Viaggio nell'irpinia del terremoto e dei nostri giorni

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Michele Ceres

Viaggio nell’Irpinia del terremoto e dei nostri giorni Il dramma, i pregiudizi, la rinascita


© by Michele Ceres & Delta 3 Edizioni Prima Edizione 2016 ISBN 978-88-6436-544-2


Alle vittime e ai volontari che soccorsero le popolazioni colpite da una tragedia tra le piÚ devastanti della storia d’Italia del Novecento


Discorso del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi in occasione della cerimonia di consegna delle Medaglie d’Oro al Merito Civile ai comuni colpiti dal terremoto del 23.11.1980 Palazzo del Quirinale, 25 gennaio 2006. Signor Vicepresidente del Senato, Signor Rappresentante della Camera, Signor Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Signori Presidenti delle Giunte e dei Consigli Regionali della Basilicata e della Campania, Onorevoli Parlamentari, Autorità civili, militari, religiose, Cari Sindaci, è con profonda commozione che mi accingo a consegnare le Medaglie d’Oro al Merito Civile ai Comuni più gravemente devastati dallo spaventoso terremoto del 1980 che colpì in particolare vaste zone della Campania e della Basilicata. Sono trascorsi 25 anni, ma è ancora vivo il dolore che quella tragedia provocò nell’animo di tutti gli Italiani. La cerimonia di oggi si propone di mantenere vivo il ricordo di tale drammatico evento e di rinsaldare i vincoli di solidarietà dell’intera collettività nazionale nei confronti delle popolazioni che furono così duramente provate. Allora l’intero Paese si accomunò in un intenso slancio che trovò la massima espressione nell’opera appassionata dei numerosi volontari giunti da ogni parte. Ad essa si aggiunse il generoso aiuto di tanti Paesi europei e di altri continenti. Tutti coloro che intervennero nelle attività di soccorso e assistenza, dai Vigili del Fuoco ai Militari, dalle Forze di Polizia al Personale sanitario e ai Tecnici delle diverse specialità, operarono con esemplare abnegazione. Il terremoto del 1980 ebbe gravissime conseguenze – quasi tremila vittime, oltre diecimila feriti e circa trecentomila senzatetto – determinate sia dalla sua intensità – un sisma di magnitudo 7 della Scala Richter – sia dalla sua durata – 80 interminabili secondi. La portata devastante del sisma fu accentuata dal fatto che l’area colpita comprendeva sia numerosi Comuni di montagna, sia agglomerati urbani intensamente popolati. Si aggiunsero le 7


pessime condizioni climatiche, che resero particolarmente difficoltose le operazioni di soccorso e portarono al limite della sopravvivenza la condizione degli sfollati. La memoria di quella tragedia deve indurci in primo luogo a profondere il massimo impegno nelle attività di prevenzione e di pianificazione dei soccorsi. A distanza di venticinque anni possiamo affermare che quel disastroso terremoto costituì un punto di svolta nell’organizzazione di una moderna Protezione Civile in Italia. Non che questa considerazione possa lenire il dolore per il tributo di vite umane e di sofferenze pagato, ma è giusto sottolineare che proprio quell’evento ha segnato un’inversione di tendenza, facendo sì che Stato, Regioni ed Enti locali pervenissero, nel giro di pochi mesi, alla elaborazione di un sistema in cui il coordinamento di tutti i livelli territoriali e il concorso di tutte le forze operative costituissero un sistema unitario in grado di poter funzionare in maniera efficiente. Con il D.P.R. del 6 febbraio 1981, venne infatti approvato il regolamento di esecuzione della legge del 1970 sulla Protezione Civile e furono poste le premesse per una rapida evoluzione del quadro normativo che disciplina la materia del soccorso e dell’assistenza alle popolazioni colpite da calamità. Le situazioni di emergenza che si sono verificate successivamente hanno dimostrato la validità del lavoro comune svolto dalle diverse componenti istituzionali centrali e locali e dal Volontariato. La cooperazione tra gli enti deve soprattutto puntare alla prevenzione, utilizzando al meglio le risorse offerte dalla moderna tecnologia per minimizzare le conseguenze delle calamità naturali. Questo è stato fatto ed è costantemente aggiornato. Ho avuto modo di visitare ed apprezzare in alcune parti del Paese soggette a rischio di diverso tipo i centri funzionali che hanno il compito di raccogliere e trasmettere al Sistema Nazionale della Protezione Civile tutti i dati di previsione attinenti a possibilità di alluvioni, frane, eruzioni vulcaniche e movimenti tellurici. Bisogna proseguire – e lo si sta facendo – con convinto impegno su questa strada, ricercando soluzioni tecniche e organizzative migliorative degli attuali assetti, e raggiungere così livelli di efficienza sempre più elevati. Le medaglie che consegno oggi intendono rendere omaggio allo spirito di sacri8


ficio, all’impegno civile e al senso della solidarietà di cui le popolazioni coinvolte diedero prova, pur fra tante difficoltà , sia nei giorni immediatamente successivi al sisma sia nella lunga, laboriosa fase di ricostruzione. Con tali sentimenti, cari Sindaci, Vi prego di portare ai Vostri concittadini e a tutti coloro che nelle loro funzioni operano al servizio della collettività il mio vivo apprezzamento e il mio sentito e cordiale saluto.

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PREMESSA

Al tempo del terremoto che il 23 novembre 1980 investì il Sud, in particolare l’Irpinia, ero da circa cinque mesi un giovane amministratore del comune di Caposele in provincia di Avellino. In particolare, rivestivo la carica di vicesindaco. Nel giugno di quell’anno si erano svolte le elezioni amministrative che avevano sortito un risultato che a molti parve storico. Una coalizione di democristiani e socialisti ebbe la meglio su una compagine di comunisti e civici, che ininterrottamente amministrava il Comune sin dal dopoguerra, che per questo veniva considerato una piccola Stalingrado nel contesto della provincia di Avellino. Caposele nel 1980 era un piccolo paese di poco più di quattromila abitanti, che, tuttavia, era tra i più grandi fra tutti quei piccoli comuni che furono investiti dalla violenza del terremoto. Gli impiegati comunali, nella loro globalità, dal segretario ai bidelli delle scuole, superavano di poco le venti unità. Non vi era un ufficio tecnico, non vi era un tecnico diplomato o laureato che fosse tra tutti i dipendenti comunali. Era un comune privo di un qualsiasi strumento urbanistico, in cui dominava il più completo abusivismo e il rispetto di inesistenti parametri urbanistici era affidato soltanto al buon senso degli abitanti. Comunque, una bozza di piano regolatore stava per essere portata all’esame del Consiglio Comunale. Tale era la situazione del mio paese alla vigilia del terremoto. Una situazione che, per grosse linee, a prescindere dall’esistenza o meno di strumenti urbanistici, si poteva tranquillamente estendere a tutti gli altri comuni dell’area epicentrale, che in seguito fu detta del “Cratere”. 11


Il terremoto mise a nudo tutte le carenze delle strutture pubbliche, a cui una tempestiva azione da parte della Regione avrebbe potuto comunque sopperire, convenzionando, ad esempio, l’Università di Napoli, che con il suo stuolo di geologi, architetti e ingegneri avrebbe potuto coadiuvare gli amministratori comunali, dando loro una mano concreta nell’assumere decisioni che la loro inesperienza poteva anche suggerire in modo sbagliato. Nulla di tutto questo fu fatto. Sindaci e amministratori da soli dovettero sopportare sulle proprie spalle un carico che spesso andava ben al di là di ciò che umanamente si può chiedere in circostanze simili. Certo i tecnici dell’Università poi arrivarono, ma in ordine sparso, ognuno per proprio conto, a chiedere incarichi professionali. Tuttavia, sia pure nel disordine dei primi giorni e nei ritardi dei soccorsi dovuti all’errata percezione della localizzazione dell’epicentro e denunciati con veemenza dal Presidente Pertini, lo Stato intervenne massicciamente durante e dopo l’emergenza più acuta, prima e durante la ricostruzione, tant’è che, pur nelle lungaggini dell’approvazione delle leggi, già nel mese di maggio del 1981, quando ancora la gente in gran parte dimorava nelle roulotte, grazie ad una positiva intesa tra il capogruppo dei deputati democristiani Gerardo Bianco e il suo omologo comunista Ferdinando Di Giulio, fu approvata in tempi piuttosto brevi la Legge 219/81 sulla ricostruzione delle zone terremotate. Dall’Unità d’Italia, per la prima volta nella storia del Mezzogiorno, lo Stato italiano fu davvero e concretamente vicino alle popolazioni sofferenti del Sud. L’istituzione di un Commissariato Straordinario per le Zone Terremotate a sostegno dei comuni colpiti dal sisma permise di avviare e concludere nell’arco breve di meno di un anno la gigantesca opera del reinsediamento provvisorio, con la costruzione di interi villaggi di casette prevalentemente in legno. Non fu un miracolo. Il reinsediamento rappresentò, grazie 12


alla presenza degli uffici commissariali di riferimento, responsabili e competenti, un esempio ben evidente per tutti di come le procedure di appalti e di esecuzione dei lavori possano essere attuate nel rispetto delle leggi, nei tempi previsti e senza oneri di spese aggiuntive. Se errore in seguito vi fu, fu quello di smantellare il Commissariato, in quanto i suoi uffici, a nostro avviso, sarebbero stati oltremodo utili anche nella fase della ricostruzione, come lo furono per il reinsediamento. Prevalse, invece, la demagogia di chi vedeva in una struttura del genere un esproprio dei poteri decisionali degli enti locali se non della sovranità popolare. Con una struttura commissariale di riferimento obbligatorio, di sicuro, si sarebbero evitati non pochi di quei casi di concussione e di corruzione, veri o presunti, su cui poi si sarebbe incardinato quello che fu definito “l’irpiniagate”. L’Irpinia non sarebbe diventata, nell’immaginario di non pochi Italiani, mercé un interessato scandalismo politico e mediale, sinonimo di truffe e ruberie. Le pagine che seguono sono per un verso e per la maggior parte frutto di ricerche effettuate su documenti ormai storici, dall’altro sono la testimonianza diretta di fatti e avvenimenti che mi videro impegnato in prima persona e non ancora completamente ricoperti dalle sabbie mobili della memoria.

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ALLE ORIGINI DELL’IRPINIAGATE

Il prof. Franco Barberi, sottosegretario alla Protezione Civile, quando nel 1997 l’Umbria e le Marche furono investiste da un violento terremoto così rispose a dei giornalisti che lo intervistavano: “La rinascita di questa terra non sarà un’altra Irpinia”. Le parole di Barberi e di tanti altri dopo di lui altro non erano che l’eco di rinverditi pregiudizi e sospetti di un’Irpinia simbolo di sprechi, truffe e ruberie, che, per un verso, rispondevano a un preciso disegno politico di screditare la classe dirigente irpina, che negli anni Ottanta dominava lo scenario politico italiano, e dall’altro riproponevano la mai sopita e diffusa credenza, tra gli Italiani del Nord, dei Meridionali indolenti e poco attenti al bene comune. Sul terremoto del 1980 si è detto e si è scritto di tutto e di più attraverso una sterminata produzione di articoli di giornali e di libelli. Un unico filo conduttore sorregge la sua impalcatura: la ricerca dello scandalo. Ancora oggi, nonostante siano trascorsi oltre sette lustri dal terremoto, ogni anno, il 23 novembre, giorno della ricorrenza del tragico evento, articoli di giornali e servizi televisivi ripropongono resoconti della ricostruzione dell’Irpinia ancor più devastanti del terremoto stesso. All’indomani del terremoto, le immagini della gente traumatizzata e delle macerie commossero per qualche giorno l’opinione pubblica nazionale e internazionale, tant’è che, pur nella confusione e nel disordine generale, per la mancanza di un efficace centro coordinatore di protezione civile, dopo qualche giorno si mise in moto un’imponente macchina di soccorsi provenienti anche da Paesi esteri. Ma, ben presto, 15


come un’araba fenice, non tardò molto a ricomparire la mai sopita diffidenza degli Italiani delle zone più ricche verso le popolazioni del Sud, perpetuando i tanti pregiudizi, anche di origine antropologica, verso gli “inetti” Meridionali. Era il tempo in cui la classe politica irpina occupava posti di grande rilievo nel panorama politico nazionale. De Mita di lì a poco sarebbe diventato segretario nazionale della Democrazia Cristiana e Gerardo Bianco già dirigeva il gruppo democristiano alla Camera del Deputati. Con loro vi erano molti altri Irpini in posizione di grande prestigio, tra i quali: Nicola Mancino, Giuseppe Gargani, Antonio Maccanico, Gabriele Pescatore ed altri non meno famosi. De Mita, in particolare, fu il destinatario di attacchi mediatici di inusitata violenza, che, in genere, si riservano a fiancheggiatori manifesti dell’universo mafioso. La preminenza della rappresentanza parlamentare dell’Irpinia, terra che fino ad allora era considerata ai margini dello sviluppo ed espressione di secolare miseria e di antica emigrazione, non poteva non destare, in un primo momento, un senso di stupore misto a sorpresa, che ben presto si sarebbe trasformato in invidia, gelosia e in aperta avversione. Gli ingenti fondi che furono stanziati per l’emergenza e la successiva ricostruzione se da un lato sollecitarono la cupidigia di organizzazioni malavitose e di lobby professionali e affaristiche, che indubbiamente non tardarono a cercare di inserirsi già nel contesto del reinsediamento provvisorio della popolazione terremotata, così come già era accaduto e come poi succederà in altre parti d’Italia dopo analoghi tristi eventi, dall’altro costituirono l’occasione opportuna per intentare un processo politico, e non solo politico, verso la classe dirigente irpina, dalla parlamentare alla locale, che aveva in De Mita e Bianco le espressioni più significative. Non un opinionista politico, non un giornalista ha manifestamente apprezzato Sindaci e Amministratori comunali, che già nella gestione dell’e16


mergenza diedero prova di notevole valore, quando fecero prevalere il loro senso di responsabilità, che li portò a trascurare le proprie famiglie per cercare di alleviare le sofferenze delle comunità che amministravano. Nessuno ha fin qui considerato nella giusta dimensione il ruolo da essi svolto nella fase del reinsediamento delle popolazioni terremotate, quando, in tempi di “record”, in tutti i trentasei comuni della fascia epicentrale, grazie anche al sostegno tecnico e amministrativo del personale degli uffici del Commissariato Straordinario, furono costruiti dal nulla interi paesi in casette prefabbricate, previa realizzazione di tutte le infrastrutture necessarie per la vita quotidiana: acquedotti, elettrodotti, fogne, impianti di depurazione. Eppure si trattava di piccoli comuni, il cui organico, nella maggior parte dei casi, non comprendeva neppure un geometra, figuriamoci una parvenza di ufficio tecnico. Né va dimenticato, altresì, il contributo nell’operazione reinsediamento della manodopera locale che, ancorché inizialmente non specializzata, seppe in breve tempo acquisire le competenze utili all’installazione dei prefabbricati. Per avere l’idea di che cosa fu il reinsediamento provvisorio dei terremotati basta indicare soltanto alcuni numeri dell’operazione. Furono installati 13.856 alloggi prefabbricati nei comuni del cratere, 11.396 furono invece installati nei 94 comuni della fascia extra-epicentrale, 12.000 alloggi monoblocco furono invece dislocati nell’intera area terremotata. Sono numeri che da soli danno il senso della vastità del problema con cui si dovettero confrontare gli amministratori comunali e tutta la classe dirigente parlamentare e non. Ma che senso avrebbe avuto il reinsediamento delle popolazioni se non si fossero assicurate le strutture necessari alla vita delle comunità così ricostituite? Ed ecco che, accanto alle case, furono costruite, sempre in 17


strutture provvisorie, le scuole, gli esercizi commerciali, i laboratori artigianali e furono, altresì, predisposte aree appositamente attrezzate per i laboratori di maggiori dimensioni e per i non numerosi opifici industriali. Ogni comunità ebbe la sua chiesa, se non più chiese in presenza di più confessioni. Di notevole rilievo fu anche l’apporto fornito dalla tanto vituperata Cassa per il Mezzogiorno, che svolse un importantissimo ruolo di progettazione e realizzazione delle infrastrutture, dagli acquedotti agli impianti fognari e di depurazione. Certo ci fu anche qualche sindaco che fu incriminato per malversazione e qualcuno finanche arrestato, ma poi regolarmente prosciolto o scarcerato dopo qualche giorno di detenzione cautelativa per inconsistenza delle accuse e, ove rinviato a giudizio, assolto con formula piena. Allo stesso modo nessuno dei parlamentari irpini fu destinatario di provvedimenti giudiziari. Eppure, a distanza di qualche anno, in piena ricostruzione, la classe politica irpina, complice un’orchestrata e denigrante campagna di stampa, assunse nell’immaginario collettivo della Nazione le fattezze di una congrega di malversatori. Alla base vi erano gli stessi motivi per i quali i media diffusero il termine “Irpiniagate” e non, per esempio, Napoli-gate, nonostante che, degli oltre 60 mila miliardi di lire stanziati per il terremoto, comprensivi anche delle risorse per l’emergenza (dati della Commissione Parlamentare d’inchiesta), solo poco più di 6 mila furono assegnati all’Irpinia; mentre alla provincia di Napoli, investita solo marginalmente dal terremoto, storicamente terremotata quantomeno per le carenze abitative, ne furono assegnati circa 13 mila per la costruzione di 20 mila alloggi, di cui 13.578 nel Comune di Napoli e 7.704 distribuiti su 17 comuni della provincia. Tra questi, solo a mo’ d’esempio, figurava Pomigliano d’Arco, che nelle prima emergenza fu tra i primi ad intervenire generosamente e massicciamente in favore delle popola18


zioni irpine colpite dal sisma, localizzando per oltre un mese l’intervento, con proprie strutture e proprio personale, a Caposele. Domanda: poteva mai un comune terremotato, bisognoso di aiuto, soccorrere per tanto tempo una comunità di quattromila abitanti che abbisognava di tutto? Perché, allora, si parla solo di Irpinia, ovviamente non in termini elogiativi, e non si parla di Napoli, della Basilicata, della Puglia e delle altre province campane, ugualmente beneficiarie di sostanziosi finanziamenti destinati all’emergenza e alla successiva ricostruzione? Si parla, invece, prevalentemente se non esclusivamente di Irpinia, un riferimento che, tuttavia, calzerebbe a pennello se fosse riferito al danno e non ad alimentare dubbi, sospetti e mezze verità, poiché fu l’Irpinia ad essere maggiormente colpita dal sisma, dato che su 36 comuni disastrati ben 18 erano in provincia di Avellino. Eppure, se si domandasse a un ipotetico italiano del Nord dove siano stati spesi o per meglio dire “sprecati” i circa 60 mila miliardi per il terremoto del 1980, questo ipotetico cittadino risponderebbe, senza ombra di dubbio, in Irpinia. Di sicuro non tutto si mosse lungo i binari della correttezza della gestione delle risorse; certo vi furono dei casi di affarismo, ma non ci sembra che in analoghe situazioni in altre parti del Paese le cose siano andate diversamente. All’opinione pubblica, nazionale e internazionale, si volle rappresentare solo ciò che di negativo vi era nella ricostruzione e dell’industrializzazione delle aree terremotate. Si volle offrire un’immagine dell’Irpinia fuorviante e lontana dalla realtà, trascurando, di proposito, i tanti risultati positivi che pur vi erano e pur vi sono. I paragoni sono sempre odiosi, specie quelli che mettono a confronto lutti e sofferenze. Sbagliava Franco Barberi, quando affermava con sicumera 19


che nelle Marche e in Umbria non si sarebbe verificata un’altra Irpinia. Sbagliava Guido Bertolaso che, intervistato dal TG1, affermava “Non credo che siano possibili paragoni al mondo”. Era il giorno in cui ad Onna, in Abruzzo, furono inaugurate, ad appena 162 giorni dal terremoto del 6 aprile 2009, 47 casette prefabbricate donate dalla provincia di Trento. Bertolaso, responsabile allora della Protezione Civile Nazionale, evidentemente ignorava che dopo il terremoto del 1980 fu fatto di meglio e in tempi più celeri, pur in presenza di una tragedia che, per entità e dimensioni geografiche, finora e per fortuna non si è ripetuta altrove. Se Bertolaso avesse dato una scorsa agli atti del reinsediamento dei terremotati del 1980 si sarebbe reso conto che, per esempio, a Caposele, comune del cratere, già nel mese di febbraio 1981 fu assegnato un villaggio costituito da case monoblocco e a fine marzo dello stesso anno, in un tempo minore rispetto ad Onna, fu assegnato un intero villaggio di case in legno donate dalla Croce Rossa Bavarese, installate, le une e le altre, su aree a tal fine urbanizzate. Caposele, comunque, non era l’eccezione. Significativo, in tal senso, è l’articolo del noto giornalista, non sempre tenero verso la classe dirigente del tempo, Antonello Caporale, pubblicato il 15 settembre 2009 nella rubrica “Piccola Italia” del quotidiano “la Repubblica”. È un articolo che riporta, tra l’altro, una considerazione di Rocco Falivena, nel 2009 sindaco di Laviano (SA), ai tempi della ricostruzione post-terremoto segretario politico della sezione del PCI di Laviano, deciso e tenace avversario del sindaco democristiano del suo Paese e, come tale, “audito” dalla Commissione Parlamentare di Inchiesta. Un personaggio politico locale al di sopra, quindi, di ogni sospetto di collusione con il potere democristiano che, nella citata intervista, avvertì il dovere di puntualizzare: 20


“Al mio paese le prime case in legno arrivarono già a febbraio, una ventina di alloggi con tutti i servizi. A marzo la metà della popolazione era al caldo, negli stessi chalet che sono sorti ad Onna… alcuni di questi ora, anno 2009, li abbiamo trasformati in albergo. A maggio dell’81 tutti gli sfollati, nessuno escluso, riuscirono ad avere il salottino, la camera da letto riscaldata, il piccolo patio con giardino. In tutta franchezza quella di Onna mi sembra una zingarata”.

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I PREGIUDIZI

Molto di quanto è stato detto e scritto sul terremoto dell’Irpinia del 23 novembre del 1980 rientra nel novero dei luoghi comuni e dei tanti pregiudizi, anche di natura antropologica, che gli Italiani del Nord hanno storicamente avuto verso i connazionali del Sud, anche se, ad onor del vero, ancora oggi i Meridionali fanno fatica a scrollarsi di dosso la patina del fatalismo e del vittimismo, che hanno alimentato i non pochi pregiudizi nei loro confronti che si sono sedimentati, dall’Unità in poi, nella coscienza collettiva dei Settentrionali fin o a costituire un abito mentale. Ne sono un esempio storico le farneticanti teorie positiviste sull’inferiorità razziale dei Meridionali, formulate dal socialista Cesare Lombroso, pedissequamente riproposte dai suoi non pochi epigoni, e perpetuatesi anche ai nostri giorni. Tutti questi preconcetti hanno inciso non poco, come più avanti vedremo, sia nelle considerazioni dei giovani soccorritori liberi o appartenenti ad associazioni di volontariato totalmente ignari della storia, degli usi e dei costumi delle comunità che andavano ad aiutare, sia nei giudizi dei volontari organizzati da partiti e sindacati, giudizi spesso inficiati dall’ideologia e dallo spirito di appartenenza politica. Nel 1980, quando si verificò il disastroso sisma, meglio noto come “Terremoto dell’Irpinia”, la Lega Nord ancora non era stata concepita. Il suo teorico, Gianfranco Miglio, ancora non aveva riproposto e inondato i media delle sue teorie in merito alla pretesa superiorità antropologica dei Settentrionali rispetto ai Meridionali e il suo fondatore, Umberto Bossi, ancora non era passato alla ribalta nazionale con i suoi anate22


mi sul malaffare dominante nel Sud, sullo sperpero di danaro pubblico a scopo clientelare delle amministrazioni del Mezzogiorno, danaro che il Nord “pompava” per perpetuare nelle regioni meridionali assistenzialismo, utile soltanto ad alimentare la criminalità organizzata e l’indolenza dei Meridionali medesimi. Tuttavia già vi erano le avvisaglie, che ad un osservatore attento non potevano sfuggire, e che, di lì a poco, sarebbero esplose in tutta la loro virulenza. Migliaia di pagine sono state scritte sul terremoto del 1980. È, comunque, un fatto degno di lode che, già all’indomani del disastroso evento, si mise in moto una poderosa macchina di aiuti provenienti dalle regioni e dalle città del Nord, che furono molto utili per sopperire alle carenze di un sistema di protezione civile, allora del tutto inesistente. Ma, ben presto, ancora nella fase della piena emergenza, pur nell’imponente mole dei soccorsi, incominciarono ad affiorare i tanti e mai sopiti pregiudizi verso i Meridionali da parte non solo della gente comune, ma anche da parte di giornalisti di grande fama. Significativo, in tal senso, è il servizio giornalistico di Chiara Valentini scritto per il settimanale “Panorama” del 5 gennaio 1981, dal titolo “Terremoto/un’ondata di antimeridionalismo – DANNATI TERRONI! – Di fronte alla brutale realtà del Sud cresce tra gli italiani – per ignoranza e incomprensione – il vecchio pregiudizio antimeridionalista. È l’ultimo guasto provocato dal terremoto del 23 novembre”, di cui riportiamo i brani più significativi: “All’inizio la grande commozione, il brivido della morte in diretta, la curiosità un po’ morbosa di tutta la gente che andava scoprendo sul piccolo schermo di casa che cosa può essere una catastrofe di massa. E le collette, le raccolte di vestiti e roulotte, le partenze improvvise e non sempre meditate per i

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paesi annientati dal terremoto. Ma a mano a mano che i giorni passavano da quel tragico 23 novembre, lo stato d’animo nazionale cominciava a cambiare. Non solo nelle cronache dei quotidiani d’informazione, dove le storie strazianti dei sepolti vivi e dei superstiti venivano sostituite quasi completamente da quelle, meno edificanti, dei piccoli accaparratori, degli sciacalli, dei notabili e dei camorristi. Anche nel paese reale, nelle fabbriche di Torino come nei salotti di Milano o di Venezia si cominciava a parlare sempre meno in sordina di «meridionali buoni a niente», fino a resuscitare il vecchio e mai dimenticato epiteto di «terroni». Non erano solo chiacchiere. A Genova un corteo spontaneo di 5 mila operai, usciti in strada per protestare contro l’aumento dei prezzi della benzina a favore dei terremotati, scandiva slogan incredibili come: «Non vogliamo mantenerli» e «Meridionali sanguisughe». A Torino, alla Fiat, il 40 per cento degli operai si presentava all’ufficio personale a chiedere che non gli si trattenesse dalla busta paga le 4 ore che secondo il sindacato tutto avrebbero dovuto offrire. E mentre i proprietari della seconde case sulla Domiziana si dicevano disposti a tutto pur di non dover ospitare «contrabbandieri e puttane dei bassi napoletani», si abbatteva sulle città del Nord l’ondata del ritorno dei soccorritori delusi. Nei loro racconti c’era di tutto un po’. Risentimento: «Mentre lavoravamo a spalare, i ragazzi del paese si defilavano con i vestiti nuovi che gli avevamo portato. E quando una volta gli ho chiesto di aiutare mi hanno risposto: “Eh no, bella figa”», dice sconsolata Monica Craig, 17 anni, figlia dell’attore Mimmo. Indignazione: «Quando arrivavano i camion con i soccorsi la gente li assaltava. E poi spesso buttavano i vestiti o le provviste nel fango e si accaparravano la tenda anche se la casa gli era rimasta in piedi. “Magari viene buona per il mare” ho sentito dire più volte» riferisce Silvia L., 19 anni, studentessa di Pallanza. Non tutti tornavano in queste condizioni, ma lo stato d’a24


nimo predominante fra i giovani che risalivano la penisola era comunque quello di stupore per un mondo in cui erano piombati e che spesso avevano immaginato come una specie di presepe immobile in cui andare a fare i benefattori. «Avevo visto al cinema Cristo si è fermato a Eboli e credevo che i contadini fossero ancora così dignitosi e riservati. E invece la dignità ce l’hanno solo nei confronti della morte. Verso la ricchezza, verso il lavoro c’è solo l’arraffo» dice Liliana V., 20 anni, infermiera di Genova. E Roberto Sessa, 23 anni, studente milanese: «Andare per credere, è il succo della mia esperienza. La questione meridionale nessuno di noi si sogna neanche cosa sia. Quello è un altro pianeta. Bisogna salvarlo, ma farne una specie di riserva indiana, perché è proprio inconciliabile con l’Italia dove viviamo noi». Più o meno le stesse scoperte, anche se senza la giustificazione della giovane età, le andavano facendo anche alcuni giornalisti scesi al Sud. Egisto Corradi, un inviato di lunga esperienza, tornava con le mani nei capelli dalla Valle del Sele, dove era andato per conto de “Il Giornale” di Montanelli, a cercare un paese «pulito» a cui versare i tre miliardi di sottoscrizione raccolti. «Dappertutto ho trovato camorra, violenza, insensibilità. Ho dovuto rincuorare un gruppo di brianzoli che erano andati giù con gli architetti e i muratori per costruire gratis le case e che erano stati minacciati da un sindaco. Ho dovuto consolare i ragazzi del battaglione Julia amareggiati perché dopo essersi alzati all’alba per portare il caffè caldo ai terremotati erano stati accolti al grido di “andatevene, lasciateci dormire”» si sfoga Corradi. E Indro Montanelli, che si era lanciato sulle colonne de “Il Giornale” in attacchi moralistici al Meridione: «Mi hanno dato del razzista per quello che ho scritto. E invece, proprio per non fomentare gli odi razziali, non ho pubblicato una sola delle moltissime lettere indignate che sono arrivate su quel che sta succedendo laggiù». In chi di colpo ha scoperto che a fianco del Nord, moderno e progredito, c’è un altro pezzo di Paese in cui succede di tutto, è immancabile il richiamo al terremoto del Friuli. Dove,

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come ricorda con nostalgia Corradi: «Tutti erano in piedi alle 4 di mattina a spazzare le strade e le donne pulivano i mattoni uno per uno tirandoli fuori dalle macerie». O, come afferma ancor più esplicitamente Giulia V., 24 anni, operaia «dove la gente era uguale a noi. Mentre questa volta siamo piombati nel Terzo Mondo»”.

A meno che non si metta indebitamente in discussione l’etica professionale della giornalista, surreali e fantasiose risultano le dichiarazioni dei soccorritori. Dalle loro parole si deduce chiaramente che si trattava di persone che non conoscevano nemmeno lontanamente le realtà sociali che andavano a soccorrere; che probabilmente pensavano di partecipare ad uno dei tanti campi di lavoro per boy-scout, che di solito si organizzano nei mesi estivi, più che andare ad aiutare popolazioni che in soli 90 secondi avevano perso tutto e che avevano bisogno di tutto, dalla A alla Z, per continuare a sopravvivere. Erano resoconti di esperienze prive di vere conoscenze, rese dubbie già all’origine dal rifiuto emotivo. Erano considerazioni, per di più, formulate a meno di un mese dal terremoto, quando ancora la gente pativa in tutta la sua gravità la prima emergenza, dovuta alla totale mancanza di alloggi provvisori entro cui ripararsi dal freddo, dalla pioggia e dalla neve. Anche il clima, diventato estremamente rigido dopo qualche giorno dal sisma, gravò su persone già duramente provate da una tragedia di immense dimensioni e di enorme entità, di cui non è facile trovare l’equivalente nella storia d’Italia della seconda metà del Novecento. Certo, il ritardo dei soccorsi finì anche col generare dei fenomeni poco piacevoli, quali la ressa all’arrivo dei camion o l’accaparramento, fenomeni che, però, è ingiusto generalizzare, perché la gran parte della popolazione certamente non aspettò i soccorsi inerte e passiva. 26


Non si capisce, infatti, dove questi benefattori fossero arrivati per portare aiuto e solidarietà, dato che si parla, ad esempio, di case non danneggiate e di giovani che buttavano nel fango vestiti e cibo per accaparrarsi la tenda, magari “buona per il mare” e di tante altre amenità per niente riscontrabili nei paesi effettivamente distrutti dal terremoto. Probabilmente questi giovani non erano arrivati nei paesi del Cratere, ma in località soltanto sfiorate dalla scossa sismica, che poi la politica della prevalenza degli interessi localistici e di collegio elettorale su quelli generali, da sempre presente in Parlamento, avrebbe colpevolmente incluso in quel lungo elenco di comuni danneggiati. Facciamo non poca fatica a immaginare i giovani di Sant’Angelo dei Lombardi, di Lioni, di Teora, di Caposele, di Laviano o di qualsiasi altro comune del cratere vestirsi a nuovo e passeggiare nel fango che arrivava alle ginocchia in un contesto ambientale surreale e spettrale, mentre giovani soccorritori venuti dal Nord spalavano le macerie. Ci è oltremodo difficile immaginare che giovani volontari, di professione muratori e architetti, fossero in grado da soli, e impediti in ciò dai sindaci, di avviare l’opera di ricostruzione di paesi il cui grado di distruzione del patrimonio edilizio variava, in genere, dal 75 al 100 per cento. Il terremoto fu, invece, l’occasione per l’esplosione di un violento antimeridionalismo, che in realtà da tempo era latente in varie forme non solo tra la gente comune, ma anche tra intellettuali come i fatti poi amaramente hanno dimostrato. Ed, infatti, più che le affermazioni di questi giovani volenterosi fa rabbia leggere, ad esempio, che uno scrittore di successo e astro del firmamento giornalistico italiano, Egisto Corradi, dicesse che dappertutto nella Valle del Sele non vi era che “camorra, violenza e insensibilità”, tanto da non trovare un paese pulito per poter donare un assegno di tre miliardi; oppure che riportasse la scena di indolenti terremotati 27


che rimbrottavano gli alpini, colpevoli di portar loro il caffè di buon mattino, svegliandoli dai loro sonni sereni, come se dormissero in comodi letti, in comode case e non in ricoveri di fortuna, in un periodo in cui la massima aspirazione era quella di avere in assegnazione una roulotte per sé e per la propria famiglia. E che dire poi del maestro del giornalismo italiano, Indro Montanelli, che, spinto da Zamberletti, “a raccogliere centinaia di milioni, per un villaggio di cinquanta villette bifamiliari, architetto e ingegnere milanese”, ebbe a dire “Ma è l’ultima volta per quei culibassi dei meridionali”. Lo riferiva Federico Orlando in un articolo su “Europa” dell’8 aprile 2009, al tempo del terremoto dell’Abruzzo. Certo, va ascritto a merito de “Il Giornale” di Montanelli il lancio di una raccolta di fondi che furono destinati alla costruzione di 54 alloggi e 9 locali commerciali a Castelnuovo di Conza, inaugurati da Sandro Pertini, ma il “culibassi” sta a rappresentare un antimeridionalismo sviscerato, diffuso anche in ambienti colti, ovvero tra quegli strati di popolazione che avrebbero dovuto svolgere una funzione di guida nella crescita della comprensione reciproca tra tutti gli Italiani. Non fu da meno Federico Orlando che nel succitato articolo su “Europa” così scriveva: “mesi fa dall’autostrada Bari-Roma non m’è venuto nemmeno il pensiero d’imboccare lo svincolo per il cratere: forse per l’orrore estetico e morale di quel che avrei visto”.

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LE MISTIFICAZIONI POLITICHE

È doveroso e giusto riconoscere che già all’indomani del terremoto la poderosa macchina organizzativa del collateralismo del Partito Comunista si mise subito in moto nel soccorrere le popolazioni colpite dal sisma. Si peccherebbe di omissione se non si riconoscesse il suo prezioso contributo. A muoversi con celerità, nel prestare aiuto, furono anche le organizzazioni cattoliche, che rispetto a quelle comuniste, ebbero più il carattere della spontaneità e del disinteressato volontarismo. Sia le une che le altre avevano sì l’obiettivo di aiutare la gente a superare l’emergenza, ma quelle di sinistra erano mosse anche dal proposito di utilizzare l’evento in senso politico, attraverso una sottile e capillare azione di contrasto delle amministrazioni comunali democristiane o comunque non comuniste. E, a tal fine, furono costituiti i “comitati popolari o di base”, i quali, mentre svolgevano un’apprezzabile opera sul piano dell’assistenza, alimentavano, nello stesso tempo, il malcontento della gente verso sindaci e giunte comunali non di sinistra, facile ad accendersi in quel contesto di macerie e necessità assolute. Ovviamente nei comuni retti da giunte di sinistra vi fu una perfetta assonanza tra amministrazione e comitati. Pietro Di Siena, al tempo del terremoto segretario provinciale del PCI di Potenza, nella circostanza del trentennale del terremoto così scriveva su “Il Quotidiano della Basilicata” del 23 novembre 2010: “In Basilicata non fummo mai interessati come in Campania a dare vita a Comitati popolari, contrapposti alle istituzioni pubbliche, per affrontare i problemi dell’emergenza e 29


poi della ricostruzione. Ci provò a Potenza il Pdup e ci provarono a Rionero in Vulture dove a sinistra del PCI vi era un forte raggruppamento […]. Noi comunisti lucani puntavamo invece su un potenziamento del ruolo dei sindaci e delle amministrazioni comunali, e della legislazione ordinaria contro ogni forma di deroga, nella gestione dell’emergenza e nella ricostruzione. Eravamo spinti dal fatto che nelle amministrative della primavera precedente il terremoto avevamo conquistato molti comuni delle zone colpite. […]. Quindi una parte significativa dei comuni colpiti era amministrata da noi”.

I “comitati popolari o di base” furono voluti e sostenuti anche dalla triplice sindacale CGIL-CISL-UIL attraverso propri delegati, che, in qualche caso, aggirarono le organizzazioni del sindacato locale, ritenendole spesso legate al potere politico, che nei comuni del cratere, salvo rare eccezioni, era gestito prevalentemente dalla Democrazia Cristiana. Non si dimentichi che la stessa CISL, in quel tempo, era retta al vertice da personaggi di tutto rispetto, ma di sicuro non ascrivibili tra i democratici cristiani. Segretario generale era Pierre Carniti, il quale senza far troppo rumore stava procedendo a una radicale trasformazione della Confederazione, affidando i maggiori incarichi a sindacalisti non prossimi alla Democrazia Cristiana, tant’è che fu poi eletto parlamentare europeo per due legislature, prima per il PSI e poi per i Democratici di Sinistra, partito che egli aveva contribuito a fondare con la sua associazione dei “Cristiani Sociali”. Gli obiettivi ultimi dei “comitati di base” appaiono chiari in tutta la loro evidenza, anche dalla lettura dei servizi giornalistici che “l’Unità” quotidianamente riportava dall’area del terremoto. Ci limitiamo a citarne solo alcuni dei tanti che furono pubblicati. Erano articoli in cui si esaltava l’operato delle poche amministrazioni di sinistra e si demoliva, nello stesso tempo, quello 30


delle giunte comunali non comuniste, che, guardo caso, ostacolavano, secondo “l’Unità”, l’azione disinteressata e benefica dei “comitati di base”. Nel concreto, l’immagine che si proponeva all’opinione pubblica nazionale e internazionale era quella di una popolazione martoriata oltre che dal terremoto anche da una classe politica dirigente, che, legata a pratiche clientelari, impediva alla gente di potersi emancipare. Sfuggiva, però, a “l’Unità” che si trattava della stessa classe politica che per prima aveva cercato di avviare concretamente a soluzione il problema del Mezzogiorno, per esempio, con la Riforma agraria e l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno. Viceversa “l’Unità” non lesinò il sostegno al Sindaco di Napoli Maurizio Valenzi. Non che Valenzi non meritasse attenzione, ma molte furono le campagne giornalistiche de “l’Unità” a favore di Napoli, una città nei fatti terremotata da secoli, certamente bisognosa di aiuti e provvidenze e di leggi speciali, ma soltanto marginalmente toccata dal terremoto: edifici fatiscenti lesionati o lesionati da tempo, un crollo in via Stadera a causa di difetti di costruzione, che causò, tuttavia, 52 morti. “l’Unità”, nell’edizione del 3 gennaio 81, titolava in prima pagina “Valenzi: la salvezza di Napoli problema di tutti. La città, un patrimonio essenziale della civiltà europea”, mentre relegava l’Irpinia, area epicentrale, soltanto in quarta pagina con un servizio elogiativo su Lioni, guarda caso comune amministrato da una giunta di sinistra, che veniva sempre indicato, talvolta anche giustamente, come modello di avanguardia. Analoga considerazione “l’Unità”, ovviamente, non la esprimeva per le altre amministrazioni del cratere. Già il 29 novembre, per esempio, così scriveva degli Amministratori Comunali di Avellino: “E intanto il sindaco si nasconde […]. Gli assessori, invece, hanno cominciato una specie di campagna elettorale straordinaria. Si appropriano quanto più è possibile dei soccorsi che 31


arrivano da ogni parte, litigano tra loro per chi deve avere di più, poi vanno nei rispettivi feudi a distribuire di tutto – cioccolata e provolone, coperte e sacchi a pelo – a chi ne ha bisogno e a chi no”.

E il 1° dicembre così titolava: “Avellino – L’uso cinico della catastrofe fatta da un pugno di notabili DC – E nell’inefficienza si tesse la ragnatela delle clientele”. E ancora il 3 dicembre in prima pagina: “Ricostruzione o torta da spartire?” Accanto ad un altro articolo dal titolo “Scende in campo la camorra: «Qui si fanno affari» con il benestare DC le mani sugli aiuti”. Erano articoli che facevano male, che proponevano un’immagine dell’Irpinia lontana dal vero. Certamente “l’Unità”, così facendo, non divulgava una rappresentazione veritiera della gente irpina, rappresentazione che in seguito avrebbe avuto il suo peso nella considerazione generale sul terremoto e le sue conseguenze. Ed ancora, scrivendo del comune di Guardia dei Lombardi, il paese natio dell’allora Presidente del gruppo democristiano alla Camera Gerardo Bianco, così titolava: “Il Sindaco DC: «Via i giovani e volontari»” e il 14 dicembre 80, sempre a proposito di Guardia dei Lombardi, così scriveva: “il sindaco DC ha deciso che giovani e volontari sono una vera rovina per i suoi giochi di sempre”. È incredibile che l’articolista ignorasse che il Sindaco di Guardia di Lombardi, in quel tempo, non fosse democristiano e fosse, per di più, un socialdemocratico avversario da sempre di Gerardo Bianco; chiunque, prima di scrivere, si sarebbe informato. Ma “l’Unità” no. A “l’Unità” premeva, anche a costo di mistificare la realtà, colpire il Presidente del Gruppo DC alla Camera dei Deputati, diffondendo un’immagine negativa e riprovevole di suoi presunti amici amministratori. Al contrario, scrivendo di Lioni così si esprimeva: “A Lioni, qui c’è una giunta comunale di sinistra, si è stabilito un rapporto positivo tra amministrazione e volontari”. Ma dove “l’Unità” avrebbe meritato la palma dell’invenzione 32


giornalistica faziosa e capziosa fu a Caposele, comune retto da una Giunta DC-PSI con sindaco socialista, quando, con grossolano cinismo, nell’edizione del 4 dicembre 1980 metteva in bocca a un ignoto contadino, tale Giovanni Camposano, inesistente nei registri dell’anagrafe comunale, accuse gravissime relative alle assegnazioni delle roulotte: “Una roulotte è stata pagata anche mezzo milione. Io l’ho pagata solo trecentomila lire, perché ho aggiunto a questa cifra due prosciutti”. Ignorava il giornalista o fingeva di ignorare che per assegnare le roulotte il Consiglio Comunale di Caposele aveva designato un commissione, di cui faceva parte anche l’allora segretario di sezione del Partito Comunista locale, tant’è che un giovane dirigente della locale sezione del PCI, in una lettera al direttore del quotidiano comunista, pensò bene di smentire in toto il contenuto dell’articolo. E ancora, l‘8 gennaio 81, con un servizio in quarta pagina, riportava con dovizia di particolari la notizia che a Gesualdo, paese con undici morti, ma non inserito tra quelli disastrati, un corteo di giovani di sinistra aveva vivacemente protestato verso l’Amministrazione Comunale, invitando sindaco e giunta, ovviamente non di sinistra, a presentare le dimissioni. Eppure, eravamo soltanto a poco più di un mese dal terremoto, quando la gente, già duramente provata e traumatizzata, ancora non tutta sistemata nelle roulotte, veniva per di più flagellata da tempeste d’acqua e tormente di neve.

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L’IRPINIAGATE

Se Ciriaco De Mita avesse avuto la costanza e la tenacia di Giulio Andreotti di non raccogliere provocazioni, ossia di non querelare i tanti giornalisti, che pur lo facevano continuamente oggetto di loro analisi, da cui traevano spesso conclusioni a dir poco affrettate e insinuanti dubbi sulla sua correttezza, probabilmente il caso “Irpiniagate” non sarebbe mai sorto in tutta la sua virulenza e difficilmente avrebbe avuto una risonanza così diffusa; probabilmente non sarebbe uscito dall’aula e dai corridoi di Montecitorio. Tutto cominciò nel marzo 1987, quando il settimanale “l’Espresso” pubblicò un articolo a firma di Goffredo Locatelli, autore del successivo pamphlet “Irpiniagate”. L’articolo conteneva una serie di considerazioni che insinuavano forti dubbi sui modi e sulle procedure messe in atto dall’allora “Banca Popolare dell’Irpinia” tra cui: ‹Questa è una banca della DC e dei bambini›, ‹Con i soldi del terremoto la banca ha quintuplicato i propri depositi›, ‹La DC di De Mita ha conquistato il controllo della banca›. L’articolo comprendeva, inoltre, un tabulato dell’elenco degli azionisti, tra i quali risultavano, oltre ai principali esponenti della DC irpina, anche i figli di De Mita, allora minorenni, se non bambini. Indro Montanelli, direttore de “Il Giornale”, nell’autunno 1988 scrisse un editoriale su Ciriaco De Mita, in quel tempo Presidente del Consiglio e Segretario politico della Democrazia Cristiana. L’articolo era un attacco a tutto campo. De Mita veniva definito“Il Padrino”. Fu allora che De Mita commise l’errore di querelare Montanelli, il quale trasformò l’aula del tribunale in un pulpito dei 34


suoi non teneri giudizi sul parlamentare di Nusco. Montanelli fu condannato per diffamazione, ma il danno politico per De Mita e la classe dirigente irpina ormai era stato compiuto. Montanelli incaricò Paolo Liguori di trasferirsi ad Avellino per condurre un’inchiesta giornalistica su come venissero utilizzati i fondi della ricostruzione, “un’inchiesta”, come riferiva lo stesso Paolo Liguori a Filippo M. Battaglia nell’intervista pubblicata da “Il Giornale” del 31 luglio 2009, “che dimostri la validità delle accuse – se non giudiziarie, quantomeno politiche – scritte in quell’articolo di fondo”. L’inchiesta, di cui riportiamo alcuni dei passi, per noi,più significativi, fu pubblicata da “Il Giornale” in cinque puntate tra il 19 e il 27 novembre 1988: Da “Il Giornale” del 19 novembre 1988:

“Poche settimane fa il presidente del Consiglio si è recato a Mosca. Da lì ha annunciato accordi commerciali con l’Urss per una cifra che complessivamente toccherà i duemila miliardi. Dopodiché, De Mita ha definito pomposamente «piano Marshall» il complesso di aiuti economici all’Urss. Ma il vero piano Marshall di De Mita non riguarda l’Unione Sovietica: è già stato realizzato in Italia nelle zone colpite dal terremoto otto anni fa. Ha un valore complessivo di 63 mila miliardi. E solo per finanziare un’industrializzazione inesistente ne sono già arrivati circa tremila nel cosiddetto «cratere». In teoria, per la loro quota parte, i poco più di 450 mila residenti nella provincia di Avellino potrebbero essere tutti miliardari. […]. Le tragiche immagini e le vittime non vanno certo mai dimenticate, ma gli effetti della scossa del 23 novembre 1980 sono stati quasi una benedizione per la zona. Ci sono ad Avellino legioni di automobili di lusso: tante che non si trova mai un parcheggio. E non c’è nessuno che lava i vetri ai semafori, perché i più poveri tra gli abitanti della provincia hanno almeno una pensione di invalidità. […]. Il terremoto, come una guerra, ha cancellato l’economia preesistente nella zona e ne ha creata un’altra, completamente diversa, sostenuta interamen35


te dal bilancio dello Stato. Un’economia florida e senza crisi […] perché elimina alla radice il rischio tipico dell’impresa: la necessità di produrre per il mercato. […].

Industrie del Cratere Da “Il Giornale” del 21 novembre 1988:

“[…]. A Morra De Sanctis, ce n’è una particolare: la Costruzioni nautiche Tòrmene, specializzata nella costruzione di imbarcazioni a vela e a motore. Finora ha avuto 2 miliardi e mezzo di contributi e non è ancora terminata, nonostante la scadenza prevista fosse per il dicembre 1986. E qui sta la fortuna di Giuseppe Gargani, aspirante Fitzcarraldo, nativo di Morra De Sanctis. Ve lo immaginate il coordinatore della segreteria nazionale della DC, uno dei «moschettieri» di De Mita, organizzare una spedizione tra le montagne, come Il mitico personaggio letterario, per portare fino al mare le imbarcazioni costruite al suo paese? L’industrializzazione del ‹cratere› del terremoto è in larghissima misura di questo tipo. […]”.

Banca Popolare dell’Irpinia Da “Il Giornale” del 23 novembre 1988:

“[…]. La Banca (Popolare dell’Irpinia) ha quintuplicato i propri depositi negli ultimi 4 anni, amministrando la quasi totalità dei fondi per la ricostruzione. […]. Ed è stata una festa per tanti bambini, una festa più grande dell’Epifania. Perché la Popolare dell’Irpinia è anche una banca dei bambini. Nel tabulato che elenca gli azionisti, ce ne sono un mucchio, basta aprire e leggere. Ne compaiono alcuni di 7 e 8 anni: figli, nipoti e parenti dei democristiani legati a Ciriaco De Mita. […]. Poi ci sono i più stretti collaboratori del presidente del Consiglio: Il senatore Nicola Mancino e consorte, l’ex ministro Salverino De Vito, l’onorevole Giuseppe Gargani e signora, il

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senatore Ortensio Zecchino, quasi tutti i consiglieri comunali di Avellino (dove la DC detiene la maggioranza assoluta e la corrente di «Base» lo stretto controllo del gruppo). Niente d’illecito, per carità. Ma insomma, per farla breve, la Popolare dell’Irpinia può essere definita a ragione una «banca di famiglia». Forse non proprio di quella De Mita, ma certamente della grande famiglia della Democrazia cristiana irpina (come ama definirla il senatore Nicola Mancino) e, soprattutto, della corrente di «Base» […]”.

Ne conseguì un’interrogazione parlamentare da parte del deputato radicale Calderisi. A questo punto “l’Unità”, diretta allora da Massimo D’Alema, non poteva farsi sfuggire un’occasione così ghiotta, pubblicando in prima pagina in data 3 dicembre 1988 un articolo, a firma Federico Geremicca, che così titolava: “De Mita s’è arricchito col terremoto. Un’interrogazione dei radicali riapre la storia di una banca irpina che fece fortuna coi soldi della ricostruzione: il leader DC con moglie, figli e altri parenti possederebbe 30.000 azioni”. Oggi, quell’articolo de “l’Unità”, elegantemente incorniciato in un quadro, fa bella mostra di sé nel soggiorno di casa De Mita a Nusco. Liguori con la sua inchiesta palesava chiaramente di non essere stato sufficientemente informato della realtà storica, sociale ed economica dell’Irpinia. Citava, ad esempio, l’art. 32 della Legge della Ricostruzione, ma gli sfuggiva che lo stesso rappresentava un tentativo, mai sperimentato, di sviluppare attraverso l’industrializzazione un pezzo d’Italia talmente povero da essere definito “terra dell’osso”, terra di miseria e di emigrazione, ove la presenza dello Stato era stata avvertita, fino ad allora, prevalentemente tramite le cartelle esattoriali e la cartolina precetto. L’industrializzazione era un sogno? Potrebbe darsi. Ma se tale era, calzava a pennello il paragone con Fitzcarraldo, per il quale 37


“il sogno può vincere le montagne”; un sogno che tutt’oggi, pur non completamente realizzato, ha comunque consentito nelle otto aree industriali della provincia di Avellino l’occupazione di circa 3 mila unità lavorative in aziende, tra le quali non è compresa la “Costruzioni Nautiche Tòrmene”. Non riteniamo che sia utile, ai fini della narrazione, addentrarci nei dettagli della vicenda della Banca Popolare dell’Irpinia, né intendiamo, sia pure lontanamente, difendere acriticamente l’operato dei suoi amministratori o di politici prossimi alla Banca; non ci interessa! Preferiamo attenerci alle parole di Carlo Azeglio Ciampi, in quel tempo Governatore della Banca d’Italia, che nella sua relazione alla Commissione Parlamentare di Inchiesta presieduta da Oscar Luigi Scalfaro precisava che “nessuna anomalia specifica” era emersa per quel che concerneva la questione dei fondi della legge 219. E ancora, era lo stesso Ciampi a precisare che “gli interventi dello Stato a favore delle zone colpite dagli eventi sismici hanno favorito l’espansione delle banche locali più che per gli effetti connessi al transito per le medesime dei fondi pubblici, in virtù dello sviluppo delle attività economiche legate all’opera di ricostruzione”.

La relazione del Governatore della Banca d’Italia conteneva, comunque, anche importanti rilievi, che tuttavia non andavano al di là del fatto puramente tecnico di una qualsiasi ispezione della Banca d’Italia su un qualsiasi istituto di credito: “lacunosità delle verbalizzazioni e inadeguata trasparenza delle motivazioni assunte dal Consiglio di Amministrazione, crediti accordati pure in presenza di parere negativo degli uffici competenti, carenza di incisività dei controlli del Collegio Sindacale, inadeguata funzione del direttore generale nel settore delle erogazioni del credito, eccessiva tolleranza nei 38


confronti di alcuni clienti, determinante influenza (del presidente) sull’intera attività aziendale”.

Si trattava di rilievi che riguardavano essenzialmente l’ordinamento gestionale della banca, non certo addebitabili ad interessi occulti della DC irpina, la cui colpa più grande, se di colpa vogliamo parlare, fu quella di aver creduto, ma già molto prima del terremoto, nell’opportunità di far crescere istituti di credito locale per favorire lo sviluppo di una zona interna, tra le più depresse del Paese: dalla Banca Popolare dell’Irpinia alla Cassa Rurale e Artigiana di Calabritto. Fuorviante era altresì la definizione di “banca di famiglia”, perché in Irpinia, ma non solo, c’è sempre stata la buona e sana abitudine di beneficiare figli e nipoti con l’acquisto a loro nome di buoni fruttiferi postali e in presenza di aziende e banche anche di titoli azionari. Non per questo un ufficio postale diventava un esercizio di famiglia, né chi investiva in titoli postali o bancari era in grado di prevedere maggiori guadagni per un futuro terremoto. Tuttavia, ciò non toglie il fatto che “la DC di De Mita” potesse esercitare sulla Banca Popolare dell’Irpinia una certa influenza, non diversa, però, dalle tante ascendenze che, ovunque, al Sud come al Nord, in Irpinia come nell’opulenta Lombardia, i partiti politici, di destra, di sinistra o di centro, hanno sempre cercato di svolgere. Da tutto ciò consegue una domanda, che sarà pure pleonastica, ma legittima: se quei comuni dell’Avellinese, che depositarono i fondi della ricostruzione sulla Banca Popolare dell’Irpinia, li avessero fatti transitare su altri istituti di credito di dimensione nazionale, che pur calarono in Irpinia a seguito del terremoto per partecipare alla divisione della torta, media e politici avrebbero eccepito qualcosa? Certo i ritardi della ricostruzione in alcuni comuni procurarono un vantaggio alle banche e, quindi, agli azionisti. Ma è la stessa Commissione di 39


inchiesta parlamentare a precisare che alla data del 30 settembre 1990 le giacenze dei comuni presso gli istituti di credito, per le somme accreditate ex Legge 219/81 e non ancora utilizzate, ammontavano a 907 miliardi di lire, di cui soltanto 53,5 presso la Banca Popolare dell’Irpinia. Tornando all’inchiesta de “Il Giornale”, fu lo stesso Paolo Liguori, nella citata intervista a Filippo Battaglia, a svelare il vero obiettivo della medesima: “Finalmente il caso monta: il gruppo dirigente democristiano si ribella, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Angelo Sanza convinto che dietro l’inchiesta ci siano i servizi segreti è costretto a dimettersi, mentre il PCI inizia una durissima opposizione. Poco prima di Natale viene istituita una commissione parlamentare presieduta da Oscar Luigi Scalfaro, che si conclude poi con l’assoluzione politica di De Mita, ma anche con la constatazione delle moltissime speculazioni finanziarie nate attorno alla ricostruzione. Passa qualche mese, e il leader irpino perde la segreteria del partito. Tempo dopo, nel 1992, quando sono nominato direttore del Giorno, De Mita mi chiede da chi fosse stata ispirata quell’inchiesta. È ancora convinto della manina dei servizi, influenzati da certi democristiani ostili alla sua leadership. Gli dico la verità: l’idea è solo di Montanelli. Una risposta alla querela seguita dopo l’uscita del famigerato editoriale”.

Una risposta che, però, andando ben oltre le intenzioni di Montanelli e di Liguori, ebbe, come ovvia conseguenza, lo svilimento, nella considerazione generale, di un’intera provincia, nonostante che la sua cultura e il suo tessuto sociale fossero rimasti sempre immuni da fenomeni di criminalità organizzata, quantunque limitrofa ad aree incubatrici di organizzazioni camorristiche.

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LA RICOSTRUZIONE TRA LUCI E OMBRE

L’analisi che stiamo conducendo risulterebbe monca, se non addirittura lacunosa, qualora non indicassimo anche i motivi che, a nostro avviso, concorsero ad alimentare le narrazioni dell’Irpiniagate, motivi che riteniamo siano da individuare, prevalentemente, nei meccanismi della legge sulla ricostruzione, che non sempre fu interpretata nel significato voluto dal legislatore. L’elasticità delle interpretazioni contribuì, infatti, non poco a far lievitare la spesa a carico dello Stato. Pochi esempi concreti, interessanti le principali voci di spesa della ricostruzione, chiariscono meglio il concetto. a) Edilizia privata Per la ricostruzione delle unità immobiliari distrutte o danneggiate dal sisma destinate ad abitazione, la Legge 219/81, con le successive modifiche e integrazioni, assicurava alle persone fisiche o giuridiche, che alla data del sisma risultavano titolari di un diritto di proprietà o di un diritto reale di godimento di fabbricati destinati a civili abitazioni, un contributo pari all’intera spesa necessaria per la ricostruzione o la riparazione, riconoscendo ad ogni singolo componente del nucleo familiare mq 18 fino ad un massimo complessivo di 110 mq. Per le altre unità immobiliari, appartenenti allo stesso proprietario, prevedeva un contributo in conto capitale pari al 30% della spesa. Il contributo poteva essere assegnato anche al discendente in linea retta, il quale, per accedere al beneficio, doveva sem41


plicemente dimostrare con atto notorio o dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà che, alla data del sisma, occupava l’unità immobiliare da solo o con il proprio nucleo familiare. Fu facile, così, per alcuni, non moltissimi in verità, dimostrare con un semplice atto notorio, complici quattro testimoni di comodo, di aver diritto all’intero contributo per immobili di fatto non abitati alla data del sisma. Inoltre, i rimaneggiamenti successivi del testo base della legge, a seguito di spinte di singoli parlamentari, interpreti, per così dire, di interessi di collegio o di circoscrizione, appesantirono le casistiche dei beneficiari. Tali le ombre, ma oltre alle ombre vi sono anche le luci. In tal senso, i dati Istat, in parte, contrastano la tesi dell’eccessivo spreco di risorse, in quanto, stando ai rilievi del censimento del 2011, nell’intera provincia di Avellino si registrano valori inerenti al patrimonio edilizio degni di un paese realmente civile. Infatti, lo spazio abitativo a disposizione di ciascun occupante risulta di 40,2 mq e soltanto il 7,2% delle abitazioni non è utilizzato, mentre la percentuale di abitazioni con servizi di acqua potabile interna, gabinetto interno, vasca o doccia e acqua calda raggiunge il 99,2%. Un altro dato positivo è costituito anche dal fatto che la ricostruzione in Irpinia non ha comportato tempi biblici come molti credono e tanti hanno scritto, in quanto, ragionando per grossi numeri, dopo appena cinque anni dal terremoto quella rurale poteva dirsi pressoché conclusa, mentre quella urbana nei primi anni Novanta era sostanzialmente in via di ultimazione. b) Tecnici Una concausa della maggiorazione dei costi della ricostruzione fu dovuta anche ai compensi dei tecnici, che oscillarono da un minimo del 15-16% dell’importo dei lavori fino a raggiungere, nella stragrande maggioranza degli interventi, il 2042


30% e in alcuni casi anche oltre. L’introduzione della verifica del “limite di convenienza” della ricostruzione rispetto alla riparazione fece, a sua volta, lievitare ulteriormente l’importo della spesa. Su incarico dei proprietari, i tecnici, infatti, previo un calcolo detto del “limite convenienza”, tramite perizia giurata, potettero proporre alle commissioni comunali, preposte all’esame dei progetti, la ricostruzione più che la riparazione degli edifici, realizzando, per tale via, un incremento dell’importo delle loro spettanze professionali. Non pochi tecnici, che in precedenza si erano dichiarati convinti sostenitori della tesi che bisognasse demolire il meno possibile, si convertirono, così, alla ricostruzione, folgorati sulla strada del proprio maggior utile. La Commissione di inchiesta parlamentare andò ben oltre, osservando che: “per arrivare a incidenze del 30% e oltre, occorre che siano intervenute oltre al limite di convenienza, molte altre modalità di maggiorazione”. c) Opere pubbliche - industrializzazione La zona epicentrale del sisma del 23 novembre 1980 fu una vasta area interna della Campania e della Basilicata, terra povera, solo marginalmente sfiorata dallo sviluppo economico, terra di emigrazione, terra “dell’osso” in cui lo Stato era stato storicamente avvertito come una realtà esterna, che si manifestava prevalentemente attraverso l’esattore delle tasse e i carabinieri intesi come organi di coercizione e di imposizione. Con la legge 219/81 il legislatore cercò, giustamente, di pareggiare i conti con la storia, adottando uno strumento legislativo con il quale si avviava un esperimento fino ad allora mai tentato, che mirava allo sviluppo delle aree interne, promovendo un processo di industrializzazione di tali aree. Si prevedeva, a tal fine, la predisposizione di apposite aree per gli insediamenti produttivi con la realizzazione di tutte 43


le infrastrutture necessarie al loro funzionamento: assi viari pertinenti a tali aree, elettrificazione, acquedotti, impianti di depurazione e smaltimento delle acque reflue. Era, fondamentalmente, una scommessa che se vinta avrebbe costituito una concreta risposta alla secolare miseria delle genti dell’entroterra Salernitano, dell’Irpinia e della Basilicata. Fu vinta la scommessa, o si andò incontro a un totale fallimento, come hanno scritto i tanti che sul terremoto dell’Irpinia hanno costruito le loro carriere? L’industrializzazione non fu la panacea che si auspicava, ma nemmeno fu il colossale spreco di risorse denunciato da giornali e politici. La verità e che non tutto procedette sui binari della correttezza gestionale, dell’efficienza e della congruità delle spese, ma, nel complesso, non sono nemmeno pochi i risultati realizzati, decisamente positivi. Certo, i costi finali furono superiori a quelli preventivati, come ebbe anche a rilevare la Corte dei Conti, ma questa è una costante della costruzione delle opere pubbliche in tutta Italia, al Nord come al Sud, al Centro come nelle Isole. Non è, quindi, un fatto che abbia interessato solo e soltanto la ricostruzione successiva al terremoto del 1980; è il sistema che è, nel suo insieme, bacato, dall’appalto al collaudo. Il nostro Paese è, purtroppo, costellato di sprechi di opere pubbliche, i cui costi finali sono risultati di gran lunga superiori rispetto agli importi preventivati. Talvolta si tratta finanche di opere che, quantunque realizzate, non sono state mai utilizzate. Ma torniamo al nostro caso. Certamente non felice fu la scelta del Governo di ricorrere al “sistema in concessione” per la realizzazione delle aree industriali e del programma della loro infrastrutturazione, perché tale sistema assegnava tutto al concessionario: dalla progettazione di massima a quella esecutiva, dalle procedure di esproprio alla realizzazione, ponendo, così, tutte le premesse 44


per un sicuro incremento dei costi. Ma di tanto, che colpa ne hanno avuto i sindaci e la gente dell’Irpinia? I tanti critici e censori di tali anomalie avrebbero dovuto giustamente denunciare, più che andare alla ricerca del singolo episodio che, adeguatamente manipolato, avrebbe potuto creare difficoltà alla classe politica irpina. Eppure, Paolo Liguori nella sua inchiesta del 1988, ad appena otto anni dal sisma, quando cioè ancora non si potevano concretamente valutare i risultati, così scriveva: Da “Il Giornale” del 19 novembre 1988:

“Irpinia deserto industriale da 3 mila miliardi. Questo particolare aspetto del problema è regolato dal famoso articolo 32 della legge 219 per la ricostruzione, che prevede un contributo da parte dello Stato per il 75 per cento del costo dell’investimento necessario alla creazione di imprese produttive nelle zone colpite dal sisma. Si tratta, in ogni caso, di particolari secondari, rispetto alla gravità delle cifre globali. Solo per effetto dell’articolo 32 sono piovuti sulla zona 3 mila miliardi (destinati a diventare 4 mila). Secondo le previsioni, dovevano creare almeno 5.600 posti di lavoro. In realtà, i nuovi occupati nelle imprese che hanno goduto dei vantaggi della legge sono meno di 400”.

Oggi, a distanza di tempo da quelle polemiche, i dati ci consentono di misurare con più attendibilità gli esiti di tutta l’operazione e ci permettono di esprimere un giudizio più sereno e più obiettivo. E, dai dati emerge che non può essere considerata un fallimento “tout court” l’industrializzazione in provincia di Avellino, ove furono costruite otto aree industriali: Calitri, Calabritto, Lioni - Nusco, Porrara (Sant’Angelo dei Lombardi), Calaggio, Conza della Campania, Morra De Sanctis, San Mango sul Calore. 45


Infatti, secondo i dati forniti dall’ASI di Avellino, sono circa 3 mila gli occupati nelle industrie localizzate in dette aree, alcune di importanza europea, quali la FERRERO di Porrara (Sant’Angelo dei Lombardi) e L’EMA - ROLLS ROYCE di Morra De Sanctis. Tuttavia, non possiamo nascondere il fatto che lo stesso risultato si sarebbe potuto raggiungere con una minore spesa e, addirittura, si sarebbe potuto migliorare con una più attenta e rigorosa selezione delle imprese. Inizialmente, tra Campania e Basilicata, erano state destinate agli insediamenti industriali dodici aree, di cui tre in Irpinia, che poi il Parlamento portò a venti. Oggettivamente troppe e per di più poco distanti tra loro. Pochi chilometri dista, per esempio, l’area di Lioni - Nusco da quella di Porrara (Sant’Angelo dei Lombardi); lo stesso vale per quelle di Morra De Sanctis, Conza della Campania e Calitri, poste a pochi chilometri l’una dall’altra. Addirittura prossime alla contiguità sono le due aree di Calabritto e di Oliveto Citra, la prima in Irpinia, la seconda in provincia di Salerno, la quale, a sua volta, dista non più di sei/sette chilometri da quella di Contursi Terme. Le imprese localizzate non sempre furono il risultato di una selezione rigorosa e l’espressione di un disegno strategico, funzionale alla creazione di nuove altre imprese. L’industrializzazione del Cratere ebbe, infatti, connotati perlopiù colonizzanti in quanto non fu capace di promuovere un indotto con alla base energie locali in grado di determinare uno sviluppo legato prevalentemente alle risorse endogene, tant’è che alcune aziende chiusero i battenti soltanto dopo qualche anno di attività per produzioni poco appetibili dal mercato; altre hanno smesso la produzione, per la ricaduta in sede locale, delle ricorrenti crisi globali, che hanno interessato il sistema produttivo mondiale nell’ultimo decennio. Ma anche l’utilizzo da parte di qualche azienda di indiscusso successo di una consistente quota di manodopera esterna 46


all’area del Cratere, proveniente da province della Campania estranee al terremoto, ha in parte contribuito a ridurre gli obiettivi preventivati della industrializzazione dell’entroterra appenninico della Campania. È, comunque, da rilevare che, a concorrere alla diffusione dell’idea che tutto sia stato un enorme spreco di risorse, abbia contribuito anche il costo oggettivamente alto dei pur necessari assi viari di collegamento delle aree industriali con il sistema stradale nazionale, costi aggravati per di più dalla realizzazione, non prevista nel progetto iniziale, di bretelle di raccordo con i centri abitati e con i “servizi laterali (stazioni, ospedali e altro)” e dalla costruzione di svincoli, eccessivi per numero e smisurati per modalità costruttive, qualcuno finanche degno di una “high way” americana. La stessa Commissione d’inchiesta ebbe ad osservare che l’incremento dei costi fu reso possibile da “Un complesso di elementi (concessione di opere per obiettivi, definizione della progettazione di massima e del progetto esecutivo rimessi al concessionario, insufficienza tecnica di una verifica alternativa da parte della Pubblica Amministrazione, spinte locali e ragioni tecniche geologiche e altro che inducevano alla proposizione di varianti in corso d’opera)”. Tali, sostanzialmente, furono i motivi dei costi eccessivi dell’asse viario “Fondovalle Sele”, spina dorsale dell’area dell’epicentro, della lunghezza complessiva di circa 31 km, del costo complessivo di circa 666 miliardi di lire, oltre 21 miliardi a chilometro. Si trattava di una strada comunque utile che, oltre a collegare alle autostrade Salerno-Reggio Calabria e Napoli-Bari le aree industriali, era da tempo auspicata per superare l’emarginazione dai commerci e dallo sviluppo di una zona tra le più depresse del depresso Mezzogiorno d’Italia. Considerazioni analoghe, di sviluppo e di costi elevati, le possiamo estendere a tutte le altre infrastrutture: acquedotti, elettrodotti, impianti di depurazione. 47


Ma, di tutto questo vogliamo dare la colpa alle popolazioni terremotate e alla classe dirigente irpina o, invece, al farraginoso sistema degli appalti, di cui si sta cercando, finalmente, di modificarne le procedure? Quando per la costruzione di un’opera pubblica, si attribuisce al concessionario la redazione dei progetti di massima ed esecutivo, quando per la realizzazione di una strada viene data al concessionario finanche la possibilità della scelta dei tracciati, c’è poco da meravigliarsi e di gridare allo scandalo se i costi subiscono incrementi notevoli rispetto a quelli iniziali. Un fatto importante e positivo caratterizza, tuttavia, le opere pubbliche del post-terremoto: esse, quantomeno, non rientrano nella categoria delle “cattedrali nel deserto” o negli elenchi delle tante opere incompiute, che brillano nel loro squallore e costellano il paesaggio geografico italiano al Sud, al Centro e al Nord. Ma di tali sprechi si parla poco o quantomeno non a sufficienza. Di tanto in tanto qualche servizio giornalistico della carta stampata o di una trasmissione televisiva d’inchiesta ci informa di ospedali, di case penitenziarie, di caserme e di altre strutture iniziate e mai terminate o finite e mai utilizzate. Invece, Sicilia esclusa, sono ben 649 le opere incompiute in Italia, stando ai dati del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti aggiornati al mese di luglio 2015, di cui 35 nell’efficiente Lombardia, 34 nel virtuoso Veneto, 35 nell’operosa Toscana e 27 nella dinamica Emilia Romagna. Sono numeri ragguardevoli, al cui confronto non sfigurano le 12 della Campania e nemmeno le 34 della Basilicata, regioni, guarda caso, del Sud dilapidatore di risorse finanziarie e assurte dopo il sisma del 1980 a simbolo di sprechi, di negligenze amministrative e di connivenze malavitose. Sono numeri che spaventano e che narrano la storia inascoltata della necessità di una radicale innovazione del complesso sistema degli appalti dei lavori pubblici, per renderli 48


trasparenti ed impermeabili alle infiltrazioni della malavita, occasioni di crescita e non di spreco. Art. 32 Legge 219/81 – Rilevamento 11/2015 Area Industriale

N°. Addetti

N°. Previsti

N°. Precari

Calabritto

104

-

-

Calaggio

385

39

-

Calitri

86

-

-

Conza della Campania

137

-

-

Nusco - Lioni Sant’Angelo dei Lombardi

625

10

23

Morra De Sanctis

915

24

-

Porrara

456

-

-

S. Mango Sul Calore

204

60

-

Totale

2912

133

23

(Dati – Consorzio ASI Avellino)

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ZAMBERLETTI E DE VITO, DUE PROTAGONISTI

Giuseppe Zamberletti La nomina di Giuseppe Zamberletti a Commissario Straordinario di Governo per le zone terremotate costituì per gli Amministratori comunali e per le popolazioni dei comuni colpiti dal terremoto un atto di speranza nel caos dei giorni immediatamente successivi al devastante sisma, per la fama che si era meritatamente conquistata, quale commissario nel dopo terremoto del Friuli. Constatammo, ben presto, che le nostre speranze erano ben riposte. Zamberletti si mise subito a lavoro, organizzando a Napoli una tecnostruttura per coordinare gli interventi dell’emergenza e quelli successivi del reinsediamento provvisorio delle popolazioni terremotate. Una tecnostruttura che, a nostro parere, avrebbe dovuto operare ben al di là dei suoi compiti originali per garantire un sicuro punto di riferimento anche nella successiva fase della ricostruzione dei paesi del terremoto. Forse, così facendo si sarebbero potuti evitare non poche di quelle storture e non pochi di quei casi, veri o immaginari, del malaffare. Per sindaci e amministratori parlare con Zamberletti era molto facile. Bastava una telefonata e subito seguiva un incontro di persona. Ma spesso non c’era bisogno che ci recassimo a Napoli, perché Zamberletti girava di frequente per tutti i paesi interessati e, quindi, facilmente lo si poteva incontrare nel proprio comune. Fu così che Zamberletti, come già era successo nel Friuli, rafforzò la fiducia di tutti nei suoi confronti, conquistandosi l’affetto di amministratori e amministrati. Dell’imponente piano del reinsediamento prov50


visorio dei terremotati già abbiamo discusso, piuttosto diffusamente, in altra parte del libro (v. pag. 17). Ciò che adesso intendiamo evidenziare è l’aspetto umano della personalità di Zamberletti e il legame affettivo che seppe intrattenere con le popolazioni terremotate, legame che emerge in modo chiaro nella parte conclusiva della Relazione che Egli presentò alla Presidenza della Camera dei Deputati il 15 novembre 1981, al termine del suo mandato di Commissario Straordinario, ma ancor di più della sua missione di favorire e avviare la ripresa dei Comuni del terremoto: “Il risultato più evidente… è la mutata fisionomia che presenta nel suo insieme il territorio. La vita delle comunità riprende gradualmente nei nuovi villaggi sorti al ridosso dei centri storici devastati (come a Lioni, Sant’Angelo dei Lombardi, a S. Gregorio Magno) oppure in aree completamente staccate dai paesi ormai ridotti a un cumulo di macerie, come Laviano, Conza della Campania, Castelnuovo di Conza e tanti altri. Anche in queste scelte che hanno imposto alla popolazione amare rinunce, violando sentimenti, tradizioni, affetti e ricordi, la gente della Campania e della Basilicata ha dato prova di grande forza morale di spirito di adattamento di senso della realtà e di grande capacità di ripresa. Tutto ciò non basta ad affrontare gravi e complessi problemi, come quello della rinascita delle zone del Meridione così gravemente colpite. In questo momento particolarmente delicato del passaggio dall’emergenza alla ricostruzione, le amministrazioni locali vanno costantemente sostenute, guidate, incoraggiate, nel difficile compito che le attende. […] Sottopongo – comunque – il mio operato all’esame del Parlamento al giudizio delle stesse popolazioni insieme alle quali sto vivendo un’esperienza dura e al tempo stesso esaltante”. Sono parole, queste di cui non c’è bisogno di alcun commento. La tragedia del sisma del 23 novembre 1980, la forte denun51


cia del presidente Pertini e le reiterate insistenze della deputazione parlamentare irpina spinsero Governo e Parlamento a legiferare, finalmente, in merito all’istituzione di un adeguato ed efficiente servizio di protezione civile. E a chi ci si poteva rivolgere se non a Zamberletti per l’esperienza maturata sul campo in Friuli nel 1976 e in Campania e Basilicata nel 1980? Ed infatti nel 1982 a Zamberletti fu conferito l’alto incarico di Ministro per il coordinamento della protezione civile, di cui è considerato unanimemente il padre fondatore e da cui fu rimosso per il gioco delle correnti democristiane nel 1987, anche se nel pieno dell’emergenza del disastro in Valtellina. A Zamberletti si deve l’acquisizione della consapevolezza dei concetti della previsione e della prevenzione distinti dalle attività di soccorso, l’organizzazione del servizio in tutte le sue componenti, la valorizzazione del volontariato e l’avvio dell’iter legislativo che si concluderà nel 1992 con l’approvazione della Legge organica di Protezione Civile. Zamberletti nel corso della sua attività parlamentare, ha avuto altri riconoscimenti con l’assegnazione di importanti incarichi, che, comunque, non tratteremo, perché la loro trattazione esula dagli obiettivi di questa narrazione. Salverino De Vito Conobbi Salverino De Vito negli anni Sessanta in uno dei tanti congressi della Democrazia Cristiana in cui militava nella corrente di Base insieme a De Mita, Bianco, Gargani e Mancino, solo per citare alcuni dei più noti esponenti. In quel tempo De Vito era consigliere provinciale, ma il suo interesse era rivolto alla concretezza dell’azione nel campo dell’imprenditoria e dell’artigianato. Fu, infatti, il fondatore della Confartigianato in provincia di Avellino. Fu un meridionalista che rifuggiva dalle astrazioni con52


cettuali. Preferiva calarsi nella concretezza dei fatti, la stessa concretezza che lo portò ad elaborare la famosa Legge 44/86 sull’imprenditoria giovanile, meglio conosciuta come Legge De Vito. Una legge fortemente innovativa e di successo, che nell’arco di un quindicennio portò all’approvazione di milleduecento progetti per una forza lavoro di circa quindicimila persone. Una legge che, per la prima volta, consentiva a un giovane del Sud di programmare il proprio futuro in loco e a non emigrare all’estero o nelle regioni più ricche d’Italia, perché il posto di lavoro se lo poteva inventare da sé. Una legge di grande innovazione anche dal punto di vista culturale “che – secondo Carlo Borgomeo, presidente per sedici anni del Comitato di quella legge per l’imprenditoria giovanile – andava peraltro nel segno della dottrina sociale della Chiesa. Una legge che al sud favorì la nascita di molte realtà, tra le quali alcune che possono essere viste come l’embrione della Compagnia delle Opere”. (Angelo Picariello – Avvenire 14.12.2010). La Legge De Vito è stata un’esperienza di politica imprenditoriale di grande portata e innovazione, imitata all’estero per la sua efficacia, persino in paesi tra i più progrediti. Una legge, per la quale un giovane imprenditore, oltre a beneficiare dei provvedimenti in essa contenuti, poteva godere di un accompagnamento in itinere e di una solida formazione di base. Salverino De Vito fu, dunque, un meridionalista, che si calava nella realtà effettuale. Diede prova di tale capacità nel dopo-terremoto e negli anni in cui resse il Ministero del Mezzogiorno. Fu tra i redattori delle leggi 219/81 e 80/84, che furono le leggi fondamentali e paradigmatiche della ricostruzione delle zone terremotate. Tra i politici irpini, forse perché allo stesso tempo oltre che 53


senatore era anche sindaco di Bisaccia, fu quello che seguì più da vicino e a contatto con gli altri amministratori degli altri comuni le vicende legislative inerenti alla ricostruzione, sperimentando nei fatti l’efficacia e la validità dei meccanismi della Legge. In tal senso, ricordo che incontri seguivano a riunioni nel tentativo di cercare soluzioni efficaci ai problemi che quotidianamente si riscontravano nell’applicazione pratica della legge. Ai tempi della denigrante campagna di stampa verso la classe dirigente irpina, per caso lo incontrai a Bisaccia. Lo vidi emotivamente stanco, amareggiato e deluso per l’infamia che si stava consumando verso l’Irpinia. Pur non essendo un suo amico di corrente politica, mi confidò che stava meditando di abbandonare la politica. Ma poi desistette da tale proposito. In Lui presero di nuovo il sopravvento la passione per la politica e lo spirito del combattente. Ma la sua carriera stava ormai per concludersi. Alle elezioni politiche del 1994, quando, nel clima poco favorevole del dopo-tangentopoli, fu candidato alla Camera dei deputati al posto di Ciriaco De Mita, non fu eletto per una manciata di voti, circa ottocento. Il tradizionale elettorato democristiano aveva, ormai, imboccato altre strade. Morì ad Avellino il 12 dicembre 2010. Lodevole è stata la costituzione della Fondazione a Lui intestata, che ha sede nel Castello ducale di Bisaccia, per promuovere iniziative capaci di tenere vivo il ricordo del suo pensiero e della sua opera, specie le azioni rivolte alle politiche giovanili e allo sviluppo delle comunità locali.

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CONSIDERAZIONI DI POLITICI IRPINI

Antonio Maccanico Intervista a “Repubblica” del 15 gennaio 1989 È sembrato che una specie di mafia irpina si fosse impossessata del paese. È naturalmente una forzatura. Nessuno si è finora chiesto perché proprio in una provincia depressa come l’Irpinia, la DC abbia espresso un gruppo dirigente di una certa levatura e che ha una posizione avanzata nel partito. Perché, prima di De Mita, c’è stato Fiorentino Sullo, un leader importantissimo. Avellino è una provincia con grandi tradizioni culturali e laiche, si pensi a Francesco de Sanctis, Guido Dorso, Carlo Muscetta. Pertini ricorda Maccanico diceva spesso che gli irpini sono molto intelligenti ma aggiungeva una chiosa: quando i romani risalivano verso la Gallia, i liguri assaltavano i loro carri e rubavano tutta la mercanzia. E i romani persero la pazienza e cominciarono a fare deportazioni di massa dei giovani liguri. Li deportavano in Irpinia. E poi sono rimasti lì. Per questo diceva Pertini voi irpini siete così intelligenti.

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Ciriaco De Mita Intervista di Ottavio Ragone per “Repubblica” del 29 novembre 2000 dal titolo: “Irpiniagate? Un’invenzione”. Ciriaco De Mita era, ed è, il politico più rappresentativo dell’Irpinia. Ma l’Irpinia, nella vulgata del terremoto, incarna anche il simbolo negativo della ricostruzione in Campania. Se si accettano queste premesse, si deduce che De Mita fu uno dei protagonisti di quel grande scandalo passato alle cronache come Irpiniagate. Non pronunciate mai questo sillogismo in presenza dell’ex presidente del Consiglio. Monterà su tutte le furie. Come puntualmente avviene durante questa conversazione con Repubblica. Ma quale Irpiniagate – sbotta – contesto il termine, è una colossale mistificazione. Gli errori nella ricostruzione avvennero tutti a Napoli. L’Irpinia fu un modello, oggi è vittima di un pregiudizio. Ma a Napoli la DC provocò disastri. E lei ne era uno dei capi. Le responsabilità penali sono individuali, non familiari. Io non contesto che alcuni dirigenti democristiani napoletani non si comportarono bene nella gestione, né discuto il giudizio negativo su quella DC. Mi sembrano dati di fatto. Quindi, come democristiano, concorro a quella responsabilità oggettiva. Uso una metafora calcistica: siccome avvennero incidenti sul campo di gioco, io che facevo parte della squadra non posso tirarmi indietro. Tuttavia non tollero le semplificazioni. La ricostruzione in Irpinia fu tutt’altro. Si dica allora Vesuviogate, e il dialogo con l’uomo di Nusco acquisterà di colpo toni più sereni. La polemica di De Mita ha due bersagli: l’ex capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, già presidente, tra l’89 e il ‘91, della commissione parlamentare di inchiesta sulla ricostruzione, e il magistrato Paolo Mancuso. Poi c’è un bersaglio occulto: Antonio Bassolino. Tutti e tre, Scalfaro, Mancuso e Bassolino, intervistati dal Corriere della 56


Sera sulla ricostruzione. De Mita è critico anche con il procuratore di Napoli Agostino Cordova. La prescrizione dei reati nel processo sul terremoto non può certo essere addebitata agli imputati – sostiene. Ma non è Cordova l’obbiettivo principale. Vorrei che i veri responsabili fossero condannati. Invece alla fine saranno tutti assolti. In conseguenza di un atto d’accusa generalizzato. Resterà un solo colpevole: l’Irpinia. Lei ha ironicamente definito Scalfaro un gran santone. Scalfaro, parlando della Banca Popolare dell’Irpinia, si è chiesto come mai centinaia di azionisti dell’istituto fossero minorenni. È un’insinuazione. Nulla vietava la presenza di soci minorenni, e la Popolare era una banca cooperativa di cui erano socie molte famiglie. Io per primo, inoltre, sollecitai una commissione di inchiesta sul terremoto. Poi constatai che le disfunzioni, tutte napoletane, venivano occultate. E la commissione si dedicò all’Irpinia. Le disfunzioni. Altrimenti dette tangenti. In Irpinia processi non ce ne sono. La magistratura ha invece accertato versamenti di tangenti per una serie di imprese napoletane. Qualche anno fa fu presentato un decreto legge, poi trasformato in decreto delegato, al quale io mi opposi. Si stabilì che le imprese, attraverso una transazione finanziaria, potevano continuare a lavorare a Napoli con una specie di sanatoria”. Si riferisce al periodo in cui era sindaco Bassolino? “Lasciamo stare Bassolino. Non tollero che sia tracciato uno spartiacque morale tra chi è nato in Irpinia e chi no. L’altro giorno, parlando a Sant’Angelo dei Lombardi, lei ha citato l’ex p.m. dell’anticamorra Mancuso. Mancuso, sul Corriere, ha parlato di un sostanziale ricambio, avvenuto negli anni, della classe politica, ma non del mondo imprenditoriale. Ha detto che le reti clientelari, interfaccia con la camorra, sono quasi del tutto scomparse. Affermazioni gravi. Perché alla fine 57


è stata battuta solo la classe dirigente. Ma non mi sembra che la camorra sia stata sconfitta. Onorevole De Mita, se non fu Irpiniagate, che dire delle fabbriche costruite in montagna con i soldi del terremoto, e poi fallite? Su 60 aziende, ben 52 sono in attività. Altre, fallite, stanno per essere rilevate. È peggio realizzare fabbriche in pianura distruggendo suoli agricoli. Le migliori infrastrutture furono realizzate in Alta Irpinia. Qui la ricostruzione delle case, opera ben fatta, è costata 6 mila miliardi. Se poi l’area del cratere fu estesa a 700 Comuni e se a Napoli ci fu il bando dei 20 mila alloggi, è colpa dei sindaci irpini?”. E di chi, secondo lei? “Il parlamento promulgò quelle leggi, il governo prese decisioni sbagliate. Come affidare in concessione le grandi opere pubbliche. Gli imprenditori se le progettarono da soli e stabilirono gli importi.

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Giuseppe Gargani Stralcio del Discorso alla Camera dei Deputati, 28 Maggio 1991: «Le verità sul terremoto in Irpinia ed altrove» On. Presidente, onorevoli colleghi... Dopo aver osservato per dieci anni come era mio dovere di deputato il silenzio, in attesa che la Commissione d’inchiesta concludesse i suoi lavori, vorrei qui analizzare la situazione e compiere una disamina, il più possibile oggettiva, ripetendo probabilmente cifre, considerazioni e ragionamenti sui quali vi è stata discordia e sui quali non si trova ancora una convergenza, perché in Commissione si è fatto di tutto per evitare la chiarezza. Mi auguro che la chiarezza venga a conclusione di questo dibattito. ... Se non ci fosse stata malafede e volontà di strumentalizzazione nelle forze politiche, vittime o ispiratrici (non lo so) delle forsennate campagne di stampa condotte dalla grande stampa, dal Corriere della Sera a Il Giornale, a tanti altri fogli, si sarebbe dato vita ad una normale e opportuna indagine conoscitiva, utile anche a studiare un fenomeno grave come quel terremoto del 1980 e a conservare la memoria storica delle iniziative e un insegnamento per i comportamenti da tenere in simili circostanze. Si sarebbe potuto compilare uno studio utile per il Parlamento e utile per i nostri archivi e per i futuri legislatori. Si è voluto invece a tutti i costi inquisire su tutto e su tutti con una furia incontenibile e irrazionale, e si è costituita una commissione di inchiesta diretta e gestita all’insegna della generica denunzia e del sospetto; e ci troviamo con una relazione che è fatta di allusioni, di apodittiche dichiarazioni che non trovano riscontro nella realtà: una commissione in definitiva, non come strumento di accertamento ma come contenitore per mettere tutto e il contrario di tutto. La commissione dunque usando questo metodo, ha finito per nascondere o trascurare fatti o decisioni che pure potevano forse essere evidenziati e censurati. Si è confusa una esigenza democratica di controllo con una inquisizione indiscriminata, conseguenza di un protagonismo sfrenato che ha danneggiato enormemente il Sud, e ha posto in contrasto due zone 59


del paese per arrecare danno a tutta la nazione. Questa responsabilità della stampa e delle forze politiche che hanno voluto strumentalizzare l’accaduto credo che non abbia fatto minimamente maturare questo paese ed abbia appunto provocato il contrasto tra molte zone del nord ed il sud così vituperato. La Commissione ha dato, dunque, risposte viziate dal pregiudizio di una criminalizzazione generalizzata dell’opera di ricostruzione e sviluppo. L’allargamento dell’area terremotata […] Al terremoto vero e proprio si è affiancato un terremoto, che comprende province e territori dove il sisma pure c’è stato ma in misura marginale. E lo stesso Parlamento che ha criticato la dilatazione dell’area colpita e conseguentemente la maggiore spesa necessaria; ma furono proprio il Governo e il Parlamento (pur nel dissenso di qualche rappresentanza più attenta e oculata, che era proprio della parte del cratere), ad individuare, prima, l’area di intervento e a legiferare, successivamente, per l’ampliamento. L’industrializzazione nell’area del “cratere” […] La scelta di come creare le condizioni per lo sviluppo nelle zone del disastro trovò tutti d’accordo in Parlamento: era una scelta di industrializzazione […]. E così, l’industrializzazione del cratere fu inquadrata come una sfida, una scommessa sul piano politico, e un esperimento unico in Europa quanto al profilo di politica industriale. Tutte queste cose non possono essere dimenticate come si dimenticano quanto il rapporto costo/benefici viene calcolato sulla base di parametri standard utilizzabili in condizioni normali ed ordinarie. Si giudica l’industrializzazione nell’area più povera e disastrata d’Italia con la mente rivolta agli standard del triangolo industriale del nord. […] Si assume che per l’industrializzazione del cratere sono stati spesi 8 mila miliardi senza raggiungere nemmeno la metà dei risultati. Nella relazione valutativa s’è detto che quegli 8 mila miliardi non sono serviti praticamente a niente, se non a finanziare industrie fan60


tasma e grandi infrastrutture inutili, peraltro mai realizzate. […]. Nelle venti aree industriali, sono state insediate 146 industrie: 101 sono in produzione con 5.131 addetti, 45 stabilimenti sono in corso di realizzazione con uno stato di avanzamento medio dell’80%, 17 hanno avuto approvato il collaudo finale. Sul numero totale di questi insediamenti, 6 sono praticamente decotti e 18 versano in gravi difficoltà: insomma le situazioni di crisi riguardano 24 industrie, su 145, pari al 16%; un tasso che gli esperti definiscono contenuto entro i limiti fisiologici persino delle zone di consolidata tradizione industriale. […]. Dalla descrizione dei fatti, si può dire che sia stato colto o non l’obiettivo fissato dal legislatore? […]

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Alberta De Simone Intervista dell’AGI (Agenzia Giornalistica Italiana) - martedì 5 novembre 2002 (AGI) - Roma, 5 nov. - Scoppia la polemica Lega-Ds sui fondi per la ricostruzione dell’Irpinia. Arriva a stretto giro la replica della Quercia al senatore della Lega Pirovano: Non è possibile che un senatore della Repubblica debba parlare con tanta rozzezza e insensibilità di una tragedia che costò 2570 morti e 300 mila senza tetto. Le sue dichiarazioni rilasciate alla stampa, secondo cui in Irpinia sarebbero andati 65 mila miliardi di vecchie lire per 60 mila abitanti – dice Alberta De Simone, deputata irpina – sono assolutamente false. È evidente che il senatore Pirovano non conosce i fatti, tanto meno gli atti: allo scopo ci sono 54 volumi che gli consiglio di leggere. Innanzitutto bisogna chiarire al senatore che il terremoto del 1980 è stato definito terremoto Irpino perché in Irpinia c’era l’epicentro non certo perché riguardasse soltanto la provincia avellinese. I fondi stanziati – circa 60.000 miliardi di vecchie lire – sono andati a tre regioni, Campania, Basilicata e Puglia (con 2 province) e, la sola ricostruzione a Napoli, costò più di 25.000 miliardi di lire. Un buon 20 per cento è poi servito per ricostruire strade, chiese, municipi, scuole e infrastrutture. Pertanto, alle abitazioni degli irpini, non sono restati che pochi miliardi, serviti per riedificare case completamente rase al suolo e per ristrutturare quelle poche restate ancora in piedi. Come al solito – prosegue la De Simone – la Lega non si smentisce: le dichiarazioni di Pirovano trasudano razzismo e ignoranza, sono fasulle e fuorvianti anche in un momento così delicato ma non riusciranno a mettere gli irpini contro i molisani: all’indomani della tragedia che ha colpito il Molise – conclude – gli irpini sono stati i primi, conoscendo bene la tragedia del terremoto, ad offrire la loro solidarietà ai molisani e molti di essi sono già sul posto per ricostruire, anche a proprie spese, la scuola di San Giuliano di Puglia.

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Nicola Mancino Intervista della Fondazione MIdA Il terremoto del 23 novembre 1980 è evento che ha segnato incisivamente una storia dolorosa di lutti e di distruzioni: vite umane spezzate dalla malvagità della natura in una giornata insolitamente tiepida di fine novembre e case accartocciate, implose d’improvviso, che divorarono gli uomini, le donne e i bambini che fino a poco prima vi avevano abitato. Io ero nel mio studio privato di Avellino, […] quando si sentì un cupo boato cui fece seguito un interminabile ondeggiamento sussultorio del fabbricato ove abitavo […] Appena furono finite le scosse, ci precipitammo giù per le scale. Mi diressi dopo un po’ verso gli uffici dei Vigili del Fuoco, ove si era trasferito il Prefetto Lobefalo, contuso per via di una trave staccatasi dal soffitto del suo ufficio e cadutagli addosso. Qui incontrai l’on. De Mita e qui ebbe inizio il mio impegno di parlamentare alle prese con il dopo-terremoto. S’erano interrotte le comunicazioni ed anche la luce elettrica a intermittenza si spegneva. L’ospedale civile si era affollato di feriti, quasi tutti dell’hinterland avellinese. De Mita mi trasmise una sua sensazione “temo che il disastro maggiore sia in Alta Irpinia; hai notato non c’è uno di quell’area che sia stato ricoverato nell’ospedale di viale Italia”. Anche io temevo che fosse vero. L’Alta Irpinia, infatti, fu quasi spazzata via dal terribile sisma: interi abitati “spianati”, morti a grappoli, schiacciati sotto le macerie delle case crollate. Si mobilitò il Paese, le istituzioni gareggiarono in iniziative assistenziali e, in segno di tangibile solidarietà, inviarono sul posto del disastro i propri amministratori, i quali a fatica si inerpicarono chi in Alta Irpinia, chi nel Salernitano, chi ad Avellino e chi a Potenza. L’epicentro del terremoto fu a metà strada tra S. Angelo dei Lombardi, Laviano e Santomenna, comuni letteralmente rasi al suolo dalla furia esplosa dalle viscere terrestri. In Parlamento, facendo tesoro dell’esperienza friulana, venne approvata una legge per la ricostruzione e, sottolineo, lo sviluppo: aree, che per il passato avevano fatto triste esperienza di emigrazione, fino a perdere il cinquanta per cento della popolazione, reclamarono giu63


stamente di avviare un processo di insediamenti produttivi e di ammodernare il patrimonio edilizio. La città di Napoli, che non era stata molto danneggiata dal sisma ma che conviveva storicamente con una edilizia fatiscente e con l’incombente rischio di crolli, si inserì nel provvedimento legislativo di ricostruzione con un capitolo a sé, per costruire ventimila alloggi. Ad avviso di molti – quorum ego – sarebbe stato più opportuno approvare una legge apposita – ed era anche giusto approvarla –, ma si preferì la strada della estensione a favore di Napoli delle provvidenze previste dalla ormai nota legge 219 del 1981. Così dilatò la spesa sotto la voce ricostruzione, mentre una parte consistente di essa, proprio perché risolveva un problema secolare, doveva avere una contabilità separata. E nacquero polemiche dure, con bersaglio le spese di riparazione dei danni sismici. Personalmente non contesto che nel processo di ricostruzione si registrarono anche casi di sperpero per opere che dovevano, invece, essere dimensionate con un riferimento più stretto al territorio e alla popolazione. Ma non fu soltanto sperpero, come l’intera vicenda ricostruttiva dimostra. L’edilizia urbana e rurale post-terremoto ha creato le condizioni per fare vivere più umanamente la popolazione dell’area terremotata – era un sacrosanto diritto di quella gente –; il non facile processo di sviluppo, anche se in maniera non sufficiente e non diffusa, ha dato lavoro in loco a molti giovani altrimenti destinati ad emigrare. Vorrei non trascurare la circostanza che, a distanza di qualche anno, si aprì soprattutto contro l’Irpinia una contestazione radicale, di stampo a volte anche razzista, e si parlò, e scrisse, di Irpiniagate: non va sottaciuto, in proposito, il rilievo che nessun politico della provincia di Avellino è stato condannato per reati collegati all’evento sismico: la classe dirigente locale ha superato indenne gli scogli di un periodo difficile per l’intero Paese ed oggi essa è ancora in Parlamento a difendere, tra l’altro, le buone ragioni del Mezzogiorno e dell’Italia. Restano, tuttavia, problemi non risolti, cui occorre dare risposte non rinviabili. Quello che ancora c’è da fare è un impegno operoso all’interno delle più generali problematiche meridionali. 64


Colloquio con Gerardo Bianco Presidente Bianco la ricostruzione in Irpinia viene spesso indicata come esempio da non seguire. Non ritiene che sia giunto il momento di fare definitivamente chiarezza? Ritengo anche io, come tu sostieni, che sia quanto mai necessario fare finalmente chiarezza sulla ricostruzione del terremoto in Irpinia dopo il terribile evento del 23 novembre 1980. Sarà molto difficile smentire il luogo comune di un presunto Irpiniagate, ma un’operazione “verità” va comunque perseguita sulla base di dati precisi e di una seria documentazione. Anche di recente, in occasione del tragico terremoto di Amatrice e delle altre comunità, è riemersa, per esempio su “Il Mattino” e nelle parole non meditate di uomini di governo, l’accusa infondata di un fallimento della ricostruzione nella nostra Provincia. Eppure le sue posizioni non sempre furono in sintonia con quelli di amministratori locali e di altri parlamentari su alcuni aspetti della ricostruzione. Ricorderai che durante il periodo post sismico non mancarono da parte mia rilievi critici su alcune operazioni che mi parevano fuor di misura, ma certe esorbitanze e alcuni sprechi non cancellano il dato oggettivo che la ricostruzione sia avvenuta modificando soprattutto il panorama rurale dell’Irpinia caratterizzato ancora negli anni ’80 da case costruite con ciottoli di fiume e calce non certo di robusta resistenza. Anche i centri storici delle nostre comunità sono stati risistemati, spesso con perizia, avendo riacquistato la loro antica suggestione. Quando fu approvata la Legge sulla ricostruzione, lei era presidente del gruppo dei deputati democristiani. Vi furono resistenze in Parlamento? La legge per la ricostruzione fu approvata con rapidità a pochi mesi dall’evento, con un accordo parlamentare fra le due maggiori forze politiche dell’epoca (DC e PCI), al quale aderirono anche gli altri gruppi parlamentari, mentre procedeva con celerità, soprattutto per 65


merito del collega Zamberletti, la sistemazione di chi aveva perduto la propria abitazione. La Legge 219/81, accanto alla ricostruzione, poneva le premesse anche della crescita economica dell’area del terremoto. Vi è stato sviluppo o il tutto si è risolto in un enorme spreco di risorse, come molti sostengono? La tua ricerca offre dati quanto mai interessanti per una analisi oggettiva della ricostruzione post sismica che smentiscono l’opinione corrente che si fonda esclusivamente su una sistematica campagna di denigrazione priva di fondatezza. È, infatti, senza motivata argomentazione sostenere che in Irpinia sia fallito il tentativo di creare un tessuto economico e anche industriale, ignorando, per esempio lo sviluppo sorprendente ed eccellente dell’enologia e di altri prodotti agricoli come quelli caseari. A ciò si aggiunga la sconosciuta diffusione di piccole aziende, diffuse sul territorio, favorite anche dall’indotto di aziende più grandi, come per esempio l’Iveco. Questo sviluppo ha il suo punto di partenza da quella legge del maggio 1981, purtroppo poi alterata da altri non meditati provvedimenti legislativi, che ha comunque avuto benefici effetti. Nondimeno Irpinia per non pochi è tuttora sinonimo di malaffare. Un altro elemento che continua ad essere ripetuto è quello della corruzione nella ricostruzione dell’Irpinia. Le cose non stanno affatto così. I Sindaci e gli amministratori dell’epoca furono per la stragrande maggioranza persone oneste dalle “mani pulite”, né consentirono se non in una parte marginale della Provincia, infiltrazioni camorristiche, che sono rimaste estranee alle comunità irpine. Ritengo che sia giusto rivendicare la dignità di una storia che merita rispetto e che è stata offuscata dal pressapochismo giornalistico e strumentalizzata da chi ha interesse a demonizzare il Mezzogiorno per scopi di miopi calcoli nordisti che finiscono per non giovare né al nord né all’Italia nella sua unità. 66


BILANCIO ED EREDITÀ

Una nuova realtà Il terremoto del 1980 rappresenta nella storia dell’Irpinia un elemento di forte cesura. Prima del disastroso evento la provincia di Avellino, nel suo complesso, costituiva una realtà economica marginale nel contesto territoriale della Regione Campania. Era un’area storicamente interessata da una forte emigrazione diretta in un primo tempo verso paesi transoceanici e poi, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, verso le città industriali dell’Italia del Nord e i Paesi sviluppati dell’Europa Centro-occidentale. Le rimesse degli emigrati costituivano una fonte non secondaria nella formazione del reddito delle famiglie. Il settore economico trainante era rappresentato dall’agricoltura, che occupava circa il 40% della popolazione attiva. Gli occupati nell’industria non superavano il 2% ed erano in gran parte impegnati nel comparto edilizio. Trascurabile era il numero degli occupati nei servizi. Nonostante l’alta percentuale degli addetti, il rendimento dell’agricoltura, in termini di valore aggiunto, arrivava a malapena al 15% del totale. Il turismo in entrata era pressoché sconosciuto, tranne le poche eccezioni dei flussi interessanti la stazione sciistica di Laceno e il considerevole numero di pellegrini che si dirigevano verso i santuari della Madonna di Montevergine a Mercogliano e di San Gerardo Maiella a Caposele. L’impatto violento del terremoto su quell’ambiente già fragile e precario ebbe effetti devastanti. Al di là dei danni provocati al territorio da crolli di interi 67


paesi e da frane che, in qualche caso, resero difficile persino il transito dei soccorsi, conseguenze gravi e dirompenti si ebbero anche sugli aspetti immateriali dell’esistenza. Usi e costumi, sedimentati in secoli di convivenza civile, furono letteralmente sconvolti. Le Comunità, conseguentemente all’enorme massa di finanziamenti di cui furono destinatarie e dei contatti con gente di altre culture, sia durante sia dopo la fase dell’emergenza più acuta, acquisirono nuovi abiti mentali e nuove forme di convivenza civile, che influirono non poco sulla ricostituzione del tessuto sociale e sulla ripresa delle attività economiche. Oggi, una mentalità nuova, che coniuga tradizione con innovazione, sta influenzando positivamente in termini di sviluppo quell’ampio spettro di attività che si collegano ai tradizionali settori dell’agricoltura e dell’artigianato. Una nuova mentalità che, come condizione preliminare, tuttavia, abbisogna di tutta quella vasta gamma di servizi di supporto alle imprese, oggi ancora non sufficientemente sviluppata. Nel 2011 l’economia irpina ha subito un forte shock per la chiusura della fabbrica IRISBUS-IVECO di Flumeri da parte della FIAT Industrial, che ha spostato la produzione in Francia nello stabilimento Annonay. La crisi dura tuttora, non essendo stata scritta la parola fine. Insediamenti industriali Per promuovere l’insediamento di iniziative produttive, capaci di imprimere lo sviluppo economico, anni prima del terremoto del 1980 in provincia di Avellino furono realizzate le aree industriali di Pianodardine, di Valle Caudina e di Valle Ufita, sedi oggi di importanti opifici industriali. Tuttavia, il presente studio prescinde necessariamente dalla loro trattazione, in quanto è rivolto esclusivamente agli interventi del dopo-terremoto, che, come già abbiamo più volte 68


sottolineato, oltre alla ricostruzione del patrimonio edilizio, mirarono a interrompere lo spopolamento in atto da tempo delle zone del Cratere, reso ancor più grave e imponente dal terremoto stesso. Occorreva, a tal fine, assicurare alla gente migliori condizioni di vita, garantendo in loco un reddito che fino ad allora lo si poteva conseguire solo con l’emigrazione. In tal senso, si decise di avviare un esperimento mai tentato prima, ossia quello di portare l’industria nelle aree interne del Cratere, dette dell’osso, appunto per la scarsa redditività. L’esperimento riuscì solo in parte, anche se le industrie delle otto aree industriali della provincia di Avellino registrano, oggi, un numero di occupati di circa 3 mila unità lavorative. Si lamenta, tuttavia, come già accennato, la mancata attivazione di un indotto, che davvero avrebbe potuto costituire, in termini quantitativi, una spinta decisiva per lo sviluppo economico. Settore agroalimentare L’agricoltura ha goduto di provvedimenti di leggi legate al terremoto. Al coltivatore diretto fu data, ad esempio, la possibilità di fruire dell’intero contributo di ricostruzione degli immobili rurali, quantunque già titolare di contributo per l’immobile urbano. I benefici che la legge sulla ricostruzione ha assegnato ai conduttori agricoli hanno favorito la ripresa delle attività agricole compromesse dallo spopolamento della campagne, che si era reso più consistente dopo il terremoto, orientando anche non pochi giovani verso le attività connesse all’agricoltura, tra cui alcune produzioni che oggi sono distinte da marchi di tutela della tipicità e di garanzia della qualità. E così accanto all’antica coltivazione della nocciola del Baianese - Vallo di Lauro, del Partenio, della Valle del Sabato e di quella Caudina, oggi l’Irpinia registra prodotti di vera eccel69


lenza, tra i quali i vini DOGC: Taurasi, Fiano e Greco di Tufo; i non pochi vini che beneficiano del marchio DOC (Irpinia, Campi Taurasini, Piedirossso, Falanghina, Sciascinoso, ecc); la castagna IGP di Montella e l’olio DOP delle colline dell’Ufita. Non è a caso che il “Taurasi Macchia dei Goti 2010” delle cantine Caggiano di Taurasi ha vinto l’Oscar del Vino 2015. Non meno importanti per l’economia locale sono il tartufo nero di Bagnoli e il torrone di Dentecane e di Ospedaletto. Di notevole pregio sono altresì i prodotti latto-caseari, quali: il provolone podolico dei Monti Picentini e il Formaggio di Carmasciano, tipico prodotto di quella parte di territorio compreso tra i Comuni di Guardia dei Lombardi e Rocca S. Felice. Turismo rurale La riparazione o la ricostruzione degli antichi caseggiati rurali ha consentito uno sviluppo notevole del turismo rurale, completamente sconosciuto prima del terremoto, intimamente legato alle eccellenze enogastronomiche dell’Irpinia e all’amenità dei suoi paesaggi. La pretestuosa e usurata polemica dei tempi dell’irpiniagate di fienili o vecchie masserie trasformati in ville trova nello sviluppo dell’agriturismo la smentita più convincente. Oggi, tra agriturismo, country house e bed and breakfast sono oltre 200 le strutture ricettive di campagna, che riscontrano le esigenze di flussi crescenti di persone, le quali nella quiete della campagna irpina trovano ristoro alle ansie e allo stress della vita cittadina. Al settore agroalimentare, oltre al turismo rurale, si collegano anche le altre due forme di turismo prevalenti in Irpinia, ossia il turismo religioso e quello sportivo interessante il polo sciistico del Laceno, entrambi sensibili allo stimolo della buona cucina. I percorsi enogastronomici stanno agendo, altresì, da supporto alle tante opportunità che la ricostruzione post70


sisma ha posto in essere: dalla valorizzazione, sempre in termini di fruizione turistica, del patrimonio artistico e culturale a quello della natura. Valorizzazione dei centri storici Il recupero dei centri storici, là dove sia stato possibile riparare, conservare o riproporre il preesistente, rappresenta un esempio di buona ricostruzione, rispettosa dei vecchi impianti urbanistici ed aperta alle esigenze dei tempi nuovi. Il recupero conservativo è stato, infatti, un tentativo, in gran parte riuscito, di ricostituire l’antico tessuto sociale, i cui risultati oggi rappresentano un non trascurabile fattore di sviluppo economico. Negli ultimi anni si è diffusa, infatti, un nuova forma di turismo, che risponde alle esigenze di masse crescenti di popolazioni cittadine in cerca di oasi di tranquillità per ritemprarsi dallo stress delle grandi città, soggiornando, sia pure per tempi brevi, in un piccolo centro, in un borgo, a diretto contatto con modi di vita più prossimi alla natura. I centri storici dell’Irpinia, recuperati con la ricostruzione post-sisma, ben si prestano a riscontrare tale domanda attraverso l’offerta dei cosiddetti “alberghi diffusi”, in cui le case del borgo sostituiscono le camere degli hotel. Esempi già in atto non mancano: da Calitri a Cairano, da Castelvetere sul Calore a Monteverde, da Rocca S. Felice a Quaglietta e a tutti quei comuni che hanno saputo coniugare il preesistente con la modernità. Di rilievo è il secondo posto conquistato da Monteverde nel 2015 nella graduatoria dei borghi più belli d’Italia del concorso bandito dalla trasmissione televisiva della RAI “Kilimangiaro”.

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Recupero di beni culturali e storici La ricostruzione post-sisma ha interessato anche il recupero di chiese, castelli e di tanti altri beni culturali che, rendendo concretamente palpabile l’antica storia delle popolazioni irpino-sannite, rappresentano oggi anche un utile di natura economica, per la loro capacità di essere attrattori turistici in sinergia con le altre forme di turismo proprie dell’Irpinia. Gli esempi di diligenti restauri conservativi non sono pochi: la medioevale abbazia del Goleto, che dopo un sapiente recupero possiamo ammirare in tutta la sua magnificenza; il convento di S. Francesco a Folloni a Montella, la ricostruzione della Basilica di S. Gerardo a Caposele, il recupero dei castelli di Torella dei Lombardi, Sant’Angelo dei Lombardi, di Morra De Sanctis, Bisaccia, Gesualdo e tanti altri che costellano il paesaggio dell’Irpinia. Visitare l’Irpinia, e in particolare i comuni che al tempo del terremoto costituirono il Cratere, è un’esperienza suggestiva grazie al connubio tra arte e natura, che seppur comune ad altre realtà d’Italia, è qui più che mai affascinante, anche per merito di un’attenta politica di tutela del territorio e di recupero dei centri storici e dei monumenti architettonici. Cultura, natura e fede è il trinomio che ben si addice a quella parte dell’entroterra campano da tutti conosciuta come “la verde Irpinia”. Cultura per la presenza di importanti siti archeologici (Mirabella Eclano, Carife, Flumeri, Castel Baronia, Ariano Irpino, Aquilonia, ecc.) e di numerosi beni architettonici, castelli e chiese, che caratterizzano un po’ tutti i comuni della provincia; natura per l’incomparabile bellezza dei suoi monti, delle sue colline e delle sue valli; fede per la presenza storica di antiche abbazie e storici conventi (Montevergine, Goleto, S. Francesco a Folloni, ecc.) e di santuari come S. Gerardo a Caposele, meta di centinaia di migliaia di pellegrini ogni anno.


NOTE CONCLUSIVE

Mentre stavo completando queste brevi note sul terremoto del 1980, un violento sisma colpiva la zona dell’Italia centrale compresa tra Lazio, Umbria e Marche, radendo al suolo pressoché totalmente i comuni di Amatrice, Accumuli e Arquata del Tronto. Ho pensato in un primo momento, di fronte alle tante vittime e a tanto immane disastro, di interrompere la stesura di questo libro. Ma poi giornali e servizi televisivi mi hanno indotto a desistere dal proposito di tenere chiuse nel cassetto della mia scrivania indagini e analisi che mi avevano impegnato per più di un anno. Ancora una volta, come ai tempi dei terremoti dell’Umbria, dell’Abruzzo, delle Marche e dell’Emilia, non poteva mancare,da parte di giornalisti, politici, qualche accademico e finanche da parte di qualche alto magistrato il riferimento al terremoto dell’Irpinia e a tutto ciò che di negativo, nell’immaginario degli Italiani, esso ha finito per rappresentare. Ma quello che più sorprende è che lo stesso Presidente del Consiglio, condividendo i tanti luoghi comuni, forse perché male informato, abbia incautamente definito l’esperienza del terremoto in Irpinia “uno scandalo squallido e vergognoso” (RTL 102.5 - 1° settembre 2016), ribadendo e ampliando un concetto già da lui affermato nei giorni precedenti (Corriere di Bologna 29 agosto 2016, ecc.). Un giudizio tagliente e ingeneroso, che meriterebbe, quantomeno, una vibrata protesta dell’intera deputazione parlamentare irpina, al fine di rendere giustizia ad una Provincia destinataria di continue e infamanti denigrazioni. Eppure, il Presidente del Consiglio il 28 novembre 2014 è 73


stato in Irpinia, a Morra De Sanctis, per visitare la EMA, oggi ROLLS ROYCE, una fabbrica sorta, guarda caso, grazie al tanto discusso e per alcuni famigerato art. 32 della Legge sulla ricostruzione e considerata dallo stesso Renzi modello esemplare di industrializzazione. Se tanto è, sarebbe doveroso un ritorno in Irpinia del Presidente del Consiglio, affinché si renda conto de visu della “vergogna” della ricostruzione. Immancabile, tra l’altro, è stato da parte della stampa, delle televisioni e dei politici il solito riferimento al Friuli, quale modello virtuoso da seguire sia nella gestione dell’emergenza sia nella fase successiva della ricostruzione. Dopo di che è iniziata, come in tutte le fasi successive ad un disastro, la ricerca famelica ed ossessiva di quelle notizie e di quei dettagli utili a suscitare l’emozione del lettore e la ricerca, legittima e doverosa, ma non sempre eseguita nel rispetto dei canoni dell’obiettività, di eventuali colpe e responsabilità. Poi, nel breve spazio di qualche giorno, si è passati alle tante ipotesi di ricostruzione. Il passato, con tutte le sue ombre e le sue luci, in genere serve come esperienza da non ripetere o da imitare. In tal senso, non vedo motivi per cui non si possa riproporre, adeguandola ovviamente alle mutate situazioni, quella positiva del Commissariato Straordinario del Friuli e dell’Irpinia, grazie al quale, come detto in altra parte del libro, fu brillantemente superata l’emergenza abitativa nell’uno e nell’altro caso. Una struttura che, operando all’unisono con la Protezione Civile, miri in primis alla prevenzione e sia, però, permanente e non istituita dopo ogni disastroso terremoto, affinché all’occorrenza sia pronta ad intervenire e i suoi componenti possano acquisire sul campo, di volta in volta, le competenze utili ad arricchire sempre più il loro bagaglio di conoscenze. Una struttura che, quindi,vada oltre la fase del reinsediamento provvisorio della popolazione e accompagni le amministrazioni comunali nell’opera di ricostruzione delle case, svolgendo 74


il fondamentale ruolo di assistenza tecnica e amministrativa, di vigilanza e di controllo, senza che con questo sia mortificata l’autonomia politica e amministrativa delle amministrazioni medesime. In tal modo, le stesse saranno rese ancor di più impermeabili ad eventuali infiltrazioni di organizzazioni criminali e di lobby affaristiche. Per di più una tale organizzazione permetterebbe anche agli inquirenti di individuare più facilmente eventuali corrotti e concussori. Infine è auspicabile che le università e gli altri centri di studi presenti sul territorio, opportunamente convenzionati dalle regioni interessate, mettano a disposizione dei comuni investiti dal disastro le competenze delle loro risorse umane, dato che il più delle volte la pubblica amministrazione difetta di tali figure professionali. Così facendo, si realizzerebbe anche un notevole risparmio di denaro, che potrebbe essere destinato ad incrementare il budget della ricostruzione del tessuto urbano.

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APPENDICE FOTOGRAFICA

Abbazia del Goleto prima del terremoto

Ingresso

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Abbazia del Goleto dopo il restauro

Ingresso

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Sant’Angelo dei Lombardi, Corso V. Emanuele prima del terremoto

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Sant’Angelo del Lombardi, corso V. Emanuele dopo la ricostruzione

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Morra De Sanctis, ingresso del castello prima del terremoto

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Morra De Sanctis, ingresso del castello dopo i lavori di recupero

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Lioni, via Cesare Battisti dopo il terremoto

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Lioni, via Cesare Battisti dopo la ricostruzione

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Caposele, Materdomini, Basilica di San Gerardo prima del terremoto

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Caposele, Materdomini, Basilica di San Gerardo dopo la ricostruzione

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Art. 32 Legge 219/81, l’area industriale di Nusco-Lioni-Sant’Angelo dei Lombardi

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INDICE

7 Discorso del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi 11 Premessa 15 Alle origini dell’Irpiniagate 22 I pregiudizi 29 Le mistificazioni politiche 34 L’Irpiniagate Industrie del Cratere 36 36 Banca Popolare dell’Irpinia 41 La ricostruzione tra luci e ombre 50 Zamberletti e De vito, due protagonisti 50 Giuseppe Zamberletti 51 Salverino De Vito 55 Considerazioni di politici irpini 55 Antonio Maccanico 56 Ciriaco De Mita 59 Giuseppe Gargani 62 Alberta De Simone 63 Nicola Mancino 65 Colloquio con Gerardo Bianco 67 Bilancio ed eredità 67 Una nuova realtà 68 Insediamenti industriali 69 Settore agroalimentare 91


70 Turismo rurale 71 Valorizzazione dei centri storici 72 Recupero di beni culturali e storici 73

Note conclusive

76

Appendice fotografica

87 Fonti

92


Finito di stampare nel mese di Ottobre 2016 DELTA 3 Edizioni Via Valle, 89/91 • 83035 Grottaminarda (Av) Tel./Fax 0825.426151 www.delta3edizioni.com • e-mail info@delta3edizioni.com Printed in Italy • Stampato in Italia



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