire la Puglia di acqua. Fece parte della commissione il celebre fisico Antoine Cesar Bacquerel, ma il problema risultò di difficile soluzione, considerate anche le ingenti spese da affrontare per la realizzazione di qualsiasi progetto. Le esplorazioni circa le riserve d’acqua non furono, comunque, abbandonate e il problema dell’approvvigionamento, lasciati i confini del territorio comunale, divenne materia di dibattito nei Consigli Provinciali di Bari, Foggia e Lecce. Il 3 ottobre 1861 il Consiglio Provinciale di Bari pose il problema del trasferimento dell’acqua per uso alimentare e irriguo all’attenzione del nuovo governo nazionale di Torino, chiedendo un contributo al Ministero dell’Agricoltura per studiare con dei tecnici la possibi-

A Sud dell’Ofanto mancavano corsi d’acqua perenni e in provincia di Foggia i corsi d’acqua a regime torrentizio bagnavano il Tavoliere solo in alcuni periodi dell’anno; tutta la zona delle Murge era poi priva di acqua, che si ritrovava, salmastra, nei pozzi della fascia litoranea; nelle province di Lecce, di Taranto e di Brindisi si riscontrava infine scarsità di acqua potabile e non di provenienza superficiale.

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lità di presa e convogliamento delle sorgenti Irpine. Nel luglio del 1865 l’Amministrazione Provinciale di Bari e il Comune pubblicarono un “manifesto di concorso per conduttura delle acque”, stabilendo un premio di 11.150 lire. L’ingegnere De Vincentiis vagheggiò l’esplorazione di numerosi pozzi artesiani; l’architetto Lerario suggerì l’uso di una trivella da lui inventata per estrarre l’acqua, ma il progetto fu dichiarato “non attendibile”. Nello stesso anno il Prefetto della Provincia di Foggia propose un progetto di irrigazione e fece stanziare la somma di un milione per la progettazione ed esecuzione dell’opera. Ma lo stanziamento fu ridotto a sole seimila lire da darsi a colui che “meglio delineasse risultamenti pratici sul modo di rinvenire l’acqua e utilizzarla per usi agricoli”. Il premio fu vinto nel 1868 dall’ingegnere del Genio Civile Camillo Rosalba, che suggerì di utilizzare le acque delle sorgenti dei fiumi dell’Irpinia in Campania, del Molise e della stessa Puglia al fine di dare acqua potabile alle popolazioni e acqua, cioè ricchezza, alle terre arse. Egli pensò alla captazione delle acque del Sele, del Calore, dell’Ofanto e del Cervaro, ma soprattutto di quelle del Sele, per cui lo si può dire il vero ideatore della grandiosa opera dell’Acquedotto Pugliese. Il progetto prevedeva una grande conduttura in traforo fino a Conza della Campania, al fine di superare lo spartiacque appenninico e un canale lungo la sponda dell’Ofanto per portare l’acqua fino a Brindisi, volgendo però dopo Andria, prima a Corato, Ruvo e Bitonto. Ma in un primo momento il progetto Rosalba, pur essendo l’unico valido per la soluzione dell’importante problema, sembrò essere un’utopia e quindi impossibile a realizzarsi. Ad altre deliberazioni ed altre decisioni da 140


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parte degli Enti interessati e alla presentazione di altri progetti, anche da parte di imprese nazionali ed estere, seguirono altri calcoli, altre previsioni, lotte professionali tra i vari tecnici impegnati nella soluzione del problema, tanto che la pratica finì con l’entrare in un vicolo cieco. Nel 1886-87, dopo quasi vent’anni da quando era apparso il progetto ROSALBA, giunse all’Amministrazione Provinciale di Bari il progetto dell’ingegnere Francesco Zampari. Possessore di un vistoso patrimonio, questi, ispirandosi alla concezione ROSALBA, trovò che l’unica soluzione logica fosse quella di captare le acque del Sele e trattò per proprio conto la faccenda con il Comune di Caposele. Il 23 maggio 1888 con rogito del notar Corona venivano così ceduti 3 mc/s delle sorgenti del Sele per 500mila lire, col patto che laddove entro il termine di trenta mesi i lavori del costruendo acquedotto non avessero avuto inizio, rimaneva in facoltà del Comune di sciogliere l’atto di cessione con la sola scadenza del termine e senza obbligo di messa in mora, riservandosi, lo Zampari, il solo diritto di versare la somma pattuita all’inizio della domanda di rescissione per evitare gli effetti. Alla conclusione dell’atto di cessione, dice il Santorelli vi fu gran festa in paese, suono di campane e sparo di mortaretti, nel mentre qualcuno dal vicino paese di Calabritto osservava: “hannu vennuto e sonano?”. Il Cav. Zampari, che oltre all’acquisto delle acque si era premurato di chiedere ed ottenere la concessione governativa, pagando un canone annuo, nonostante le varie proroghe della concessione e tutti i pareri necessari per la costruzione dell’opera, boicottato forse da altri interessati non mantenne fede agli impegni assunti e il Comune di Caposele lo convenne in giudizio per la 141


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rescissione del contratto. Di fronte alle sue incertezze finanziarie dopo l’abbandono delle società di banchieri inglesi e tedeschi, grandi co-finanziatori dell’opera, previa garanzia dello Stato degli interessi sul capitale necessario per la derivazione delle acque (125 milioni di lire), l’Amministrazione Provinciale di Bari committente dei lavori, con delibera del 27/4/1896 dichiarò lo Zampari decadente da ogni diritto4. Nel frattempo era cambiato anche il clima politico delle province pugliesi diversamente orientate e si stabiliva che un Ente pubblico dovesse portare a compimento il progetto dell’acquedotto per la Puglia. Già il 27/5/1896 il Ministro dei LL.PP., aveva nominato intanto una commissione per studiare le acque potabili in generale e, in particolare, quelle del fiume Sele che avrebbero dovuto alimentare l’acquedotto pugliese. Prima ancora, ad Avellino, capoluogo irpino, con il Regio Decreto del 19/05/1896 n. 332 era stato istituito l’Ufficio del Genio Civile per lo studio di fattibilità e la compilazione del relativo progetto. Con la Legge 5 maggio 1901 n°156, lo Stato dispose la spesa di un milione di lire per il “complemento” dell’Acquedotto Pugliese e per l’accertamento quindi dell’effettiva portata delle sorgenti “Sanità” di Caposele, dichiarando opere di pubblica utilità l’allacciamento di tutte le sorgenti che sgorgavano nel territorio di Caposele e la costruzione della vasca di presa-carico. Lo Stato intervenne anche nel giudizio in corso tra il Comune di Caposele e il cav. Zampari, per l’interesse che Esso ave-

La vertenza tra il cav. Zampari e il Comune di Caposele, composta bonariamente fu conclusa il 2/5/1905 con una transazione.

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va nel rimuovere qualsiasi ostacolo per l’inizio dei lavori dell’Acquedotto. Con la Legge del 26 giugno 1902 n°245 vennero disposti la costruzione, la manutenzione e l’esercizio dell’Acquedotto Pugliese attraverso l’istituzione di un consorzio tra lo Stato e le province pugliesi di Bari, Foggia e Lecce e si stabilì che la concessione avrebbe avuto la durata di 90 anni a partire dalla data del decreto di approvazione del collaudo definitivo dell’opera. Pavoncelli fu il primo presidente di questo Consorzio. A lui, più tardi, venne dedicata una lapide all’inizio della galleria, e, con riferimento alla grandiosità dell’opera, su essa venne iscritto, tra l’altro, “…di cui il Mondo non ricorda l’eguale”. Tra le tante prerogative la legge precedente del 1901 aveva previsto anche il completamento delle opere di rimboschimento del bacino del Sele e la loro manutenzione, nonché il trasferimento in Puglia dell’acqua di altre sorgenti ricadenti in Irpinia. Come iniziarono gli studi di fattibilità della deviazione delle sorgenti del Sele si aprì la problematica sulla proprietà delle stesse. Il Comune di Caposele, vantando da tempo immemorabile un possesso non contrastato in quanto la falda sgorgava su proprietà comunale, si dichiarò proprietario delle acque, tant’è che nel 1888 ne aveva venduti 3 mc/s al cav. Ing. Francesco Zampari. L’Intendenza di Finanza di Avellino reclamò la demanialità delle sorgenti. Il contenzioso trovò conclusione con la sentenza della seconda Corte di Appello di Napoli nel 1903; questa riconobbe che le sorgenti erano l’inizio del fiume e pertanto demaniali, ma altrettanto chiaramente, riconobbe al Comune di Caposele una servitù attiva per il passaggio delle acque sul proprio territorio e il conseguenziale utilizzo delle stesse. 143


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Intanto, nel corso dello stesso 1903, venivano approvati con R.D. n. 214 del 5 aprile, il regolamento e il capitolato per l’esecuzione della legge L. 26 giugno 1902, successivamente abrogati con il Regio Decreto 17 novembre 1904 n. 619, ad eccezione delle disposizioni relative alla tutela della silvicoltura nel bacino del Sele. Con quest’ultimo decreto venivano invece approvati il regolamento e il capitolato per la concessione della costruzione, manutenzione, riparazione ed esercizio dell’Acquedotto Pugliese.

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2. Accordi successivi

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Il 2 marzo del 1905, dopo una lunga diatriba sulla captazione delle sorgenti del Sele ed estenuanti trattative venne siglato un accordo novantennale tra il Comune di Caposele e il delegato del Ministero dei Lavori Pubblici per il trasferimento di gran parte delle acque delle sorgenti del Sele (circa i 9/10) verso la Puglia. L’atto entrava nella storia di ogni cittadino come sindrome di quelli che non avevano saputo valorizzare e tutelare l’enorme ricchezza che madre natura aveva elargito al piccolo lembo di terra sito alle pendici del monte Paflagone e della collina di Materdomini. In sostanza, la convenzione siglata riconosceva la demanialità delle acque in base anche alla sentenza della Corte di Appello di Napoli e prevedeva una forma di ristoro economico al Comune di Caposele da parte dello Stato. Ai Caposelesi veniva, inoltre, riconosciuta una servitù prediale sulle acque: cinquecento litri al secondo, se la portata delle sorgenti superava i 4mc/s e duecento litri nel 144


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caso di portata inferiore5. Come contropartita il Comune riceveva la somma di 700.000 lire in acquisto di rendita pubblica, che tra l’altro, in virtù del bando di gara vinto per i lavori a farsi, veniva erogata dall’impresa D’Ercole, e non dal governo6. La forma di ristoro economico veniva prevista senza alcun aggancio alla svalutazione della lira, per cui, a causa della forte svalutazione sopraggiunta subito dopo la prima guerra mondiale, ogni promessa risultò vanificata. L’indennizzo avuto con la convenzione veniva investito infatti in titoli di Stato nominativi al 3,50% con rendita annuale di 20.377 lire; con la svalutazione, a mala pena bastava per pagare un impiegato comunale. Inefficaci furono le tante richieste dei Sindaci pro-tempore degli anni venti e trenta per una nuova forma di ristoro economico, data la grande quantità di acqua incanalata verso la Puglia. Tale presa, seppur giustificata e compresa nelle finalità, in effetti sconvolse per sempre non solo l’economia locale, ma limitò le potenzialità di qualsiasi tipo di sviluppo del territorio. All’epoca il nostro paeIl volume d’acqua veniva successivamente determinato in 363 litri al secondo, in base alla portata media delle sorgenti. Tale portata d’acqua di esclusiva pertinenza del Comune e dei suoi abitanti veniva lasciata liberamente defluire nell’alveo del Sele.

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Dell’indennizzo, che comprendeva anche la facoltà di occupare le strade e i suoli comunale necessari alla costruzione dell’opera, 75.000 mila Lire al massimo dovevano essere impegnate dal Governo sia per i lavori che nell’interesse pubblico il Comune avrebbe dovuto affrontare, sia per la ricostruzione delle case dei poveri contadine cadute o cadenti a causa delle frane, 25.000 Lire sarebbero state utilizzate dal Comune per pagare le spese legali sostenute per i giudizi contro Zampari e quello presso la Corte Costituzionale di Napoli; le restanti 600.000 Lire come le 75.000 Lire convertite in titoli intestati al Comune con godimento della rendita (3,50%) dal 1 luglio 1904.

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se era un centro che vantava decine e decine di opifici (trappeti, mulini, gualchiere, etc) azionati dalla forza che l’acqua acquistava correndo a valle. Di questi solo una decina, grazie alla quota d’acqua riservata ai Caposelesi, potettero continuare la loro attività, anche se in maniera più limitata. Considerato che le sorgenti erano e sono ancora situate nel centro urbano, al danno si aggiunsero le continue limitazioni idrogeologiche, e non solo, imposte ancora oggi al territorio per la salvaguardia delle sorgenti. Di fatto si negò a Caposele qualsiasi tipo di sviluppo, si impoverì il paese anche di valori immateriali quali viste panoramiche, amenità di vita etc. Anzi, senza alcuna gratitudine da parte della Regione Puglia e dello Stato, Caposele, la generosa, fu costretta ancora una volta a vivere un forte periodo di frustrazione morale e di difficoltà economica. Intanto gli accresciuti fabbisogni della popolazione pugliese, in continuo e notevole incremento demografico, inducevano i dirigenti dell’Acquedotto Pugliese a fare richiesta al Comune delle acque residuali ad esso riconosciute con diritto d’uso dalla convenzione del 1905, al fine di integrare la portata dell’acquedotto stesso. Nel 1937 l’E.A.A.P.7 ne chiedeva al potere centrale di Roma l’autorizzazione e nel 1938, senza nemmeno informare il Comune di Caposele, organizzava una riunione di tecnici, presente anche il Prefetto di Avellino, per studiare lo stato delle opere di presa delle sorgenti e la causa dei movimenti franosi che interessavano l’abitato. Un

Con D.L. 19 ottobre 1919 n. 2060 il Consorzio costituito con la legge del 1902 era stato trasformato in “Ente Autonomo Acquedotto Pugliese” (E.A.A.P.)

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vero e proprio sotterfugio per un’altra pirateria o colpo di mano. Il 29/11/1938 il Podestà di Caposele ne informò il Prefetto comunicandogli che la popolazione, gelosa delle sue acque, necessarie alla sopravvivenza propria e del fiume non era disposta a cederle bonariamente. Nella riunione successiva del 19 dicembre dello stesso anno, i tecnici e geologi all’uopo convocati in sopraluogo dai dirigenti dell’Acquedotto Pugliese, come previsto, giudicavano le acque pericolose alla stabilità stessa delle opere di presa dell’acquedotto e dell’abitato di Caposele, già sottoposto ad importanti movimenti franosi, e ne stabilivano la deviazione nel canale principale dell’acquedotto stesso. Di fronte alla impossibilità di resistere alla richiesta, anche in dipendenza della facoltà consentita al Governo con la legge sulle acque e gli impianti elettrici n°1775 dell’14/12/19338, dato il preminente uso alimentare riservato all’acqua, il Comune, munitosi di pareri legali in proposito, pareri che sconsigliavano qualsiasi resistenza, decise, suo malgrado, di non opporsi alla richiesta stessa. Vero è che già con l’atto di transazione del 1905, Caposele aveva riconosciuto la demanialità delle sorgenti Sanità, ma lo Stato, in compenso, gli aveva concesso il diritto d’uso perpetuo delle acque residuali nella misura di 363 l/s. Come al solito, però, le richieste del Comune non venivano tutte accolte. In una riunione tenutasi presso il Ministero dei LL.PP. il 4 maggio 1939, alla presenza dei rappresentanti del Ministero, dell’EAAP e del Comune

La legge individuava come “pubbliche tutte le acque sorgenti, fluenti e lacuali”, le quali […] acquistino attitudine ad usi di pubblico generale interesse”.

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stesso, vennero stabilite in linea di massima, le modalità della cessione delle acque di spettanza del Comune e fissate le relative indennità a favore di quest’ultimo. Le condizioni stabilivano in cambio della cessione un indennizzo forfettario di 1.500.000 lire, più altre 300.000 lire per i privati danneggiati nelle loro attività produttive oltre alla promessa di lavori vari di pubblica utilità e la concessione della luce elettrica. Ma le conclusioni della riunione romana non furono bene accolte dalla popolazione di Caposele. L’ulteriore presa d’acqua cadeva sulla loro testa ancora una volta con decisioni prese dall’alto e sconvolgeva del tutto la loro esistenza, basata su un’economia già in difficoltà. Al malumore dei primi giorni, alle varie riunioni tenute per manifestare la totale disapprovazione, sfidando la reazione delle Autorità - si era nel periodo di maggior consenso degli Italiani al regime fascista, quando le adunate e le manifestazioni di popolo in pubblico erano severamente proibite - seguì una vera e propria sommossa popolare al punto da impedire al Prefetto di Avellino e alle altre autorità convenute di partecipare alla riunione che il Prefetto stesso aveva indetto per il 27/5/1939 sul Municipio di Caposele perché si siglasse l’atto conclusivo di cessione delle acque residuali. Tra la folla che dimostrava il suo dissenso al grido di “l’acqua non si vende” e i carabinieri, diverse donne, incuranti delle conseguenze a cui sarebbero andate incontro, si interposero per impedire l’arresto dei loro uomini e degli organizzatori della rivolta. Tra questi ultimi l’ufficiale in pensione, mutilato di guerra, Pasquale Ilaria, che coerentemente ai suoi sacri sentimenti morali e patriottici gridava e riconfermava 148


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solennemente, esplicitamente, insistentemente, per oltre due ore consecutive, facendosi portatore dei sentimenti di tutti i cittadini di Caposele, di non voler cedere, nemmeno per tutto l’oro del mondo, all’Ente Autonomo Acquedotto Pugliese o ad altra persona fisica, i diritti acquisiti sulle acque delle Sorgenti del Sele col pubblico atto di transazione del 1905. Passò qualche giorno e le autorità, per sedare la rivolta, procedettero all’arresto delle persone che più si erano esposte nella manifestazione. Sottoposti a giudizio, Pasquale Ilaria fu condannato al domicilio coatto alle isole Tremiti (poté rientrare a Caposele solo dopo la caduta del fascismo), mentre Giovanni Benincasa, maestro elementare e Rocco Iannuzzi subirono pene più lievi. Indifferente alla sorte dei nostri concittadini e sempre più determinato nei suoi scopi, l’E.A.A.P. nel novembre del 1940 rivolse al Ministro della Guerra una ulteriore richiesta: a titolo precauzionale la provvisoria deviazione notturna delle stesse acque residuali perché, fluenti nell’alveo del fiume, con i riflessi della luce lunare avrebbero potuto attirare sulle opere di presa delle sorgenti, - quest’ultime, tra l’altro, già mimetizzate -, eventuali incursioni aeree. L’11 maggio1942 con R.D. il Governo concedeva all’E.A.A.P. l’uso delle acque residuali delle sorgenti della Sanità. Per risarcire il paese di quest’ultima presa veniva siglata in Prefettura, una convenzione valida per settant’anni, che riconosceva al Comune un parziale ristoro per i danni e i limiti imposti dall’ulteriore prelievo. La nuova concessione non solo finì di impoverire Caposele e il suo territorio, ma tolse tutta l’acqua delle sorgenti al fiume, senza tener conto che già alla fine dell’800 149


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una commissione del Senato per la presa delle acque di Serino aveva parlato di “minimo flusso vitale di un fiume”. Chiusero i pochi opifici ancora funzionanti dopo la prima captazione, con conseguente perdita di posti di lavoro e si pregiudicò anche il possibile sviluppo che tali attività avrebbero potuto esercitare sul territorio. Nel 1943 con la scusa che bisognava rifornire d’acqua le truppe italiane che al porto di Brindisi si imbarcavano per l’Africa, la deviazione notturna delle acque divenne anche diurna. La convenzione del 1942, in scadenza nel 2012, veniva successivamente aggiornata nel 1970. In considerazione della situazione determinatasi a seguito del sisma del 23/11/1980 sorgeva poi l’esigenza di rivedere ed aggiornare la convenzione del 10/5/1970 “al fine di fare meglio corrispondere la portata ai rapporti instauratisi tra le parti”9. Il 3 febbraio 1997, dopo 27 anni fu trovato un accordo tra le parti sulla interpretazione degli articoli della convenzione del 1942 e fu approvato un nuovo documento. Intanto, la prima convenzione, valida per 90 anni, dovrebbe essere già scaduta. Tra le ultime cose c’è da dire che solo poco tempo fa, l’Autorità di Bacino del Sele ha imposto il rilascio nel fiume di una minima quantità d’acqua per l’equilibrio del bilancio idrico.

Con la convenzione stipulata tra il Comune di Caposele e L’Ente Autonomo Acquedotto Pugliese il 10/5/1970 venivano regolati i rapporti nascenti tra le parti dalla cessione all’EAAP dei diritti vantati sulle residue acque riservate al Comune con la convenzione del 2/3/1905.

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Nuovi trasferimenti di acqua in Puglia

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La prima richiesta di prelievo delle acque del Calore per integrare la portata dell’acquedotto pugliese fu avanzata nel 1902: ma non seguì alcun provvedimento. Dopo il 1915, quando le acque del Sele raggiunsero Bari, e precisamente nel 1926, scartata la possibilità di utilizzare per lo scopo anzidetto le sorgenti di Calabritto e Senerchia, alla destra del Sele, avendo costatato la difficoltà di sollevamento che esse presentavano, per essere ad una quota altimetrica inferiore rispetto al canale principale dell’acquedotto di Caposele, l’E.A.A.P. rinnovò l’istanza di prelevamento delle acque del Calore al Governo centrale; nel marzo del 1949 ne ripropose la richiesta per l’intera portata delle sorgenti, 3.140 litri, e nel 1950 il progetto per il loro allacciamento fu incluso nella programmazione delle grandi opere della Cassa per il Mezzogiorno da poco istituita. Spesa complessiva: 4 miliardi e 100 milioni di lire. Solo con il decreto ministeriale n° 2354 del 10 aprile 1958 venne comunque concessa l’autorizzazione alla presa delle acque e alla costruzione della nuova galleria, previa riserva di 600 litri al secondo alla Camera di Commercio di Avellino e al Comune di Benevento per alimentare l’acquedotto al servizio dei comuni di dette province. Nel 1964 le acque del Calore vennero immesse nel canale principale di Caposele attraverso una galleria di 15 Km. L’Acquedotto Pugliese era autorizzato a prelevare una quantità d’acqua da un massimo di 4.000 litri al secondo ad un minimo di 1.400 litri al secondo con una portata media di 2.540 litri al secondo. Più tardi, alle acque prese dalle sorgenti di Cassano 151


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Irpino e Montella si aggiunsero quelle della diga di Conza della Campania sì da alimentare tre Consorzi: Consorzio di Bonifica Terre d’Apulia e Consorzio di Bonifica Capitanata in territorio pugliese, e Consorzio di Bonifica Vulture Alto Bradano in territorio Lucano.

Considerazioni

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Da cittadino caposelese in primis posso solo rilevare che la generosità dimostrata nei confronti della popolazione pugliese non è stata mai contraccambiata, tanto nel tempo per un senso di giustizia, quanto nel momento del dolore e dello sconforto, durante i terribili giorni dell’evento sismico che nel novembre 1980 scosse il territorio di Caposele. Ritengo che probabilmente le nuove generazioni pugliesi non sappiano neppure da dove arriva l’acqua che bevono, considerato che, tra le tante cose portate via con l’imposizione, anche il nome di quell’acquedotto nato come “Acquedotto delle sorgenti del Sele per le Province di Bari, Foggia, e Lecce”, per la gestione della rete idrica della distribuzione dell’acqua trasferita in Puglia da Caposele, nel 1919 veniva trasformato in Ente Autonomo dell’Acquedotto Pugliese (E.A.A.P.), società parastatale con personalità giuridica (che, il più delle volte, per Statuto, col saldo attivo poteva far investimenti e/o dividere gli utili fra i propri dirigenti). Una volta avuta l’acqua, le sorti di Caposele, di cui prima della captazione si voleva fare la Svizzera italiana, e le vicissitudini dei suo abitanti scomparivano dalla mente e dal cuore di tutti quelli che beneficiavano di un tesoro così grande per le loro terre. Le stesse istituzioni 152


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provinciali e regionali campane non si interessavano più di tanto. Grande cura mostrava, invece, lo Stato per la salvaguardia del bacino idrologico, facendo ad intervalli regolari Decreti Legge per finanziare i lavori di riforestazione e risanamento del territorio del bacino. Grandi assenti, sempre, la politica e la Regione Campania. Basti dire che nel 1942, l’Ente pugliese di sua iniziativa unilateralmente ed arbitrariamente da-va corso alla concessione delle acque residuali, senza preventivamente regolarizzare i rapporti contrattuali col disciplinare. Indipendentemente dalla forma non osservata, l’E.A.A.P. distribuiva e vendeva la nostra acqua ricavandone un utile fin dal 1942, e non sentiva il dovere di rendere la concessione operativa anche per gli obblighi che da essa provenivano nei confronti del Comune (riconoscimento del ristoro per le nuove acque incanalate). Come si poteva perciò, a distanza di 10 anni e con la svalutazione monetaria in atto accettare l’offerta tra l’altro verbale e forfettaria del Presidente on. Caiati, basata su un indennizzo di 50 milioni a tacitazione completa di ogni diritto di Caposele sull’acqua? Considerato ad es. che il feudo di Buoninventre veniva rivenduto in lotti alla cifra di circa 100 milioni di lire e che l’allora modesto bilancio annuale del Comune si aggirava sui 15 milioni, mentre, solo per la vendita annuale dei tagli boschivi i paesi limitrofi realizzavano ben più di 50 milioni, l’offerta, irrisoria ed offensiva, era pertanto inaccettabile. Come non si può oggi chiedere all’Acquedotto Pugliese l’indennizzo per l’uso che finora ha fatto delle acque e non pensare, nei limiti del diritto e dell’onestà, ad un indennizzo definitivo oltre che al rispetto integrale di tutte le condizioni stabilite nello schema di conven153


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zione proposto nelle riunioni tenute presso il Ministero dei LL.PP. il 4/9/1939 e presso la Prefettura di Avellino il 21/2/1940, approvato dal Comune con deliberazione del 20/10/1941 e confermato nel decreto di concessione dell’11 maggio 1942? Come non chiedere che sia lasciata a disposizione del Comune e quindi dei suoi abitanti tutta l’acqua necessaria agli usi pubblici e privati anche in rapporto agli sviluppi futuri della popolazione? Come non chiedere per l’impegno non mantenuto, il rimborso del canone della pubblica illuminazione pagato finora dal Comune? Col passare degli anni Caposele non ha avuto più voce in capitolo ed ha dovuto subire e vivere, a danno del destino che l’aveva ben dotata, le tanti limitazioni imposte al proprio territorio. Il paese è stato per un secolo e, purtroppo, lo è ancora, un enclave della regione Puglia. Tutto ciò malgrado le nuove leggi emanate in materia, che regolano diversamente le competenze sull’acqua e che espressamente tengono conto di altri aspetti, anche di tipo immateriale, che nel secolo scorso per una diversa sensibilità verso l’ambiente non erano considerati. Nel 1999 l’Acquedotto Pugliese è stato trasformato da Ente Autonomo in società per azioni (AQP Spa)10 e nel 2002 con l’art. 25 della Legge Finanziaria le quote azionarie dell’ E.A.A.P sono state trasferite dal Ministero del Tesoro alle regioni Puglia e Basilicata per la privatizzazione.

L’ultimo bilancio dell’Acquedotto Pugliese Spa e delle previsioni dei ricavi è pari a 459 milioni di euro per il 2012, come riportato dal quotidiano “Libero”. 10

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Tra l’altro, fra la regione Basilicata e Puglia è stato siglato un accordo di programma per il trasferimento interregionale delle acque ai sensi dell’art. 17 della legge n° 36 del 5/01/1994. Tale articolo prevede 2 centesimi a mc a ristoro per l’ambiente e per la risorsa e/o le mancate opportunità in ossequio della direttiva europea n° 60/2000 considerazione n° 38. Ai Caposelesi non resta che la nostalgia per quelle acque fresche e rumorose, che prima di prendere forza per correre giù verso l’alveo del fiume, si riunivano in un laghetto circolare dove la luna, sorridente, specchiandosi, diventava testimone dei tanti innamoramenti tra i ragazzi. Non vedremo più il Sele definitivamente convogliato nel grandioso Acquedotto Pugliese, “con lui sono scomparsi la più dolce poesia, il nido dell’amore più puro, la più bella e pittoresca espressione del nostro panorama, la salubrità del clima, la ubertosità della valle, la ciclopica costruzione delle nostre industrie e la imponente ricchezza idroelettrica che era riservata alla moderna generazione nostra. Ricorderemo il serotino e allegro via vai delle nostre donzelle, che dalle anfore in testa andavano per prendere acqua alla Sorgente; il popolo tante volte festante abbandonato al tradizionale godimento delle luminarie e dei plenilunii d’estate che si rispecchiavano nelle cerulee onde: il grande concorso dei popoli vicini alla Fiera della Sanità, desiderosi di rivedere con sempre rinnovata meraviglia la grandezza del nostro fiume, la grandiosità delle sue cascate. Tutte queste cose non possono sfuggire alla nostra memoria, perché sono indimenticabili rimembranze di una età da poco trascorsa, destinata solo a scomparire davanti alla necessità di un grande popolo assetato, che invano chiedeva acqua da secoli”. (Avv. Orazio Petrucci, Sindaco di Caposele, sessione straordinaria del C.C. 19/06/1924) 155


Accordi e promesse non mantenuti

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Tra le tante promesse fatte nel corso di tutta la vicenda della derivazione delle acque va senz’altro ricordata quella dell’Impresa D’Ercole Antico, che, per iniziare la costruzione della galleria senza problemi, si impegnò a trasformare Caposele in una “piccola Svizzera italiana” con nuove abitazioni, con fontane pubbliche, con l’ufficio postale ed anche la ferrovia. Il tutto fu invece dimenticato appena iniziarono i lavori.

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Per la concessione della costruzione e dell’esercizio e manutenzione dell’Acquedotto Pugliese non fu realizzato l’edificio commemorativo previsto dall’art. 60 del Capitolato.

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Venne altresì disatteso sia quanto previsto dai piani di coltura e di conservazione dei boschi e terreni compresi nel bacino idrologico delle sorgenti del Sele (approvati dal Ministero dell’Agricoltura con provvedimento 18 aprile 1904 n. 10982, in esecuzione dell’art. 104 del regolamento 5 aprile 1903 n. 214), inclusa la salvaguardia del bacino idrogeologico con sistematiche opere di risanamento idrogeologico e di forestazione, sia quanto previsto dal Regio Decreto n° 606 del 17 giugno 1909 che istituiva un corpo speciale di guardie forestali con regolamento e divisa per vigilare il bacino che alimentava le sorgenti. Caposele fu privato della fonte energetica, cosa necessaria ed indispensabile per uno sviluppo del territorio, e fu gravemente danneggiato con la chiusura dei numerosi opifici. La produzione di energia elettrica sul posto avrebbe costituito, certamente, il principale moto156


re per alimentare l’economia locale e creare così le condizioni favorevoli per attrarre anche investimenti da fuori paese. Inoltre, mediante una canalizzazione per l’irrigazione si sarebbe potuta sviluppare una intensiva produzione agricola.

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Riuscire ad intuire come sarebbero andate le cose senza la deviazione delle acque è lavorare di fantasia, ma dato certo è il mancato sviluppo del nostro territorio e la povertà che ne è seguita, sicché Caposele da paese privilegiato dalla Natura ha subito la stessa sorte toccata ai paesi dell’entroterra irpino. Nessuno negli anni ha voluto considerare gli effetti disastrosi di tale grande rinunzia, dato il trascurabile peso politico che ha sempre avuto un piccolo Comune come Caposele e la continua prevaricazione di chi, più forte, riesce sempre ad imporre la sua volontà. Eppure questo paese non ha mai rinunciato alle sue antiche rivendicazioni. Oggi, più che mai, urge la necessità di aprire un accordo di programma tra le Regioni Campania e Puglia in virtù della legge n. 36/1994 (Legge Galli) e del D.Lgs n. 112 del 31/03/1998, in quanto, attualmente, sono disattesi quasi tutti gli articoli. Non risulta il pagamento di alcun canone per la captazione delle acque delle sorgenti del Sele, non esiste alcuna quota di tariffa per la gestione delle aree di salvaguardia, né tanto meno esiste un servizio di controllo territoriale e un laboratorio di analisi per i controlli di qualità delle acque alla presa. Il prossimo Consiglio Regionale della Campania deve affrontare la tematica e dare risposte credibili e condivise dagli enti locali sui cui territori sono presenti le sorgenti. In caso contrario non resta che lottare con 157


ogni mezzo per essere ascoltati e far valere i propri diritti nel rispetto delle leggi.

Caposele vedrà riconosciuti i suoi diritti?

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In tutti gli accordi intervenuti sono stati concessi degli indennizzi parziali, non a riconoscimento dell’impoverimento di Caposele o per sostenere uno sviluppo sostenibile del territorio, quale onere dovuto moralmente, ma solo come un mezzo per tacitare la proteste e per raggiungere lo scopo di portarsi via le acque. E dire che già la sentenza del due marzo del 1903 della seconda Corte di Appello di Napoli giustamente riconosceva una servitù prediale in favore del Comune di Caposele. Oggi il clima politico nell’affrontare tali temi è del tutto cambiato, anche per il diverso peso politico che hanno i Comuni; è di norma risarcire quei Comuni dove si prelevano delle materie prime, cosa, ad esempio, che la Regione Basilicata ha fatto valere e per il petrolio in Val d’Agri e per l’acqua, con la Deliberazione della Giunta della Basilicata n° 1321 del 22 luglio 2002. Il tutto è motivato con i vincoli, le restrizioni e le rinunce a cui un territorio è sottoposto, e per salvaguardare la risorsa e il suo prelievo. La gente di Caposele conosce le tante restrizioni e divieti imposti per la salvaguardia delle sorgenti, ed ha assistito all’assenza totale di un’azione che preservasse la sua unica ricchezza, il suo unico orgoglio: l’acqua. Tanta ricchezza vuol certamente essere condivisa, ma con altrettanta fermezza necessita sostenere, con risorse ed iniziative, lo sviluppo del luogo “produttore” del bene. 158


2011: Ultimi sviluppi e nuove polemiche

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La galleria Pavoncelli, realizzata nei primi anni del ‘900 venne danneggiata in seguito al terremoto del novembre 1980 e allora fu deciso di realizzare una nuova condotta, la Pavoncelli bis, parallela alla prima, affinché la flessibilità nell’uso dell’una e dell’altra consentisse le operazioni di manutenzione, senza interruzione del servizio. I lavori, avviati nel 1990, furono però sospesi nel 1992 a causa delle difficoltà derivanti dall’elevato flusso d’acqua. Il cantiere poi non fu mai riaperto a causa delle complesse vicende amministrative e giudiziarie insorte. Ancora oggi le polemiche non si sono placate e più compatto è il fronte contrario alla realizzazione della Pavoncelli bis. Non solo i comuni irpini e salernitani, ma anche il Parco dei Monti Picentini, il WWF, Legambiente e l’Ato che considerano l’opera un danno per l’ambiente circostante e per le stesse acque del fiume Sele, in attesa della valutazione di impatto ambientale da parte del Ministero dall’Ambiente, sono intenzionati a continuare la battaglia. C’è da premettere che il 6 novembre del 2009 il Consiglio dei Ministri, in seguito alle numerose segnalazioni presentate alle istituzioni competenti dall’assessore pugliese Amati, seguite dalla richiesta dello stato di emergenza da parte della Giunta Regionale pugliese, ha dichiarato lo stato di emergenza in relazione alla vulnerabilità sismica della galleria Pavoncelli e che, successivamente, dopo lo scontro con gli enti irpini nelle varie sedi in cui la vicenda è stata affrontata, ha concesso all’Acquedotto Pugliese la proroga di un anno di detto decreto. 159


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Intanto nel maggio 2011 presso la sede del Commissario straordinario per la Pavoncelli bis a Bari si è insediato un Comitato tecnico consultivo, composto dall’assessore regionale alle Opere Pubbliche e Protezione Civile Fabiano Amati, un tecnico del Ministero delle Infrastrutture ed un consulente finanziario. Dibattiti, interviste ed approfondimenti si sono anche intensificati sulla delicata situazione dei trasferimenti idrici dalla Campania in Puglia, sulla scadenza della convenzione settantennale del 1942; sulle esigenze generali del territorio, la individuazione dei meccanismi di compensazione e sull’allargamento del tavolo istituzionale dell’accordo di programma ai Comuni detentori delle risorse idriche.

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Finché i ruderi resisteranno al tempo, a noi dovrà restare solo il nostalgico ricordo dei mulini da cereali, delle macine delle olive, delle gualchiere, dei trappeti, delle tintorie, di una ubertosa valle?

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Quando l’insaziabile “sitibonda” Puglia cui con privazione nostra, abbiamo dato igiene, pulizia, salute, salubrità, ricchezza, energia, irrigazione delle sue aride terre, fermerà il depauperamento delle acque irpine, restituirà dignità a se stessa e speranza di sviluppo ai Comuni apportatori di un bene così grande?

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Terra di Caposele,

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“non terra di battaglie, ma ancora di pace, di lavoro, tesa a difendere la sua autonomia economica, gli scambi commerciali con le genti lungo il fiume, le conquiste sociali proprie, a respingere i soprusi da qualsiasi parte venissero, non con azioni bellicose e reazionarie, come gli Irpini autentici, ma con senso di democrazia e con fermezza di intenti�.

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(Vincenzo Malanga)

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STAGIONI DI VITA

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Caposele, anno 1269

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Leggere nel Registro Angioino, presso l’Archivio di Stato di Napoli, gli ordini che Carlo d’Angiò inviava al giustiziere del Principato, di cui faceva parte Caposele, è una magia che riesce a farci rivivere quel tempo e quei luoghi tanto da sollecitare la penna a scrivere una pagina sulla vita della povera gente che non troviamo nei libri di storia.

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Febbraio 1269. Caposele è un villaggio abitato da un centinaio di persone (17 fuochi) che, per ripararsi soprattutto dalle scorribande dei Saraceni, hanno costruito le loro abitazioni intorno al castello, presidiato da balestrieri e fanti. La tipologia delle case con muri perimetrali in pietra e tetto in paglia è una diretta conseguenza dell’andamento del terreno, abbastanza acclive: di solito vi sono un piano terra (spesso adibito a pertinenza agricola) e una scala esterna per accedere al primo piano. Il buio scende presto, nei giorni d’inverno, nascondendo la vista dell’ ubertosa valle solcata dal letto del fiume Sele. Uno dei tanti abitanti, Pietro, sta rientrando a casa con tutta l’attenzione per non scivolare sulla coltre di neve, caduta qualche giorno prima, ed ora diventata una lastra di ghiaccio; a fine giornata porta con sé non solo la fatica e le preoccupazioni di una vita piena di stenti ed incertezze, ma anche le riflessioni su una strofetta che ha ascoltato da Giovanni, suo amico, a cui ha fatto visita. 165


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Apre la porta ed entra in casa: una stanza dove il focolare acceso riscalda l’ambiente, dalla parte opposta un misero giaciglio di paglia ed al centro un tavolo con delle sedie. Sul fuoco una pentola con della verdura e la moglie Maria in un angolo che carda la lana. Pietro prende una sedia e si accosta al fuoco per riscaldarsi i piedi, ma nella sua testa continua a rimbombare la strofa udita dall’amico: “O re Manfredi, come ti giudicammo male e ora come ti rimpiangiamo! Ti credevamo un lupo rapace tra le pecorelle di questo regno, ma purtroppo a paragone degli odierni dominatori, che noi, incostanti, desiderammo, ci accorgiamo che tu eri mansueto agnello. Ora sì che riconosciamo quanto mite fosse il tuo governo, paragonato alle tristezze presenti! Noi ci lamentavamo che una parte dei nostri averi ci fosse tolta e data a te ed ora dobbiamo constatare che non solo tutti i nostri beni, ma perfino la nostra persona sono preda degli stranieri”. C’è da premettere che malgrado le tante difficoltà dei contadini, spesso al limite della sopravvivenza, il nuovo re Carlo ha imposto nel regno numerose gabelle e queste, senza alcuna intenzione, si snocciolano come si fa con i grani di un rosario nella mente di Pietro: i diritti di dogana, per il banco del macello, per l’affidatura, per l’erbaggio, per il plateatico, per la difesa, per le foreste, per le taverne, per il cambio, per le opere dei villani in denaro, per i poliedri, ed ancora per le pene, per i bandi, per le multe di terraggio, per le decime sulle case, per le terre, per le vigne, e poi per i giardini, per gli orti, per il vino, per l’olio, per tutto quello che produce la terra, ed infine per le professioni, per le arti, i mestieri e l’industria. 166


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Davvero troppe, non se ne può più. A cena, per tirarsi un po’ su col morale, Pietro beve qualche bicchiere di vino in più e così, sotto l’euforia dell’alcol, si addormenta vestito. L’indomani è svegliato dal rumore dei colpi inferti alla sua porta da un grosso bastone che ha aiutato il milite a camminare sulla neve nel tragitto dal castello a casa sua. Apre subito la porta e invita il milite ad entrare. Considerato che tale visita è inusuale, Pietro inizia a preoccuparsi e si precipita a chiedere all’uomo a cosa è dovuta la sua visita. Riscaldato da un buon bicchiere di vino gentilmente offertogli da Maria il milite informa Pietro che il re Carlo ha ordinato a tutti i conti, baroni, feudatari, sotto pena della confisca dei feudi, di recarsi bene armati e con cavalli a Lucera per combattere i Saraceni. E non solo. Ogni famiglia deve inviare un uomo armato, il più adatto alla guerra; se sprovvisti d’armi e della possibilità di comprarle devono portare con sé strumenti necessari per danneggiare il nemico: picconi, vanghe, zappe. Tutti si devono trovare nella città di Troia il giorno 5, dopo l’imminente festività della Resurrezione del Signore. Il milite va poi via e Pietro chiude la porta convinto che il nuovo re va effettivamente combattuto. Con tale determinazione esce di casa per recarsi di nuovo da Giovanni. Anche lui ha ricevuto l’ordine ed è in piena agitazione. I due in sintonia d’intenti cominciano ad imprecare contro il re ed ognuno dice all’altro i propri propositi. Sbollita la rabbia, cominciano a pensare come mettersi in contatto con gli altri ribelli, seguaci di Corradino Svevo che con i suoi soldati scorazza in alcune zone del regno liberandole dal potere degli Angioini. 167


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Prima di lasciarsi Giovanni confida a Pietro che il re Carlo nella sua crudeltà ha anche ordinato la cattura delle mogli e dei figli di tutti i ribelli che già affollano le carceri. Malgrado questo, i due salutandosi si impegnano a non ubbidire e quindi a non recarsi al ritrovo in Troia. Con l’arrivo del mese di aprile le giornate diventano più calde. E il calore è il segnale misterioso per il risveglio della natura. La valle è una meraviglia: alberi in fiore, pascoli di un verde intenso, il fiume col suo luccichio sembra un nastro d’argento su una striscia di verde, dovuto alle foglie dei pioppi e delle betulle. Pietro si alza di buon’ora al mattino. Col suo asino e le poche pecore e capre, che di notte restano chiuse nel vano terraneo, si avvia verso i campi dove passa la giornata eseguendo i lavori agricoli della stagione. Quando il sole inizia a calare dietro la montagna lascia tutto e si reca al fiume per pescare o meglio catturare (ogni mezzo è buono) qualche trota da poter consumare a cena. I tempi sono duri e molti stentano a procurarsi il cibo quotidiano. Il 9 aprile i cittadini di ogni dove e quindi anche i Caposelesi, su ordine di re Carlo, sono convocati ad un generale parlamento per poter scegliere quattro cittadini probi che devono vigilare affinché ognuno mantenga la quantità di vettovaglie necessarie alla propria famiglia e porti il superfluo in piazza per distribuirlo ai meno fortunati che ne sono sprovvisti; nessuno deve mancare del cibo di sussistenza. I probi vengono investiti anche del potere di inquisire e di confisca nei riguardi di chi fa monopolio nascondendo i viveri. 168


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Pietro, che ha una dispensa ben fornita di vino, carne salata, formaggi, olio, fave, ceci, grano e orzo, è titubante, non sa decidere se ubbidire o no all’ordine del re. Difronte, però, alla miseria di tanti paesani prevale in lui la compassione, dettata dal suo cuore; porta in piazza le vettovaglie superflue, sperando in un raccolto abbondante nei mesi successivi per far fronte all’inverno. A maggio le messi nei campi cominciano a imbiondire e al tempo stesso comincia la paura che esse vengano bruciate dai Saraceni. Il re Carlo, per far fronte a tale pericolo, fa presidiare tutte le strade e i passi del reame da militi e da cavalieri. Anche i contadini di Caposele, su incitamento di Pietro, si organizzano facendo dei turni di guardia nei campi. Passano i giorni e quando il grano è maturo inizia la mietitura. La mattina partono tutti con la propria falce e rientrano a casa stanchi all’imbrunire. Dalla finestra di casa Pietro guarda soddisfatto il suo campo laggiù, che da verde è diventato color oro e poi dopo la mietitura, è tornato color terra. Ha riempito il suo granaio e ha la sicurezza di poter passare un altro inverno. In agosto arriva a Caposele fra Bonaventura dell’ordine dei Minori, inquisitore destinato dalla Santa Sede contro gli eretici. La sua fama ha preceduto la sua venuta; infatti si è saputo che a Guardia dei Lombardi ha fatto catturare come eretici Giovanni ed Angelo Orso e ne ha confiscato i beni devolvendoli alla Regia Corte. I Caposelesi, intimiditi, seguono i passi di fra Bonaventura, mostrandosi uomini fedeli alla dottrina della chiesa. Con l’arrivo della fine dell’anno il re Carlo promulga l’indizione delle tasse e Pietro e Giovanni si accorgono 169


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che il rifiuto di recarsi a combattere a Lucera contro i Saraceni non è passato inosservato. Rispetto agli altri loro sono costretti a pagare il doppio delle tasse. Così… alla fine, i due si ritrovano più poveri ed impauriti di non farcela a passare il lungo inverno.

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1494: Caposele gode non pochi diritti del Municipium

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In un libro manoscritto in pergamena di indiscusso valore storico, consultato da Nicola Santorelli, ma andato perduto perché non si trova più nell’archivio comunale, aleggia tutto lo spirito civico del Comune di Caposele. Sintomo chiaro del progresso e della concezione moderna del Diritto Amministrativo dei Comuni e della loro autonomia, il manoscritto, intitolato “STATUTI, PLEBISCITI E CONSUETUDINI A MEMORIA DI UOMO ESISTENTI PER LIBERA ED ESPRESSA VOLONTA’ DI TUTTI E SINGOLI CITTADINI, STABILITI” e “ANTICHE IMMUNITA’ E FRANCHIGIE” è sanzionato ed approvato con firma autentica da Alfonso II d’Aragona nel suo primo anno di regno e dal suo segretario Giovanni Pontano. Si compone di 107 Statuti Municipali, riguardanti il regolamento di igiene pubblica, i provvedimenti riguardanti l’edilizia locale, le consuetudini e le proibizioni relative ai fitti, alle mezzadrie e alle “proibizioni agrarie” in genere, la polizia urbana ed ecclesiastica. Degni di nota, secondo il Santorelli, sono i capitoli 95, 35 e 36 di detti Statuti. Nel cap. 95 viene contemplato il divieto ai cittadini di donare, per qualsiasi ragione, a persone ecclesiastiche beni immobili che non siano destinati ad esclusiva proprietà della Chiesa. Nel cap. 35 si esime il Comune dal concedere contributi agli Ufficiali di Governo; nel cap. 36 il Comune si riserva di nominare periti propri circa la soluzione di vertenze e la corresponsione di indennizzi 171


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per danni eventualmente subiti, ma le determinazioni ultime sono comunque adottate insieme ai periti nominati dal Governo. Ai capitoli seguono le IMMUNITA’ e FRANCHIGIE fra cui risultano importanti la 3, l’11 e la 14. Nella 3 si dice che i cittadini non sono tenuti a dare alcuna cosa “né mobili” agli Ufficiali di Governo; nell’11 che se costoro “estorcono suppellettili dai cittadini” non solo devono restituirle, ma devono essere immediatamente rimossi dal loro incarico. Più notabile di tutte è la 14 in cui si afferma che “gli Assessori e i Luogotenenti Governativi, devono sottostare al Sindacato del Comune”. Nel testo gli statuti vengono chiamati Plebisciti dando così dignità e prestigio al Comune, “Universitas” che in tal senso tende a conservare la sua autonomia, cioè ad “emanciparsi da alcune leggi governative e a stabilirne altre a sé proprie”. Tutto questo avvalora il fatto che i Caposelesi non sono mai stati “progenie di avi pigri e servili” e che Caposele è stata sempre “popolata da animi di amor patrio e di civiche libertà ingentiliti”.

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Anno 1656: la peste

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Nel febbraio 1656 in una casa napoletana lungo la stradina sopra il mercato grande la morte improvvisa raggiunge sette persone. I decessi, limitati se raffrontati alla grande popolazione della città, sono decisamente sottovalutati ed il morbo che ha colpito non è stimato per tale. In città tutto continua normalmente, gli assembramenti mercatali e quelli per la preghiera fanno sì che nei mesi di aprile e maggio l’epidemia di peste che debilita e consuma gli uomini determini numerose vittime. La malattia si manifesta con febbre e successiva comparsa di bubboni tanto al di fuori del corpo quanto al di dentro; essi, il più delle volte, si presentano sotto le orecchie, alla gola, sotto le ascelle e all’inguine. Il panico avvolge la città e viene messo in opera tutto il necessario per contenere il morbo. Fra la gente si diffonde la credenza che quanto è accaduto sia dovuto a gente nemica che ha posto polveri e altri magisteri nelle fonti dell’acqua benedetta delle chiese. L’opinione della stessa Chiesa si basa sul “Propter peccata veniant adversa”; (i peccati mortali commessi dagli uomini attirano su di sé il castigo di Dio), per cui bisogna pregare ed implorare il perdono. Intanto la morte continua a visitare ogni casa, portando via le persone care, lasciando grossi vuoti affettivi e tanta paura. Per paura la gente comincia a fuggire per trovare rifugio presso amici all’ esterno della città. Verificatesi senza troppi controlli, le fughe, a qualunque titolo avvengono non fanno altro che accendere altri focolai del morbo. 173


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Qualcuno di questi, non si potrà mai sapere perché, arriva anche a Caposele e la violenza dell’epidemia, in quasi un anno, porta via circa seicentocinquanta persone su un totale di circa milleduecento abitanti. Resta invece indenne qualche paese vicino come Calitri, dove evidentemente non ci è stato alcun contatto con i portatori del morbo. Non è difficile immaginare la facilità con cui la malattia si diffonde nel nostro paese, arroccato come è intorno al castello dove le falde pendenti dei tetti delle case quasi si toccano l’una con l’altra a causa della presenza di strade strettissime e per l’estrema povertà in cui la gente vive. Da tutte le case si innalzano lamenti e invocazioni d’aiuto. Di fronte a tanta tragedia un frate eremita, Francesco Masucci da Volturara, lascia il proprio eremo sito alla contrada Boiaro e scende in paese per portare aiuto e conforto a tutti gli sventurati, senza alcuna riserva. Fulgido esempio di carità cristiana, per amore del prossimo il frate dona la sua vita morendo egli stesso di peste. Come l’epidemia scema, per ringraziare il Signore che ha inviato l’Angelo Salvatore viene realizzata una croce viaria in pietra, la croce dell’Angiolo, attualmente ancora al suo posto in via Ogliaro, una dei punti più antichi del paese. Trattasi di una colonna in pietra locale poggiata su un basamento quadrangolare alla base; scolpita nella pietra e deturpata poi da mani ignote, l’arma civitatis del comune1 (tre gigli, la testa d’aquila da cui sgorga un profluvio d’acqua e tre cime di monti, mentre non sono evidenti i bisanti); alla sua sommità svetta una 1

Probabilmente lo stemma originale del paese.

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grande croce2, con una particolarità: sul lato antistante la strada, alla vista dei passanti, è raffigurato, con tecnica ad alto rilievo, Gesù agonizzante in croce e, dalla parte opposta, sempre con la stessa tecnica vi è raffigurato un angelo orante con mani giunte in chiaro atteggiamento di ringraziamento a Dio per aver posto fine ai dolori del popolo di Caposele.

Pare che detta croce fosse trasportata da Pasano (derivato forse dalla voce Qua Sano), località di Caposele, dove sono state rinvenute tombe e dove forse vi era una necropoli.

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I terremoti del 1694 e del 1732

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A Giustino Fortunato, bambino, uno zio insegnava che malaria, terremoto e frana sono i tre “legati ereditari” del Sud Italia.

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Nelle fonti è rimasta ampia memoria dei sismi che hanno scosso l’Irpinia, ma in tale documentazione non sono stati sempre riportati i danni subiti da Caposele. I terremoti che hanno afflitto la nostra terra, hanno invece sottoposto gli abitanti a prove dolorose ed hanno cancellato la memoria storica di quelle cose da essi realizzate che non possono più parlare a chi vuol conoscere il proprio passato. Se però è vero che l’aspetto di un terremoto, che nessuno riesce a descrivere completamente, la lacerazione dei rapporti affettivi, lo svuotamento delle proprie sicurezze, ancorate psicologicamente alla stabilità della terra che tutti i giorni calpestiamo, e il vuoto improvviso che ne consegue imprimono sensazioni e sentimenti che accompagnano per una vita intera, al tempo stesso la memoria di eventi così disastrosi, in effetti, fortifica e chiarisce il percorso delle nostre aspirazioni, ci fa sentire legati da vincolo di orgoglio e di affetto alla terra e alla propria comunità. I terremoti, i “terremuoti” che uccidono, sono tutti uguali. Per Caposele i sismi più distruttivi di cui troviamo memoria scritta sono però quelli del 1694, quello del 1732, del 1853 e del 1980. Caposele, 8 settembre 1694, ore 17,45, il sottosuolo 176


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sprigiona un enorme energia (magnitudo 6,7-intensità X grado), accumulata negli anni, devastando il paese con forti onde sussultorie ed ondulatorie. Attimi di terrore, di convulsione, di fuggi fuggi generale al termine dei quali si contano 150 case crollate, alcune chiese distrutte, le rimanenti case rese inabitabili e, quello che più conta, la morte di 40 compaesani ed una sessantina di feriti, tante famiglie private affettivamente del sostegno dei propri cari. Le perdita in vite umane è limitata dall’orario, dal momento che molte persone stanno ancora lavorando nelle campagne. Se si considera che Caposele nell’anno 1691 conta 1185 abitanti e che una famiglia tipo è normalmente composta da 5 persone, possiamo, presumibilmente, stimare in 237 le case che costituiscono il patrimonio edilizio del paese. Quindi, con il crollo, il 63% delle case. Il paese è quasi tutto raso al suolo, considerate la forza d’urto e le tecniche costruttive dell’epoca utilizzanti solai in legno e pietra, malta confezionata con la calce per i muri perimetrali. In tal senso si possono meglio comprendere gli effetti prodotti dalla terribile frustata terrestre già preannunciatasi con la scossa verificatasi qualche mese prima il mattino del 3 marzo, alle ore 4,00. I poveri Caposelesi rimasti illesi dal terremoto si trovano costretti a vivere nell’aperta campagna con un clima che va irrigidendosi con l’approssimarsi dell’inverno. Ognuno vaga in cerca di un rifugio, una grotta, un pagliaio per passarvi le notti, ripararsi dalla pioggia, dalla neve e dal freddo. Ma le sofferenze non finiscono qui. Tutti iniziano a patire anche la fame. I raccolti, frutto di duro lavoro, sono per lo più andati perduti sotto le macerie. Nei giorni successivi i sopravvissuti iniziano il 177


recupero di quello che si è salvato, scavando con le mani nude tra le pietre che prima li hanno riparati dalle intemperie. Qui si fermano le notizie ricavate dalle fonti di memoria scritta.

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29 novembre 1732. Il terremoto è terribile; nella sola provincia di Avellino si contano 1778 morti e oltre 1000 feriti; per i paesi vicini come Conza, S. Andrea si trovano notizie documentate sui danni. Caposele non viene citato, ma si può senz’altro supporre che il nostro paese non viene risparmiato dalle stesse sofferenze arrecate ai paesi limitrofi.

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7 dicembre 1747

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La Chiesa S. Maria Mater Domini, concessa al Capitolo di Caposele nel 1527 viene ceduta ai Redentoristi. Sottoscrive l’atto il Clero locale, personalmente costituito da: D. Francesco Margotta, procuratore di Monsignor Nicolai, Arcivescovo di Conza e i MM.R.R Arciprete D. Vincenzo Fungaroli, Primicerio D. Domenicantonio Sturchio, D. Domenico Corona, D. Domenico Sturchio, Dr. D. Giuseppe Bozio, D. Antonio De Masi, D. Gennaro Salvatoriello, D. Rocco Rosa, D. Angelo D’Elia, D. Rocco Hilaria, D. Francesco Hilaria, D. Angelo Pallante, D. Lorenzo Bozio, Dr. D. Nicolò Vitamore e D. Francesco Ceres. Intervengono all’atto il MR. Padre D. Cesare Sportelli, procuratore del M.R.P. Sig. D. Alfonso Liguori Rettore Maggiore della Congregazione, e l’adunanza dei Preti Missionari nominata del SS. Salvatore. Questa la procura per l’accettazione della Chiesa fatta da D. Alfonso Liguori a Ciorani il 24 novembre 1749: “Io qui sottoscritto D. Alfonso Liguori, come Superiore dei sacerdoti nominati del SS. Salvatore, per il presente mandato di procura per epistula, confidato alla fede ed integrità del Rev. Procuratore D. Cesare Sportelli nostro compagno, costituisco mio Procuratore, concedendogli tutta la potestà bastante e necessaria…”.

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1726-1755: Gerardo Maiella; una vita meravigliosa

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Nato il 6 aprile 1726 a Muro Lucano, ridente e popoloso paese della Lucania, dove il padre, Domenico Maiella, sarto, si è trasferito in cerca di lavoro e ha sposato Benedetta Galella, Gerardo ultimo di cinque figli, vive i primi anni di spensierata fanciullezza nel quartiere Pianello del paese natio tra le amorevoli cure della sua famiglia, modesta nei mezzi di sostentamento, laboriosa e dotata di molta fede in Dio. Già da piccolo è solito costruire in casa altarini e imitare le funzioni sacre che si svolgono in chiesa. Una sera di primavera irrompe in casa e, gridando alla madre: “Mamma, guarda!” mostra un bianco panino, a suo dire, regalatogli dal bambino di una bella signora. L’episodio si ripete ancora per molte volte. Da religioso a Deliceto dirà alla sorella Brigida che quel bambino era Gesù, che non ha bisogno di ritornare a Muro, perché dovunque sta potrebbe rivederlo. Desideroso di ricevere la comunione, si accosta fanciullo all’altare, ma è troppo piccolo e il prete passa oltre. Il mattino seguente confida a Caterina Zaccardo che, dopo il rifiuto del parroco, l’Arcangelo San Michele gli ha portato la comunione nella notte. Morto il padre quando ha appena dodici anni, Gerardo deve dedicarsi al lavoro per portare pochi spiccioli in casa. Apprende il mestiere di sarto presso la bottega di mastro Pannuto e sempre, al lavoro responsabilizzato, unisce la preghiera e l’imitazione perfetta a Gesù. A sedici anni va a Lacedonia in qualità di cameriere di 180


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mons. Claudio Albini, uomo di grande erudizione, ma di carattere intransigente. Il palazzo vescovile invece è testimone di un Gerardo servizievole e dolce, silenzioso e dimesso. Un giorno, nell’attingere acqua, la chiave dell’episcopio gli sfugge di mano e cade nel pozzo. Lui non si scoraggia. Prende una statuina di Gesù Bambino la cala nel pozzo…tira la corda…alla manina pende la chiave. Sarà chiamato il “pozzo di Gerardiello”. Nell’aprile del 1749 quattro sacerdoti della congregazione del SS.mo Redentore, fondata da pochi anni da Alfonso de Liguori predicano una missione nella cattedrale di Muro. Gerardo, attratto dallo stesso ideale, chiede insistentemente di farne parte. “questa vita è troppo dura, non è per te”, replica il padre Cafaro, superiore della missione, “sei troppo gracile e poi devi pensare alla tua famiglia”. Alla partenza dei missionari il giovane viene chiuso in casa dalla mamma, ma lui non resiste. Con le lenzuola fa una corda e si cala dalla finestra, lasciando un biglietto: “mamma, vado a farmi santo”. Raggiunge i missionari. “Ricevetemi” prega, insiste; “mettetemi alla prova”; supplica di nuovo. Il padre Cafaro, scorgendo un segno del cielo, davanti alla sua insistenza, lo accetta inviandolo a Deliceto, ove è stato costruito il terzo convento della nascente congregazione. È il 17 maggio 1749. Gerardo ha quasi 23 anni. “Che bel regalo ci ha fatto il padre Cafaro!”, ironizza il superiore scrutando la sua debole salute. Il nuovo arrivato, invece, sotto lo sguardo materno della Mamma della Consolazione e col cuore calamitato dall’amore dell’eucarestia sbalordisce i religiosi. Infaticabile ad ogni lavoro, cammina verso la perfezione riproducendo in sé l’immagine di Cristo. Il suo cuore vive di amore di Dio, 181


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è alimentato dalla preghiera, vive nella sofferenza. Soffrire per amore di Dio, soffrire per Gesù, soffrire come Gesù. È il suo programma. Il 17 luglio 1752, nella chiesa della Madonna della Consolazione emette i voti religiosi di povertà, castità, obbedienza, perseveranza nella vocazione religiosa. Ormai professo, inizia la sua vita apostolica seguendo i sacerdoti nelle missioni, oppure in cerca di fondi per il poverissimo Istituto. Dai tre centri ove vive: Deliceto, Napoli, Materdomini, Gerardo irradia il suo amore a Dio. Egli passa facendo del bene, come Gesù, scuotendo anime e cuori, seminando grazie e miracoli e trascinando col suo fascino, per città e contrade, folle avide di vederlo, di sentirlo, di essere guidate nella via della perfezione. “Andate a parlare con fratel Gerardo”, dicono i missionari ai peccatori più recalcitranti. E i peccatori vengono trasformati in felici penitenti. Riconosciuta la sua innocenza, dopo la calunnia ordita ai suoi danni da una certa Nerea Caggiano, viene mandato a Napoli in compagnia del padre Margotta, procuratore della congregazione, per sbrigare delle pratiche. Si può così dedicare maggiormente alla preghiera e a un apostolato più intenso. Egli stesso, scrivendo una lettera dirà: “Io mi trattengo, qui a Napoli, ed ora più che mai me la scialo col caro mio Dio”. Comincia a prodigarsi visitando gli ammalati all’ospedale degli Incurabili. Dall’ospedale passa ai marciapiedi delle strade: incontra i poveri e li solleva dalla loro miseria. Dai marciapiedi passa alle botteghe degli artigiani e si fa artista anche lui presso una bottega di via S. Biagio dei Librai: modella crocifissi esercitando il suo apostola182


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to. Con la stessa naturalezza e con lo stesso ideale sale nei palazzi dei nobili e guarisce la figlia della signora duchessa di Maddaloni. La sua fama cresce di giorno in giorno finché raggiunge la vetta per un miracolo strepitoso. Una barca di pescatori non riesce a raggiungere la riva. Dal lido, temendo la tragedia, le donne piangono disperate. Gerardo si fa un segno di croce e si butta in mare, raggiunge la barca, l’afferra con due dita e la porta sulla riva. È verso la fine di giugno del 1754 che Gerardo arriva a Materdomini (Madre del Signore). Qui ritrova sotto un altro titolo la Vergine della Consolazione che ha lasciato a Deliceto. Gli restano pochi mesi di vita. Ha di preferenza l’ufficio di portinaio, un incarico che ama più degli altri perché gli dà la possibilità di venire in aiuto dei poveri. Durante l’inverno, per le abbondanti nevicate, molti operai, rimasti senza lavoro e senza pane, ingrossano le fila dei poveri abituali, bussando alle porte del convento. Ai poveri in portineria Gerardo fa trovare grandi bracieri accesi, poi dispensa il cibo e, conversando, parla loro di Dio e li rimanda a casa, rifocillati nel corpo e nello spirito. Si commuove per i poveri vergognosi e per le ragazze tentate di barattare il proprio onore per un pezzo di pane. Si commuove per i malati abbandonati nelle luride stamberghe e moltiplica la sua presenza per giungere a tutti. In tanta miseria vuota guardaroba, dispensa, cucina. Dio manifesta la santità del suo servo con miracoli: moltiplicando i viveri. Sarà chiamato in Caposele “Padre dei poveri”. Senerchia, Buccino, S. Gregorio Magno, Auletta, Oliveto Citra (questa sarà la sua “cara” terra), Vietri di Potenza e altri paesi ancora sono testimoni della sua carità. Minato dalla tubercolosi si consuma sul letto divenu183


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to per lui un altare su cui si sacrifica per la salvezza del mondo. Sulla porta della sua celletta fa apporre una scritta: “Qui si fa la volontà di Dio, come vuole Dio e per tutto il tempo che vuole Dio”. Sorridendo alla Madonna che gli è apparsa ed esclamando: “oh la Madonna! Quanto è bella!” la sua anima vola al cielo. Sono circa le due del mattino del 16 ottobre 17551.

Il sommo Pontefice Leone XIII ne decretò la beatificazione il 29 gennaio 1893.

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Caposele 19.06.1750 Un bacio scatena la follia dei Caposelesi

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Giacomo, un ragazzo di diciannove anni, vive alla macchia nei boschi di Balvano. La sua vita è stata predestinata dall’ambiente familiare in cui è cresciuto. Suo padre, un tipo prepotente, vive di espedienti al di fuori della legalità; datosi alla macchia, ha formato una banda che costituisce la maggiore preoccupazione dei possidenti della zona. Il ragazzo, sensibile, è invece portato ad essere di aiuto per coloro che soffrono. L’ingiustizia sociale che vive sulla sua pelle, la mancanza d’istruzione e di altri rapporti sociali oltre quello della famiglia ne fanno un vagabondo che viola spesso le leggi dell’epoca, senza far male ad alcuno. Eppure a vederlo, alto, esile, con un un viso contornato da tanti riccioli corvini e con quegli occhi di un verde scuro che trasmettono serenità, nessuno lo prenderebbe per un fuorilegge. In effetti le giornate che il giovane passa nei boschi lo aiutano a riflettere per la scelta di una vita alternativa, ma il senso dell’onore e di appartenenza alla sua famiglia alla fine prendono il sopravvento e tutto resta immutato; così Giovanni passa le giornate intervallate da qualche scorreria per vendicare un sopruso o per dare una lezione a qualche prepotente, forte del suo rango e tutelato dalla legge. È primavera inoltrata dell’anno 1749. Le battute nel bosco da parte dei gendarmi della regia udienza della provincia Principato Ultra diventano sempre più fre185


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quenti e Giacomo fatica non poco per trovare nuovi rifugi. Di giorno in giorno si sente meno sicuro su quella terra. Una notte che non riesce a prendere sonno, mette la sella al suo cavallo e parte alla ricerca di una nuova zona dove non è conosciuto. Cammina di notte al chiarore della luna e si ferma di giorno per evitare spiacevoli incontri. Si dirige verso nord con l’intenzione di sconfinare in una zona appartenente alla provincia del Principato Ultra. Dopo i boschi della sua terra attraversa quelli di Castel Grande con una grande apprensione ogni qual volta sente un rumore diverso da quello del calpestio degli zoccoli del suo cavallo che riconosce ad occhi chiusi a seconda di ciò che calpestano. Dopo alcuni giorni e dopo aver attraversato il territorio di Laviano, il giovane, trovatosi nella valle del Sele, decide di risalire, sempre di notte, le sponde del fiume. Arriva così a Caposele, che, oltre ad essere paese di confine fra le due Provincie, ha nelle vicinanze boschi e montagne e, ritiratosi nella zona San Biagio dove si sente abbastanza sicuro, decide di fermarsi. I giorni successivi scende in paese e sosta alla cantina della Portella soprattutto per conoscere un po’ di gente e bere un po’ di vino. Ma nessuno lo degna di attenzione. Per giorni continua a frequentare la cantina ed una sera mentre, seduto al suo tavolo, sta a guardare distrattamente svuotarsi, man mano che riempie il suo bicchiere, il caratteristico recipiente a forma di bottiglia ma col collo che termina allargandosi, entra nella cantina Giovanni, detto “lu mpisu”, vagabondo e dedito a faccende poco chiare. Con la sua solita tracotanza questi chiede a Giacomo chi sia e come risposta ha l’invito a sedersi al tavolo a 186


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bere un bicchiere di vino. Inizia così l’amicizia tra i due che, proprio perché isolati dagli altri uomini, avvertono maggiormente la voglia di stare insieme. Nei giorni successivi i due si vedono spesso insieme, anzi Giacomo sosta pure di giorno in paese. Una mattina, mentre si reca a casa di Giovanni, sposato con Carolina, lungo una viuzza intorno al castello, il giovane incontra una ragazza che lo colpisce per la sua bellezza; fermatosi perché la strada è molto stretta, incrocia il suo sguardo e riceve dagli occhi di Apollonia, così si chiama la ragazza, una sconfinata dolcezza che lo fa fremere di passione. Tutte le mattine, alla stessa ora, Giacomo rifà lo stesso percorso nella speranza di incontrare di nuovo la fanciulla; sono momenti di tenera dolcezza quando ciò avviene ed in tale stato egli resta per ore intere. Nei primi incontri Apollonia dà segni di gradimento per le attenzioni di quello sconosciuto, ma quando sa che il giovane è compagno di Giovanni “lu mpisu” non lo vede più con gli occhi del cuore ma con quelli della razionalità, che le consigliano di non dare corda a un poco di buono. Ad ogni nuovo incontro ella deve affrontare un duro combattimento tra il cuore e la ragione. E per paura di cedere al suo cuore innamorandosene decide di non uscire più di casa; solo così riuscirà ad essere lucida e pronta alle motivazioni apportate dalla sua mente. Ed è così che dopo alcuni mesi, conquistata dalle motivazioni sociali e del perbenismo dell’epoca, riesce a cancellare in sé qualsiasi traccia di simpatia per il forestiero. Frattanto Giacomo, preso dal pensiero e dalla voglia di rivedere la ragazza, passa tutte le giornate in paese e si comporta da persona perbene, gli è passata pure la voglia di delinquere. 187


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Nella sua mente come nel suo cuore c’è posto solo per quell’amore non corrisposto. Ormai sono mesi che non riesce a vedere e a incontrare Apollonia. Si è prossimi alla giornata della festa della Pentecoste che nell’anno 1750 cade la domenica quattro del mese di giugno e Giacomo decide, pur di rivedere Apollonia, di stazionare davanti alla porta della chiesa di S. Lorenzo in mezzo alla gente, mettendo in pericolo la sua libertà, ma si sa al cuore non si comanda e se lo si lascia fare porta su sentieri irrazionali che conducono alla felicità. Il linguaggio dei sentimenti è senz’altro più appagante di quello della convenienza che ci crea la società. Del resto così si fa emergere il linguaggio che ci viene donato alla nascita dal Buon Creatore. Pentecoste, giorno di festa, e, come tutti, anche Apollonia si prepara per recarsi a messa. Con accortezza si tira i capelli all’indietro sistemandoli in una lunga treccia che arriva sul fondo schiena, dal comò tira fuori i bellissimi orecchini, dono della nonna, e indossa un bellissimo vestito di colore blu che fa spiccare il colore olivastro della sua pelle. Esce di casa alla volta della chiesa madre, è uno splendore. Quando sbuca dal vicolo che immette sulla piazza, guardando verso l’entrata della chiesa, si accorge della presenza di Giacomo, i loro sguardi si incrociano per un attimo. Giacomo entra in uno stato ipnotico e sente il forte battito del suo cuore alle tempie. Apollonia gli passa accanto, e lui come un uomo in trance, le si avvicina e le dà un bacio. Apollonia cerca di scansarsi, ma non vi riesce. Di fronte a tale fatto subito intervengono dei giovani caposelesi per allontanare in malo modo Giacomo e 188


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per dichiararsi pronti alla testimonianza in un eventuale processo. Impaurita per il trambusto, Apollonia si mette a correre e torna a casa. I genitori, sentito l’accaduto, presentano immediatamente denunzia alla Curia Conzana, alla stessa si rivolge anche Giacomo chiedendo la dispensa per sposare Apollonia e riparare al fatto. In paese la notizia si diffonde velocemente con un efficace porta a porta, i giovani soprattutto iniziano a riunirsi tra loro per decidere cosa fare. L’onta subita da Apollonia, ma sentita anche come un’onta fatta a tutti i Caposelesi, va ad ogni costo lavata. Col passare delle ore la rabbia prende il sopravvento. I tanti che affollano la strada dove abita il primicerio sono esagitati e vogliono immediata vendetta. Così, alle sette di sera, si aprono le porte del-l’abitazione del parroco per interrogare Giacomo, rimasto lì dal mattino, e trovare una giusta ed equa soluzione al problema. Ma i giovani caposelesi, appena sono di fronte a Giacomo gli saltano addosso e lo percuotono ferocemente; nella colluttazione i più violenti Giu-seppe e Lorenzo, fratelli, e Paolo estraggono un coltello e lo colpiscono più volte. Giacomo cade a terra e muore. All’improvviso e contemporaneamente si sente il rumore degli zoccoli di tanti cavalli che battono sul fondo pietroso della strada. Un attimo di smarrimento, ma subito i primi due cavalieri dichiarano di essere venuti per assistere al matrimonio e per partecipare al convivio nuziale del loro figlio Giacomo. Non hanno modo di terminare di parlare che tra la folla i più facinorosi si precipitano verso loro e li accoltellano, il padre in modo grave e la 189


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madre lievemente. Di fronte a tutta la folla di caposelesi gli altri cavalieri, seppur dei banditi, non osano attaccare e presi i due feriti scappano fuori dal paese. Giuseppe, Lorenzo e Paolo, quelli che hanno guidato la folla, sembrano degli invasati con il sangue agli occhi, ormai preda della follia omicida. Appena vedono la fuga dei cavalieri si precipitano nella canonica e decapitano il povero Giacomo. Come ulteriore oltraggio pongono la sua testa in mezzo alla strada pubblica, denominata “ la Croce Vecchia”. Dopo tre ore di tale oscenità, su ordine del principale della Curia, il corpo del giovane insieme alla testa tagliata viene trasportato nella Casa Comunale, sita in piazza, e viene predisposta la custodia continuata da parte di sei persone. Il giorno seguente, alle ore 17.00, i congiunti degli uccisori, armati di coltelli e con grande impeto, entrano nella Casa Comunale e portano via la testa. Evidentemente la sete, spropositata, di vendetta non si è placata né è diminuita dopo un giorno. Il corpo, previo parere della Curia e del Regio Rappresentante, viene inumato il giorno sei nella chiesa di San Lorenzo in un fosso quanto più vicino possibile alla porta d’ingresso, data la testimonianza del primicerio che afferma di aver sentito Giacomo, prima dell’ultimo respiro, chiedere pietà e protezione alla Madonna del Carmelo. Testimone impotente a tale violenza è stato Giovanni, l’unico amico di Giacomo. Egli, anche se avvezzo ai soprusi e alla violenza, è rimasto inebetito dal dolore della perdita del suo amico e dalla truce violenza con cui essa si è verificata. La sera dell’uccisione, rientrato a casa, è scoppiato a piangere tra le braccia della moglie intenta a consolarlo. 190


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Giovanni assiste alla tumulazione col cuore affranto e trattenendo a fatica le lacrime; quando la prima manciata di terra inizia a coprire il corpo dell’amico esce improvvisamente dal torpore che lo ha avvolto e con mente lucida giura davanti al corpo di Giacomo che lo vendicherà, a tutti i costi. Nei giorni successivi, nella cantina della Portella, mezzo ubriaco dichiara davanti ai presenti che un giorno o l’altro ucciderà Giuseppe, Lorenzo e Paolo. Questi ultimi, venuti a conoscenza del desiderio di vendetta di Giovanni, cominciano ad uscire sempre insieme e sempre armati di coltello. Ogni giorno che passa Giovanni diventa sempre più smanioso di consumare la sua vendetta, ma è cosciente che da solo contro tre è cosa troppo difficile. Tutto ciò lo intimorisce e una sera, in preda a questa smania, pensa che se ha con lui qualcosa di sacro le sue forze e il suo coraggio si moltiplicheranno. Solo così potrà raggiungere il suo obiettivo. Ormai è deciso, deve procurarsi dell’olio santo ed una particola consacrata nella chiesetta dedicata a Santa Lucia, sita al vico Sant’Elia, aperta la mattina, per permettere ai passanti di fare le proprie orazioni, e chiusa la sera. Verso l’imbrunire Giovanni entra nella cappella e si nasconde in un piccolo vano dietro l’altare; all’ora stabilita passa l’addetto che, senza accorgersi di nulla, chiude la porta. Durante la notte Giovanni ha tutto il tempo per mettere un po’ d’olio santo in una boccettina di vetro e prendere dal tabernacolo un’ostia che con cura ripone tra due pezzi di carta. All’indomani, una volta aperta la porta della chiesetta, sta attento a non farsi vedere e si allontana. 191


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Con il suo gesto, con l’olio e l’ostia si sente invincibile e pronto ad affrontare qualsiasi pericolo. Si reca a casa dove la moglie, spaventata, lo ha aspettato tutta la notte. Senza dare alcuna spiegazione mangia del pane e formaggio accompagnato da alcuni bicchieri di vino e poi si addormenta. Si sveglia verso sera con l’idea che di lì a poco affronterà i suoi nemici. Si arma di un grosso coltello dalla lama affusolata e tagliente ed esce. Gira per le strade del paese, ma non incontra nessuno dei tre uccisori e, quando verso le ventidue ha ormai deciso di rientrare, vede Giuseppe, Lorenzo e Paolo che scendono verso il Piano. La sua mano corre ad afferrare il coltello e lui comincia con aria minacciosa ad andare incontro ai suoi nemici. Giuseppe, Lorenzo e Paolo sentendosi minacciati, decidono di prendere l’iniziativa ed accelerano il passo. Quando sono vicini, Giuseppe salta addosso a Giovanni, che dimenandosi, sembra avere la meglio. Alle grida di aiuto, Lorenzo fratello di Giuseppe interviene e con il bastone di sambuco che ha portato con sé assesta dei colpi sulla testa di Giovanni. Sotto i colpi questi crolla a terra, allora i tre lo trascinano sotto il Piano e lo sgozzano. Così termina la vita terrena di “lu mpisu”. È la sera del 19 giugno del 1750. Benché sera inoltrata sul posto arriva tanta gente tra cui il Governatore Principale della zona che fa trasportare il corpo nella casa comunale. Qui viene ordinata la perquisizione del defunto e, quando nella tasca della giacca vengono rinvenuti l’olio santo e la particola, i presenti all’unisono esclamano “Pro dolor”, increduli e addolorati. 192


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Interviene il parroco che, deposti nel battistero della chiesa l’olio e l’ostia, stende una relazione da inviare subito alla Curia Conzana. Il vicario del Vescovo ingiunge che Giovanni non deve essere sepolto in luogo sacro, che l’olio deve essere bruciato e le sue ceneri conservate in chiesa e che l’ostia deve essere posta con le altre nel tabernacolo. Solo il giorno 22 l’autorità civile dà l’assenso alla sepoltura e così, verso le dieci di sera, il corpo di Giovanni viene messo su due assi per essere trasportato al luogo dell’inumazione. Di tutti i presenti, però, nessuno, un po’ per il fetore e un po’ per timore della vicenda, accetta di trasportarlo, anche dietro compenso monetario. Solo il giorno dopo, vigilia di San Giovanni, delle persone, non a conoscenza dell’accaduto, accettano di portare il corpo nel bosco pubblico ed ivi seppellirlo. Per colui che ha pianto la morte del suo amico non vi è alcuna pietà…

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La terribile carestia dell’anno 1764

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Caposele, ultimi giorni di ottobre, anno 1763. Pietro è da poco rientrato dalla campagna. Appoggiato al portale in pietra della sua casa, sita al quartiere Melogna, la parte alta del paese, guarda con preoccupazione le finestre delle abitazioni che, ad intervalli non regolari, vengono illuminate dal fuoco acceso per preparare il pasto serale. L’oscurità sta avvolgendo celermente il paese e laggiù verso Laviano le montagne hanno la cima bianca, per la prima neve. Già, la neve! Negli ultimi anni è stata la benvenuta perché con essa si è rinnovato il grande miracolo - “sotto la neve pane”- e con la dispensa piena è iniziato un periodo di serenità da vivere con tutta la famiglia, facendo in casa qualche lavoretto prima di riprendere le attività agricole col ritorno delle belle giornate. Ora è temuta ed è fonte di grande preoccupazione per Pietro. Egli sa bene che la neve, con la dispensa vuota, apre una porta verso l’aldilà non solo alla sua famiglia, ma a tanti Caposelesi. Il suo volto, scuro di colore per il troppo sole preso durante l’estate nei campi, è pieno di rughe profonde; di tanto in tanto, volgendo lo sguardo amorevole, egli segue i gesti della moglie che si dà da fare dinanzi al focolare per far stare tranquilli i bambini e badare alla cottura della “minestra” (tipo di verdure) “asciata” (raccolta) nei campi. Questo lo rende ancora più inquieto perché teme di non poter proteggere, nei prossimi mesi, la sua famiglia. Eppure non si è risparmiato nel lavoro per assicura-

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re un tranquillo inverno ai suoi. Ha coltivato il proprio campicello e con la moglie ha lavorato come bracciante nei campi del principe Rota. Tanto lavoro, fino ad esaurirsi, ma la natura non è stata benevola per la produzione di granaglie e legumi. E, ultimamente, una forte grandine ha distrutto anche l’uva. Maria, la moglie, lo invita ad entrare perché la cena è pronta, ed egli, per mettere fine ai suoi gravosi pensieri, invoca l’aiuto del Signore perché faccia trovare loro il necessario per superare l’inverno. A tavola resta muto ed offre ai figli l’unico tozzo di pane di orzo presente sulla tavola. Maria non chiede niente, è come se sapesse ciò che frulla nella testa del marito; il suo silenzio, che vuole essere un segno d’intesa, sta a significare che anch’essa è preoccupata e disposta a lottare per la sopravvivenza dei propri figli. Addormentati i bambini e trovatisi l’una accanto all’altro nel letto, Maria abbraccia il marito facendogli sentire tutto l’amore di donna innamorata e di madre; si sa, la forza dell’amore tutto vince e Pietro, rasserenato, si addormenta. Il mattino seguente scende in paese per incontrare altri compaesani e discutere sul da farsi, sperando che qualcuno abbia l’idea giusta per vivere meno trepidamente quei giorni. Frattanto la moglie, salutatolo, si avvia in campagna con i figli per cercare altre erbe selvatiche da cucinare la sera. Arrivato in piazza, Pietro trova numerosi compaesani che commentano come usurai e grossisti accumulano beni alimentari e fanno lievitare fortemente i prezzi sicché solo i ricchi possono accedere alle derrate alimentari. Sistema perverso, che porterà a morte sicura i poveri. 195


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Dopo ore di riunioni il contadino convince tutti gli altri che bisogna andare a Napoli dal principe Rota per fargli il quadro della situazione e chiedere il suo intervento ed aiuto. All’unanimità i compaesani decidono di inviare proprio lui, che, tra l’altro, è in possesso di una buona parlantina e non si fa intimidire facilmente. A sera, a tavola, davanti alla solita minestra, Pietro racconta a Maria quanto è successo durante la giornata e le comunica la decisione di recarsi a Napoli dal principe Rota. Nell’ascoltare le parole del suo uomo così decise e ferme a Maria sorridono gli occhi. Il marito ha iniziato la lotta della sopravvivenza. Caposele è un paese isolato dal resto del Regno, sicché giorni dopo, di buon mattino, con alcuni ducati in tasca, Pietro si avvia a piedi verso Eboli, qui potrebbe trovare un mezzo per raggiungere Napoli. Il freddo è pungente e l’uomo, conscio dell’importanza della sua missione, affretta il passo; solo verso l’imbrunire, nelle vicinanze di Campagna, si ferma per consumare il tozzo di pane con un po’ di lardo che la moglie gli ha preparato e inserito nella tasca della giacca. Entrato in paese si reca in canonica e chiede ospitalità per la notte al parroco. Soltanto dopo aver ascoltato le motivazioni del suo viaggio questi, conscio che la situazione dei suoi parrocchiani non è molto diversa, per senso di solidarietà fra sventurati gli offre una stanza per trascorrere la notte. Appena coricato, la stanchezza e il calore dato dalle coperte fanno addormentare velocemente Pietro. L’indomani il suono della campana lo sveglia di buon’ora; l’uomo scende le scale della canonica in fretta per recarsi in chiesa e partecipare alla messa. Durante la consacrazione del pane, con gli occhi rivolti al crocifisso presente sull’altare, egli invoca la benedizione su di sé 196


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e la sua famiglia e la protezione per quel viaggio che lo conduce in una grande città sconosciuta e piena di pericoli. Al termine della messa entra in sagrestia, ringrazia e saluta il parroco dopodiché si incammina verso Eboli. Il sole è ormai alto quando all’ingresso della cittadina incontra dei carrettai; fra un saluto e l’altro, il contadino di Caposele viene a sapere che essi sono diretti proprio a Napoli. E’ un bel colpo di fortuna. Senza alcun timore egli chiede di potersi aggregare a loro per raggiungere il capoluogo del Regno. Il capo carrettiere, tipo allegro e simpatico, si assesta con la mano la coppola in testa e gli risponde che è gradita la sua compagnia, ma deve arrangiarsi a viaggiare sul carro in mezzo alle botti piene di vino. Adesso il viaggio non è più faticoso. Con grande curiosità Pietro guarda i luoghi attraversati e la compagnia degli altri uomini lo fa sentire poco preoccupato e sicuro di raggiungere Napoli quanto prima. A sera i carrettieri si fermano vicino ad una taverna. Dopo aver sciolto i cavalli ed averli inviati verso la stalla, si ritrovano tutti a familiarizzare intorno ad un tavolo e davanti a un buon bicchiere di vino, ma, malgrado l’euforia dovuta al vino aumenti, il contadino di Caposele resta pensieroso; a tardi, quasi ubriaco, perde la sua naturale riservatezza e racconta a tutti le sue preoccupazioni e quanto dipenda da quel suo viaggio la sorte della sua famiglia e quella dei suoi compaesani. Il sonno lo coglie poi all’improvviso… L’indomani mattina, con un mal di testa post-sbornia, Pietro sale sul carro; ad un accenno del capo-carrettieri tutti i carri si muovono prendendo la strada per Napoli e dopo poco, il carrettiere dalla cassetta di guida indica a Pietro una montagna dalla cima “calva” cioè senza vege197


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tazione. “E’ il Vesuvio, - gli grida - il vulcano che di tanto in tanto impaurisce i napoletani”. Pietro lo guarda attentamente ed un senso di paura si impadronisce di lui, ricorda di aver sentito da alcuni vecchi che in passato, durante le eruzioni più violente, anche Caposele si era oscurata sotto una pioggia di cenere, tant’è che il parroco ed i residenti, spaventati, non capendo cosa stesse succedendo, avevano organizzato una processione per le vie del paese pregando intensamente perché tutto tornasse alla normalità, cosa che era avvenuta dopo alcune ore. Assorto in questi pensieri il contadino è portato a fare anche delle considerazioni sulla precarietà e sulla vulnerabilità degli uomini. Noi tutti sappiamo che la nostra esistenza è in stretta relazione alla Madre Terra e che nei momenti che questa diventa matrigna si spezza il filo amorevole con la natura che ci aiuta a crescere ed a vivere, ed allora sono guai. Proprio questo Pietro paventa per i prossimi mesi, allorquando la neve coprirà la terra di Caposele e dei paesi vicini. La vista del mare lo distoglie poi dai suoi pensieri e l’estensione di tanta acqua lo impressiona. Ha sentito parlare del mare, ma mai avrebbe immaginato una distesa d’acqua così grande. Da una meraviglia ad un’altra, ecco le prime case grandi e a multipiani della città. Ogni cosa che vede per lui è una novità. I carrettieri fermano i carri a piazza Mercato. Pietro scende dal carro, è contento di essere giunto a Napoli. Prende il suo sacco, ringrazia e saluta tutti e su indicazione di un napoletano si avvia verso via Tribunali, dove sa trovarsi il palazzo del principe Rota. Le strade sono rumorose a causa delle tantissime carrozze e molta gente è in giro alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti a casa. Anche qui la carestia fa sentire i suoi effetti. Ad 198


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un tratto l’uomo vede una folla rumorosa che si accalca davanti ad un palazzo e istintivamente si avvicina per vedere cosa succede. Subito viene informato che di lì a poco un gendarme distribuirà le pagnotte cotte nel forno. Nel momento in cui il gendarme consegna il primo panetto uno spingi spingi si trasforma in un attimo in calca. Ognuno vuole avere la pagnotta prima che esse si esauriscano e ben presto la calca degenera in una rissa generale. Alcuni vengono selvaggiamente calpestati e rimangono a terra. Impaurito, Pietro scappa via pensando che la fame è davvero una brutta bestia. Chiede indicazioni ad una persona per giungere a via Tribunali e questa si dichiara disponibile ad accompagnarlo. Così, man mano che avanzano lungo le strade, Pietro viene informato che, malgrado i bandi emessi dal Re per evitare i monopoli di derrate alimentari, la fame in città cresce sempre di più. Addirittura alcuni fornai aggiungono alla farina polvere di marmo ed altre diavolerie per cui non pochi napoletani hanno gravi problemi intestinali. Secondo il suo accompagnatore sarebbe molto più semplice e utile informare i commercianti esteri e fare arrivare sulla piazza grandi quantità di grano, il che calmierebbe il suo prezzo e renderebbe il suo acquisto accessibile a tutti. Il contadino ascolta con grande interesse e trova sensato quello che dice il napoletano. Poi si mette subito alla ricerca del portone di casa Rota riconoscibile dallo stemma del casato: un’aquila con le ali spiegate, con corona in capo e uno scudo, a forma di cuore, sul petto. Si porta da un portone all’altro e finalmente trova il portone con lo stemma a lui noto. Ci siamo. Appena varcato il portone viene fermato da un uomo al quale presenta 199


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la richiesta di voler incontrare il principe di Caposele. L’uomo si allontana e ritorna poco dopo, riferendo che il principe lo riceverà il mattino seguente; nel frattempo potrà sistemarsi in una stanzetta al piano terra per passarvi la notte. La notte per Pietro è un continuo dormiveglia; egli pensa a quali parole usare per presentare la richiesta di aiuto e soprattutto a come convincere il principe ad intervenire concretamente. L’indomani viene chiamato dallo stesso uomo della sera precedente e, dopo aver salito una scalinata talmente ampia da incutere timore, viene introdotto nel salone. Una volta che l’accompagnatore si è congedato con un “il principe arriva presto”, Pietro resta solo. Tante cose lo colpiscono in quella stanza, soprattutto i dipinti del soffitto, ed è con il naso all’insù che il principe lo trova entrando nel salone. Il contadino repentinamente si ricompone ed accenna ad un segno di riverenza. Senza aspettare alcuna domanda si presenta e riferisce della drammatica situazione dei suoi braccianti e di tutti i Caposelesi. Lo fa con tanta passione e partecipazione che il principe si rattrista a tal punto che una lacrima fa capolino nei suoi vecchi occhi. Dopo aver tanto ascoltato, il Rota resta in silenzio. A Pietro sembra un tempo interminabile. Il principe con voce roca si rammarica di non aver fondi da poter destinare alla causa; per quanto si senta partecipe della tragedia che si sta consumando sulle sue terre, anche il suo casato si trova in gravissime difficoltà. Il volto di Pietro diventa allora cereo ed addolorato. Il principe resta pensieroso per qualche minuto poi riprende a parlare e a dire che qualcosa comunque va fatto. Si avvicina ad una scrivania e presa una penna e un foglio inizia a scri200


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vere, poi piega il foglio e lo chiude in una busta sulla quale scrive “All’attenzione del Superiore di Materdomini Padre Gaspare Caione”. Consegna la lettera a Pietro, dicendogli di avere fiducia perché ha un buon rapporto con la comunità dei padri Redentoristi e lo congeda. Pietro scende le scale in uno stato di trance, non riesce a focalizzare se quella lettera avrà i suoi frutti. Quando è entrato in casa del principe ha immaginato di tornare a Caposele con qualcosa di più concreto. Così continua quell’incertezza del domani che lo ha accompagnato durante tutto il viaggio. Cammina tra la gente, ma niente e nessuno lo distoglie dal suo unico pensiero: servirà quella lettera? Passando per piazza Mercato e vedendo dei legumi in vendita pensa di acquistarne per portarli a casa, ma appena chiede il prezzo, molto alto, si rende conto che con quei pochi soldi che ha in tasca non riesce a comperare alcunché. Riprende la strada del ritorno e dopo un paio di giorni entra in Caposele. Dato uno sguardo alla sua casetta, lassù in alto sotto la montagna, decide di salire a Materdomini per consegnare la lettera al Superiore, così può dare risposte più precise a Maria e ai compaesani che lo aspettano speranzosi. Gli bastano pochi minuti per percorrere la vecchia stradina, battuta in passato anche da San Gerardo, e trovarsi davanti alla funicella della campana della portineria del convento. Un paio di tirate ed il rumore della campanella avverte il frate portinaio, che apre dopo qualche minuto. Il contadino viene accompagnato da padre Caione per consegnare la lettera. Il Superiore la apre e la legge, dopo rassicura Pietro dicendo che incrementerà l’ aiuto per soccorrere i poveri Caposelesi. In realtà, nella comunità dei Redentoristi, c’è Padre Andrea Morza di Caposele che, sebbene minato nella sa201


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lute, instancabilmente fa opera di persuasione per portare aiuto ai bisognosi, non solo nella propria comunità, ma anche presso tutte le famiglie più facoltose. E non è raro che, dopo una sua visita, la famiglia interessata presti soccorso ai poveri del proprio quartiere. Per Padre Andrea è più forte la sofferenza di non poter rispondere alle richieste di aiuto che gli pervengono attraverso lo sguardo dei bambini macilenti, mal vestiti, denutriti che incontra nelle sue uscite che la sofferenza che vive sul proprio corpo in preda alla tisi. Ormai conclusa la sua missione Pietro, infreddolito e stanco, rientra a casa. Vicino al fuoco si riscalda e si gode la gioia dello stare insieme alla propria famiglia. Dopo una magra cena a base di erbe selvatiche e lambascioni, Maria si siede accanto al marito e gli racconta che in quei giorni che è mancato si sono avuti dei decessi. A morire sono stati degli anziani per mancanza di cibo e quei bambini, le cui mamme avevano le mammelle vuote. La situazione di certo peggiorerà nei giorni a venire, visto che la neve scenderà a quote sempre più basse. Le notizie ascoltate riportano Pietro alla triste realtà e la gioia lascia posto nel suo cuore alla tristezza accompagnata da un senso d’impotenza. Nei giorni successivi i Padri Redentoristi, dando fondo alle proprie casse, comprano dai monopolisti grandi quantità di alimentari che vengono distribuiti tra i poveri e che, se pure non riescono a soddisfare tutti, limitano la portata della tragedia. Tutti i giorni e più volte al giorno le campane del campanile avvertono della dipartita in cielo di Caposelesi. Anche Pietro ormai, con i campi coperti di neve, non 202


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riesce ad andare avanti, è da più giorni che tocca poca roba, preferendo lasciare quel po’ di cibo a Maria e ai propri figli. Passa del tempo e Pietro vede che il viso di Maria diventa sempre più scarno, anche se ella non si lamenta. Ogni volta che torna a casa a mani vuote il pianto dei figlioli per la fame lo fanno sentire una nullità. Solo la morte può cambiare quello stato di cose. Le mamme, si sa, soffrono in maniera ancora più profonda quando non possono sfamare i propri figli e Maria, Dio solo lo sa, quanto soffre. Una sera in cui fatica a prender sonno, la donna pensa che l’unica cosa possibile è quella di riunire tutte le mamme ed organizzare una processione, col parroco, per chiedere perdono al Signore e il sollievo del popolo dalla mortale afflizione. Dopo alcuni giorni una processione di donne con croci sulle spalle e corone di spine sulla testa, a piedi nudi, percorre la strada della Portella, coperta di neve. Qui sono riuniti degli uomini per discutere sul da farsi e a quella vista calde lacrime solcano le loro guance. La disperazione ormai gravita nel paese. La tragedia ora colpisce davvero tutti. Col freddo e la carestia si diffonde anche una febbre tifoidea che va a colpire pure i ricchi che hanno accaparrato derrate alimentari. Il parroco seppellisce i morti solo con una benedizione, visto l’alto numero dei decessi giornalieri. Dopo Natale, Pietro si rende conto che ormai la sua famiglia è allo stremo e passare gennaio e febbraio, i mesi più rigidi dell’anno, è impresa impossibile. Senza consultarsi con Maria si reca da don Pasquale e gli propone in vendita la sua casetta. Dopo un’estenuante trattativa la cede ad un prezzo molto al di sotto 203


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del valore reale. Riesce solo a strappare l’impegno di lasciare la casa con l’arrivo dell’estate. Presi i soldi, parte immediatamente verso Oliveto Citra, dove non c’è neve, e lì riesce a comprare fagioli e fave secche, poi, col sacco sulle spalle riprende la strada per Caposele. Maria intanto sull’uscio di casa è disperata, all’interno i bambini piangono e all’esterno il marito non si vede. E’ sera inoltrata quando Pietro arriva a casa e, dopo brevi spiegazioni, seduto, resta estasiato dal borbottio che proviene dalla pignatta posta vicino al fuoco per cuocere i fagioli. Nei giorni successivi va di paese in paese per comprare qualcosa e la sua dispensa diventa sempre più piena. Una sera, addolorato per la morte di un suo caro amico, decide, insieme a Maria, di mettere da parte le derrate che garantiscono la sopravvivenza della famiglia fino all’estate e di distribuire la restante parte ai poveri. Entrambi provano una gioia, mai assaggiata prima, nel dare quando loro rimane, svincolati da qualsiasi forma di egoismo. I mesi successivi sono tremendi e a Caposele si contano 363 morti. Il 5 agosto 1764 anche Padre Andrea Morza, in odore di santità, rende l’anima al Signore, quasi a sancire la fine della tragedia. Con l’arrivo dell’estate Pietro con moglie e figli va ad abitare nel pagliaio sito sul suo appezzamento di terreno, ma è comunque contento di aver saputo salvaguardare la propria famiglia; le giornate di sole gli rinnovano le energie, sicché può riprendere a lavorare sodo nei campi e provvedere ai bisogni della sua famiglia.

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Anno 1799: Il sogno di libertà ed uguaglianza della repubblica napoletana

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Reperire da fonti scritte notizie sulla vita di Caposele e dei Caposelesi al consumarsi del tempo e con esso degli avvenimenti che non sono solo quelli riportati dai libri di storia è impresa ardua, pressoché impossibile. In paese, escluso Nicola Santorelli, nessuno ha scritto sulle vicende del suo tempo anche perché non erano molti quelli che erano in grado di leggere e scrivere. Per questo la notizia reperita sul registro dei morti dell’anno 1799 è una preziosa eccezione, dovuta alla mano tremula del curato dell’epoca che forse, per paura di compromettersi, nel fare delle annotazioni sui fratelli Ilaria, ad un certo momento, si pente di quello che pensa essere una sua esternazione e con scarabocchi ne cancella qualche riga. Il tutto è ben comprensibile se ricordiamo di essere nel periodo delle feroci vendette da parte dei Borboni su quanti scrivono, partecipano o semplicemente simpatizzano per la repubblica napoletana. Sulla base di dette annotazioni è d’uopo riconoscere che i fratelli Ilaria chiusero i loro occhi su un sogno di libertà e uguaglianza che si sarebbe avverato molto tempo dopo e che il loro sangue senz’altro ha marcato indelebilmente le menti e i cuori dei Caposelesi. Le annotazioni del curato così recitano:

1 - Magnifico D. Vincenzo Ilaria Professore di Legge morto nelle carceri di Salerno a dì 1° g. di Dicembre 1799, perché avea fatto mandare alle stampe uno scritto contro il benigno Governo del nostro Ferdinando quarto, per così guadagnarsi 205


la benivoglienza de’ Francesi… della città di Napoli, di tutto il Regno…

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2 - Rev. Sacerdote D. Giambattista Ilaria, Germano del sopradetto D.Vincenzo morto ancora nelle sopradette carceri a dì 21 dello stesso mese, perché in questo paese volle comparire colla fascia francese, perché destinato Commissario della stessa Nazione, benché dopo rinunziato alla carica se ne fusse pentito, come egli dicea.

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Di fronte a siffatti episodi ogni casa del paese, secondo la propria cultura, cerca di capire e comprendere il motivo e soprattutto la fonte da cui trarre il coraggio per andare incontro alla morte per qualcosa che ai più sembra incomprensibile e rivoluzionaria. L’entrata in Napoli di Championnet a fine mese di gennaio 1799, favorita dagli studenti e dai letterati ed ostacolata dalla plebe, ha aperto una stagione di speranza: i valori della rivoluzione francese possono impiantarsi anche nel Regno delle due Sicilie. L’attesa non porta però frutti. Nei mesi successivi l’opinione politica del popolo che non è pronto a questa nuova visione sociale fa resistenza, provocandone il fallimento. Al contrario di quanto successo a Napoli, la rivoluzione è scoppiata in Francia dopo tre anni di discussioni e sommosse, per cui il popolo ha sentito propri gli ideali di libertà, di uguaglianza e fraternità e per essi è disposto ad immolarsi. Nel Regno delle due Sicilie la plebe, abituata a più di settecento anni di governo assolutistico del re, alle gabelle feudali, e a mantenere lo stato sociale della nascita, in un primo momento non accetta queste nuove idee e le combatte. Successivamente, interpretando a suo modo 206


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gli ideali di libertà e uguaglianza, comincia ad entrare nelle riserve di caccia dei baroni, a coltivare e a piantare alberi in terreni non propri e a non corrispondere più le gabelle del feudalesimo. Le notizie provenienti dalla Francia provocano nel Regno grossa confusione sicché viene inviato e/o scelto in ogni paese un Commissario per spiegare le nuove idee dei francesi. A Caposele le veci del Commissario sono svolte dal Sacerdote Giambattista Ilaria che, in contatto col fratello Vincenzo, professore di legge a Napoli, manda alle stampe un opuscolo a favore della repubblica napoletana. È proprio lui uno dei delegati del Vaglio di Caposele che si battono a Napoli con successo affinché alla costituente Guardia Nazionale possano partecipare tutti, anche ai più alti gradi, senza tener conto dei legami di nobiltà. Per le strade di Caposele il Sacerdote Giambattista chiarisce il vero senso della parola libertà e uguaglianza; libertà è nascere liberi di poter, secondo le proprie capacità intellettuali e intellettive, costruirsi il proprio avvenire svincolato da qualsiasi laccio di appartenenza sociale, uguaglianza è da intendere come uguaglianza politica, cioè di avere tutti gli stessi diritti di rappresentanza per la scelta di qualsiasi forma di governo. Ma considerati il grosso tasso di analfabetismo dei Caposelesi dell’epoca e il fatto che in più occasioni il popolo di Caposele, viene definito “freddo” pochi partecipano alla nuova iniziativa del sacerdote. Tutta la restante parte del clero di Caposele e Materdomini resta sulle posizioni dei Borboni, impaurita dalle intenzioni dei repubblicani di espropriare i beni della chiesa e limitarne i privilegi. Solo pochi parroci aderiscono alla repubblica napoletana e, prendendo a spunto i passi della Bibbia esal207


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tanti l’uguaglianza politica fanno grosse prediche sulle piazze pubbliche1. La guerra civile, tra pro e contro la repubblica, termina a giugno col ritorno a Napoli del re Ferdinando. Questi, contrariamente a quanto promesso, inizia a vendicarsi con tribunali farsa di tutti quelli che a qualsiasi titolo hanno appoggiato la repubblica napoletana. E cosĂŹ anche i fratelli Ilaria pagano nel carcere di Salerno con la propria vita. Le notizie si fermano qui, ma possiamo immaginare anche le torture fisiche e psicologiche a cui furono sottoposti i nostri compaesani; per tutto ciò essi dovrebbero essere additati come esempio di eroismo alle future generazioni caposelesi.

In essi possiamo vedere i precursori della teologia della liberazione affermatasi in America latina negli anni settanta. 1

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Primi anni del 1800: La ruota per gli “esposti”

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Scrivere la pagina dei neonati abbandonati, i cosiddetti “esposti” o “projetti”, è sempre doloroso; non si riescono mai a comprendere appieno i sentimenti struggenti che devastano la mamma che, per povertà lascia il proprio infante in un cespuglio o davanti al portone di una chiesa o di un convento. Parimenti si può solo immaginare la trepida attesa con cui ella cerca di vedere chi raccoglie il proprio bimbo per assicurargli un futuro più benevole. Il distacco è di un tale dolore che muta l’anima di chi lo compie anche perché si tratta di un gesto innaturale. Ogni mamma desidera, infatti, stringere a sé il proprio bambino, allattarlo, vederlo crescere e lasciarlo uomo in tarda età con la propria benedizione, per fargli ben continuare il viaggio su questa terra. I testi consultati ci fanno intendere che il fenomeno dell’abbandono è già di una certa portata verso la fine del sedicesimo secolo. Per quanto riguarda il Regno di Napoli, verso il 1785, la media annuale degli esposti ammonta a circa 25000. Le cause del problema sono molteplici, riconducibili soprattutto all’indigenza e all’onore. I sacerdoti predicano e raccomandano nelle istruzioni domenicali, catechistiche e quaresimali di non abbandonare gli infanti e, se in casi di necessità lo si deve fare, di lasciarli in luoghi preposti o preparati a riceverli. Gli stessi parroci invitano i fedeli a meditare sulla 209


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perdizione eterna dei bambini deceduti senza battesimo, istruiscono le ostetriche al rituale del battesimo e si accertano che ciascuna di esse ne conosca bene la formula e sappia recitarla senza sbagliare. Ciò chiaramente è utile anche per quei bimbi che nascono in pericolo di vita. Questo ci spiega l’uso di lasciare sull’infante abbandonato una “schedula” riportante generalmente il nome e la notizia che il bambino è stato o non battezzato. A volte la mamma, sul cartellino o sugli stracci in cui è avvolto l’infante, escogita qualche segno particolare, nella speranza che in seguito potrà richiedere il figlio indietro. A partire dai primi mesi del 1801 si inizia a legiferare in materia, prescrivendo la presenza di almeno una ruota in ogni Comune, al fine di evitare i molti infanticidi, e l’obbligo da parte delle amministrazioni a contribuire alla pubblica beneficenza. La ruota, in legno, gira intorno ad un asse verticale; la parte verso l’esterno è predisposta per poggiare l’infante, dalla stessa parte c’è una cordicella legata ad una piccola campana, sita all’interno. La cordicella viene tirata per avvertire col suono della campanella l’abbandono di un neonato. Una donna all’interno dell’edificio raccoglie l’infante e lo consegna alla presidente dell’associazione dei bimbi abbandonati per l’affido o per le cure di una nutrice. La mancanza dell’affetto e delle cure di una vera mamma non possono essere sostituite da una nutrice a pagamento. A volte, per povertà e per ricavare qualcosa in più, la nutrice prende più bambini contemporaneamente, sicché l’incidenza mortale dei bimbi, già alta per le condizioni di povertà, aumenta di molto per l’insufficienza di latte. 210


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Per i sopravvissuti dopo il terzo anno, finita l’assistenza della balia, inizia un nuovo calvario per trovare un’adozione. Questa è più facile per i maschi, individuati come braccia lavoro in una famiglia; le ragazze, al contrario, molte volte sono, dalle condizioni esterne, costrette a fare le meretrici. Dunque essere abbandonati, per quanto ingiusto e doloroso, apre solo una porta per una vita di dolore e stenti. Nei registri parrocchiali di Caposele troviamo casi simili che hanno lacerato le anime di tante povere mamme. Ad esse non può andare che il nostro affetto. Poiché molti abbandoni nella nostra terra risultano privi della famosa schedula, l’ostetrica o la direttrice assegnano un nome al bimbo in piena libertà, usando a volte la fantasia; a volte danno anche un cognome, legato al luogo o al periodo di ritrovamento, onde evitare di far prendere il cognome classico Esposito o Projetto. Di solito, però, l’amore incommensurabile della mamma per la propria creatura viene manifestato nel nome che ella scrive sulla “schedula”, alcuni di questi sono qui riportati lasciando al lettore le proprie considerazioni: Amassai, Amadio, Amorosino, Belfiore, Bellezza, Bellosguardo, Pecerillo, Formosa. Ci sono anche mamme, le cosiddette ragazze madri della nostra epoca, che con coraggio, considerata l’epoca e la situazione culturale nei riguardi di tale tema, accettano pubblicamente la maternità, dando il proprio cognome al neonato e pagando di persona il loro sbaglio. A tale proposito, per rendere vive siffatte situazioni si riportano due episodi trascritti nei registri di nascita parrocchiali, lasciando ad ogni lettore, a seconda della propria sensibilità, le proprie impressioni. 211


Primo episodio

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È comparso Antonio Ruglio di anni cinquanta di professione muratore domiciliato a Caposele strada San Francesco ed ha dichiarato che in questo stesso giorno (24.03.1813) a circa le ore nove essendo uscito di sua casa pochi passi lungi dalla Chiesa alla via San Francesco, per i suoi bisogni, ha inteso piangere un fanciullo per cui ha chiamato sua moglie chiamata Teresa Farina di anni quarantacinque, faticatrice domiciliata con lui ed avendo fatto accendere il lume si son portati sul luogo ove sentivasi il pianto ed ha trovato avanti la porta di detta chiesa un fanciullo tale come ci si presenta involto in alcuni cenci con cartellino in petto nel quale trovasi scritto la seguente leggenda Maria Fortunata battezzata; dopo aver visitato il fanciullo abbiamo riconosciuto che era femmina dell’età apparente di un mese. Abbiamo indi ordinato che si fusse consegnata a Maria Del Buono, vicedirettrice dei Projetti a cui si è dato il nome di Maria Fortunata Moretti, cognome imposto dalla deputazione dei Projetti.

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Secondo episodio

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E’ comparso Lorenzo Rosalia di anni quarantuno di professione bracciale domiciliato a Caposele strada Pietraquaresima ed ha dichiarato che in questo stesso giorno (23.07.1813) a circa le ore dieci essendosi recato nel suo territorio sito alla Serra campana per travagliare ha inteso piangere un fanciullo per cui ha chiamato il suo fratello Luigi di anni trentotto domiciliato a Caposele medesima strada e riunito allo stesso ha preso il fanciullo davanti la porta di un magliaro ivi esistente, involto in alcuni cenci, con cartellino in petto, sciolto vi ci è veduto la seguente leggenda non battezzato. Dopo aver visitato il fanciullo abbiamo riconosciuto che era maschio dell’apparente età di giorni due. Abbiamo ordinato che si fusse consegnato a 212


Maria del Buono, vicedirettrice dei projetti cui si è dato il nome di Silvio Maria Serra, cognome imposto dalla deputazione dei projetti.

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Due esempi significativi su come la deputazione dei projetti assegna a volte i cognomi, nel primo caso probabilmente il bimbo, essendo di pelle bruna, assume il cognome di Moretti, nel secondo caso per il nome si fa prevalere il fatto di averlo trovato in aperta campagna e per il cognome si attribuisce quello della localitĂ del ritrovamento.

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(Nicola Santorelli)

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“Già di lato alla cima del monte Paflagone spunta Espero per ispecchiarsi nelle acque delle fonti del Sele, quando le donzelle di Caposele del medio e del basso ceto corrono ad attinger l’acqua dove rampolla il fiume… piegato il grembo per riempir le anfore, si miran nelle sorgenti, e nuovo brio par che venga su le loro sembianze…Fan vista di riposar, ma non è che amorosa tardanza. Attendono i loro amanti, talchè, venuti colà gli innamorati, si fanno i primi ricambii di amore spesso preannunzii dei futuri loro sponsali: però alcune volte quell’occhieggiar va fuor dei confini, o tiene un non so che d’agguato e di insidia. E se vi siano licenziosi giovinastri, la cosa può uscire a fine non lieto…”

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Anni 1813-14: La rapina al procaccio e il ratto delle Caposelesi

E’ una torrida giornata d’agosto e la gente cerca di combattere la canicola restando all’ombra dei grandi alberi d’acero. Il bandito Quagliarella con i suoi compagni, una ventina di uomini, sosta in una zona alberata sita tra le montagne di Caposele e Bagnoli. Tra un pisolino e l’altro alza lo sguardo verso il pro214


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montorio per vedere se la sentinella fa qualche cenno per avvertirlo dell’avvicinamento di uomini a cavallo. L’attesa lo rende nervoso. Quando il sole scompare nella valle tra i due monti che gli stanno di fronte l’uomo comincia a preoccuparsi e, per non darlo a vedere ai suoi compagni, ordina che si vada a cercare della legna secca per poter arrostire le lepri prese la mattina presto. Accesa la legna e infilzate le lepri, tutti cercano un posto accanto al fuoco perché la temperatura col calare della sera è diventata fresca. Poi ognuno si abbandona ai propri pensieri più intimi, mentre fissa le fiamme danzanti del fuoco. Restano tutti in silenzio, avvertendo nell’aria lo strano comportamento di Quagliarella. Il silenzio viene interrotto dal fischio dell’uomo di guardia. Tutti sussultano e prendono le armi, Quagliarella velocemente raggiunge la postazione di guardia. Il buio di fronte non è penetrabile, ma si sente sempre più forte il battere di zoccoli sul terreno. Il bandito ordina ai suoi di stare pronti, ma di non sparare, perché è da mezzogiorno che attende la banda di Milone, costituita da oltre venti uomini, tutti del paese di Muro Lucano. Sgattaiolando, avanza, mantenendosi di lato alla direzione da dove proviene il rumore e attende il passaggio dei cavalli. Poco dopo riconosce Milone, alla testa della fila, lo avverte della sua presenza e subito ordina ai suoi uomini di ritirarsi. Le due bande riunite iniziano a gozzovigliare. Gli uomini sono allegri di ritrovarsi ancora una volta insieme e tra un racconto e l’altro tracannano del buon vino. Quagliarella, appartatosi con Milone, spiega il motivo della chiamata: c’è da fare una rapina al procaccio nei pressi di Eboli. Confortato dalla notizia della grossa cifra in ballo, Milone si rende subito disponibile a partecipa215


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re all’azione. Si avviano verso i compagni e vi arrivano mentre Rocco, uomo di Muro, racconta di quella volta che insieme alla banda del prete Amelio di Lioni e quella del prete Giuseppe Paterna di San Gregorio pianificarono una razzia durante lo svolgimento della fiera che si teneva davanti al convento dei Redentoristi a Materdomini il giorno 8 settembre del 1809. Era tutto pronto, le bande erano riunite sui monti di Laviano quando la sera precedente furono avvertiti che la compagnia dei fucilieri di stanza a Laviano si era portata a Caposele. La notizia fece desistere dal colpo ed ogni banda ritornò nel proprio territorio d’azione. Trascorre intanto del tempo e quando è notte fonda, vinto dalla stanchezza e dai fumi dell’alcool ognuno, coprendosi alla meglio, prende sonno. Un poco prima del sorgere del sole Quagliarella dà la sveglia e ordina di prepararsi alla partenza. E’ l’alba del giorno 14 agosto. Appena pronti, i briganti iniziano a muoversi in colonna. Un pastore, che ha menato le pecore a pascolare sopra un promontorio, nota la lunga fila di uomini che a spron battuto si dirige nella direzione sud-est verso la piana di Eboli e, a sera, rientrato a Bagnoli, avverte le autorità, che, a loro volta, informano il Generale dell’abbandono del territorio da parte della comitiva di Quagliarella. Il generale a sua volta ordina che vengano avvertiti il Sotto Intendente di Campagna e il Capitano Ferrari di Eboli. Il sotto intendente ringrazia della notizia, ma risponde che, a suo giudizio, essa sembra poco veritiera: non è pensabile che nell’attuale stagione i briganti preferiscano l’afa della piana alla frescura della montagna. Nella sua superficialità egli omette di allertare i cittadini 216


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armati di Eboli. Anche il Capitano Ferrari, trascurando completamente l’informazione ricevuta il giorno 15, non prende alcun provvedimento cautelativo. Frattanto gli oltre quaranta uomini delle due bande riunite si avvicinano ad Eboli. E’ la sera del 16, a buio inoltrato essi si nascondono in una delle grotte site vicino alla Fontana del Fico, lungo la strada che porta verso la Calabria. La notte quasi nessuno riesce a prendere sonno e di questo sono tutti consapevoli, poiché non si sente alcuno russare o respirare pesantemente. Infatti sono tutti tesi immaginando quello che potrà accadere l’indomani mattina. Ogni soluzione è possibile, anche quella di lasciare la propria vita sul posto. La posta in gioco è alta, ma la miseria e la fedeltà ai propri compagni condizionano la scelta, sicché tutti restano convinti che il rischio va affrontato. La luce del nuovo giorno, che squarcia il buio della notte, trova ognuno pronto all’azione, acquattato a ventre in giù con le armi spianate e pronte a far fuoco. E’ la mattina del giorno 17. I briganti non devono attendere molto; ecco, preceduta dal rumore, l’arrivo della carrozza del procaccio. Una pioggia di pallottole si abbatte sugli uomini di scorta e un gendarme ausiliario rimane ucciso. I superstiti, vista la grossa mole di fuoco, scappano via. Gli assalitori, rotte le casse, portano via il denaro, circa 8000 ducati, e prendono la via verso la montagna di Campagna di S. Erasmo. Tre Campagnesi, che stanno lavorando nella zona vengono con la forza costretti a fare loro da guida fino al Polveracchio. Di qui gli uomini delle due bande prendono la direzione del Principato Ultra, cercano di andare veloci e nello stesso tempo di provare a intuire la reazione dei gendarmi alla notizia della rapina. Il co217


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lonnello Belleli è a Caposele quando sulla rapina arriva il rapporto del Sottotenente di Campagna. Il Generale lo fa partire immediatamente con la gente disponibile verso il Polveracchio. Frattanto il sottointendente, ricevuta la notizia, ordina al tenente Mantenga, il capo dei cittadini armati, di dirigersi con i suoi uomini di Campagna e i legionari verso la montagna di S. Erasmo. E’ una decisione sbagliata perché dovrebbe dirigerli alla località Crocecchia, per farli trovare innanzi ai banditi e non indietro. E così, per la seconda volta, la fortuna aiuta Quagliarella e i suoi. Dopo alcune ore di corsa trafilata, i briganti si fermano per dividersi il bottino; poi Milone e i suoi uomini si separano e si avviano verso le terre di Muro Lucano. Quagliarella chiama a raccolta i suoi uomini e dopo qualche minuto di riflessione comunica che è oltremodo pericoloso tornare sulle montagne di Bagnoli perché è proprio lì che probabilmente li andranno a cercare, meglio sarebbe rifugiarsi tra le montagne di Senerchia e passarvi il tempo necessario per far calmare le acque. Tutti la ritengono una proposta sensata e si rimettono in cammino. Dopo un giorno di marcia, arrivati nel tenimento di Senerchia, in una zona impervia e poco trafficata trovano delle grotte carsiche e lì si nascondono. Inizia un lungo periodo alla macchia. I briganti prendono ogni accorgimento per non essere visti quando escono dal nascondiglio per andare a caccia di selvaggina e di cinghiali. Prendono contatti con un uomo di Senerchia che, dietro lauta ricompensa, si rende disponibile, di tanto in tanto, a rifornirli di pane, legumi e fave secche, oltre che a portare notizie sui movimenti dei gendarmi. 218


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I mesi trascorrono, ma la mobilitazione delle forze dell’ordine per la loro ricerca e cattura non scema. Così arriva l’inverno con la neve ed il gelo. Gli uomini sono stanchi e Quagliarella deve imporsi più volte con la forza su qualcuno che vuole abbandonare il covo per un rifugio più confortevole e più vicino a casa. Egli conforta i suoi uomini dicendo che con l’ arrivo della primavera torneranno verso Bagnoli e con i soldi del bottino potranno dimenticare le sofferenze di quei giorni; “bisogna resistere, pena la cattura e con essa l’addio agli agi sognati”, questo il capo dei malviventi ripete ogni giorno per evitare che qualcuno ceda in preda al freddo o alla solitudine. Arriva la primavera e con essa il buon umore degli uomini, che si preparano a rientrare verso Bagnoli. Passano per il tenimento di Calabritto e da qui vanno verso Caposele. E’ il pomeriggio del 4 aprile dell’anno 1814. Man mano che le case di Caposele si avvicinano gli uomini di Quagliarella diventano sempre più irrequieti. L’invito del capo di evitare, per sicurezza, di entrare in paese non viene accettato anche perché gli uomini, dopo tanti mesi passati alla macchia, desiderano la compagnia di una donna. Di fronte a tanta determinazione Quagliarella li convince a non attraversare il paese, ma a passare sulla parte alta e a scendere poi a valle in corrispondenza delle sorgenti del Sele. Qui sicuramente potranno trovare delle donne. Infatti, come d’abitudine, le donne caposelesi rientrano qualche ora prima del tramonto dalle campagne per preparare la cena. E la prima necessità è rifornirsi d’acqua. Quindi, dopo la calata del sole, ogni donna esce di casa con il barile in testa per andare alla fonte. Lì, in attesa del proprio turno, esse parlano tra di loro raccon219


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tandosi i loro problemi e i loro sogni, dopo una giornata di duro lavoro passata in silenzio. Quando giungono alle sorgenti del fiume i briganti vedono tra le donne anche due belle fanciulle, sorelle, Catarina e Carmela, mandate a prendere l’acqua dalla mamma che è rimasta a casa per allattare l’ultimo arrivato. Le ragazze non hanno i problemi delle donne anziane e sbirciano continuamente in ogni dove con la speranza di vedere i loro corteggiatori. Ben si concilia quel loro stato d’animo con lo spettacolo che offre lì la natura: decine di fessure nella roccia calcarea spillano tanta acqua limpida e sulla stessa roccia manciate di terra fanno fiorire bellissimi fiori multicolori. L’incantesimo viene rotto all’improvviso con l’arrivo dei briganti che spaventano le donne. E’ un continuo di urla e fuggi fuggi, ma due uomini raggiungono le due sorelle e le costringono a seguirli. Quagliarella, agitato e preoccupato della reazione dei Caposelesi, ordina ai suoi di dirigersi velocemente verso il tenimento di Lioni. Le donne, intanto, avvertono dell’accaduto chiunque incontrano prima di arrivare a casa. Dopo una decina di minuti i cittadini armati di Caposele uniti ai legionari e ai gendarmi si mettono all’inseguimento dei banditi e dopo qualche ora, arrivati in prossimità del tenimento di Lioni, trovano le due ragazze già liberate. Si mettono alla ricerca dei banditi e poco dopo li scoprono e li attaccano. Vengono scambiati colpi di fucile per circa due ore, ma non ci sono feriti in entrambi gli schieramenti, probabilmente per la notevole distanza. Calata la sera, ai Caposelesi non resta che rientrare in paese. 220


Nicola Santorelli, un uomo fornito “di ingegno e convinzioni”

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Nasce a Caposele il 10 agosto 1811, da Raffaele e Camilla Vitamore. Frequenta in paese le scuole elementari e, poi, a Calabritto, nell’Istituto Cirelli, segue gli studi medi. Cresciuto in un ambiente familiare aristocratico e religioso, di molta intelligenza e di sorprendente memoria passa a Napoli dove con impegno segue le lezioni di matematica e fisica nello studio di Giuseppe Eboli, quelle di filosofia con Pasquale Galluppi e quelle di medicina e chirurgia con Vincenzo Lanza. Laureatosi in medicina nel 1833, supera il concorso per l’Ospedale degli Incurabili di Napoli. Si specializza nello studio delle epidemie dopo aver letto Thomas Sydhenham, il più rappresentativo esponente inglese della scienza medica del XVII sec., e, con i medici Del Giudice, Corbi e Giannattasio, lavora instancabilmente nell’Ospedale della Pace per gli epidemici di Napoli. Nel 1834 scopre nei pressi di Oppido, tra Caposele e Lioni, una lapide dedicata al dio Silvano, risalente al tempo dell’imperatore Domiziano (81-96 dell’era volgare) ed apprezzata per la sua importanza da valenti archeologi. Comincia a tenere conferenze sulle epidemie nell’Accademia Medico-Chirurgica di Napoli. Richiamato a Caposele, dove come a Calabritto e a Santomenna infierisce il colera nell’autunno del 1837, si dedica alla cura degli ammalati del proprio paese e di quelli sparsi nei casolari della Valle del Sele. Nel giugno dello stesso anno viene chiamato da Antonio Ranieri a Torre del Greco per curare Giacomo Leopardi affetto dal colera. 221


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Nel novembre 1838 viene nominato medico straordinario dell’Ospedale della Pace di Napoli e, per i suoi studi sulle epidemie del 1834 e 1837, ottiene un premio di seconda classe. Approfondisce i suoi studi prediletti e si spinge nella bassa pianura del Sele, specie a Pesto e Capaccio, curando i malati con carità e competenza. Qui scrive una memoria intitolata “Agronomici, idraulici provvedimenti onde arrestare il maleficio della malaria” che lo rende vero precursore delle opere di bonifica realizzate nella piana del Sele solo negli anni cinquanta. “Medico animato da assai buon volere, fornito di ingegno e convinzioni”- come lo definisce il Semmola - nel 1844 entra per meriti alla Università di Napoli ricoprendo la cattedra di medicina, dopo aver pubblicato un’operetta sulle perniciose. Nello stesso anno scrive un’opera inedita, ritrovata nell’Archivio di Stato di Salerno, intitolata “Prime linee d’istoria delle principali epidemie, epizoozie, endemie, enzoozie e morbi pestilenti con tentativi di ragionamento” che, presentata e approvata dalla Regia Accademia delle Scienze di Napoli, lo fa nominare socio corrispondente. Successivamente viene nominato anche socio di varie Accademie: quella medico-chirurgica della Pontaniana (1842), quella della Cosentina (1846), quella delle scienze di Palermo, quella di Tropea e quella di Noto (1847). Uomo di studi, libero da impegni di una famiglia propria, nel 1844 si laurea a Napoli in Lettere e Filosofia con il celebre Galluppi. Tiene conferenze sulle epidemie e i conseguenti contagi nel Congresso degli Scienziati in Napoli 1845 e porta avanti una tesi originale sulla validità dei piccoli ospedali per il fatto che in essi gli infermi possono essere più vigilati e meglio amministrati rispetto ai grandi ospedali sparsi nelle regioni delle grandi cit222


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tà, dove gli ammalati sono più concentrati ed esposti al contagio. Varia e vasta l’attività svolta presso la Scuola Medica salernitana. Dal 1848 al 1861 insegna al Liceo di Salerno, quale professore interino di medicina forense e farmacologia. Lo ascoltano anche illustri medici esteri e viene tenuto in grande considerazione in riviste parigine. Nel 1851, sempre a Salerno, improvvisa una lezione in latino al medico inglese O’Loston, presenti i professori Mastelloni, Cerenza e Zottoli. Per le sue ricerche studia manoscritti della biblioteca di Napoli e della scuola medica salernitana. Coopera anche alla riforma degli studi medici nei licei universitari del Regno delle Due Sicilie, tanto che il suo piano di miglioramenti viene accettato e tradotto in pratica. Nell’ottobre 1855 cade gravemente ammalato; guarito, ritorna ai suoi studi e all’insegnamento, ammirato dai colleghi Lauro e Villanova. Incurante dei pericoli, accorre a Napoli, Salerno, Caposele, dove infierisce nuovamente l’epidemia. A Laviano, dove muore il Parroco D’Urso, introduce contro l’epidemia l’uso del chinino, quanto mai salutare. Nel 1856 pubblica l’opera “Osservazioni e ricerche su le febbri continue dell’indole delle intermittenti”. A Salerno, dove parecchi studenti dell’Università di Napoli si recano per ascoltare le sue lezioni, legge la sua ultima conferenza dal titolo in latino “De rebus in nostro Gymnasio gestis”, dopodiché la scuola, nonostante la sua vibrata opposizione al Dicastero della Pubblica Istruzione, cui sono preposti Emilio Imbriani e Luigi Settembrini viene chiusa (14 aprile 1861). Ritorna a Caposele, ma, ben presto, si trasferisce a Napoli. Qui tiene un corso di Anatomia patologica nello studio del professor Lauro; stringe amicizia con il prof. 223


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Ramagna; frequenta circoli di alta cultura medica e poi si dà all’esercizio della libera professione. Ripresi gli studi letterari, illustra in versi e prosa le origini e le glorie del Sele e dei suoi dintorni, pubblicando l’opera “Il fiume Sele e i suoi dintorni” nel 1879. “Guidato dalla luce del vero e cristiano spirito” nel 1892 pubblica a Napoli un poema lirico “Satana” che è un canto di vittoria per la Chiesa Cattolica e nel 1896 dà alle stampe il suo “Cattolicesimo e libero pensiero” dedicandolo all’Arcivescovo di Conza Antonio Buglione. Nello stesso anno, ancorché malato e sofferente, pubblica i suoi “Ultimi di mia vita pensieri ed affetti”. La morte lo coglie all’età di 88 anni, il primo giorno di marzo 1899, mentre sta correggendo le bozze del suo “Manuale di preghiere”.

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Maggio 1834: La scoperta della Stele votiva al dio Silvano

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Come documento della ormai consolidata presenza romana nella zona prossima alle sorgenti va interpretata la Stele del dio Silvano, risalente all’età dell’imperatore Domiziano (81-96 d.C.)1. Con il nome di “Silvano”, nell’antica Roma, si venerava nel culto privato il dio che nel culto pubblico si chiamava “Fauno”, abitante dei boschi e protettore delle attività con esso connesse.

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Nel maggio 1834 giunge da Roma notizia che alle falde del monte Oppido possono trovarsi importanti resti di antichi insediamenti, sicché lo studioso Nicola Santorelli con molti villani forniti di zappe e picconi si reca sul luogo anticamente chiamato Pareta2, oggi Preta, non lontano dalle sorgenti del Sele e lì, iniziati gli scavi, rinviene una stele dedicata al dio Silvano. Attualmente la stele si trova nel museo provinciale irpino con l’indicazione di “Stele di Oppido Vetere” di Lioni, anche se essa è stata rinvenuta, come si è detto, alla località Preta, territorio di Caposele, che si trova nelle vicinanze dell’altura su cui era situato Oppido ai tempi dei Romani. Nel luogo sono ancora visibili le mura ciclopiche costruite dai Sanniti e distrutte dai Romani nel corso della terza guerra sannitica. In passato vi sono state trovate anche monete e fibule di epoca romana. 1

Domiziano successe a suo fratello Tito nell’anno 81 dell’Era Volgare.

Così chiamata probabilmente per la presenza nel luogo di una muraglia, cioè dei resti di un antico edificio.

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La stele è a forma di parallelepipedo, scolpita in pietra, venata nel mezzo e alta cinque piedi ed otto pollici (poco meno di due metri). Di grandissima importanza agli occhi del Santorelli perchĂŠ fa luce sul passato della nostra terra, il reperto porta sul fronte una iscrizione latina che, tradotta in italiano, cosĂŹ recita: “Sacro a Silvano adempiendo un voto fatto per la salute di Domiziano nostro Augusto Imperatore, Lucio Domizio Faone, a scopo di culto e per provvedere in ogni tempo futuro ha affidato a coloro che attualmente fanno parte del collegio (di sacerdoti) di Silvano e a coloro che in seguito gli subentreranno i suoi fondi Giuniano3, Lolliano, Percenniano e Statulliano con le fattorie esistenti entro i loro confini. Ha stabilito che con la rendita dei fondi predetti, il giorno delle calende di gennaio4, il terzo giorno avanti le idi di febbraio5 (anniversario della nascita di Domizia nostra augusta imperatrice), il quinto giorno avanti le calende di luglio6 (consacrazione del tempio a Silvano), il secondo giorno avanti le calende di luglio7 (feste Rosali), il nono giorno avanti le calende di novembre8 (anniversario della nascita di Domiziano nostro Augusto Imperatore) si faccia secondo il tempo un sacrificio. Al banchetto interverranno anche coloro che fanno parte del collegio e i presidenti di ciascun anno baderanno che nella cosa

Junianum (Giuniano): qualcuno, cultore di storia locale, ipotizza che dal nome di questo fondo derivi il toponimo Lioni.

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Il giorno delle calende di gennaio = 1 gennaio.

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Il terzo giorno avanti le idi di febbraio = 11 febbraio.

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Il quinto giorno avanti le calende di luglio = 27 giugno.

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Il secondo giorno avanti le calende di luglio = 20 giugno.

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Il nono giorno avanti le calende di novembre = 24 ottobre.

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non vi sia inganno e che le cerimonie prescritte si svolgano regolarmente. Resta chiaro che i fondi sopra indicati sono stati consacrati per la salute del nostro ottimo principe e signore e che i giorni dei sacrifici siano fra loro collegati. Vi sarà inoltre un luogo che apparterrà a Silvano e cioè quella parte di campo e di bosco che si trova nella riserva e che è delimitata dai termini posti intorno al tempio. La via di accesso al Tempio di Silvano passerà attraverso il fondo Siciano e sarà aperto a tutti. Per la legna e per l’acqua necessarie ai sacrifici ci si potrà servire indifferentemente sia del fondo Galliciano sia della riserva. Che queste cose siano fatte senza inganno. Così ha voluto e reso possibile Lucio Domizio Faone, al quale più volte questo luogo ha portato fortuna”.

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9 aprile 1853: “Il tremuoto di Caposele”

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Di solito le conseguenze di un terremoto vengono sempre associate alla perdita di vite umane ed ai danni subiti dal tessuto edilizio. A tale stereotipo risponde la lucida e commovente descrizione fatta per il terremoto del 1853 da Nicola Santorelli che qui si riporta, essa è idonea a descrivere quelle che sono le tragiche conseguenze di un sisma ed una sua lettura ci catapulta con una facilità estrema negli avvenimenti raccontati, tanta è la forza narrativa del nostro concittadino.

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“I monti che coronano il paese sono oscurati da folta nebbia sino alle ore 10 del mattino e corre per l’aria un fremito di vento, come per imminente tempesta! Più tardi le nebbie s’addensano a foggia di colonne. Poco stante tace il vento, splende il sole, l’aria di tratto diviene assai calda. Verso il meriggio la temperatura s’abbassa e sfuria terribile vento. Comincia una pioggia, ma immantinente si converte in orrida bufera. Il letto delle acque delle sorgenti del Sele s’abbassò circa un palmo pria del tremuoto e le acque si resero calde. La quale saldezza fu tanto più notabile in quanto queste acque sono sempre freddissime. E se è vero quel che molti accertarono, che innanzi al tremuoto alcuni vampi momentanei apparirono sul monte Oppido, si vicino al Sele, si dovrebbe inferirne, che il tremuoto che seguì dovea stare in alcun rapporto con quei fenomeni. L’orologio batte le due pomeridiane, e, previo un sotterraneo muggito che pareggiò lo scoppio simultaneo di più cannoni, il suolo trema con moto vario e continuo per circa 15 secondi! Le scosse verticali e orizzontali nei primi istanti, si mutarono 228


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negli ultimi in circolari e giranti, e furono di maggiore rovina al paese che fu centro della scossa; onde il tremuoto fu detto di Caposele. Sconvolti gli embrici dei tetti e smossi i tavolati e i soffitti, un orrendo scroscio precede l’eccidio! Il suolo or s’alza or cala, or va qua e là, e quel che è peggio, negli ultimi momenti fa vortice! Le mura spaccate e divise dagli angoli si dimenan per l’aria, e, in men che accenna il dito, le arcate si spezzano, le travi e, i tetti cadono o restano spenzolati sopra smossi pilastri! Non si vede dapprima che polverulenta nube, la quale si leva da pietre, tegole, brani di mura e pavimenti che crollan sul capo degli abitatori! Ad un tempo s’udivan strida e alti lamenti, chi chiama a nome i figliuoli, chi la sposa e chi invoca aiuto da Dio! Alcuni tentano fuggir dalla porta, altri slanciarsi dalla finestra, altri raggiunger le scale; ma lo spavento stringe il cuore, impaccia il piede, e rende ansante e difficile il respiro! In questo udivansi grida di femmine, pianti di fanciulli, clamori da per tutto. Con querula voce chi cerca i genitori, chi i figli, chi la consorte! Molti sollevan le mani al cielo, chè credono imminente la morte. Al posar della terra, essendo incerto il posar delle mura, molti si diedero gran fretta per giungere alle strade più aperte e mettersi in salvo. Ed oh qual triste veduta nel volgersi indietro! In mezzo a gran polverio qua pietre e travi usciti fuor di spezzate finestre, là muri caduti o penzoloni con tetti collabenti. Era un orrore il vederli!, ma spettacolo più crudo e miserando vien poi dinnanzi! Un Sacerdote che discorrea dal balcone con fido amico che si trattenea di sotto, al crescere le scosse, tentò per salvarsi il disperato salto. Entrambi furon ricoperti da pietre, travi e calcinacci; ma il prete mostrava scoverto del capo il solo cucuzzolo in chierica. Due padri di famiglia, al cominciar del tremuoto, s’affrettano di scappar via dalla bottega di un barbiere, ove trattenevansi come a diporto; ma in questo, caduto il soffitto 229


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della casa e sprofondatone il pavimento, precipitarono in un forno che vi ardea di sotto! Ai figli che, non curando abbruciarsi, corsero a sterrarli, il fumo adiposo diè segno che i genitori eran schiacciati ed arsi! Onde quel luogo fu detto il forno dei morti.! Né qui finiva la ferale rovina. Una giovane madre, corre a far schermo ad una sua figliuolina che era in culla, e rimane pestata (oh quali affetti non le corsero al cuore!) su la sua bambina che non so come le sopravvisse! Due donne usciron di casa, e credendosi in salvo, tra gli abbracci di consolazione furono colte dalle mura delle case che in quel momento, sebbene cessato il tremuoto, pur rovinarono. Non reggo a tali racconti, di che feci ai miei versi ed a quei del Germano, sì triste preludio! Scosso il seno della terra, ancora il suolo ondulava, quando parve i semivivi susurrasser parole sotto le orrende macerie! Nell’orribile dubbio, i cittadini corsero in ansia a trarre quei che mancavano di sotto le mura e i tetti caduti. Ma invano condussero l’orecchio al suolo per udir alcun lamento! Quando li scavarono erano ancor caldi, e chi lor sfibbia le giubbe, chi ad alta voce li chiama, alcuni li stropiccian con calde lane, altri se li addossan su gli omeri per trasportarli in casa; ma per quante arti scegliesse l’ingegno onde rivocarli in vita, tutte furon vane! In mezzo di tali angosce venne la notte che più spaventosa resero altre scosse; ma all’alba del giorno appresso, poiché le mura eran quasi tutte fendute e i tetti malsicuri, una folla di cittadini uscì dalle case. Alcuni si rifugiarono negli orti vicini, altri, non trovando simile ospizio, sul colle di Materdomini, molti ramingavan per le campagne! Chi può dirne le mutue lacrime nel mestissimo incontro chi le parole quando il pianto ebbe sciolto in parte quel duolo, che tenea chiuse le vie della favella? 230


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Diroccò circa la sesta parte del paese, non poche case furono adeguate al suolo, e le più sode mostraron larghe fenditure. Undici Caposelesi furon pria sepolti che morti! Alla notizia del disastro accorsero sul luogo i Reggitori della Provincia, e, scelta la pianura di S. Caterina a qualche distanza dal paese, vi fecero piantar case di legno e disporle a strade intermedie, in guisa di paesetto. E poiché il tremito della terra non cessava, e molti per non lasciar la casa restavano esposti a rischio, continuo, fecero decreto, e lo fecero pubblicare per bando, che i rimasti in case pericolanti dovean uscirne al più presto. Dopo il 9 aprile, seguitavan ogni giorno ed a brevi intervalli gli scuotimenti; ma l’8 maggio ne seguì uno sì violento che di poco non raggiunse l’impeto del primo; la terra divenne fallace al fuggente piede! Pel corso di sei mesi non passava un giorno che non sentivansi scosse. S’avvicinava il triste anniversario, e i cittadini che tuttora rimaneano in quelle tende e baracche, oh quante volte bagnavan gli occhi di lagrime in guardar le loro case cadute o cadenti! ma presi da timore non osavan murare nuove abitazioni. Decorsi altri mesi, non misero più tempo in mezzo, né ebbero per grave ogni fatica e dispendio, qua per rialzare l’antica casa, là per fabbricarne una nuova. Il che vedendo gli altri si volsero non solo ad imitarli, ma a gareggiare nell’opera, sì che il nuovo caseggiato riuscì più solido e di migliore aspetto dell’antico. Tutti non vollero dipartirsi, come da luogo sacro, dalla cerchia, dall’ordine e dalla foggia delle pristine abitazioni; ma non incontrò lo stesso esito la chiesa parrocchiale. Anche prima del tremuoto le mura erano si spostate che si dovè diroccarle, serbando il pavimento per rispetto ai sepolcri e per una edicola laterale, che più tardi fu slargata ed intitolata a S. Maria delle Grazie. Per le quali cose il Garrucci dettò la iscrizione che segue: 231


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POPULUS CAPUT SILARENSIS DILABENTES MUROS ECCLESIAE PAROCHIALIS EXCIDIT ET PAVIMENTO OB RELIGIONEM SEPULCRORUM SERVATO IN EO AEDEM MARIAE DOMINAE GRATIARUM RESTITUENDAM CURAVIT ANNO MDCCCLVIII

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Avvedutisi a tempo i Caposelesi che, per continuare l’impresa di rifabbricare il paese, e per condurla a buon termine, dovean pensare anzi ogni altro alla casa di Dio, scelsero all’uopo la chiesa degli Antoniani. La dilatarono di due navi, l’estesero in lunghezza annettendovi l’atrio che le si apriva innanzi, e vi aggiunser di lato una chiesetta, giovandosi dell’antico refettorio di quei frati. Aggrandita così questa chiesa e menata a termine, fu addetta alla parrocchia, e tornò in onoranza come la primiera. Le quali cose fatte, i cittadini si disposero a lasciar le tende e le baracche, e a far ritorno in paese. Ed oh come fu dolce mirar i reduci dall’esilio imposto dalla sciagura, che rientravano nelle rinnovate abitazioni! Più dolci sensi inducean nell’animo le madri coi bambini al seno, che liete del ritorno, acceleravano il passo al tetto natale e ne rendeano a Dio quelle grazie che sapean maggiori. Né andò guari che anche la mia famiglia lasciò l’ospizio di legno, che aveasi fatto costruire su la pianura del colle di Materdomini, e circondata da un drappello di giovanetti e donzelle discese la stradicciuola che costeggia le pendici di quel monte. Le care mura rinnovate, e le onde del Sele che più chiare 232


brillavano intorno, parve che di fresca gioventù ravvivassero i reduci”.

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Dalla descrizione dello stesso terremoto fatta da Gennaro Maria Pagi si apprende che ulteriore e grossa apprensione per i Caposelesi fu il rotolamento di grossi macigni che scendevano dal versante del monte sovrastante Caposele. Con una ricerca sui registri parrocchiali ed anagrafici si sono anche riscontrate le generalità delle undici vittime di quel terremoto di cui il Santorelli ha descritto le circostanze del decesso: Corona Salvatore di anni 30, il sacerdote che si lanciò dal balcone; Russomanno Salvatore di anni 26, possidente, con buona probabilità il compagno di sventura; le due donne, che uscite di casa pensavano di essere salve e vennero coperte dal crollo dello spezzone di un muro, le cognate Pizza Vincenza, faticatrice di anni 36 e Petrucci Susanna, panettiera di anni 51; la mamma che trovò la morte per proteggere il suo bimbo, quasi sicuramente, Freda Marianna, fatigatrice di anni 26; quelli che scappando dalla bottega del barbiere trovarono la morte, Fusco Giovanni, legale di anni 60 e Cetrulo Francesco, sarto di anni 45; le altre vittime il gendarme Miele Amato nato a Lioni, Freda Lucia, faticatrice di anni 51, Russomanno Mariantonia, faticatrice di 42 anni e Russomanno Marianna di anni 10. 1857 - 22 dicembre: la terra trema di nuovo; nel tentativo di fuggire un uomo ed un bambino si ritrovano con le gambe rotte.

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16 maggio 1863: morte di Lorenzo Santorelli

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Di questo fratello Sacerdote il prof. Nicola ha un vero e proprio culto, tanto da piangerlo per tutta la vita, anche perché muore piuttosto giovane. Umile e rispettoso, di costumi semplici, rigidi e modesti, Don Lorenzo usa un vestito povero ed è solito dormire su un duro letticciuolo, spesso fugando il sonno con la lucerna e con i libri. Sobrio ed astinente, propenso al silenzio ama grandemente gli infermi e i poveri cui consacra il resto del suo tempo, dopo aver assolto i suoi doveri di sacerdote. Li conforta, li consola, e ha “in delizia servirli in cose abbiette e faticose”. E’ poeta dalla facile vena e un autentico cantore delle bellezze naturali di Caposele1. Il sacerdote incanta con la sua persona. Nel suo sguardo, nelle parole e nell’atteggiamento vi è qualcosa di sacro per cui è amato e stimato da tutti. “Snello di persona, fronte ampia e serena, occhi lucidi e lincei, ma cauti e dimessi, il candore dell’animo gli infervora di cristiana carità le gote”. È il 16 maggio 1863. Negli estremi suoi respiri, - ha 42 anni quando le forze lo abbandonano - il popolo di Caposele si bea “del suo morire, perché più viva vedea risplendere nel suo viso la luce della sua vita. Anziché venirne in pianto, pare goderne, perché lo guarda in Dio, cioè nella bellezza dell’anima che solleva il cuore alla Bontà infinita, che la dispensa”.

Scrisse anche qualcosa “Sulla caduta e il risorgimento del paese natio e del cenobio, ove fiorirono due uomini di tante virtù, che la Chiesa li accolse nel numero dei Celesti” (S. Alfonso e S. Gerardo).

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Cittadinanza onoraria all’ing. F. Zampari

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Anno 1888: il Sindaco e i Consiglieri Comunali in carica consegnano le chiavi della città e la relativa cittadinanza onoraria all’Ing. Francesco Zampari, nato a Cividale (provincia di Udine) e domiciliato a Napoli. La cerimonia avviene presso la sede comunale sita alla via Bovio prospiciente la piazza antistante l’ex palazzo Di Masi. Incoraggiato dalle popolazioni di Puglia e legato all’idea di convogliare parte delle acque delle sorgenti del Sele verso tale regione per dissetare i paesi delle province di Bari e di Foggia, l’ing. Zampari nel 1886 aveva presentato al Ministero dei Lavori Pubblici, insieme ad un progetto di massima, la domanda di concessione per derivare tre mc/s di acqua delle sorgenti site alla zona detta Sanità. Bene accolto dai Caposelesi quando arriva in paese per trattare l’acquisto delle acque egli promette in cambio il risanamento dell’abitato, afflitto da movimenti franosi, la costruzione di un ufficio postale, la realizzazione di strade, di quattro fontane pubbliche e una grossa somma di denaro. Per captare la benevolenza dei Caposelesi fa elargizioni ai poveri e inoltre promette di acquistare a buon prezzo le cantine site intorno alle sorgenti. Come attestato di benemerenza l’Amministrazione Comunale subito decide con i lavori a farsi di intitolargli la piazza che dovrà sorgere intorno alle sorgenti e la strada necessaria per accedervi. Il clima di attesa, di grandi cambiamenti e di migliora-

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menti si tramuta però in cocente delusione allorquando nel 1891, trascorsi i trenta mesi, lo Zampari, non avendo trovato finanziatori dell’opera, non può dare inizio ai lavori previsti nell’atto di compravendita di parte delle acque delle sorgenti, stilato lo stesso anno 1888. Inizia così ad essere osteggiato dai cittadini pugliesi e dai loro parlamentari che lo vedono come un grande speculatore. Uno schema di legge per la realizzazione del grande acquedotto viene presentato allora da parte dello Stato, dopo di che i rapporti con Caposele e con i Caposelesi si incrinano in male modo; il tutto sfocia in una vertenza giudiziaria portata avanti dagli eredi dello Zampari, che intanto ha dilapidato tutti i suoi beni per il suo progetto e lasciato i familiari in grandi ristrettezze economiche. Niente essi riescono ad ottenere nei vari gradi di giudizio. Il testo della delibera di giunta qui riportata trasmetterà al lettore il clima della cerimonia a cui prima si è fatto cenno.

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Ricavato dagli atti comunali del 1888-rubricato al n°232 Oggetto: Cittadinanza onoraria al Cavaliere Sig. Francesco Zampari.

Sono intervenuti i Consiglieri Benincasa Nicola, Fiore Vincenzo, Ilaria Francesco e Trillo Leopoldo. Su di che aperta la discussione il Sindaco Presidente nel proporre che questo consesso dia la cittadinanza onoraria di questo Comune all’illustre Cav. Francesco Zampari, non fa che renderci interpreti dei desideri già espressi in private riunioni dai signori consiglieri, i quali sono unanimi nel tributare a lui i sensi della maggiore stima e referenza, sia per la magnanimità con cui ha trattato l’acquisto di parte delle Sorgenti del nostro fiume Sele,

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sia per gli alti meriti che adornano la sua persona. Per grazia del Cavalier Zampari nel parco orizzonte di questo disgraziato paese, privo di rendite patrimoniali, oltremodo gravato dai balzelli locali per sopperire alle spese obbligatorie, e per il paesello minacciato da una frana devastatrice, vedesi oggi spuntare un nuovo sole fulgidissimo, che, come per incanto fa sparire i succitati malanni, e ci apre la via ad un benessere insperato infondendo una corretta vita economica e commerciale al paese medesimo, tale da renderlo invidiato dagli altri Comuni della Provincia. Tutti i signori Consiglieri sanno con quanta liberalità e condiscendenza il Cavalier Zampari accettò tutte le pretese affacciate da questa rappresentanza Municipale, sicchè alla detta vendita di parte delle cessate sorgenti non farà estinguere le obbligazioni esistenti, e con l’impiego delle somme residue ne acquistò dei titoli di vendita tutti i balzelli saranno tolti, si avrà altresì la tanto sospirata bonifica delle frane ed il paese sarà abbellito ed arricchito di nuove strade, piazze e fontane. Oltre ciò con i lavori che saranno eseguiti per lo impianto dell’Acquedotto Pugliese, tutte le diverse classi sociali del nostro paese avranno a vantaggiare, di tale chè il nome del Cavalier Francesco Zampari rimarrà solennemente scolpito nei nostri cuori a caratteri indelebili, ed al nostro paese di tramandarlo ai posteri, come quello di emerito benefattore. Molti Consiglieri facendo pieno plauso alla proposta del Presidente. concordamente dichiarano di appoggiare, tributando, sincero encomio al Cavalier Francesco Zampari nel modo magnanimo, con cui ha proceduto nelle sue trattative con questa Amministrazione per l’acquisto delle Acque del Sele. Chiusa la discussione il Presidente invita il consesso a votare l’ordine del giorno così formulato. Il Consiglio

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sentita la proposta del Presidente e la fatta discussione Considerato che il Cavalier Zampari si è reso meritevole dell’affetto, stima e considerazione dell’intera popolazione per gli immensi vantaggi materiali ed economici che apporterà a questo paese la costruzione del grandioso Acquedotto Pugliese da lui progettato. Considerato che nelle trattative espletate per lo acquisto di parte delle Sorgenti del Sele, il cavalier Zampari è stato largo di condiscendenza a pro di questa Amministrazione.

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Considerato che atto di civile saviezza tributare gratitudine ed omaggio a coloro che si rendono benemeriti del paese, e tramandare ai posteri benedetto il loro nome

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Il Presidente Corona Il Segretario Ilaria Il Consigliere Anziano Ceres

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Delibera Offrire all’illustre Cavalier Francesco Zampari la cittadinanza di questo comune, il quale si ritiene oltremodo onorato di annumerarlo fra i suoi cittadini. Tale ordine del giorno viene ad unanimità e per acclamazione approvato dal consiglio. Il verbale in seguito alla lettura ed approvazione viene firmato dal Presidente, dal Consigliere Anziano e dal Segretario.

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La frana del 1899

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È il 16 dicembre 1899: dopo mesi di pioggia, scivola a valle parte del costone che si trova ai piedi della Basilica di S. Gerardo a Materdomini, e grossi danni vengono provocati alle abitazioni. Il Sele ingrossatosi a dismisura trasporta tronchi d’alberi che al ponte si dispongono, sotto la furia dell’acqua, a mo’ di diga. Tutto ciò provoca anche l’erosione della zona sovrastante, detta Costa; intere abitazioni scivolano giù nell‘acqua. Il loro arrivo rompe lo sbarramento che si è creato e il ponte viene trasportato via. Il bollettino servizio geologico -Bolletino del R. Comitato Geologico parte ufficiale R. decreto 10 marzo 1901- così riporterà: “L’ing. Baldacci ebbe a fare anche varie escursioni nel decorso anno per i seguenti incarichi del Min. dei Lavori Pubblici: visita alle frane che devastano l’abitato di Caposele da lungo tempo e che diventarono disastrose dopo le grandi piogge dell’autunno 16.12. 1899”. Tra le autorità arrivate nel paese anche il Prefetto di Avellino al quale i senza tetto chiedono di essere aiutati. Ma malgrado l’impegno del rappresentante eletto nel distretto e in seno al consiglio Provinciale e in Parlamento, alla fine arriveranno solo i soldi della Provincia per la ricostruzione del ponte.

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Gerardo Grasso (1860-1937): un uomo con un destino migliore nell’estremo sud dell’America meridionale

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1868. L’Italia vive pienamente il suo processo di unificazione dopo un intenso periodo di lotte e di sangue. Ciò nonostante il Sud incorporato al nuovo stato mantiene ancora vive le secolari caratteristiche borboniche e non riesce a trovare alcun giovamento con la nuova situazione. La miseria è molta per cui la carovana di emigranti riprende il suo viaggio verso le terre lontane che possono offrire migliori possibilità per lo sviluppo delle personali doti di intelligenza, di ingegno naturale e di disposizione al lavoro fecondo e produttivo. Tra quelli che “vanno a fare l’America” e che si imbarcano per il nuovo mondo vi sono Stanislao Grasso di anni 33, musicista diplomato al conservatorio “San Pietro a Maiella” di Napoli, e sua moglie Rosina Zappale di anni 32, nati entrambi a Chiusano (AV) e stabilitisi a Caposele1, distretto giudiziario di Calabritto, dove Stanislao, artista di accurata sensibilità fa il direttore della banda Municipale. Con amara tristezza lasciano il paese che, anche se povero, è carico di amate vecchie tradizioni ed ineguagliabili bellezze naturali, molto probabilmente per non più ritornarvi, vista l’enorme distanza che li separerà dall’Italia e la precarietà dei mezzi marittimi esistenti. Dato l’addio agli amici più cari, ai parenti La famiglia abitava nei pressi della chiesa madre, in via San Francesco, molto probabilmente la stradina sulla destra che fiancheggia la chiesa stessa prima di arrivare al castello.

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e all’unico figlio di otto anni, il piccolo Gerardo2, lasciato per il momento ai familiari più stretti, sognano un destino migliore anche se avventuroso nell’estremo sud dell’America meridionale del quale hanno sentito dire che lì ha combattuto Garibaldi, lì c’è abbondanza di carne, ci sono immense estensioni di terra fertile e vergine e c’è bisogno di braccia forti per lavorarla. Quando arrivano a Montevideo, capitale del-l’Uruguay, una piccola nazione giovane che non ha ancora definito il suo destino, sono felici e pieni di speranza. Il nascente stato esce invece da una rivolta per entrare in un’altra, per cui colui che viene da fuori, il “gringo” deve lottare accanitamente per trovare un posto degno nella nuova società che lo riceve. In un ambiente di militari e combattenti, che però non rifuggono il contatto con la musica, Stanislao si fa strada affannosamente con la sua arte, riuscendo così ad ottenere il posto di musico maggiore di bande militari dei reggimenti 2° e 5° dei Cacciatori. Ed è in questa carica che lo trova nel 1874 il suo amato figliolo Gerardo quando arriva finalmente a Montevideo. Il giovane, avviato dall’amore e dalle conoscenze paterne, non più separato dalla famiglia, comincia a studiare musica e solfeggio col genitore ormai perfettamente adattatosi alla nuova terra. Aiutato anche dal maestro Antonio Frank dal quale trae il dominio tecnico del flauto e del flautino, il disciplinato studente dimostra di avere delle capacità veramente notevoli tant’è che i

Il piccolo Gerardo Alfonso Maria, era nato a Caposele il 3 agosto 1860 ed era stato battezzato nella chiesa madre di San Lorenzo Martire quattordici giorni dopo, tra la gioia di parenti ed amici.

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progressi si vedono ben presto. Il 10 ottobre 1875 entra come musico con contratto nella banda del reggimento di artiglieria diretta dal maestro Giuliano Silva. Al tempo stesso continua i suoi studi di composizione, pianoforte e strumentazione col noto musico milanese Giuseppe Streghelli, compositore, strumentista e direttore di opera. Diventato virtuoso del flauto viene spesso invitato da numerose bande e gruppi orchestrali, tra cui quello del teatro Solis. Ben presto il giovane occupa un posto di rilievo tra i musicisti più distinti della città. Nel 1879 la banda di musica della Scuola d’Arte dell’Uruguay legittimamente si vanta di avere due ottimi musici: Stanislao Grasso, clarinetto, e suo figlio, flauto. Il gruppo però si scioglie un anno dopo. Gerardo, come maestro di musica e solfeggio riesce a formare una banda di valore tale che per i successivi sei anni viene considerata la migliore di Rio de la Plata, cioè di Montevideo e Buenos Aires. Nel 1882 la banda, ormai famosa ed arricchita col potente coro della Scuola composto da 140 persone, si presenta alla Esposizione Continentale Sudamericana a Buenos Aires, sotto la direzione alterna di Gerardo Grasso e di Gioacchino Salvini. Il successo è totale. Il presidente uruguayano Massimo Santos è profondamente entusiasta e orgoglioso, come pure il grande Presidente argentino Domingo Faustino Sarmiento che suggerisce al suo collega la formazione di una grande orchestra alla Scuola d’Arte dell’Uruguay. Nel febbraio del 1883 la nuova orchestra, diretta da Gerardo Grasso, fa il suo debutto. Porta il nome di “Domingo Faustino Sarmiento” in omaggio a chi l’ha ideata e come espressione di fratellanza tra i popoli de la Plata. La banda, conosciutissima a Montevideo e condotta agilmente dal maestro 242


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Grasso, si presenta in tutti gli eventi importanti facendo sentire marce militari, tarantelle e canzoni e l’intero pubblico uruguayano rende il suo omaggio di ammirazione al bravo maestro italiano. Poco dopo arriva anche l’immancabile riconoscenza ufficiale sotto la forma di un decreto emesso da Santos, per mezzo del quale viene concesso a Grasso “in attenzione ai suoi meriti e servizi e a partire dal 18 febbraio 1886 l’incarico di 1° Tenente di Fanteria”. Il giovane direttore vive indubbiamente i migliori momenti della sua vita. La sua figura elegante è familiare a Montevideo. Veste correttamente e usa di solito abiti scuri che gli danno particolare distinzione assieme al suo cappello di feltro. La sua cute bianca e i suoi capelli e baffi castano scuro mettono in risalto la chiarezza dei suoi occhi azzurri. A 26 anni, ottenuti già un prestigio ed una posizione invidiabile, sposa la signorina Luisa Morelli di appena 16, colla quale formerà felicissima famiglia. Siamo ormai nel 1887 e sembra che i governi militari in Uruguay arrivino alla fine. Il nuovo presidente generale Massimo Tajes si propone di ristabilire le istituzioni, e purtroppo tra le prime misure di economia e risparmio viene ordinata la dissoluzione dell’orchestra “Domingo Faustino Sarmiento”, si salva appena la banda, miracolosamente tenuta in piedi da Grasso. Ma al di fuori di questi eventi, un fatto importantissimo avviene nella vita del nostro maestro, fatto che si ripete in ogni emigrante assimilato che arriva ad ospitali sponde, l’unione nel campo etnico (ed anche in quello sensibile) realizzata tra l’emigrante che arriva e l’elemento umano già da tempo stabilito nel paese, che ci trasforma in quello che siamo, con tutte le nostre virtù e tutti i nostri difetti. Grasso, che ha dato abbondantemente del suo alla terra 243


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d’adozione, d’accordo con la sua origine, la sua formazione, la sua etnia, la sua ricca personalità e la sua anima meridionale piena di dolci ed appassionate melodie, instancabilmente, e forse inconsapevolmente diffuse nel suo nuovo ambiente, realizza che è arrivato il momento di saldarsi alla terra sentita prima così diversa e così distante. E questo avviene in modo quasi casuale. Il colonnello Julio Murò, nuovo direttore della Scuola d’Arte, pur essendo un grande ammiratore del giovane maestro, sente verso di lui una quasi antipatia dovuta al fatto che Grasso suona soltanto arie e canzoni straniere e che manca assolutamente nel suo repertorio tutto quello che possa essere musica o motivi nazionali tanto cari alla sensibilità del popolo uruguayano. “Non li conosco” risponde ingenuamente Grasso quando il colonnello gli rimprovera questa mancanza. Per ovviare a ciò Murò fa venire dalla vicina città di Canelones un gruppo di chitarristi nativi che nella sala di musica della Scuola si mettono a suonare delle melodie tipiche alla presenza di un selettivissimo pubblico composto dai Grasso, padre e figlio, i maestri Oscar Falleri, Josè Orlando, Juliàn Silva ed alcuni invitati speciali. Il nostro irpino si sente profondamente commosso nel penetrare in un mondo per lui sconosciuto. Tra tutto quello che sente è soprattutto colpito da un motivo contadino, un ballo di “gauchos” conosciuto come il “pericòn”, il cui ritmo è quello che più si adatta alla sua formazione ed alla sua modalità musicale. Appena uscito dal concerto porta perciò con sé la ferma decisione di comporre il suo “pericòn”. La composizione viene realizzata in breve tempo e giunge come nessun altro “pericòn” alla categoria necessaria a permettere a tutto un popolo il potersi personalizzare ed identificare, fino al 244


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punto che verrà riconosciuto non come un “pericòn” in più, ma come il Pericòn Nazionale non solo in Uruguay ma anche in Argentina. Non è segreto per nessuno l’enorme influsso della canzone sull’anima dei popoli. Essa possiede di solito un elevato valore descrittivo, sentimentale, evocativo, è un elemento costitutivo di nazionalità e concede personalità a quelli che hanno la felice opportunità di comporla, come a tutti quelli che attraverso i tempi si dedicano a interpretarla. Rappresenta una base di coesione sentimentale e d’identificazione al di sopra di epoche e di frontiere. Come avverrà molti anni più tardi colla famosa “Cumparsita” che sarà la rappresentante più genuina dell’anima cittadina del Rio de la Plata, così questo Pericòn di Grasso sarà simbolo del “gaucho” e del contadino e la sua interpretazione parlerà per sempre dei segreti più reconditi dell’anima uruguayana e dell’essenza stessa del paesaggio americano. Il “Pericòn Nacional” composto dall’artista in meno di un mese e registrato in partitura per pianoforte, poco dopo, su richiesta del colonnello Murò viene strumentato da Grasso per banda, in modo che il nuovo pezzo acquista di giorno in giorno la più grande diffusione. Il 3 agosto 1887, quando il maestro compie i suoi 27 anni, il presidente Tajes visita la Scuola d’Arte per sentire il Pericòn. La banda è composta da quattro flautini, due clarinetti, due cornette, otto sassofoni, sei bombardini, otto tromboni, tre bassi, due batterie e due grancasse: 37 allievi in tutto diretti dall’autore. L’opera soddisfa pienamente il presidente che subito autorizza il colonnello Murò a farla stampare nell’officina di litografia della Scuola diretta da un altro italiano, Angelo Sommaschini, agli scopi di distribuirla tra tutte 245


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le bande militari dell’Uruguay. È importante accennare che questa è la prima partitura che viene stampata in Uruguay. Si consacra così definitivamente il più tipico dei balli3 uruguayani composto da un italiano nato a Caposele con appena 12 anni di residenza nel nuovo paese. È grazie all’attore genovese ventiseienne Giuseppe Podestà, grande amico di Grasso, importante nella formazione del teatro rioplatense, che il Pericòn Nacional guadagna una grande popolarità. Quando Peppino Podestà recita nel suo circo il dramma nativo “Juan Moreira”, introduce alla fine un motivo musicale campagnolo, di solito il ballo nominato “il gatto”. Su sua richiesta Grasso sostituisce questo ballo con il Pericòn al quale si aggiungono poi le cosiddette “relazioni”, cioè dialoghi delle coppie che ballano, a seconda dell’argomento sviluppato. Da questo momento in poi non ci è più nessun dramma locale che non finisce col Pericòn Nacional. La nuova danza tarda un anno a farsi popolare nella sua terra d’origine, dopo aver trionfato pienamente in Argentina. Poi la sua popolarità è incontenibile sia in città che in campagna. L’incisione fatta in cera dalla compagnia “Victor” nel 1911 è un altro fatto che aiuta alla più grande diffusione. Nella celebrazione del “Centenario del 1930” il Pericòn è cantato al teatro Artigas per la Corale Nativista e nell’inaugurazione dello Stadio “Centenario”; lo stesso anno è danzato dal Ballett del teatro Colòn di Buenos Aires; nel 1934 è cantato dalla Corale “Guarda e Passa”

La composizione era in principio intitolata “Ballo Nazionale Uruguayano”.

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all’inaugurazione del monumento di Josè Pelloni “La Carretta”. L’inconfondibile opera, la più genuina delle composizioni native, la carta d’identità del popolo uruguayano raggiunge l’esito pieno e assoluto. Dopo il Pericòn, il maestro dedica altri 50 anni al suo lavoro musicale in Uruguay, formando generazioni di musici destinati ad arricchire il patrimonio culturale e musicale nazionale. Grasso arrangia l’Inno Nazionale Uruguayano per canto e pianoforte e la versione viene dichiarata l’unica ufficiale. Il conservatorio “La Lira” l’onora con medaglia d’oro per il suo lavoro come maestro di flauto. Egli si dedica all’insegnamento con profonda vocazione, avendo avuto la cattedra di musica al conservatorio “La Lira” e alla “Scuola Italiana di Montevideo”. È per 25 anni professore e direttore alla Scuola d’Arte dell’Uruguay. È il 1937. Montevideo si dispone a celebrare i 50 anni del Pericòn Nacional. Vecchio e ammalato a 76 anni, Grasso ha appena finito di comporre la sua Marcia Funebre. Il 7 maggio muore improvvisamente il suo diletto figlio Stanislao. Gli viene nascosta la terribile notizia, ma successivamente, leggendo per sbaglio un vecchio giornale, viene a sapere la verità. Il suo dolore non ha limiti ed egli trova che la sua vita non ha più scopo. Si spegne il 18 giugno 1937 poco prima di arrivare a 77 anni ed è sepolto al sepolcro n° 24 del secondo corpo del Cimitero Central di Montevideo dove ancora oggi riposa. Suo padre era morto il 5 settembre del 1900.

Oltre al Pericòn il grande M° Gerardo Grasso, è autore di moltissime composizioni che mettono in rilievo la sua doppia sensibilità italo-uruguayana: Carino (valzer), Delicia (polka), Elvira (mazurka), Confidencia (polka), El 247


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elegante (Schottisch), La infancia (mazurka), Il mazzettino di rose (mazurka), Los treinta y tres (marcia militare), Seducciòn (mazurka), Miss Helvett (quadriglia), Diana (polka militare), The Monevideo Post (marcia), Sueno de amor (valzer Boston), All’ersercito uruguayano (marcia militare), Stella (gavotta), Panchito flor de pago (tango), Postal 2a (polka militare), El hijo de Panchito (tango creolo), Flor de Azahar (minuetto), Estudiantina (marcia), Rimembranze (valzer), Palpitando (tango), Lazo de amor (valzer), Pescadores del Este (marcia popolare), El abuelito (tango), Entre nous (pavana), Himno a la Virgen de los Treinta y Tres (serenata romantica), e Himno de los Cadetes.

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Nel concorso di bande militari del 1894 organizzato dall’Ateneo di Montevideo è incaricato dal giurato di strumentare per banda l’opera vincitrice del concorso, l’Ouverture Paragraph di Von Suppè.

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Nel 1902 compone per la Società Boer, con parole di Felix Saenz, una gande Fantasia per coro e Banda.

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(Da una conferenza che il Dr. Corrente Spanò4 tenne l’8 ottobre 1987 all’Istituto Italiano di Cultura di Montevideo, pubblicata su “Campania nel Mondo”, 1996 n°08 pagg. 6-7).

Dante Corrente Spanò: nato in Uruguay il 12/12/1920, da famiglia cilentana ivi emigrata, cattedratico di diritto romano, esperto in diritto della navigazione aerea, avvocato dell’Ambasciata Italiana a Montevideo, costruttore edile, degno rappresentante dell’ingegno, della volontà e del valore di tanti campani che lavorando con onore e fede in tutti i mestieri, professioni ed attività hanno contribuito in modo non indifferente alla grandezza dei paesi che li hanno accolti.

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Anno 1917: La rapina del procaccio

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21 novembre 1917, località Tonzo nel circondario di Postiglione, il vetturino del carro del procaccio incita ad andare più veloci i cavalli sulla regia strada di Calabria per giungere quanto prima ad Eboli. Il buio lo rende ansioso e timoroso, malgrado gli uomini di scorta, circa una ventina. Sarebbe stato certamente meglio per lui trovarsi a casa a cenare intorno al focolare con la propria moglie e i propri figli. Immerso in questi pensieri egli sprona di più i cavalli, ma all’improvviso, dal margine del bosco, limitrofo alla strada, escono più di quaranta uomini armati che si mettono a sparare. La gragnola di colpi uccide lui e un gendarme e ferisce altri due fucilieri. Il resto della scorta, disorientata e impaurita dalla mole del fuoco, si dà alla fuga. I malviventi si lanciano sulle casse, con delle grosse asce le aprono e cominciano a riempire i loro sacchi. Dopo una decina di minuti, accortisi del ritorno della scorta, riprendono a sparare nella direzione da cui sentono il calpestio dei cavalli, il che convince definitivamente alla fuga gli uomini della scorta. Completato lo svaligiamento delle casse, ogni malvivente, con un sacco in spalla, inizia a ritirarsi verso il fiume Sele. Vi arrivano in due gruppi e ognuno sceglie di attraversare il fiume, tra l’altro ingrossato dalle piogge degli ultimi giorni, in due punti differenti. Il gruppo di cui fa parte Antonio, originario di Lioni, optando per un posto in cui la corrente dell’acqua è più forte di quanto previsto, si trova in difficoltà in mezzo al 249


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guado. Non trovando alcun appiglio e non potendo ricevere aiuto dai compagni, Antonio viene trascinato via. Gli amici per un po’ di tempo cercano di ripescarlo, poi, non riuscendovi, lo abbandonano al proprio destino. Una volta al di là del fiume i due gruppi si avviano a risalire la valle del Sele. Antonio, trascinato dalla furia dell’acqua e poi impigliato fra le radici di un grosso pioppo, a fatica riesce a svincolarsi e a risalire la sponda del fiume. Inizia a vagare cercando di trovare la strada del ritorno. Verso le due di notte si trova vicino alla masseria di Francesco Parisi, sita alla contrada Olivola. Intirizzito dal freddo perché completamente bagnato abbandona ogni remora e contro ogni senso di prudenza bussa alla porta svariate volte. Francesco il proprietario, accertatosi che la persona è sola, apre e si trova davanti un uomo tremante dal freddo, senza cappello, con un piede scalzo e un sacco sulle spalle; lo fa entrare, lo fa riscaldare vicino al fuoco e per trattenerlo gli offre qualcosa da mangiare. Ha capito chi è l’uomo che si trova di fronte e di nascosto invia il figlio maggiore ad avvertire i gendarmi in paese. Alla stessa ora, intanto, il tenente generale riceve rapporto dell’accaduto. E’ l’ennesima scorribanda di una banda che dopo ogni colpo sembra volatilizzarsi. Malgrado gli sforzi messi in campo il tenente non è mai riuscito a venirne a capo. Egli è della convinzione che della banda faccia parte anche gente istruita, capace di pianificare le varie mosse da attuare. Per cercare di trovare elementi utili alle indagini e, se più fortunati, catturare i malviventi, invia dei gendarmi sul posto dove i ladri hanno attraversato il fiume. La mattina presto, Antonio, consegnato da Francesco, viene portato da un gendarme al cospetto del Te250


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nente Generale e questi ordina di interrogarlo subito. Il malvivente racconta di essere stato inviato come corriere da don Nicola di Lioni a Don Vincenzo di Campagna e di essersi trovato sul luogo della rapina mentre era di ritorno. Si fanno i dovuti accertamenti e, alla contestazione che non esistono i due personaggi da lui riferiti, l’uomo si chiude nel più assoluto silenzio. Il tenente non riuscendo a farlo parlare e non potendolo torturare fa chiamare il sig. Costa di Eboli, uomo con grosse conoscenze a Napoli e a cui tutto viene permesso. Di fronte al continuo ed ostinato silenzio di Antonio il Costa non si perde d’animo. Armato di un coltellaccio lo ferisce ad una coscia, ma come risultato ottiene ancora un prolungato silenzio. Allora lo ferisce alla gola e manca poco per sgozzarlo; il dolore è tanto forte che Antonio decide di confessare tutto quello che sa. Così Costa viene a sapere che la banda è composta da oltre quaranta uomini, tra essi due sacerdoti, di Calabritto, due persone di Caposele, tra cui un certo Aniello il calzolaio, e altri uomini di Acerno, Torella, Lioni, S. Angelo dei Lombardi. La banda non si dà alla macchia per l’età avanzata dei suoi componenti per cui, dopo ogni colpo, i suoi membri ritornano alle proprie attività senza destare sospetti. Le informazioni tra loro vengono assicurate da corrieri e le decisioni sono prese da due galantuomini di Lioni, don Tobia e don Vitale. Il sig. Costa informa allora il Tenente Generale e si porta al quartier Generale di Caposele dove organizza la cattura di Aniello, il calzolaio. Saputo che egli si trova a casa della sua amante, i gendarmi vi si recano in compagnia di un suo amico. Questi lo chiama dall’esterno, Aniello esce e viene catturato. 251


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Il Costa, che prende alloggio nel soppresso Convento dei Conventuali, fattosi portare Aniello, gli lega le mani ai testicoli e lo fa appendere. In un primo momento Aniello riesce a resistere al dolore. I gendarmi di tanto in tanto escono e vanno dallo speziale don Vincenzo a comprare liquori. Quest’ultimo, che è un membro della banda, chiede loro in continuazione se il prigioniero ha parlato. Quando il dolore diventa insopportabile Aniello ammette di aver partecipato alla rapina, confessa che la sua parte è nascosta nella sua stalla. E di lì a poco 150 scudi vengono ritrovati nel posto da lui indicato. Don Vincenzo lo speziale, appena sentito dal gendarme, che è andato da lui per bere un liquorino, che Aniello ha finalmente confessato, chiude bottega e si precipita a Calabritto per avvertire i membri della banda di quel luogo. Costa arriva a Calabritto, non riesce a trovare nessuno perché si son dati tutti alla macchia e al loro posto fa arrestare i loro familiari. Comincia così una lunga trattativa col papà del prete don Michele, il quale, in cambio dell’amnistia dei propri familiari, tradisce gli altri componenti della banda. Questi vengono tutti uccisi a colpi di fucile in contrada Vallone del fiume.

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Consiglio Comunale: seduta del 24.2.1924

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Viene conferita cittadinanza onoraria al Cav. Baldassare Giovanni, inviato dal prefetto al comune di Caposele in seguito a segnalazioni di cose poco chiare sul bilancio comunale e incaricato, dopo le dimissioni del Sindaco, commissario prefettizio. (In verità non si comprende come un normale lavoro d’ufficio diventi benemerito per tutta la cittadinanza!) Per la soddisfazione di qualsiasi curiosità viene riportato qui di seguito uno stralcio del testo della delibera dalla quale risulta che per acclamazione, sempre nella stessa seduta, viene acclamato cittadino onorario anche Benito Mussolini.

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VERBALE CONSIGLIO COMUNALE Seduta 24.02.1924

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Il Consigliere Corona Lorenzo propone la cittadinanza onoraria per il Cav. Baldassarre Giovanni Commissario Prefettizio (incaricato nel 1915 di eseguire inchiesta sull’amministrazione comunale diventa Commissario Prefettizio dopo le dimissioni del sindaco) che viene concessa per applauso con delibera di dare alle stampe la relazione del Commissario a spese del comune.

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Il consigliere Caprio Armando propone la cittadinanza al beneamato Duce del fascismo Benito Mussolini. Il Consiglio plaude alla proposta e l’approva per acclamazione unanime. Si grida “viva Mussolini -eia,eia, eia, alalà”.

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22.07.1938: S.A.R. Umberto di Savoia a Caposele

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In occasione della visita di S.A.R. a Caposele la bambina Gaetana Monteverde, rivolge un’affettuosa poesia al principe nei locali dove si trova oggi il bar “wake up”. Tutti i giovani partecipano alla preparazione dell’evento con grande trasporto e la popolazione in festa accoglie il principe con vibrante entusiasmo.

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L’articolo pubblicato sul Corriere dell’Irpinia che qui si riporta descrive i momenti salienti di quella visita.

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Caposele 22.07.1938 L’ardente desiderio di questa popolazione ripetutamente espresso è stato finalmente appagato. Il Principe di Piemonte si è degnato di accogliere l’invito fattogli da questo commissario Prefettizio a nome della popolazione e dopo aver visitati gli accampamenti militari nei vicini paesi di Calabritto e Laviano è venuto a Caposele ove tutto il popolo in festa lo ha accolto con manifestazioni di vibrante entusiasmo. Tutte le finestre tutti i balconi del paese erano imbandierati, le più belle coperte policrome, i più ricchi panni e drappi erano esposti per onorare degnamente l’Augusto visitatore. Infiniti manifestini di saluto e di omaggio tappezzavano le mura e tappeti di fiori coprivano le strade ove il Principe è passato. Il principe all’ingresso del paese è stato ricevuto dalle Autorità cittadine e dal popolo festante; dopo aver passato in rassegna l’imponente schieramento di popolo e delle organizzazioni delle GIL (Gioventù Italiana del Littorio) è salito sulla casa comunale affacciandosi al balcone centrale per assistere alla grandiosa manifestazione vivamente compiaciuto. Dopo aver ricevuto l’omaggio di fiori da una Piccola Italiana e da un folto gruppo 254


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di Massaie Rurali in costume seguito dalla folla acclamante, si è accomiatato promettendo di ritornare per onorare con la Sua Augusta presenza la prossima inaugurazione dell’acquedotto rurale per la frazione Materdomini che è in costruzione. Il principe, prima di visitare questo capoluogo si è fermato lungamente alla Basilica di S. Gerardo Maiella, nella frazione Materdomini ricevuto dalla Comunità dei Redentoristi.

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(Corriere dell’Irpinia 23 luglio 1938)

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12 febbraio 1941: OPERAZIONE COLOSSUS (Commando britannico contro l’acquedotto pugliese)

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Nei primi giorni di febbraio, l’undici e il dodici, per la città di Avellino si sparge la voce che un commando inglese, non si capisce se sbarcato o paracadutato, ha tentato di avvelenare l’acquedotto pugliese. La questione si chiarisce qualche giorno dopo grazie alle precisazioni del comunicato dell’agenzia di stampa Stefani e al bollettino del Quartiere Generale delle Forze Armate; in effetti un commando di paracadutisti inglesi è riuscito a far brillare una mina sotto una condotta d’acqua, provocando però lievi danni.

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Al termine del conflitto, è stato possibile ricostruire dettagliatamente le vicende del raid britannico in Irpinia, denominato in codice Colossus, e dei componenti del Commando, designato come “X Troop”.

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“Il reparto era composto da 36 uomini, al comando del maggiore Trevor Pritchard, per metà genieri e da truppe scelte, addestrate ai colpi di mano; dei suddetti militari tre parlavano correttamente l’italiano: un capitano della Raf, che aveva soggiornato a lungo in Italia, un londinese di origine italiana, Nicol Nastri, già militare aggregato al commando per l’occasione come interprete, e un antifascista, ex cameriere d’albergo, internato allo scoppio del conflitto e dichiaratosi disponibile per qualsiasi azione sulla Penisola, il fiorentino Fortunato Picchi, scelto per il medesimo motivo. Il commando venne portato sull’obiettivo da sei aerei Whitley, messi a disposizione dalla Raf, mentre due aerei del 256


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medesimo modello si portavano su Foggia per un bombardamento, in un’azione diversiva. I velivoli, partiti da Malta tra le 17,40 e le 18, dopo aver sorvolato la Sicilia orientale e puntato la prua verso il massiccio del Vulture, arrivarono scaglionati all’appuntamento sulla condotta, che scavalca il Traggino, un affluente dell’Ofanto, nei pressi di Calitri; il primo gruppo di sei uomini si lanciò con il paracadute alle 21,42. Li seguirono gli altri aerei che scaricarono i sabotatori, i genieri e i contenitori con mille chili di esplosivo. Già con l’arrivo delle prime due squadre, il tenente Deane Drummond, dopo aver raccolto gli uomini, prese l’iniziativa di inviarli a coppie a rastrellare gli abitanti delle case circostanti, che poi radunarono sotto la sorveglianza di due uomini in un solo edificio. Venne bloccato anche il capostazione di Calitri, che si avviava a prendere servizio in bicicletta nel pieno della notte. Con l’arrivo dei ritardatari, il maggiore Trevor Pritchard contò gli uomini e si accorse che all’appello mancava il gruppo del capitano Daly, l’esperto di esplosivi che avrebbe dovuto guidare le operazioni di minamento della condotta e dei pilastri che la reggevano. La responsabilità di far saltare la condotta passò al sottotenente Paterson, del corpo dei genieri, ma con minore esperienza del suo superiore assente. In fretta si passò al recupero dei contenitori di esplosivo, ricerca resa difficile dal buio e dal mancato funzionamento delle lampadine a luce intermittente che dovevano accendersi con l’impatto al suolo; infatti dei mille chili paracadutati se ne ritrovarono appena trecentocinquanta; costituirono delle amare sorprese anche i due pilastri, che non erano in mattoni, come previsto, ma in calcestruzzo, e si trovavano nell’acqua alta e gelida per la stagione, del Traggino. Il sottotenente Paterson decise di minare un solo pilastro e di porre una carica anche sotto il ponticello che scavalcava 257


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il torrente. Il lavoro di posizionamento dell’esplosivo terminò poco dopo la mezzanotte, quando, messi a riparo i genieri, si decise di far brillare le mine. Al fragore dell’esplosione fece eco subito dopo lo scroscio d’acqua che fuoriusciva dalla condotta squarciata dallo scoppio, e i militari inglesi, dopo aver accertato che la deflagrazione non aveva fatto accorrere né militari, né i contadini delle case più lontane, lanciarono tre volte il grido di hurrà, convinti di aver portato al successo la missione “Colossus”, nome in codice dato all’Acquedotto Pugliese. A questo punto il maggiore Pritchard divise gli uomini in tre squadre, formate rispettivamente le prime due da undici uomini, al comando dello stesso maggiore e del capitano Lea, e di sette uomini agli ordini del tenente Iowett la terza, con l’intento, come era previsto nel piano, di dirigersi scaglionati, per avere più possibilità di sfuggire alle ricerche, alla foce del Sele, dove per due giorni avrebbe stazionato il sommergibile Triumph per raccoglierli; inoltre lasciò di sentinella il caporale Boulter (che si era spezzato la caviglia nell’impatto troppo veloce con il terreno e non poteva camminare), con l’incarico di bloccare la fuga dei contadini raccolti nel casolare, ed impedire così che dessero subito l’allarme. Il compito era abbastanza facile perché nel casolare con gli uomini c’erano anche donne e bambini. Il primo gruppo arrivò solo nei pressi di Teora, dove, imbattutosi in contadini, si rifugiò in una grotta; per primo li bloccò un intrepido cacciatore, Rocco Renna. Poco dopo, assediato da numerosi contadini e da una pattuglia di carabinieri, preferì saggiamente di arrendersi. In questo primo gruppo si trovavano anche l’italo-inglese Nicol Nastri e l’antifascista di nazionalità italiana Fortunato Picchi. Il secondo gruppo agli ordini del capitano Lea, aveva raggiunto il Sele e ne stava seguendo il corso, quando si imbatté in civili e militari che lo cercavano; non aveva scampo e capitolò. Intanto il caporale Boulter non era riuscito ad impedire la 258


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fuga del capostazione che, calatosi da una finestra retrostante la casa, con la bicicletta aveva raggiunto la stazione di Calitri e dato l’allarme. Il terzo gruppo, al comando del tenente Iowett, era quasi arrivato alla foce del Sele quando si trovò circondato da civili e qualche militare; e all’ordine di arrendersi, rispose sparando. Due persone rimasero uccise e quattro ferite. Gli uomini e le donne inferociti li disarmarono e stavano per fucilarli sul posto, quando provvidenzialmente arrivò una compagnia dell’esercito che li sottrasse alla pur giusta indignazione dei contadini. Il mattino del 13 febbraio i 19 uomini del commando “X Troop” vennero portati alla stazione di Calitri per essere condotti a Napoli sotto scorta e rinchiusi nel carcere di Poggioreale; lì si riunirono al caporale Boulter e al gruppo del capitano Daly, che per errore era stato paracadutato tre chilometri lontano dal punto convenuto, e il giorno dopo, sfinito dalla stanchezza, si era arreso ad una pattuglia dell’esercito. Nelle carceri di Poggioreale iniziarono subito gli interrogatori dei prigionieri e sia Nastri che Picchi vennero immediatamente identificati, nonostante avessero fornito false generalità; ma mentre a Nicol Nastri venne riconosciuta la nazionalità britannica, Fortunato Picchi, come italiano in armi contro il proprio Paese, fu processato per alto tradimento e condannato a morte. La sentenza venne eseguita la domenica delle Palme del 1941, correttamente secondo le leggi internazionali, ma iniqua per la palese sproporzione tra il reato consumato e la pena, peraltro perpetrata nel giorno sbagliato. I ventotto componenti il commando vennero rinchiusi nel campo di concentramento di Sulmona, dove rimasero fino al conflitto. Gli inglesi inizialmente erano convinti che il colpo di mano fosse fallito, perché da ricognizioni fatte da aerei e dalle fotografie effettuate dall’alto la condotta appariva integra. Gli esiti reali li appresero dai comunicati della Stefani, l’ANSA 259


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dell’epoca, e dai Bollettini del Quartiere Generale dell’Esercito, che denunziarono l’esatta entità del danno provocata dall’esplosione, danno che venne riparato immediatamente, senza che la Puglia rimanesse nemmeno un minuto priva del prezioso liquido. La stampa e i comandi militari inglesi, ritenendo che i comunicati italiani minimizzassero volutamente i danni per non avvilire l’opinione pubblica, esaltarono l’impresa facendone un’epopea. Da allora sino ad oggi sono stati pubblicati diversi libri, che ancora propongono una epica versione della vicenda. L’allora tenente Deane Drummond, che fece carriera fino a diventare generale di brigata, su quell’avventura scrisse un libro, “Return Ticket”, cioè “Biglietto di Ritorno”, pubblicato nel 1952 per l’editore Collins, in cui sosteneva che il commando aveva fatto saltare l’Acquedotto Pugliese. C’è da ricordare che il secondo aereo Whitley, bimotore da bombardamento, che doveva effettuare un’incursione su Foggia, fu costretto ad un atterraggio forzato proprio alla foce del Sele, per i danni riportati da un colpo dell’artiglieria contraerea di Battipaglia, secondo il Bollettino n° 249 delle Forze Armate Italiane, per noie ai motori a dire dalla RAF. Nelle intenzioni della stato maggiore inglese la distruzione completa di un tratto dell’Acquedotto Pugliese avrebbe dovuto conseguire due scopi: creare un grande disagio con la mancanza di acqua potabile nelle provincie pugliesi, che costituivano le immediate retrovie del fronte greco-albanese, già sull’orlo del collasso; infatti solo il sei aprile truppe naziste evitarono all’Italia fascista di precipitare nel ridicolo, dopo la perentoria quanto inane minaccia di Mussolini: “Spezzeremo le reni alla Grecia!”. Come secondo obiettivo il raid inglese si prefiggeva di non fare arrivare rifornimenti idrici ai porti di Bari e Brindisi, dove le navi cisterna italiane si rifornivano per soddisfare il bisogno 260


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vitale di acqua dei trecentomila soldati che combattevano in Libia. In conclusione, si deve dire che se il commando inglese non riuscì negli scopi prefissati, comunque provocò, soprattutto nella popolazione meridionale, una diffusa psicosi da paracadutisti, e poi dimostrò a tutta l’opinione pubblica la vulnerabilità del territorio nazionale, aperto a tutte le incursioni, non solo per la debolezza delle forze armate ma in particolare per l’enorme estensione delle coste”.

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(Vittorio Sellitto, ECONOMIA IRPINA, anno XXXVII -N. 3-4-1999)

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30 gennaio 1944: Morte di Donna Alfonsina Santorelli

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La famiglia Santorelli, molto pia e religiosa, ha mantenuto sempre buoni rapporti con i Padri Redentoristi, vero è che un Santorelli medico, nonno di Nicola, si prendeva cura della salute di Gerardo, fratello redentorista, oggi acclamato Santo, e che nei registri parrocchiali si trova anche annotato che alla morte, i Santorelli, benché vivessero a Caposele, venivano seppelliti nella chiesa di Materdomini. L’ultima dei Santorelli, Donna Alfonsina, nipote del famoso dott. Nicola Santarelli, autore del libro “Il fiume Sele e i suoi dintorni”, è morta proprio a Materdomini nella casa sita alla via Santuario, poi lasciata in eredità ai Padri Redentoristi e ancora oggi individuata come casa Santorelli. Alla sua morte il Corriere dell’Irpinia pubblica un articolo che qui si riporta per proporre a tutti l’esempio di una vita interamente vissuta nella fede.

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Materdomini. Il 30 gennaio 1944 si spegneva a Materdomini nella tarda età di 88 anni, la preziosa esistenza della N.D. Alfonsina Santorelli nipote del celebre patologo dello Studio Medico Salernitano. La sua vita, splendente in virtù e d’eroismi, ha creato dopo la sua morte, nella coscienza di coloro che la conobbero in vita, un monumento di imperitura bellezza. Tutti ricordano ancora la mite vergine della Valsele, avvolta nelle penombre dell’umiltà e della modestia: il modello di un’attività spirituale e materiale tutta dedita all’esercizio

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(Cellino Belfiore)

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esteriore di carità , il tipo della donna forte: costante nella fede, esemplare nei costumi, prontissima nei doveri cristiani. Bimba privilegiata, nei suoi primi albori, non vide che il cielo, non conobbe che Iddio. Il suo tramonto fu simile all’alba: radioso e sereno. Appena spirata, il popolo accorse in folla a visitare la sua salma. I due funerali, celebrati a Materdomini e Caposele, furono trionfali. Al cimitero, prima della inumazione, i vestiti della defunta furono letteralmente tagliuzzati dai fedeli e conservati come reliquie. Possa da quella tomba germinare una fioritura di grazie, che preparino la grande ora della Provvidenza, indicando al mondo, aureolata della gloria dei Santi, la casta eroina della Valsele.

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29 dicembre 1945: Crollo di una vecchia casa

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Alla fine della seconda guerra mondiale Caposele ha un patrimonio edilizio poco curato, questo perché la povertà non permette nemmeno di eseguire le riparazioni più necessarie. In tal quadro le intense piogge del dicembre 1945 provocano il crollo di una casa seppellendo una donna. L’evento è così riportato sul Corriere dell’Irpinia.

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Caposele. Al rione Castello vi è un vicolo cieco, composto di poche case dirute, che ebbero già molto a soffrire nel periodo bellico. Sull’imbrunire del 29 dicembre, una di queste catapecchie crollò trascinandosene altre tre e seppellendo sotto le macerie la ventenne Giovannina Iannuzzi di Raffaele. Accorsero il Commissario Prefettizio dottor Del Tufo col Segretario Comunale dr. Carfagno, il Maresciallo Fiorito e moltissimi cittadini. Dopo due ore di febbrile lavoro fu tratta dalle macerie la povera Iannuzzi già cadavere. Gli ingegneri del Genio Civile di Avellino hanno ordinato l’abbattimento di tutte le altre case pericolanti e tuttora si procede alla demolizione.

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(Dal Corriere dell’Irpinia - dicembre 1945)


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“…pensando a mio nonno, credo che lui abbia avuto il destino ingrato di tutta la sua generazione e di molte altre, quello cioè di doversi sobbarcare per intero il carico della fatiche e delle mille battaglie combattute nel nome di tutti. Lui, insieme a tanti altri, ha dovuto assumere sulle proprie spalle un fardello pesantissimo e se molti di noi non hanno mai conosciuto la guerra a mai la conosceranno è solo per il loro sacrificio e il loro esempio”.

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(Da “Quel che rimane” di Antonio Ruglio)

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Feriti, caduti e decorati di guerra

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Ogni guerra, combattuta per qualsiasi ragione, è sempre una tragedia perché costringe l’uomo a privarsi della sua umanità e a diventare un crudele animale. Se da una parte il mondo è tanto cambiato, l’evoluzione psichica dell’uomo non ha fatto grandi progressi. Inalterata è rimasta la sua capacità di resistere alla psicosi dell’odio, della sopraffazione e della distruzione. E questo continua a generare sempre nuovi conflitti che immancabilmente si risolvono quasi sempre con le armi. E’ la strada più spiccia, per la quale in ogni modo si paga un prezzo molto alto, che sconvolge intimamente la psiche dell’uomo fino, a volte, a farlo impazzire. E’ cronaca di questi giorni di soldati americani rien265


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trati dai luoghi di guerra come l’Iraq e l’Afganistan che non riescono a ritornare a vivere la loro normalità. Le generazioni, come la mia, che hanno avuto la fortuna di non essere coinvolti in grandi conflitti come le guerre mondiali combattute dai nostri avi, devono essere grati a chi ha lasciato la propria vita sui campi di battaglia col pensiero rivolto lontano ai propri cari, alla propria casa. E queste pagine su cui si riportano i loro nomi devono tramandare alla memoria dei giovani caposelesi il coraggio ed il triste destino dei compaesani, vittime della barbarie scatenata dall’uomo.

PRIMA GUERRA MONDIALE

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Morti:

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CAPRIO ERNESTO fu Camillo e Sepe Giuseppina, studente di ingegneria, Sottotenente nel 40° Artiglieria. Morto a S. Iacobbe (quota 693) il 25 giugno 1915,in seguito a ferite.

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CARUSO NICOLA di Salvatore e Colatrella Maria Antonia, contadino, nato il 27 febbraio 1883, Soldato nel 15° Bersaglieri. Morto nell’ospedale da campo 053 il 12 dicembre 1916, in seguito a ferita al capo.

CASALE PASQUALE ENRICO di Angelomaria e Malanga Antonia, contadino, nato il 14 aprile 1892, Soldato nel 1° Genio. Morto a Val Piana il 28 dicembre 1917, in seguito a ferita di granata all’addome. 266


CETRULO RAFFAELE di Alessio e Tobia Grazia, contadino, nato il 29 agosto 1915, Soldato nel 157° Fanteria. Morto a Monte Virsic il 20 agosto 1915, in seguito a ferita d’arma da fuoco.

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CETRULO VINCENZO di Gaetano e Turo Rosaria, contadino, nato il 21 marzo 1885. Sergente nel 153° Fanteria. Morto il 22 agosto 1917, in seguito a ferita di granata alla regione lombare.

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CURCIO SALVATORE di Giovanni e Carrione Serafina, contadino, nato il 24 dicembre 1883, Soldato nell’8° Alpini. Morto nell’ospedale Di Marano Vicentino il 5 agosto 1918 in seguito a pleuro polmonite.

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DAMIANO ROCCO di Antonio e fu Paulercio Celeste, contadino, nato il 22 gennaio 1881, Soldato nella 10ª Compagnia di Sanità. Morto all’ospedale militare di Avellino il 27 luglio 1918, in seguito a tubercolosi.

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FARINA GERARDO di Rocco e Russomanno Grazia, contadino, nato il 20 agosto 1894, soldato nel 93° Fanteria. Morto all’ospedale militare di Avellino il 29 maggio 1916, per malattia contratta in servizio.

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FARINA PIETRO fu Incoronato e D’Auria Concetta, calzolaio, nato il 27 febbraio 1887, Soldato nel 10° Fanteria. Morto a Monte Cappuccio il 29 giugno 1916, per intossicazione da gas asfissiante. FARINA TOMMASO di Salvatore e Nisivoccia Anna Maria, falegname, nato il 20 dicembre 1891, Soldato di Fanteria. Morto nel manicomio di Nocera Inferiore il 25 febbraio 1918. 267


GERVASIO ROCCO di Giuseppe e Russomanno Maria, contadino, nato il 2 novembre 1893, Soldato nel 37° Fanteria. Morto a Zangara il 5 marzo 1916, in seguito a ferita.

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MAGLIA EMANUELE di Carlo e Marsico Carmela, minatore, nato il 1889, Soldato nel 1° Granatieri. Morto a Caposele il 25 novembre 1915 in seguito a bronco alveolite.

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MALANGA GIUSEPPE fu Alfonso e di Casale Girolama, contadino, nato il 25 gennaio 1886, Soldato nel 56° Bersaglieri. Morto sul Monte S. Michele il 24 ottobre 1915, in seguito a ferita d’arma da fuoco.

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MALANGA RAFFAELE fu Alfonso e Ceres Elisabetta, contadino, nato il 27 ottobre 1883, Soldato nel 125° Fanteria. Morto a Monte Interrotto il 26 luglio 1916, in seguito a ferita.

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MALANGA SALVATORE fu Alfonso e Casale Girolama, contadino, nato il 13 febbraio 1891, Soldato nel 136° Fanteria. Morto a Monte Scibusi l’8 agosto 1915, in seguito a scoppio di granata.

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MEROLA GERARDO di Michele e Farina Maria Nicola, contadino. Morto nell’ospedale da campo n°060 il 7 agosto 1917, in seguito a ferite per scoppio di bombe. MEROLA MICHELE di Alfonso e La Fera Filomena, contadino, nato il 2 ottobre 1879, Soldato nella 13ª Sezione di sussistenza. Morto nell’ospedale di Durazzo il 10 ottobre 1918 per tetano.

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MEROLA SALVATORE di Ferdinando e Malanga Alfonsina, calzolaio, nato il 1° gennaio 1897, Caporal Maggiore 28° Reparto d’assalto. Morto nelle vicinanze di Romanzioli il 30 ottobre 1919, in seguito a ferita d’arma da fuoco.

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PALLANTE SALVATORE di Alfonso e Russomanno Maria Antonia, contadino, nato il 14 aprile 1890, Soldato nel 64° Fanteria. Morto sul Monte Scibusi il 1° agosto 1915, per ferita alla fronte.

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PETRUCCI GIOVANNI fu Daniele e Farese Giuseppa nato il 4 settembre 1885, Capitano medico nel 91° fanteria. Morto nell’ospedale da campo n°61 presso S. Apollinare (Treviso) il 29 novembre 1917, in seguito a ferita di granata. Decorato.

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ROSANIA GIUSEPPE di Alfonso e Salvatoriello Agata, contadino, nato il 13 marzo 1886, Soldato nel 216° Fanteria. Morto all’ospedale da campo n°60 il 4 giugno 1917, in seguito a cancrena per ferita alla coscia.

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RUBINO PIETRO fu Ignazio e Lacialmella Grazia, capo cantiere, nato il 26 maggio 1881, Sergente Maggiore nella 122ª compagnia Zappatori. Morto a Zagara il 3 agosto 1917, per ferite di granata. Decorato.

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SANTAMARIA GERARDO di Francesco e Maria Conforti, saponaro, nato il 1° novembre 1895, Soldato nel 139° fanteria. Morto all’ospedale da campo n°148 il 6 giugno 1916, per ferita di pallottola alla regione sopraclavicolare. STURCHIO RAFFAELE di Giuseppe e Ciccone Teresa, contadino, nato il 4 giugno 1891, Soldato di fanteria. 269


Morto a Caposele il 30 marzo 1918, in seguito all’amputazione di ambo le gambe.

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VETROMILE GERARDO di Nicola e Mattia Maria nato il 29 marzo 1896, Soldato nella Compagnia Radiotelegrafisti volontari italiani. Morto per tifo nell’ospedale militare di Tripoli il 20 novembre 1916.

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Mutilati, invalidi e feriti:

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ROMANO FILIPPO morto per malattia contratta in guerra nel 1918.

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CAPRIO ALFONSO di Giuseppe e Malanga Giovannina, Sottotenente nel 132° Fanteria ferito al basso ventre e mutilato di un piede. Decorato

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CAPRIO DOMENICO di Salvatore e Donatiello Elisa, nato il 6 novembre 1894, tenente nel 79° Fanteria. Ferito all’avambraccio destro. Decorato.

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CUOZZO VINCENZO di Lorenzo e Cuozzo Anna, nato il 18 settembre 1892, Sergente Maggiore nel 157° Fanteria. Monco della mano destra. Decorato.

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FREDA GIOVANNI di Angelo e Pizza Giovannina, nato il 29 gennaio 1894, Tenente nel 73° Fanteria. Ferito al braccio destro e al petto.

ILARIA PASQUALE di Michele e Cioffari Antonia, nato il 10 maggio 1891. Sottotenente nel 39° Fanteria. Mutilato dell’occhio sinistro. Decorato. 270


MEROLA ALFREDO di Pietro della classe 1882, Soldato nel 1° Granatieri. Invalido di guerra per tubercolosi.

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STURCHIO ROCCO di Giovanni della classe 1895, Soldato nell’8° Bersaglieri. Mutilato del braccio destro. Motivazioni per i decorati:

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CAPRIO ALFONSO Sottotenente (Ferito). Medaglia di bronzo (D.L. 25 luglio 1918) Inviato col plotone di rincalzo di una compagnia rimasta priva di ufficiale, rianimava i soldati, rimettendo in funzione una mitragliatrice e dando prova di calma, di coraggio e di iniziativa. Peteano 31 ottobre 1915.

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CAPRIO DOMENICO Tenente (Ferito). Medaglia di bronzo (R.D. 8 aprile 1920) Comandante di una compagnia, in difficili condizioni, con calma, fermezza e coraggio, tenne saldi sulle posizioni i suoi uomini durante un attacco a fondo di forze avversarie preponderanti, sotto violento bombardamento, effettuato anche con gas venefici, e sotto il tiro di mitragliatrici nemiche che producevano ingenti perdite nel suo reparto, finché sopraffatto e ferito cadeva prigioniero. Velika (Altopiano di Bainsizza) 25 ottobre 1917. CUOZZO VINCENZO Sergente Maggiore (Ferito). Affrontava risolutamente e volontariamente una pattuglia nemica di cinque uomini riuscendo da solo a metterla in fuga, dopo averne ferito gravemente e fatto prigioniero il comandante. Distintosi già altre volte per atti di valori. Vollastaro 10 giugno 1916. 271


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FREDA GAETANO di Angelo e Pizza Giovannina nato il 10 luglio 1892. Sottotenente nel 2° Genio. Medaglia di bronzo (D.L. 13 marzo 1917) Durante due giornate di un violento bombardamento, si adoperava molto efficacemente con la propria squadra, alla riattivazione delle comunicazioni telefoniche, percorrendo e soffermandosi più volte in zone intensamente battute dal fuoco nemico di artiglieria e mitragliatrici, dando bell’esempio di profondo sentimento del dovere e di sprezzo del pericolo. Monte Cavetto 15-16 giugno 1916.

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ILARIA PASQUALE, Sottotenente (Ferito). Medaglia di bronzo al valor militare (D.L. 16 novembre 1916) Adempì costantemente e con esemplare fermezza il proprio dovere tutte le volte che il reggimento fu impegnato in prima linea, uscendo dalla trincea per dirigere pattuglie in difficili ricognizioni ed esponendosi coraggiosamente ad ogni sorta di pericoli, fino al giorno in cui dovette lasciare il reggimento per una ferita che gli produsse la perdita di un occhio. Sabatino 29 aprile 1916. Ilaria Pasquale fu Michele e della fu Antonietta Cioffari, nato in Caposele (Av) Diplomato geometra fu perseguitato dal fascismo ed allontanato dall’Esercito dove prestava servizio attivo come tenente colonnello. MALANGA PASQUALE di Francesco e Merola Angiolina nato il 21 novembre 1892. Tenente nel 3° Artiglieria di campagna. Medaglia di bronzo (R.D. 7 settembre 1919). Durante un’azione di fuoco della batteria, rimasto gravemente ferito il proprio comandante con un altro ufficiale e con parecchi militari di truppa, assunto prontamente il comando del reparto, con l’esempio della propria calma 272


e del proprio valore ristabiliva prontamente l’ordine e, sempre sotto il tiro nemico, riprendeva l’azione di fuoco già iniziata dal suo comandante. Montello 19-23 giugno 1918.

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PATRONE AMATO di Antonio e Giardiniello Rosina, nato il 25 novembre 1891, Soldato nel 3° Genio telegrafisti. Medaglia di bronzo (D.L. 25 giugno 1916). Durante bombardamenti notturni, sprezzante del pericolo, provvedeva, quale guardafili al riattamento di linee telefoniche sotto il fuoco dell’artiglieria nemica, meritandosi l’ammirazione dei compagni che ne seguivano l’esempio. Monfalcone 25-27 settembre 1915. Medaglia di bronzo (D.L. 3 dicembre 1916). Incaricato della sorveglianza dei guardafili, bello esempio di fermezza e coraggio recatosi più volte a riparare linee ed a stenderne delle altre sotto il violento fuoco nemico. Essendo stato ferito un suo compagno, sotto il fuoco lo raccoglieva e lo trasportava al posto di medicazione, tornando poi a riparare una linea. Monfalcone 15-16 maggio 1916.

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PETRUCCI GIOVANNI Capitano medico (Morto) Medaglia d’argento (D.L. 18 settembre 1918) Durante due giorni d’intenso bombardamento, in un posto di medicazione soggetto al tiro di artiglieria, con animo serenamente calmo, con lena ammirevole e con sprezzo del pericolo, attendeva alla sua opera, medicando e sgombrando numerosi feriti che incessantemente affluivano dalle linee di combattimento. Fulgido esempio di coraggio e di alto sentimento del dovere, ferito gravemente, moriva nell’ospedale da campo. Monte la Catella 19-20 novembre 1917. 273


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RUBINO PIETRO, Sergente Maggiore (Morto). Medaglia d’argento (R.D. 25 agosto 1919) Comandava il proprio plotone allo stendimento di un reticolato durante un’azione di sorpresa, era di mirabile esempio per atti civili, calma e coraggio. In una delle notti successive, mentre compiva l’opera di rafforzamento, sferratosi un attacco nemico prendeva parte valorosamente al combattimento, impegnatosi e colpito a morte cadeva incitando fino all’estremo i suoi soldati e manteneva la posizione. Britto 31 luglio 1917.

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SISTA GERARDO di Lorenzo e Mollica Caterina nato il 10 settembre 1896, Sergente nel 215° fanteria. Medaglia d’argento (R.D. 4 gennaio 1920) Sempre primo in ogni circostanza dove vi fosse maggiore bisogno di coraggio e di ardimento. Da solo penetrava in una galleria catturando prigionieri e materiali. Risolutamente si lanciava contro una posizione nemica difesa da numerosi mitragliatrici ed impediva la fuga a nuclei nemici che tentavano ritirarsi. Esempio ai soldati di ardire e disprezzo del pericolo. Val delle Zocche, 29 ottobre. Col Collesci, 31 ottobre 1918.

SECONDA GUERRA MONDIALE

Feriti, morti, dispersi: AURIEMMA SALVATORE di Antonio nato a Caposele il 1922, marinaio, disperso in data 09.09.1943 a seguito 274


dell’affondamento della R. Nave Roma. Riceve diploma relativo ad encomio solenne, pubblicato al Bollettino D.V. n.106 allegato 1 in data 24.09.1946 e recante n. d’ordine 669.

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CAPRIO LORENZO fu Lorenzo. Colonnello caduto a Gondar luglio 1941. Riceve la medaglia d’argento al valor militare con Bollet. Uff. 1947 Dispensa 18 con la seguente motivazione: Comandante di Battaglione effettuava un ripiegamento superando forti difficoltà e vincendo, per diversi giorni, la resistenza avversaria. Schierato il suo reparto manteneva la linea per lungo periodo di tempo, opponendosi accanitamente all’attacco dell’avversario. Mentre, rotto il contatto, si accingeva a raggiungere nuove posizioni, veniva attaccato a tergo da rilevanti formazioni ribelli; incurante di ogni pericolo, con calma e perizia, guidava egli stesso la retroguardia finchè il piombo nemico ne stroncava la nobile esistenza. Bello esempio di coraggio e di alto sentimento del dovere. Ambò.Monte Amara.(Lechemtì) 5 aprile-5 giugno 1941.

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CARUSO ANGELOMARIA nato a Caposele l’11. 12.1914, soldato, scomparso in occasione di un intervento militare a Rodi-Egeo dal 25.01.1944.

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CASALE SALVATORE di Raffaele nato a Caposele il 22.02.1916, già segnalato disperso in occasione del combattimento avvenuto il 18.12.1942 in Russia, rimpatriato dalla prigionia in Russia il 17.12.1945. CASCIANO GAETANO di Giuseppe classe 1920, deceduto il 9.06.1943 per deperimento organico nella Macedonia Occidentale (Grecia). 275


CERES PASQUALE di Pietro nato a Caposele il 8.04.1908, soldato, scomparso in occasione del combattimento del 16.02.1943 in Croazia.

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CHIARAVALLO NICOLA di Alfonso nato a Caposele l’1.03.1923, soldato, deceduto il 2.02.1944 in prigionia in Germania.

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CIBELLIS NICOLA di Rocco nato a Caposele il 20.11.1915. soldato diede le sue ultime notizie il 25.12.1943, tramite la Croce Rossa. Sotto tale data deve ritenersi disperso mentre si trovava prigioniero dei tedeschi ed internato in Grecia.

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CICCONE FRANCESCO fu Francesco, nato a Teora il 25.10.1910 Caporale Maggiore, morto nell’ospedale da campo n. 341 in Grecia il 25 luglio 1943.

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CICCONE VINCENZO di Pasquale nato a Teora il 9.09. 1916, soldato, disperso.

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COLATRELLA SALVATORE di Rocco, soldato, scomparso in mare il 2.12.1942 nel canale di Sicilia.

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COLATRELLA VITO di Francesco, soldato, disperso dal 29.05.1942. CORDASCO ANTONIO fu Gerardo, soldato, disperso dal 4.11.1942. COZZARELLI DONATO fu Salvatore, classe 1909, disperso nel gennaio 1943.

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CUOZZO MICHELANGELO di AngeloMaria, nato a Caposele l’8.05.1919, soldato, deceduto il 06.04.1943 nella zona di Fatnassa in seguito a sfracellamento da granata nemica, sepolto nella zona di Fatnassa.

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CURATOLO ANGELOMICHELE di Antonio nato a Quaglietta il 6.09.1914, fante, morto in seguito a ferite alla schiena da mitragliatrice aerea nemica il 2.02.1941.

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CURCIO ANTONIO di Giuseppe nato a Caposele il 6.01.1909, soldato, disperso dal 25.01.1943 sul medio Don (Russia).

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DATTOLI SALVATORE fu Orlando e Gizzi Pasqualina, nato a Caposele l’1.01.1920, sergente maggiore morto in combattimento in Russia il 21.11.1942.

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D’ELIA LEONARDO di Luigi, disperso dal 25.01.1943 in Russia.

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Del MALANDRINO GIUSEPPE soldato, disperso dal 5.02.1941.

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Del GUERCIO GIUSEPPE di Gerardo classe 1921, soldato, deceduto sul fronte russo il 21.01.1943.

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FARINA GERARDO di Lorenzo, soldato, disperso dal 29.05.1942.

FERRARA VINCENZO di Pasquale nato a Teora il 14. 11.1919, soldato, disperso sul fronte russo il 19.01.1943. GALDI VINCENZO di Alfonso nato il 18.06.1911, solda277


to, deceduto in un campo di prigionia al villaggio Herbia (Palestina) il 25.01.1945, in seguito a ferite d’arma da fuoco alla tempia. Sepolto al cimitero militare Ramlech (Palestina) Quadr. 14 fila B. tomba 8 il 28.01.1946.

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GERVASIO AMATO di Giuseppe classe 1924, deceduto il 23.07.1944 in prigionia in Germania per malattia.

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GERVASIO ANTONIO di Giuseppe, soldato, disperso dal 16.07.1942. GIOLITTI VITALE nato a Caposele il 3.09.1911, soldato, disperso dal 5.02.1941 durante i fatti d’armi di Agedabia (Cirenaica).

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GRASSO GIUSEPPE di Pasquale nato a Caposele il 10.02.1922, soldato, scomparso in occasione del combattimento avvenuto nel dicembre 1942 in Russia.

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LUONGO CARMINE di Francesco classe 1911, soldato, deceduto in combattimento il 12.12.1942 in Russia.

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LUONGO FELICE di Pietro classe 1921,soldato, deceduto in combattimento il 17.07.1942 sul fronte della Cirenaica.

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LUONGO SALVATORE fu Felice, soldato, deceduto il 23.01.1941 Il Corriere dell’Irpinia del 22.02.1941così scriveva: Caposele 21. E’ caduto sul fronte greco, in seguito a ferite il giovane fante Salvatore Luongo fu Felice, della classe 1916, nativo del limitrofo comune di Teora e qui residente, con la famiglia, da vari anni. Questo paese che lo annovera tra i suoi figli prediletti, ha ap278


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preso la notizia con la fascista fierezza ed ha inciso il suo nome dopo quello degli altri due Caduti, nei cuori di tutti e nel marmo che ricorderà alle generazioni future la giovinezza immolata per la grandezza della Patria. La partecipazione dell’eroica morte è stata fatta alla madre ed ai congiunti con espressioni di fraterna ed affettuosa solidarietà da questo Podestà che, insieme con le altre autorità del luogo, si è recato espressamente nella lontana contrada ove abita la famiglia Luongo.

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MALANGA GELSOMINO di Carmine nato a Caposele il 17.04.1911, disperso in Russia il 18.12.1942.

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MALANGA GERARDO di Carmine classe 1917, morto nell’ospedale militare di Asti il 11.02.1943.

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MALANGA GERARDO di Antonio, aviere di governo, deceduto il 06.08.1941 alla stazione ferroviaria di Rho in seguito ad incidente occorsogli mentre si recava in licenza.

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MALANGA LORENZO fu Leonardo nato a Caposele il 03.12.1920, carabiniere, scomparso a seguito all’affondamento della motonave Neptunia il 18.09.1941.

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MARTINO VITO di Raffaele nato a Teora il 13.10.1921 soldato, scomparso in Russia nel 1942. MEROLA ALFONSO di Donato nato a Caposele il 13.02.1918, soldato, deceduto il 5.12.1040 ad Alì Ralabà per ferite nell’ospedale da campo 576. MEROLA GERARDO di Donato, Geniere, disperso dal 14.04.1941. 279


MEROLA GERARDO fu Vincenzo nato a Caposele il 14.03.1912, già segnalato disperso, poi risulta vivente e residente in Stoccarda (Germania).

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MEROLA GIOVANNI di Alfonso nato a Caposele il 21.07.1920 deceduto in Rimini il 28.09.1943 per malattia.

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MEROLA MICHELE di Vincenzo classe 1916,deceduto il 30.12.1940 per ferite in Albania.

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NISIVOCCIA GAETANO fu Emilio nato a Caposele il 02.10.1919, deceduto in Africa settentrionale per ferite il 28.05.1942.

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PALLANTE CASIMIRO di Pietro, nato a Caposele il 06.08.1920, caporale maggiore, scomparso a Creta in conseguenza degli eventi bellici dell’armistizio il 31.08.1943.

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PALLANTE VITO di Pietro, aviere allievo motorista, appartenente alla 277ª squadriglia, caduto in combattimento aereo a Presbari (Albania) il 3 dicembre 1940.

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PALMIERI GIUSEPPE di Paolo, soldato, morto nel 1942. ROSANIA COSIMO di Raffaele nato a Caposele il 30.10.1908, soldato, scomparso il 22.12.1942.

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RUGLIO ALFONSO soldato, deceduto nel combattimento del 15.07.1941, in seguito a ferita d’arma da fuoco alla testa e all’addome e sepolto nel Montenegro, Xan Masanovica, in un cimitero provvisorio di guerra, tomba n. 14. Corriere dell’Irpinia del 25.08.1941 Caposele, 24. 280


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E’ caduto da prode, in combattimento sul fronte albanese il giovane Alfonso Ruglio. Questo suo paese ha appreso la notizia con fiero dolore ed ha inciso il suo nome a caratteri di fiamma, accanto ai nomi degli altri sette caduti dell’attuale grande guerra. Il contributo di sangue, notevolmente alto, che questo piccolo paese rurale ha dato finora a questa guerra di giustizia e di civiltà, costituisce un titolo un privilegio ed orgoglio. Sono stati celebrati oggi solenni funerali con la partecipazione delle autorità cittadine, delle organizzazioni del regime e dei reparti militari in armi. Alla madre, alla giovane moglie ai due teneri figlioletti ed alle sorelle, che hanno offerto in olocausto alla Patria tutto quanto avevano, giunga la parola di conforto e l’espressione dell’affettuosa solidarietà di tutti i concittadini.

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RUGLIO GIUSEPPE di Carmine, soldato, disperso dal 6.11.1942.

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SABATINO GIUSEPPE di Pietro, caporale, scomparso il 24.05. 1941 in seguito all’affondamento del piroscafo Conte Rosso. SALVATORIELLO GIUSEPPE soldato, morto in Cirenaica il 13.02.1943.

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SOZIO ANTONIO di Salvatore soldato, deceduto il 22. 01.1941 in Albania. SOZIO LORENZO fu Giovanni nato a Caposele il 21.11.1913, già segnalato disperso, rimpatriato dalla prigionia Marocco Francese il 4.03.1946. SOZIO VITTORIO fu Donato, Sergente, scomparso il 281


24.05.1941 in seguito all’affondamento del piroscafo Conte Rosso.

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VITIELLO EUGENIO nato a Caposele il 29.03.1922, caporal maggiore, deceduto presso l’ospedale militare di Caserta il 7.10.1942.

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Partigiani:

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CAPRIO ALFONSO, di Giuseppe e Giovanna Malanga; nato il 15/9/1893 a Caposele (AV). Nel 1943 residente a Gradisca d’Isonzo (GO). Licenza elementare. Fu membro del CUMER. Riconosciuto partigiano dall’1/10/43 alla Liberazione.

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CAPRIO GIUSEPPE, di Alfonso e Carmelina D’Auria; nato l’1/1/1926 a Gaeta (LT). Nel 1943 residente a Gradisca d’Isonzo (GO). Studente. Fu attivo nel CUMER. Riconosciuto patriota.

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Anno 1970: cittadinanza onoraria all’avv. Vincenzo Caruso da Trani

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Uomo di grande sensibilità, militante da giovane nel partito socialista in difesa sempre di una giustizia sociale più equa per i suoi conterranei e per tutti i lavoratori d’Italia. Secondo me unico uomo di Puglia che, in più di un secolo di trasferimento delle acque delle nostre sorgenti, ha manifestato senso di gratitudine e riconoscenza verso Caposele la generosa.

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Il suo destino si intreccia con quello del nostro paese negli anni sessanta, allorquando facendo parte del Consiglio dell’Ente Autonomo Acquedotto Pugliese egli deve interessarsi della lite fra il nostro Comune e l’Ente di cui faceva parte; la questione - ricorderete - si trascinava dal 1940, anno in cui erano state incanalate nel “fiume sotterraneo“, che vedeva e vede di nuovo la luce in terra di Puglia, i restanti 363 l/s di acqua destinati con la convenzione siglata nel 1905 ai fabbisogni civili e industriali di Caposele. All’epoca un accordo stipulato in Prefettura prevedeva, tra l’altro, un ristoro economico stimato in L. 1.500.000 da versare al comune di Caposele prima della presa dell’acqua. Nei fatti, però, si incanalava l’ulteriore prelievo d’acqua senza attuare quanto stabilito nell’accordo. A Caposele non restava che chiedere l’attuazione delle condizioni stabilite nel patto siglato. Il consiglio dell’E.A.A.P. con la solita noncuranza nei confronti dei soggetti deboli contrastava in vari 283


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modi l’istanza, più volte ripetuta, dagli amministratori dell’epoca. Solo di fronte ad azioni legali cominciava a dare risposte anche se insoddisfacenti e dichiarava di non volere assolutamente rivalutare la somma pattuita nel 1942 e mai versata nelle casse comunali. Sul finire degli anni sessanta il consigliere Caruso, anche se isolato, si batte, affinché vangano riconosciuti i diritti dei Caposelesi. Quando alla fine la spunta si trovano le condizioni necessarie per la sigla dell’accordo del 1970, e si pone fine a decine di anni di lite. Riconoscente, l’Amministrazione comunale di Caposele conferisce la cittadinanza onoraria1 al benemerito avvocato Caruso e questi negli anni mantiene sempre vivi i rapporti e l’affetto con il nostro Comune fino agli ultimi giorni in cui lui ci lascia per sempre. Poco prima della sua dipartita, sebbene sofferente, egli si fa accompagnare dai familiari a Caposele, prende alloggio in un albergo di Materdomini per trovare motivo di consolazione ed incontrare amici ed amministratori. Quale prova migliore del suo amore per il nostro paese? Al suo funerale la cittadinanza partecipa in forma ufficiale col gonfalone listato a lutto, confermando il legame di amicizia e di stima che lo ha legato al benemerito avvocato. Né si possono poi dimenticare le parole di saluto proL’ultima cittadinanza onoraria è stata conferita nel 2008 alla scrittrice Dacia Maraini per i suoi meriti letterari dopo la sua partecipazione qui a Caposele ad un incontro culturale. In una seconda occasione la scrittrice ha anche presentato il suo ultimo lavoro.

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nunciate dal Sindaco pro-tempore nel periodo del sisma del 1980, avv. Antonio Corona, l’accorato ringraziamento per tutto quanto fatto in favore del nostro paese, l’affettuosa vicinanza e gli aiuti sollecitati e organizzati nella città di Trani e inviati da Caruso a Caposele nel funesto periodo del dopoterremoto.

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Calamità naturali: la frana del 1963

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L’avvenimento del 1899, sebbene rimasto nella memoria di qualche anziano, non è stato comunque divulgato abbastanza alle giovani generazioni. Nuove abitazioni sono state edificate nella zona a valle del vecchio smottamento. Ma il 23 di febbraio 1963, dopo mesi di pioggia e neve, la frana si riattiva provocando il crollo di case e spazzando via il tratto della strada provinciale, unico accesso al paese. L’evento viene riportato da RAI 3 nel telegiornale della notte. Caposele resta isolato per alcuni mesi; unica soluzione possibile: il rifacimento del nuovo tratto di strada più giù verso il fiume. Negli stessi giorni si paventa anche il pericolo del distacco della pietra dell’Orco sopra il paese tant’è che l’esercito interviene piazzando potenti fari, alla località Madonna delle Grazie per tenere illuminata notte e giorno la grossa pietra e l’On. Sullo, Ministro dei Lavori Pubblici, giunto sul posto, fa, su suo interessamento, mettere la pietra in sicurezza con delle imbracature.

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Il rischio frane rimane, comunque, sempre alto per il territorio di Caposele, non solo per l’andamento orografico, ma anche per la ricchezza d’acqua che caratterizza la zona. Negli anni numerose frane hanno interessato il centro urbano che, trovandosi alle pendici di una catena montuosa riceve attraverso impluvi naturali tutta l’acqua che scende a valle. Molti ricordano, del resto, che fino ad alcune decine di anni fa i due raggruppamen286


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ti di case, quello di Capo di fiume e quello intorno al Castello, erano separati da una zona franosa, chiamata appositamente le Lavanghe, attraversata da un vallone che, accogliendo a monte altre aste d’acqua, scaricava la sua intera portata di acqua e terriccio nel letto del fiume Sele. Né si può dimenticare l’imponente frana, quiescente, attivatasi dopo vari anni con la forte scossa sismica del 23.11.80 nella contrada di Buoninventre.

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Il sisma del 1980

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Caposele 23 novembre 1980 ore 19:35. È una calda domenica pomeriggio, la funzione religiosa nella chiesa dedicata a S. Lorenzo è appena terminata. I fedeli avanti nell’età si sono incamminati verso casa per la cena e quelli più giovani hanno preso la strada principale del paese per unirsi ad altri coetanei, fare un po’ di “struscio” (passeggiare), chiacchierare, raccontare i propri sogni agli amici e mostrare le proprie simpatie amorose a qualcuno. Nei bar alcuni si stanno intrattenendo a sorseggiare qualche bibita, altri nell’angolo, di tanto in tanto, danno un’occhiata ai giocatori di carte, indecisi se fermarsi a guardare gli amici o rientrare per la cena. I giovani appassionati di calcio sono seduti davanti alla TV per seguire le sorti della squadra del cuore e vedere le immagini dei goal dei propri beniamini. Anche le sezioni di partito sono affollate da chi è desideroso di partecipare alle decisioni della vita politica locale ed ascoltare le ultime direttive dei dirigenti nazionali, o semplicemente da chi vuole trascorrere qualche oretta in compagnia. Una scossa (magnitudo 6,9 della scala Richter, intensità decimo grado della scala Mercalli), senza alcuna pietà, colpisce il nostro territorio; come una belva inferocita si placa solo dopo 33 secondi, lasciando il paese avvolto in una grossa nube polverosa che tutto nasconde e nella quale si odono solo lamenti e gemiti. Passato l’effetto sorpresa, dopo aver realizzato di essere indenni, il primo istinto è quello di mettersi al riparo in un luogo aperto e di cercare di unirsi ai propri

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familiari. In piazza Sanità ed in altri spazi aperti cominciano a ricomporsi le famiglie con la gioia momentanea di chi si ritrova intorno sani e salvi tutti i familiari e con la straziante attesa di chi si accorge della mancanza di un proprio caro. Nel buio inizia la ricerca nei posti dove si sarebbero potute trovare le persone assenti. A chi si incontra si ripete con angoscia la stessa domanda “ hai visto mio …?”. La risposta rallenta il battito di un cuore in ansia o lo accelera tanto da sentirlo scoppiare alle tempie. Grande la gioia di chi riesce a trovare in vita il proprio familiare, lacerato il cuore di chi viene a sapere che un congiunto è finito sotto le pietre di quelle case che fino a qualche ora prima erano luogo di sicurezza e di unioni affettive. Pochi, al buio, ignari del pericolo, cominciano a scavare con le proprie mani tra le macerie nella speranza di trovare ancora in vita le persone care, un figlio, una madre, un proprio amico, ma verso le undici una scossa di replica fa stramazzare al suolo altri muri pericolanti. Si ferma così anche la ricerca e i più si avviano verso zone aperte per passare la notte. Con l’arrivo dell’alba iniziano di nuovo le ricerche e la raccolta dei cadaveri; si comincia a concretizzare l’idea che è stato un terremoto devastante che ha fatto crollare e/o danneggiato più dell’ottanta per cento del patrimonio edilizio e che numerose sono le perdite di vite umane. Di fronte a tale devastazione le sole mani nulla possono e si attendono i soccorsi con impazienza per cercare di scavare lì dove ancora si ode qualche lamento, ogni giorno sempre più flebile. Caposele e i Caposelesi si sentono isolati con le linee telefoniche interrotte; man mano che passano le ore ed i giorni si realizza l’idea che l’area devastata è molto grande e tanti paesi sono stati rasi al 289


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suolo. Di fronte a tale situazione anche lo Stato centrale si trova del tutto impreparato. E così a Caposele gli aiuti arrivano solo dopo qualche giorno e in maniera inadeguata, vista la triste realtà che si presenta ai soccorritori. Nei giorni a seguire si mobilitano anche tanti Stati europei per portare aiuto nelle zone terremotate; a Caposele arrivano i soldati tedeschi che installano il campo base nella zona cosiddetta Petazze. Arrivano anche tanti volontari, inviati dai tanti Comuni d’Italia per portare solidarietà ed aiuti alla popolazione. Nel parcheggio del Santuario di Materdomini si installa un ospedale da campo. Le vittime sono 63 e per la morte di ognuno la fatalità è stata in agguato; si sono riproposte molte delle situazioni descritte dal Santorelli per il terremoto del 1853. Come in una gigantesca antologia i cronisti raccontano le storie morte sotto le macerie. A Caposele un gruppo di amiche sono state seppellite dal crollo di un muro mentre stavano passeggiando lungo la strada principale del paese. Una persona è morta investita dal crollo di un cornicione mentre usciva scappando dal bar, tutte le altre rimaste all’interno del locale si sono invece salvate. Due amanti hanno trovato la morte nell’unico torrione del vecchio castello dove si erano dati appuntamento. Una coppia di fidanzati è morta nell’auto, schiacciata dal crollo della palazzina in costruzione, dove al piano terra si erano appartati. È crollata la sede del partito comunista, seppellendo i frequentatori, le loro speranze politiche di costruire un paese migliore e le loro aspettative di vita più giusta ed egualitaria per tutti. Tanti sono morti nel crollo della propria abitazione. Un fratello redentorista ha perso la vita nel crollo del cenobio di Materdomini costruito da S. Alfonso Maria dei Liguori. 290


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Una ragazza, sorella maggiore, portatasi a Lioni per prendere i due fratellini che erano andati con lo zio a vedere la partita di calcio dell’Avellino ha trovato la morte nelle scale del palazzo insieme ai fratelli. Il loro papà qualche mese dopo, non reggendo al dolore, si è tolta la vita con un colpo di fucile alla testa. Qualcun altro non è sopravvissuto nelle strette strade vicino alla chiesa madre e al Castello, colpito a volte solo dalle pietre poste sui tetti per fermare lo scivolamento dei coppi di copertura delle case. Una donna di Caposele, che si trovava nell’ospedale di S. Angelo dei Lombardi per aver partorito, ha trovato la morte per il crollo dell’ospedale ma dopo qualche giorno i soccorritori hanno ritrovato viva e sana la sua bimba e le hanno dato il nome di Fortunata. A ricordo delle vittime si riporta qui l’elenco dei cittadini deceduti.

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1. Barbarossa Giovanni nato a Caposele il 13.04. 1963 2. Castagno Angiolina nata a Caposele il 04.05. 1946 3. Ceres Franco nato a Oliveto Citra il 10.02. 1977 4. Cetrulo Alfonso nato a Caposele il 03.05.1910 5. Cetrulo Giuseppe nato Caposele il 02.05.1957 6. Cetrulo Maria nato a Caposele il 03.02.1899 7. Cibellis Raffaele nato a Caposele il 24.10.1905 8. Cibellis Rosina nata a Caposele il 10.07.1903 9. Ciccone Elia nata a Caposele il 05.05.1966 10. Ciccone Rosa nata a Caposele il 25.02.1962 11. Colatrella Carmela nata a Caposele il 02.04. 1961 12. Corvino Messalina nata a Caposele il 28.08. 1964 13. Casentino Giuseppe nato S. Andrea Ionio il 12.10. 1899 14. Del Buono Maria Nicola nata a Conza il 19.10.1906 291


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15. Di Marco Delia nata ad Acropoli il 01.04.1929 16. Donatiello Pasqualina nata a Teora il 10.07. 1926 17. Fabio Vincenzo nato a Vietri di Potenza il 18.04. 1958 18. Farina Maria Teresa nata a Caposele il 16.12. 1884 19. Gervasio Rosetta nata a Caposele il 12.04.1963 20. Iannuzzi Alfonsina nata a Caposele il 19.01. 1963 21. Iannuzzi Maria nata a Caposele 27.10.1958 22. Liloia Carla nata a Caposele il 27.01.1938 23. Luongo Gerarda A. nata a Laviano il 06.10. 1936 24. Malanga Angiola nata a Caposele il 03.10.1902 25. Malanga Elisa nata a Caposele 09.11.1924 26. Malanga Maria nata a Caposele il 23.03.1906 27. Mariniello Lorenzo nato a Caposele il 08.08. 1926 28. Megaro Giovannina nata a Caposele il 16.12. 1969 29. Megaro Maria nata a Teora il 12.01.1926 30. Megaro Pasquale nato a Caposele il 03.12. 1976 31. Meo Giuseppe nato a Caposele il 12.01.1924 32. Merola Antonio nato a Caposele il 06.04.1914 33. Nesta Gerardo nato a Caposele il 06.11.1904 34. Nesta Giuseppe nato a Caposele il 06.02.1921 35. Nesta Pasquale nato a Caposele il 08.01.1930 36. Nesta Rocco nato a Caposele il 01.11.1972 37. Nesta Rosa nato a Caposele il 07.04.1965 38. Pallante Carmela nato a Caposele il 19.11. 1898 39. Proietto Giuseppe nato a Caposele il 04.07. 1905 40. Quagliariello Amedeo nato a Lioni il 28.05. 1974 41. Rosalia Pasquale nato a Caposele il 31.03.1904 42. Rosalia Pasqualina nata a Caposele il 30.08. 1954 43. Rubino Pierina nata a Caposele il il 30.01.1918 44. Ruglio Alfonsina nata a Caposele il 24.11.1904 45. Russomanno Gerardo nato a Caposele il 19.12. 1932 46. Salvatoriello Gerardo nato a Caposele il 11.02. 1901 47. Sena Gelsomina nata a Caposele il 27.02.1934 292


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48. Sista Benito nato a Caposele il 22.01.1938 49. Sista Gerardina nato a Caposele il 07.09.1913 50. Spatola Rocco nato a Caposele il 14.01.1935 51. Sturchio Rosa nato a Caposele il 25.10.1959 52. Cozzo Vincenzo nato a Caposele il 17.05.1962 deceduto in Lioni 53. Cozzo Carmela nata a Caposele il 22.11.1958 deceduta in Lioni 54. Cozzo Alfonsina nata a Caposele il 23.08.1965 deceduta in Lioni 55. Palmieri Antonella nata a Caposele il 19.09.1967 deceduta presso l’ospedale di Eboli 56. Casciano Nicola nato a Caposele il 13.07.1966 deceduto in Teora 57. Martino Lidia nata a Caposele il 04.08.1961 deceduta in Teora 58. Sena Gerardina nata a Caposele il 15.06.1936 deceduta in Teora 59. Farese Filomena nata a Caposele il 20.09.1971 deceduta presso un ospedale di Napoli 60. Malanga Angiolina nata a Caposele il 20.07.1893 deceduta presso l’ospedale di Vallo della Lucania 61. Cordasco Nicola nato a Caposele il 18.05.1893 deceduto presso l’ospedale di Benevento 62. Sena Carmela nata a Caposele il 10.07.1886 deceduta in Calabritto 63. Cordasco Gerardo nato a Caposele il 10.08.1957 deceduto in Teora.

Per il terremoto si verifica anche un altro fenomeno, pure descritto dal Santorelli per il sisma del 1853: l’abbassamento della portata delle sorgenti del Sele. Il freddo arrivato nei giorni successivi complica di 293


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molto la situazione. Parecchi costruiscono baracche di fortuna, pur di non lasciare il paese, restano “a far la guardia alle macerie”; lì sotto hanno tutto, le poche cose d’oro della moglie e dei figli, qualche risparmio, gli attrezzi per lavorare, etc…Altri vengono sistemati negli alberghi di Paestum e di Agropoli o altrove, altri ancora, che hanno un fratello o un figlio lontano, partono per le Americhe. Il sindaco pro-tempore Antonio Corona fa costruire una baracca in legno in piazza Sanità e la adibisce a sede comunale. Col passare dei giorni arrivano le roulottes e successivamente si costruiscono i villaggi con prefabbricati in legno alla c/da S. Caterina, ai Piani e alle Fornaci. In tal modo si dà un alloggio provvisorio ma abbastanza confortevole a tutti. Inizia, poi, l’attesa della ricostruzione, avvenuta dopo lunghi ed estenuanti incontri tra chi vuole costruire così come era il paese e tra chi cerca di adeguarlo alle nuove esigenze abitative dei cittadini. Con i primi buoni-contributo emessi nell’anno 1985 anno anche della consultazione elettorale e della vittoria dei sostenitori della prima ipotesi si avvia il grosso della ricostruzione. Molti Caposelesi nel centro urbano, vedendo le case ricostruite assolate e dotate di ogni confort nei piani di zona di Piani, Pianello e Materdomini si pentono della scelta fatta. A distanza di anni si realizza comunque, che per il nostro paese si è persa l’occasione, viste le grosse rimesse per la ricostruzione da parte dello Stato, di infrastrutturare il territorio con opere pubbliche di supporto allo sviluppo economico del territorio stesso. Oggi restano le immagini indelebili di quell’immane 294


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disastro e l’amara considerazione conclusiva su quanto sia stato sprecato per rimettere in piedi una realtà come quella irpina, a cui il dopo terremoto ha inferto colpi ancora più duri della sciagura naturale, dovuti a sprechi, ruberie, malaffari legati alla ricostruzione. Con il mutamento culturale avvenuto dopo il sisma si assiste ad un declino delle sicurezze esistenziali e alla scomparsa con tutti gli aspetti positivi e negativi della cultura di villaggio e dei sostanziali valori comunitari, legati ai valori arcaici del mondo contadino. La gente, nonostante i tentativi di riconnettere le tradizioni, gli usi, i costumi, con la trasformazione sismica del suo paesaggio e dei centri vitali della propria esistenza si è trasformata essa stessa e, per contingenze e motivazioni logistiche, storiche e politiche, persa la tradizionale istintività gregaria e solidale si è trovata con tanta incertezza “a metà del guado dl processo di traghettamento verso una società tardo-industriale” che ancora non riesce ad affermarsi.

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Testi consultati

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Catalogo dei feudi e dei feudatari, art. 702, A.S.N. Catalogo dei Baroni Normanni Regest. 1339 et 1340 . B. fol.I Archivio di Conza fatto da Bardars, foglio 26 dell’inventario Vita di Giordano Bruno di Vincenzo Spampanato “Campania, l’habitat tradizionale” di S. Rossi “Caposele, una città di Sorgente” di Nicola Conforti e Alfonso Merola, 1994, Elio Sellino Ed. “Delle Antichità Estensi ed Italiane”, trattato di Ludovico Antonio Muratori “Memorie Storiche del Sannio” di Gio. Vincenzo Ciarlante “Catalogo dei feudi e feudatari della provincia napoletana sotto la dominazione normanna” di Bartolomeo Capasso edito da Arnaldo Corriere dell’Irpinia 17 gennaio 1942, Mario Giordano “Inediti Valselesi” di Giuseppe Chiusano, Poligrafica Irpina - Lioni “Il mese di agosto a Maria SS. Della Sanità” del Sac. Arsenio Dott. Caprio, Rettore di S. Maria della Sanità. Stabilimento tipografico Silvio Marano, Napoli 1913. “L’alta valle del Sele” di Amato Grisi “La Ruota sulle Rive dei Fiumi, guida alla storia e alla tecnica degli antichi mulini e delle gualchiere, coop “Basi 85” Progetto “Museo Vivo” - Poligrafica Irpina, Nusco, 1990” Vincenzo Malanga “Caposele”, casa editrice S. Gerardo Maiella Materdomini Storia della captazione delle sorgenti, brano tratto dal libro del nostro concittadino Vincenzo Malanga “Devi chiuderti nell’amore” La Cronista Conzana di Antonio Castellano Great tribulation or things coming on the earth di John Cumming 296


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Alcuni fatti riguardanti Carlo I d’Angiò dal 1252 al 1270 di Camillo Minieri Riccio Della città di Napoli dal tempo della sua fondazione sino al presente di Francesco Ceva Grimaldi Cronaca del convento di Sant’Arcangelo a Bajano. Estratta dagli archivi di Napoli Diplomi de’ diplomi dell’archivio Pignatelli di Palermo di Giuseppe Pipitone Federico Castelli angioini, aragonesi nel regno di Napoli di Lucio Santoro Istoria civile del regno di Napoli di Pietro Giannone Descritione del regno di Napoli di D’Engenio-Caracciolo Descrizione del regno di Napoli di O. Beltrano Della descrizione del regno di Napoli di S. Gazzella Istoria de feudu de regno delle due Sicilie di qua dal faro di Erasmo Rocca Delle antichità estensi ed italiane di Ludovico Antonio Muratori Sul catalogo dei feudi e dei feudatari delle province napoletane sotto la dominazione normanna di Bartolomeo Papasso Memorie storiche di Antonio Stassano Il regno di Napoli diviso in dodici provincie di Bacco Enrico Vita di Jacobo Sannazaro di Erasmo Percopo Racconto della sollevatione di Napoli di Tutini Camillo Regesto delle pergamene di Castelcapuano di Jole Mazzoleni Il Masaniello salernitano nella rivoluzione di Salerno e del salernitano di Crucci Carlo Vita di Giordano Bruno di Spampanato Vincenzo Archivio storico delle province napoletane di deputazione napoletana di storia patria. Napoli Descrizione del tremuoto avvenuto in Caposele e nei limitrofi Comuni in aprile 1853 di Gennaro Maria Paci Il fiume Sele e i suoi dintorni di Nicola Santorelli 297


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Dissertazione storico-critica fino al 1880 su Caposele di Vincenzo Malanga Documenti inediti per la storia di Caposele di Giuseppe Chiusano Relazione del Commissario Prefettizio Giovanni Baldassarre letta al ricostruito Consiglio Comunale nella seduta del 24 febbraio 1924 di Baldassarre Giovanni Annate storiche del Corriere dell’Irpinia Registri parrocchiali di nascita e morte Registri dell’anagrafe del Comune di Caposele De situ orbis di Dionysus Afer I Borboni di Napoli di Alexander Dumas Prosopografica di una famiglia feudale normanna: Balvano, di Errico Cuozzo Breve storia del Santuario Gerardino di Oreste Gregorio Memorie storiche del regno (1799-1821) di Antonio Stassano L’alta valle del Sele tra tardo Antico ed Alto Medioevo di Nicola Filippone Storia del reame di Napoli di Pietro Colletta Gente della mia terra di Alfonso Maria Farina

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Premessa.............................................................................................................................Pag. 7 Cronistoria di Caposele.................................................................................................11 Storia di muri e fondamenta....................................................................................33 Caposele oggi..........................................................................................................................35 Materdomini (600 m s.l.m.): un luogo che è più di una frazione....................................................................37 Cenni storici su Materdomini.................................................................................38 Caposele: le origini............................................................................................................42 L’Arma Civitatis del Comune di Caposele..............................................55 Il castello di Caposele.....................................................................................................58

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Notizie storiche: note chiarificatrici................................................................63 Folco d’Este a Caposele?............................................................................................65 1322: Anno di partecipazione alle crociate?..........................................65 Iacopo Sannazzaro a Caposele?...........................................................................67 1879: Morte della duchessa Filomena de Mari...................................71 nel castello di Caposele?.............................................................................................71

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Note di approfondimento............................................................................................75 1748-1900: nomi e cognomi nei registri parrocchiali e in quello dell’anagrafe civile.............................................................................80 Cenni storici sulla prodigiosa immagine di Maria SS. della Sanità.............................................................................................99 Le sorgenti del Sele.......................................................................................................106 Il corso del fiume Sele................................................................................................109 299


Il fiume Sele: l’etimologia e le varianti del suo nome..........................................................................................................................113 “Fantasticando alle sorgenti del Sele”.......................................................115 Citazioni del Sele nel passato.............................................................................124 Curiosità.....................................................................................................................................127

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Caposele e l’Acquedotto Pugliese (A.Q.P.).........................................131 L’Acquedotto Pugliese...............................................................................................133 Caposele e l’A.Q.P.: Storia delle captazioni delle sorgenti del sele..................................................................................................137 I fatti...............................................................................................................................................138 2. Accordi successivi....................................................................................................144 Nuovi trasferimenti di acqua in Puglia.....................................................151 Considerazioni....................................................................................................................152 Accordi e promesse non mantenuti..............................................................156 Caposele vedrà riconosciuti i suoi diritti?.............................................158 2011: Ultimi sviluppi e nuove polemiche..............................................159 Terra di Caposele..............................................................................................................161

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Stagioni di vita....................................................................................................................163 Caposele, anno 1269.....................................................................................................165 1494: Caposele gode non pochi diritti del Municipium..................................................................................................................171 Anno 1658: la peste.......................................................................................................173 I terremoti del 1694 e del 1732.........................................................................176 7 Dicembre 1747..............................................................................................................179 1726-1755: Gerardo Maiella; una vita meravigliosa...................................................................................................180 Caposele 19.06.1750 Un bacio scatena la follia dei Caposelesi...............................................185 300


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La terribile carestia dell’anno 1764.............................................................194 Anno 1799: Il sogno di libertà ed uguaglianza della repubblica napoletana..................................................................................205 Primi anni del 1800: La ruota per gli “esposti”.........................................................................................209 Anni 1813-14: La rapina al procaccio e il ratto delle Caposelesi.........................................................................................214 Nicola Santorelli, un uomo fornito “di ingegno e convinzioni”....................................................................................225 Maggio 1834: La scoperta della Stele votiva al dio Silvano.....................................................................................................221 9 aprile 1853: “Il tremuoto di Caposele”...............................................228 16 maggio 1863: morte di Lorenzo Santorelli..................................234 Cittadinanza onoraria all’ing. F. Zampari..............................................235 La frana del 1899.............................................................................................................239 Gerardo Grasso (1860-1937): un uomo con un destino migliore nell’estremo sud dell’America meridionale...............240 Anno 1917: la rapina del procaccio.............................................................249 Consiglio Comunale: seduta del 24-2-1924........................................253 22-07-1938: S.A.R. Umberto di Savoia a Caposele................................................................................................................................254 12 febbraio 1941: Operazione Colossus.................................................256 30 gennaio 1944: Morte di Donna Alfonsina Santorelli.........................................................262 29 dicembre 1945: Crollo di una veccha casa.......................................................................................264 Feriti, caduti e decorati di Guerra..................................................................265 Prima Guerra Mondiale.............................................................................................266 301


Morti..............................................................................................................................................266 Mutilati, invalidi e feriti............................................................................................270 Motivazioni per i decorati......................................................................................271

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Seconda Guerra mondiale.......................................................................................274 Feriti, morti, dispersi....................................................................................................274 Partigiani...................................................................................................................................282

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Anno 1970: cittadinanza onoraria all’avv. Vincenzo Caruso da Trani.................................................................283 Calamità natuali: la frana del 1963...............................................................286 Il sisma del 1980...............................................................................................................288

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Testi consultati....................................................................................................................296

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