Niccolò Capponi
Al traditor s’uccida La congiura de’ Pazzi, un dramma italiano
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Al traditor s’uccida
Per mio figlio Vincenzio, perchĂŠ in cinque e passa secoli i fiorentini non sono cambiati
Carinzia
Tirolo Bolzano
SVIZZERA
L’Italia nel 1478
Trento Bergamo
Belluno REP. DI VENEZIA Verona
Trieste Brescia VENEZIA Padova DUCATO TORINO DI MILANO MANTOVA FERRARA ASTI Parma M. DEL SALUZZO Bologna Modena M. DI MONFERRATO Ravenna Savona D. DI Imola Faenza SALUZZO GENOVA FERRARA Forlì Rimini REP. DI Pesaro FIRENZE LUCCA GENOVA Pisa Nizza REP. DI FIRENZE Città Ancona Livorno Arezzo di Castello SIENA Perugia Piombino Foligno REP. DI SIENA Terni Pescara L'Aquila TERRITORI ECCLESIASTICI Corsica
DUCATO DI SAVOIA
MILANO
ROMA
REGNO DI NAPOLI
IMPERO OTTOMANO
Tremiti Foggia Andria
Asinara
Bari
NAPOLI
Sassari
Ischia
Salerno
Potenza
Brindisi Lecce
Cagliari
Sardegna
Lipari
(REGNO DI ARAGONA)
Messina PALERMO
Reggio
REGNO DI SICILIA
Sicilia
Catania Ragusa
Siracusa
Pantelleria 0
50
100
150 km
Lampedusa
MALTA
Tra la pace di Lodi (1454) e la pace di Bagnolo (1484), la geografia politica della penisola non ha subito mutamenti di rilievo. Tuttavia, la ribellione di Genova al dominio sforzesco nel 1478 sarebbe stata fattore determinante nello sviluppo della cosiddetta guerra de’ Pazzi. Nonostante l’aspetto uniforme della mappa, l’Italia conteneva una miriade di staterelli variabili per dimensione e livello di indipendenza.
alla Sagrestia vecchia
alla Sagrestia nuova Altare
Altare
Bocca del Coro
Ricostruzione del Coro del Duomo di Firenze, teatro dell’attentato.
Altare
Altare
Nella ricostruzione a sinistra: all’altezza della Sagrestia nuova, Bernardo Bandini ( ) e Franceschino de’ Pazzi ( ) inseguono e colpiscono a morte Giuliano de’ Medici ( ). Nel frattempo, Antonio Maffei ( ) e Stefano da Bagnone ( ) cercano di uccidere Lorenzo ( ), senza riuscirci. Nella ricostruzione a destra: dopo aver ucciso Giuliano, Bernardo Bandini e Franceschino de’ Pazzi si lanciano all’inseguimento di Lorenzo de’ Medici (Franceschino, ferito a un piede e zoppicante, resta indietro). Lorenzo si lascia alle spalle Antonio Maffei e Stefano da Bagnone, e fugge con i suoi all’interno del Coro per rifugiarsi in Sagrestia Nuova. Bandini viene bloccato dai coristi ( ) che gli impediscono di raggiungere Lorenzo.
6
1 2
4
5
3
Legenda Palazzo del Podestà (attuale Palazzo del Bargello)
1 Palazzo Medici
3 Piazza dei Signori
5
2 Duomo
4 Palazzo Pazzi
6 Porta alla Croce
Pianta di Firenze. Stefano Bonsignori, 1584. Anche se questa incisione fu eseguita oltre un secolo dopo la congiura de’ Pazzi, la struttura urbana di Firenze non aveva conosciuto cambiamenti sensibili (la differenza più ragguardevole: l’edificio degli Uffizi, in basso al centro, al posto della chiesa di S. Piero in Scheraggio).
Firenze (Bastignano) Siena
Radda in Chianti
Castellina in Chianti
Gaiole in Chianti
Siena
Confini del Chianti. La mappa mostra la zona maggiormente soggetta alle operazioni militari nell’estate del 1478. Le forze napoletane, pontificie e senesi occuparono, seppur temporaneamente, gran parte del Chianti, creando grossi problemi al regime fiorentino guidato da Lorenzo de’ Medici.
Sommario
Introduzione 15 Degli usi antichi
19
1. Un equilibrio instabile
23
2. Dagli amici mi salvi Iddio
45
3. Tra un duca e un re
65
4. La candela della Vergine
85
5. La pace d’Italia
107
6. Le spire del pitone
129
7. Conviti e cospirazioni
151
8. Ite Missa est
171
9. I nodi al pettine
193
10. Chianti amaro
215
11. Cherchez la femme
237
12. Mamma, li turchi
261
Epilogo 283
Note 291 Bibliografia 321 Glossario 341 Indice dei nomi e luoghi 345
Introduzione
Nel leggere questo libro a qualcuno potrebbe venire in mente il wagneriano L’anello del Nibelungo, anche se, a differenza della suddetta tetralogia musicale, la storia qui esposta non finisce tornando al punto di partenza dopo venti ore di incesti, adulteri, omicidi, sconvolgimenti cosmici e un drago a far da ciliegina sulla torta; il tutto spiegato partendo ab immemorabile. Certo, esclusi draghi e apocalissi, gli avvenimenti legati alla congiura de’ Pazzi contengono una buona dose di fornicazioni – seppur di carattere politico più che coitale – e di morti ammazzati: dopotutto, la vicenda ruota intorno a un accoltellamento compiuto all’interno di una chiesa fiorentina. Tuttavia sarebbe limitante e superficiale ridurre la narrazione a una questione di pugnali a Firenze. Si creda o meno nell’inevitabilità dell’attentato compiuto il 26 aprile 1478 a danno dei fratelli Lorenzo e Giuliano de’ Medici, le cause di questo dramma sono profonde e solo in parte fiorentine; non sono il primo a sostenerlo, il lavoro di scavo fatto da studiosi quali Riccardo Fubini e Marcello Simonetta avendo da tempo messo in luce la complessità di un evento che però nell’immaginario comune continua a essere percepito come il risultato di una lite tra due famiglie: basti pensare al fumetto «Ser Paperone e Lorenzo il Magnifico» (Topolino, n. 1430, 24 aprile 1983), che al mito aggiunge una serie di errori fattuali. Roba da bambini, si potrebbe obiettare; ma non è detto che i fanciulli una volta cresciuti si peritino di verificare il vero dal falso, così che la congiura de’ Pazzi finisce per essere quella dei grulli.
16 Al traditor s’uccida
Per capire la cospirazione fiorentina del 1478 bisogna partire da lontano, perché molteplici sono i tasselli della vicenda culminata nel bagno di sangue una mattina primaverile di oltre cinque secoli fa. L’esito non era scontato, perché in qualsiasi momento il cambio anche solo di un elemento in gioco avrebbe potuto condurre a risultati diversi e, in parecchie occasioni, sembrò che ciò potesse accadere. Furono gli attori sulla scena politica italiana a determinare le varie fasi della vicenda venticinquennale, personaggi che il più delle volte recitavano a soggetto, seguendo un canovaccio fatto di strategie a lungo termine e umori momentanei. Oggi, smaniosi di trovare spiegazioni scientifiche nello studio del passato, molto spesso gli storici dimenticano elementi non razionali del medesimo, tra cui, appunto, le personalità dei singoli protagonisti; com’è anche vero che guardare alla cosiddetta longue durée storiografica non significa ignorare l’importanza dei singoli avvenimenti, sovente casuali, che contribuiscono a creare una catena oggettiva dai molteplici anelli. Questo libro è composto da fatti e persone e mi si perdonerà se ho deciso di limitarmi all’essenziale, anche se ciò ha significato trattare di sfuggita individui ed eventi che altrimenti mi avrebbero costretto a scrivere un lavoro in più tomi. Anche per tale motivo, e in nome della Storia narrata, le note sono di riferimento a fonti utilizzate per tessere la trama del racconto, chiedendo fin da adesso scusa ai vari Quisquilio Vuotasfere per non aver citato i loro – suppongo «fondamentali» – lavori, pur conscio di quanto tempo e fatica siano costati. Parimenti, la messa in rete di parecchi archivi, quali il «Mediceo avanti il Principato» e quelli della Repubblica di Venezia, mi hanno permesso di consultare una notevole quantità di documenti originali senza dover fare chilometri in giro per l’Italia. Il giorno che metteranno on line lo «Sforzesco» avremo fatto tombola. La Storia narrata è raccontare una storia, il che implicitamente significa valorizzare la componente letteraria dell’esposizione proprio per sottolinearne la parte scientifica. I rischi non mancano e, nel caso della congiura de’ Pazzi, si concretizzano nella tentazione di enfatizzarne troppo gli aspetti politici e diplomatici, dimenticando che il passato è fatto da persone in carne e ossa. Proprio per questo motivo, il filo conduttore del libro non è dato dai grandi personaggi quanto da un individuo mai esistito; o perlomeno non nel senso stretto del termine. Cecco
Introduzione 17
d’Andrea, detto il Veggia, è un’invenzione, basata però su documenti e ricordi: tipi come il Veggia ne ho conosciuti tanti durante la mia infanzia e non credo che il carattere del contadino toscano sia mutato più di tanto nel corso dei secoli. Il mio è un omaggio a tutti i Cecco d’Andrea del passato, che spuntano dalle carte d’archivio prima di ritornare nell’oblio dei secoli. Non avrei mai potuto portare a termine questo lavoro senza l’aiuto di tantissime persone, che desidero ringraziare, anche se ignare di avermi dato una mano. Grazie infinite a: Maria Josep Balsach, Humfrey Butters, William Connell, Elizabeth Cropper, Charles Dempsey, Kelly DeVries, Lorenzo Fabbri, Arthur Field, Massimiliano Franci, Margery Ganz, Richard Goldthwaite, Maria Teresa e Piero Guicciardini, James Hankins, i defunti Vincent Ilardi e Francis W. Kent, Akiko e Tadanori Mabuchi, Sergio Mantovani, Gaspare Marino, Alessandro Marzo Magno, Filippa e Ippolita de’ Medici, Luca Molà, Marco Morin, Caroline Murphy, Domenico del Nero, Ciro Paoletti, Caterina e Cosimo de’ Pazzi, Cristiano Piccinini, Francesca Riario Sforza, Claudia Ricasoli Firidolfi, i compianti Nicolai e Ruth Rubinstein, Frederick Schneid, Ludovica Sebregondi, Adele Valsesia, Lorenzo e Ludovica Villoresi, e Louis Waldman. Il personale dell’Archivio di Stato di Firenze è stato prodigo d’aiuti, come pure quello dell’Archivio di Stato di Siena, della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e della Biblioteca Riccardiana di Firenze. Per tale ragione piego il ginocchio dinanzi a Silvia Alessandri, Silvia Castelli, Giovanna Lazzi, Maria Letizia Sebastiani e Carla Zarrilli. Un ringraziamento speciale va a Marcello Simonetta, non solo per le abbondanti trascrizioni documentarie, evitandomi così salassi di tempo e denari, ma soprattutto per gli innumerevoli e proficui scambi di idee, pur con tutte le naturali e necessarie diversità di vedute storiografiche (ci unisce, tuttavia, lo spregio per i palloni gonfiati). Aurelio Pino e la mia editor Serena Casini del Saggiatore hanno sopportato con pazienza biblica i supplementi d’indagine che più volte hanno ritardato la consegna del manoscritto, oltre a darmi utili consigli per la produzione di questa mia mortadella libraria. Grazie anche a Laura Sansotera, che ha dovuto fare i salti mortali sui trampoli per realizzare le mappe e l’inserto delle immagini. Quando in difficoltà, tutto l’aiuto possibile mi è venuto da Mary V. Davidson, capace di dare dritte e spinte senza neanche il
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bisogno di linee telefoniche o fibre ottiche, e per questo le sono eternamente grato. Sarebbe ingiusto, però, non dare il dovuto riconoscimento a tutti gli studiosi che con le loro ricerche mi hanno risparmiato fatiche enormi, fornendomi al contempo utilissime indicazioni archivistiche e bibliografiche. Chapeau e grazie di cuore a ognuno di loro. Infine vorrei ricordare mia sorella Tessa e mio fratello Sebastiano, con le loro famiglie e progenie, mio fratello Piero, i miei genitori, mia moglie Maria, le mie figlie Francesca e Ludovica. Ultimo, ma solo in ordine di tempo, Vincenzio «Pop» Capponi, che a due anni deve sopportare uno storico come padre. Questo libro è dedicato a lui.
Degli usi antichi
Unità di tempo Nell’Italia rinascimentale il calcolo delle ore giornaliere avveniva secondo quella che poi si sarebbe definita «ora d’Italia», basata sulla luce solare, e che differiva dalla ormai universale «ora di Francia», impostata sulla rotazione terrestre. Il giorno cominciava un’ora dopo il tramonto, per cui, tanto per fare un esempio, le 24 potevano oscillare dalle cinque del pomeriggio fino alle 9 di sera, a seconda delle stagioni. Per comodità, ho riportato tutto al calcolo temporale odierno. L’inizio dell’anno solare era variabile, ma le due date più comuni erano a Nativitate (il Natale), o ab Incarnatione (il 25 marzo), la festa dell’Annunciazione, per esempio, stabilendo fino al 1750 l’inizio dell’anno a Firenze. Anche in questo caso ho ridotto tutte le date all’uso moderno, con l’inizio dell’anno al 1˚ gennaio.
Monete e unità di misura In Italia, come nella maggior parte dell’Europa occidentale, vigeva il sistema monetario carolingio, basato originariamente sulla libbra d’argento e le sue suddivisioni, il solidus e il denarius, a ragione di 12 denarii per solidus e 20 solidi per libra. Nel Quattrocento italiano, la lira, il soldo e il denaro costituivano la base di tutte le valute di taglio superiore (la lira, va
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aggiunto, ridotta a moneta di conto), tipo il fiorino a Firenze o il ducato a Venezia. Il numero di lire poteva variare, in genere il fiorino ne aveva quattro e il ducato sei-sette. Il peso valutario delle varie divise, oltre che dal loro valore intrinseco, era dato dalle quotazioni sul mercato dei cambi: per una serie di motivi, nel corso del secolo xv il fiorino si sarebbe deprezzato di circa un terzo rispetto al ducato. Variabili erano anche le unità di misura, per esempio la libbra fiorentina pesava intorno ai 339 grammi, mentre i veneziani avevano addirittura la libbra leggera e quella pesante. A complicare le cose, le misure lineari o di superficie non erano mai le stesse, non di rado pochi chilometri tra un luogo e un altro erano sufficienti per creare una diversificazione sensibile. Anche in questo caso, ho ridotto tutto all’odierno sistema decimale.
Nomi e denominazioni Nell’uso generale la Repubblica e il Comune di Firenze sono sinonimi, ma in realtà la Repubblica fiorentina ebbe il suo inizio istituzionale solo nel 1494 (benché il termine fosse usato anche in precedenza). Per tale ragione, e nonostante la struttura repubblicana dello stato, ho usato sistematicamente la parola Comune in riferimento a Firenze. Per quanto riguarda Venezia ho impiegato spesso il soprannome di Serenissima. I milanesi e le truppe al loro servizio sono frequentemente chiamati sforzeschi, o ducali, per via degli Sforza, duchi di Milano. I nomi propri sono stati ridotti all’uso più comune. Per concessione di Filippo Maria Visconti, Jacopo Piccinino aveva il diritto di usare il cognome della dinastia milanese e lo stesso aveva ricevuto da Alfonso d’Aragona. Tuttavia, nelle cronache e nei documenti dell’epoca, Piccinino prevale in modo assoluto. A Firenze era uso chiamare le persone con il patronimico oltre che con il cognome, per evitare confusioni con omonimi della stessa stirpe. Filippo Strozzi era chiamato Filippo di Marco Strozzi, per distinguerlo da un paio di cugini con lo stesso nome. Lorenzo il Magnifico era spesso definito semplicemente Lorenzo di Piero, senza nemmeno menzionare la famiglia di origine. Quando, anche andando indietro di svariate
Degli usi antichi 21
generazioni, il patronimico non fosse stato sufficiente a individuare una persona, si faceva ricorso a un soprannome: Cosimo il Vecchio di Giovanni de’ Medici, per distinguerlo dal suo nipote e omonimo. Per comodità ho usato semplicemente nomi e cognomi, salvo nei casi in cui il patronimico abbia un’utilità entro la struttura del racconto.
1. Un equilibrio instabile
Cecco d’Andrea, detto il Veggia, era sempre vissuto a Bastignano, una tozza casa in pietra a cavaliere di un poggio sovrastante la vallata attraversata dal fiume. Il soprannome di Veggia gli veniva dal padre, che a sua volta l’aveva ereditato dal proprio genitore; quanti Veggia vi erano stati prima, nessuno lo sapeva, né era nota la ragione del nomignolo. Neppure si conosceva da quanto tempo i Veggia avevano abitato a Bastignano, ma doveva essere stato da parecchio visto che nel contratto tra Cecco ed il possessore dell’edificio questi veniva denominato domus Veggiae. Il podere annesso era modesto, forse duecento pertiche dal capanno nel bosco alla strada bassa, a destra e a sinistra delimitato dal fosso e dal borro. Ma era bello, per come la roba ci cresceva, e ai Veggia non era mai mancato nulla, neppure negli anni di magra. Ligozzo, il nonno di Cecco, lo ripeteva sempre: «Serba, che ’un ce n’è mai». E i Veggia avevano sempre serbato e viepiù imparato a serbare. Non si poteva mai sapere cosa sarebbe potuto succedere da un anno all’altro o persino da una settimana all’altra. D’estate, il vento di Siena poteva far seccare l’uva, o quello d’Arezzo portare l’acqua e farla marcire (lo sapevano tutti che da quei due posti non ci veniva niente di buono). Per questo i Veggia avevano sempre badato al loro e vendemmiato prima che potevano, anche a rischio di portare a casa uve acerbe e fare vini «tristi et cattivi» – come si lamentava il padrone – che nemmeno il governo riusciva a fare più amabili. Gli altri contadini scuotevano la testa nel vedere quelli di Bastignano tenere i vini nei barili – le veggie, e che fosse questa l’origine del so-
24 Al traditor s’uccida
prannome? – da un anno all’altro senza farne profitto immediato come sarebbe stato logico. Ma Cecco sapeva che il vino dei su’ galestri durava e s’ingentiliva nel durare, non rimbambendo come certi vini quando, come accadeva a tanti cristiani, diventavan vecchi. E intanto i Veggia serbavano negli anni di grassa, in attesa di quelli di magra quando i prezzi salivano e i sensali bussavano all’uscio. Allora più importante ancora era l’avere per se stessi. Non si poteva mai sapere ciò che Dio aveva in serbo. * Non è detto che le polveriere debbano per forza saltare in aria. Certo, sederci sopra non è salubre né consigliato e, in genere, le persone intelligenti non giocano a passarsi cerini accesi in mezzo a barili di polvere da sparo. Alla fine degli anni sessanta del Quattrocento l’Italia era una polveriera e, benché – o forse proprio perché – relativamente in pace da un quindicennio, l’acqua nella pentola politica stava cominciando a riscaldarsi. In realtà, questa situazione di pace era l’eccezione più che la regola: fino alla metà degli anni cinquanta, nonostante continui ed effimeri accordi e tregue, la penisola era stata per un trentennio il parco giochi di Marte; la pace di Lodi del 1454 era scaturita più dalla stanchezza dei vari contendenti che da un effettivo desiderio di quiete, sebbene gli equilibri politici italiani avrebbero garantito la sopravvivenza dell’accordo e della difensiva Lega Italica che ne era derivata. Tuttavia le tensioni tra i vari stati erano solo sopite, nessuno di essi disposto a mettere in pericolo la propria sicurezza territoriale o alienare sacrosanti e consolidati diritti, anche quando teorici o controversi. Quest’ultimo aspetto si applicava al più recente dei potentati italiani: il ducato di Milano degli Sforza. Giuridicamente, la concessione di questo titolo era prerogativa dell’imperatore e da un punto di vista squisitamente tecnico con la morte senza eredi diretti legittimi del duca Filippo Maria Visconti, nel 1447, Milano era tornata nel possesso dell’allora re dei Romani Federico d’Asburgo, dal 1452 imperatore come Federico iii. Questi, però, non aveva forza sufficiente di far valere la propria volontà per quanto riguardava Milano, all’indomani della morte del Visconti di-
1. Un equilibrio instabile 25
venuta la Repubblica ambrosiana. La debole vita triennale della Repubblica terminò nel febbraio 1450 per mano di Francesco Sforza, marito di Bianca Maria Visconti, figlia illegittima del duca Filippo Maria. Lo Sforza era uno dei più rinomati condottieri d’Italia e la sua conquista manu militari del ducato milanese gli dava una legittimità di fatto ben più forte di tutte le pretese successorie che potevano derivargli dal matrimonio o dal riconoscimento imperiale della sua posizione. In effetti, nonostante molteplici tentativi, Francesco Sforza non riuscì mai a ottenere l’ambito titolo ducale dall’imperatore, legalmente la sua signoria su Milano rimanendo in uno stato di limbo, anche perché i pretendenti al ducato non mancavano certo: oltre al succitato e legittimo titolare Federico iii, c’erano gli Orléans, in virtù del matrimonio del 1387 tra Luigi d’Orléans e Valentina Visconti, e Alfonso v d’Aragona, per via delle presunte ultime volontà di Filippo Maria Visconti. Per quanto priva di pretese, tuttavia non meno aggressiva, la Repubblica di Venezia aveva le sue mire su Milano, accogliendo quindi con molta malagrazia l’insediarsi dello Sforza (che come condottiere aveva fatto le scarpe alla Serenissima più d’una volta). Significativamente, Federico iii, la Repubblica di Venezia e il re di Francia Carlo vii non si degnarono di rispondere alle lettere in cui lo Sforza annunciava il suo avvento al potere, e la questione della successione milanese si trascinò, con maggiore o minore intensità, per oltre un secolo. Oltretutto, nonostante Francesco e i suoi successori si fregiassero del titolo ducale, gli Sforza riuscirono a ottenere la formale e legale investitura cesarea di Milano solo alla fine del Quattrocento e a caro prezzo. Nell’immediato, all’interno del contesto italiano, gli altri governi della penisola dovettero tenere in conto, anche se obtorto collo, del possesso effettivo del ducato di Milano da parte dello Sforza. Costretto a fare buon viso a pessimo gioco, il papa Niccolò v fu il primo a riconoscere il nuovo dominio sforzesco, sostenendo il potere milanese vicino e non i diritti di un imperatore lontano. Oltretutto, nonostante la potenza delle sue armi, lo Sforza era una minaccia molto inferiore alla stabilità politica italiana di quello che erano stati i Visconti. La legittimazione del suo dominio sui territori del ducato derivava in parte dal mandato datogli dalle comunità di Milano e Pavia – che fin dal dodicesimo secolo si erano autoinvestite dell’autorità cesarea – e non, come per i suoi prede-
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cessori, dalla formale investitura del dominio e dall’essere anche Vicari Imperiali, titolo con cui Gian Galeazzo Visconti aveva giustificato la sua politica egemonica e di conquista nel Nord e Centro Italia, strategia ripresa dal figlio Filippo Maria benché mai detentore della vicarìa goduta da suo padre. La decisione dello Sforza di abbandonare la politica viscontea non derivava solo dalla mancanza di quella legittimità giuridica di cui avevano goduto i duchi di Milano prima di lui, ma da considerazioni pratiche. L’esercito sforzesco era un solido amalgama di soldati esperti, spesso legati tra loro da vincoli d’origine territoriale o famigliare. Per esperienza, Francesco sapeva bene che per tenere unito un esercito ci voleva denaro, molto denaro – e di più ancora ne serviva per far funzionare la macchina pubblica. Pur ricorrendo, come avevano fatto i Visconti, alla concessione di feudi come compenso per servigi svolti o per legare a sé persone o condottieri di vaglia, lo Sforza aveva un continuo bisogno della necessaria liquidità per far fronte alle ingenti spese statali, senza dover ricorrere a onerose concessioni verso individui o istituzioni a scapito del potere centrale, già de jure – se non all’atto pratico – inficiato dalla politica del signore di Milano di stringere capitolazioni con quelle comunità del suo dominio, anche piccole, soggette per diritto all’autorità imperiale. Seppure non in maniera continuativa, Firenze era sempre stata tenace avversaria dei Visconti; ma proprio quella città era per Francesco una grassa gallina dalle uova d’oro. Invero, lo Sforza disponeva di un bene di cui una certa persona abbisognava disperatamente, individuo che a sua volta poteva venire incontro alla necessità di Francesco: il bene era l’esercito e l’individuo Cosimo, il Vecchio, de’ Medici. I rapporti tra il Medici e lo Sforza erano di antica data, iniziati nel 1434 quando Cosimo, allora in esilio a Venezia, aveva sopperito ai bisogni finanziari dello Sforza, al servizio dei veneziani, a ragione di 30 000 ducati.1 Tra i due uomini era nata una sincera amicizia – non da intendersi nel senso moderno come una disinteressata comunanza d’anime, quanto una condivisione di comuni intenti e obiettivi. Cosimo aveva tutto l’interesse a foraggiare finanziariamente lo squattrinato Francesco, in quanto questi non solo aveva un esercito su cui i fiorentini (e soprattutto i Medici) potevano fare affidamento, ma anche perché il Medici considerava Milano un baluardo contro l’espansione di Venezia nella Pianura Padana. Sebbene
1. Un equilibrio instabile 27
la Serenissima fosse stata al fianco di Firenze nella lotta contro i Visconti, l’espansione veneziana nel milanese dopo la morte di Filippo Maria Visconti aveva turbato non poco i sonni dei fiorentini, permettendo così a Cosimo d’argomentare che era adesso necessario allearsi con Milano, altrimenti – per dirla con il Guicciardini – «se cosi non si faceva, i Viniziani si facevano sanza dubio signori di quello stato, e successivamente in breve di tutta l’Italia».2 In altre parole, meglio avere dalla propria un signore bisognoso di alleati per preservare la sua posizione, che un’aggressiva, autosufficiente e maledettamente capace repubblica sorella. Se Cosimo era riuscito a imporre la sua politica ai fiorentini, tuttavia non era riuscito ad averli tutti dalla sua parte: esisteva comunque un gruppo di vecchi oligarchi che mal sopportava l’azione del Medici, convinti – un po’ per ideologia e un po’ per ragioni pratiche – che l’espansione di Venezia nel nord Italia convenisse agli interessi di Firenze. Sia Cosimo sia Francesco erano ben coscienti della vulnerabilità del neonato regime sforzesco, e l’azione del Medici si rivelò determinante per la sopravvivenza del «ducato» di Milano. Nonostante i dubbi dello Sforza, preoccupato delle pretese francesi sui suoi domini e su Genova, Cosimo lo convinse a cercare un’alleanza con Carlo vii di Valois, con l’obiettivo di contrastare le mire del duca di Orléans e del duca di Savoia e creare un baluardo contro il blocco formato da Venezia e dal regno di Napoli, appoggiato da Federico d’Asburgo. Per Venezia, che non aveva affatto digerito l’avvento di Francesco a Milano, l’azione diplomatica mediceo-sforzesca fu un rospo ancor più difficile da ingoiare. I veneziani individuarono subito in Firenze il «ventre molle» della compagine avversaria e vibrarono alla città gigliata un deciso colpo sotto la cintura. Come ci riferisce il diarista Marin Sanudo: «A dì primo zugno [1451] fo preso di cazar di questa città nostra e altre nostre terre e luogi tutti li Fiorentini, […] et questo fo fatto perché li ditti Fiorentini agiutavano non solum come colegati, ma etiam di danari il Ducha Francesco»,3 e di lì a pochi giorni Alfonso v «il Magnanimo» d’Aragona, re di Napoli, emise eguale editto. A loro giustificazione, i veneziani sostenevano che lo Sforza fosse in procinto di attaccarli, ma era chiaro che nel mettere Firenze sotto pressione miravano a indebolire la posizione di Cosimo de’ Medici, dando così fiato all’opposizione interna in città (tra l’altro, dal decreto d’espulsione erano esclusi i fuoriusciti antimedi-
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cei residenti nei territori della Serenissima) e quindi separare la repubblica gigliata da Francesco. In questa occasione, però, i veneziani si mostrarono cattivi psicologi, il decreto di espulsione non solo fallendo nel piegare i fiorentini ma altresì cementando una formale alleanza tra Firenze e lo Sforza. Presumibilmente i veneziani non inserirono nella loro equazione politica l’antico affetto dei fiorentini per i francesi, unito al timore per il pericolo rappresentato da Alfonso. Fin da quando si era stabilmente insediato a Napoli nel 1443, l’Aragonese aveva tentato di allargare la sua sfera di potere oltre il meridione d’Italia, attaccando nel 1447 Piombino, tenuta dal filofiorentino Rinaldo Orsini, con la scusa di venire in aiuto al suo alleato Filippo Maria Visconti. Era chiaro a tutti che il re voleva estendere il suo dominio nella Toscana meridionale, con l’aggiunto intento di provocare sollevazioni nei domini di Firenze: Pisa in particolare, conquistata dai fiorentini nel 1406, era un focolaio di simpatie aragonesi e la presenza di Alfonso in Maremma avrebbe potuto trasformare ciò in una ribellione in piena regola. Nonostante le pressioni del re, accompagnate da scorrerie fin sotto le porte di Siena, i senesi decisero che l’opzione migliore fosse tenere il piede in due staffe, rimanendo «in buona pace, et amicitia co’ fiorentini, et che all’esercito del Re non si mancasse di dar vettovaglie mentre che stava nel Dominio di Siena»,4 benché alcuni di loro brigassero per un’alleanza con l’Aragonese. Problemi logistici e la solenne legnata inflittagli sotto Piombino dai fiorentini comandati dal mercuriale Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini, costrinsero Alfonso a ritirarsi; tuttavia Firenze era stata avvisata: non solo dell’incombente pericolo aragonese, ma anche della necessità di non indispettire i senesi. L’importanza di quest’ultimo fattore divenne evidente quando riesplosero le ostilità nella primavera del 1452. Il 16 maggio i veneziani passarono il confine, i milanesi aspettandosi l’attacco ma al contempo dovendo anche fronteggiare a occidente il marchese del Monferrato, sostenuto dal duca di Savoia. Le cose presero subito una brutta piega quando Alessandro Sforza riportò una sonora sconfitta nei pressi di Lodi, provocando come conseguenza il timore di ribellioni in tutta la Lombardia, mentre Francesco Sforza era costretto ad attestarsi a Quinzano d’Oglio, una settantina di chilometri da Milano. Falliti i tentativi di staccare Firenze da Milano, il 2 giugno Alfonso dichiarava guerra ai fiorentini, inviando suo
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figlio Ferrante, duca di Calabria, ad attaccarli da sud passando per il Senese. Ancora una volta la politica conciliatrice di Firenze fece sì che Siena, pur non potendo rifiutarsi di rifornire l’esercito napoletano, rimanesse inizialmente neutrale – nonostante gli aragonesi spadroneggiassero nel suo dominio. Ai primi di luglio, affiancato da Federico da Montefeltro conte d’Urbino, Ferrante penetrò in Toscana passando per il Perugino e mise sotto assedio l’avamposto fiorentino di Foiano della Chiana, che però resistette un mese e mezzo prima di capitolare. Dipoi, il duca s’arenò per altre settimane di fronte alle fortezze fiorentine di Castellina e Brolio, nel Chianti, riuscendo solo a catturare il castelletto di Rencine, sul confine a sudovest tra Siena e Firenze, prima che l’arrivo della stagione inclemente lo costringesse a ritirarsi nei quartieri invernali avendo concluso poco all’infuori dei danni alle campagne dei nemici, per non parlare di quelle dei neutrali senesi. Lo Sforza aveva tenuto botta e così pure Firenze, il sistema fortificato della città gigliata reggendo bene all’urto dell’esercito aragonese. I danni maggiori subiti dai fiorentini erano stati causati dalle scorrerie dei nemici, che almeno in un’occasione erano arrivati quasi a ridosso delle mura cittadine; ma per il resto gli aragonesi, con non molte armi ossidionali da fuoco a loro disposizione, erano riusciti a far poco: secondo la testimonianza di un osservatore senese, le bombarde piazzate contro la Castellina si erano rivelate inefficaci, mentre gli assedianti erano di continuo sottoposti alle sortite dei difensori (che, a quanto pare, sarebbero riusciti con un trucco a sottrarre a Ferrante della preziosa polvere da sparo) oltre a subire continue defezioni nel loro campo.5 Gli insuccessi sono da attribuirsi alla scarsa esperienza militare di Ferrante, nonostante la potenza dell’esercito a sua disposizione (forte di 11 196 cavalli e 5100 fanti, secondo un inviato sforzesco a Roma),6 come alla strategia bellica di Alfonso d’Aragona: mettere Firenze sotto pressione in modo da provocare una crisi politica e una rottura dell’asse Sforza-Medici. L’esperienza fatta in Toscana sarebbe risultata preziosa in futuro per Ferrante, benché la logica bellica dell’epoca avrebbe contribuito a relegare nel dimenticatoio alcune fondamentali lezioni. La ripresa delle operazioni nella primavera successiva coincise con importanti sommovimenti in campo politico e militare. I fiorentini riuscirono a convincere Renato d’Angiò, il pretendente al trono di Napoli
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esautorato da Alfonso, a far valere i suoi diritti dinastici calando in Italia; e sebbene dal punto di vista militare Renato riuscisse a combinare ben poco, al contempo convinse il marchese del Monferrato e il duca di Savoia ad abbandonare il conflitto. Non più pressato a occidente, Francesco Sforza ebbe mano libera contro i veneziani, battendoli decisamente sotto Ghedi, a sudest di Brescia, il 15 agosto. Poco era servito alla Serenissima che Siena, non resistendo più alle pressioni aragonesi, avesse accettato di entrare nella Lega tra Venezia e Napoli, la riluttanza dei senesi a impegnarsi fino in fondo creando seri problemi logistici a Ferrante d’Aragona, costringendolo ad abbandonare le poche conquiste fatte e ritirarsi assieme a Federico da Montefeltro nella sua base maremmana di Castiglion della Pescaia, prima di rientrare a Napoli con le pive nel sacco. I contendenti erano ormai esausti e per di più era giunta nuova della presa di Costantinopoli a opera degli Ottomani. La notizia non era sconvolgente solo dal punto di vista psicologico – sebbene poco più che l’ombra della sua gloria ormai tramontata, la capitale dell’Impero romano d’Oriente possedeva ancora un grosso cachet ideale e culturale – ma rimescolava le carte della politica internazionale. Senza più la spina bizantina nel fianco, il sultano Maometto ii poteva adesso dedicarsi in toto alla conquista degli altri territori in Oriente ancora in mano cristiana. Alla luce di questi sviluppi, Venezia aveva mille ragioni per desiderare la pace in Italia e Francesco Sforza eguale interesse nell’assecondarla. In questa situazione s’inserì abilmente papa Niccolò v, che fin dal 1451 aveva cercato inutilmente di portare l’armonia tra gli stati della penisola, scontrandosi però con gli interessi dei vari potentati. Il pontefice era motivato da un sincero desiderio di pace, che avrebbe poi sfruttato per incanalare gli sforzi dei belligeranti in una crociata contro i turchi, e dalla consapevolezza che la divisione dell’Italia in due blocchi contrapposti prima o poi avrebbe provocato un intervento straniero con danno per tutti, compresa la Santa Sede che tra l’altro doveva pure fare i conti con le prepotenze del confinante Alfonso d’Aragona. Visto l’esaurimento dei contendenti, Niccolò adesso ebbe gioco più facile nel convincerli a dare spazio alla diplomazia piuttosto che alle armi, ma le diverse pretese sul tavolo negoziale più d’una volta fecero quasi fallire le trattative. Alla fine, il 9 aprile 1454, Milano e Venezia firmarono a Lodi il trattato di pace che riconosceva la posizione dello Sforza e al contempo confermava al-
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la Serenissima alcune sue recenti conquiste in Lombardia (in particolare Crema). A loro volta Firenze e altri stati minori si affrettarono a ratificare la pace, mentre il duca di Savoia e il marchese del Monferrato stipularono accordi separati con Milano. Tirate le dovute somme, Francesco Sforza era quello che più aveva guadagnato dall’accordo, visto che adesso si vedeva riconosciuto come successore di Filippo Maria Visconti e, a detta del Sanudo, «fatta la paxe il Duca si cavò la bareta rengraciando Idio che ’l era uscito di servitù».7 All’inizio Alfonso d’Aragona si rifiutò ostinatamente di aderire alla pace di Lodi, indispettito dall’essere stato escluso dalle trattative e oltretutto desideroso che i fiorentini gli pagassero le spese di guerra. L’umore dell’Aragonese sarebbe cambiato di lì a poco quando Venezia, Milano, Firenze e Bologna si unirono in una lega difensiva, Alfonso rendendosi conto che la «pace universale» propugnata dal pontefice poteva essergli vantaggiosa – secondo la massima che è bene tenersi prossimi gli amici e ancor più i nemici – purché non gli impedisse di perseguire i suoi progetti egemonici. Eppure la Lega era stata messa in piedi proprio per evitare questo tipo di situazioni e conservare lo status quo territoriale in Italia; pertanto è alquanto contraddittorio che Alfonso abbia accettato di partecipare all’alleanza a condizione che non vi entrassero Genova, città che riteneva sua di diritto, Faenza e Rimini, causa alcuni contenziosi con i signori di detti luoghi. Tuttavia, l’Aragonese si rese conto che, viste le pretese francesi sul regno di Napoli, gli sarebbe convenuto avere dalla sua i maggiori potentati italiani. La nascita della Sacratissima (così definita dal papa che ne era stato fatto il capo nominale) Lega Italica rispondeva alle esigenze interne ed estere dei singoli stati: Francesco Sforza aveva bisogno di consolidare il suo dominio nel ducato di Milano; Venezia era finanziariamente esaurita e preoccupata dalla minaccia turca; egualmente stremata in quanto a quattrini, Firenze doveva fare i conti con dissidi interni, una parte del regime mediceo propugnando la tradizionale alleanza con Venezia piuttosto che quella con Milano, sostenuta invece da Cosimo de’ Medici; Alfonso d’Aragona doveva vedersela con le nemmeno tanto velate simpatie filoangioine di gran parte della nobiltà napoletana; il papa non voleva ridursi a essere il cappellano di uno dei potentati. In realtà, lo spirito della Lega era quello del quis custodiet ipsos custodes, o, per dirla con Vin-
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cent Ilardi: «In nessun modo la Lega era un’organizzazione sovrastatale, quanto una semplice alleanza tra stati sovrani con tutte le debolezze normalmente insite in organizzazioni di questo tipo».8 I potentati italiani avevano fatto di necessità virtù, ma questo non voleva dire che avessero perso il vizio di farsi le scarpe a vicenda qualora si presentasse l’occasione. Ma per il momento conveniva a tutti fare sfoggio di unità, e l’esercito messo insieme sulla carta dagli aderenti alla lega – ventiduemila cavalli e ottomila fanti in tempo di pace; trentaquattromila e sedicimila in caso di conflitto – era un deterrente sufficientemente robusto contro coloro che d’oltralpe avessero intenzioni bellicose. La creazione della lega tacitò l’opposizione interna a Firenze ma creò altri problemi per Cosimo de’ Medici. Senza più la scusa della situazione d’emergenza creata dalla guerra, era difficile per il regime continuare a sostenere la necessità della legislazione straordinaria che aveva condizionato la vita politica fiorentina per circa un ventennio e questo voleva dire la possibilità che dalle borse elettorali – a Firenze la maggioranza delle cariche pubbliche venendo estratte a sorte – emergessero governi ostili ai Medici. Questi erano giunti al potere nel 1434 proprio grazie a una fortunosa composizione del bimestrale esecutivo e da quel momento in poi avevano fatto di tutto perché la situazione non si ripetesse, stavolta a loro danno. Dal canto suo, Francesco Sforza era preoccupato che un eventuale indebolimento del regime mediceo ripristinasse l’asse Firenze-Venezia, come desiderato da quegli oligarchi fiorentini, capeggiati da Neri Capponi, sostenitori di un assetto politico più tradizionale rispetto al «governo stretto» di Cosimo e in questo appoggiati dalla maggioranza dei cittadini che formavano i consigli legislativi del Comune. Pur riconoscendo il pericolo che una restaurata libertà politica rappresentava per il suo regime, all’inizio il Medici si mostrò decisamente contrario a colpi di mano, nonostante gli incitamenti dei suoi seguaci e dello stesso Sforza: «Che vi diate buona voglia, ché non è tanto pericolo quanto comprehende è stato ditto costà [a Milano]», avrebbe detto a Francesco l’ambasciatore milanese a Firenze riportando le parole di Cosimo.9 In realtà il Medici era preoccupato quanto lo Sforza, ma, da politico consumato, sapeva attendere il momento giusto per colpire e farlo con tutti i crismi della legalità costituzionale. L’occasione capitò nel 1458. L’anno prima era morto Neri Capponi lasciando l’opposizione senza una guida con il necessario peso politico
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a contrastare i progetti di Cosimo. In una situazione d’incertezza economica, il 28 giugno dalle borse elettorali uscì il nome di Luca Pitti come Gonfaloniere di Giustizia (capo dell’esecutivo) per il bimestre successivo. Il Pitti era uomo ambizioso e un filomediceo di ferro, come dimostrò subito proponendo una radicale riforma della costituzione attraverso la creazione di un nuovo consiglio legislativo con ampi poteri per ciò che riguardava gli scrutini elettorali, la tassazione, la guerra e le elezioni. Quando i tentativi di forzare il passaggio della riforma per via ordinaria fallirono – grazie anche all’intervento dell’arcivescovo di Firenze Antonino Pierozzi, che minacciò di scomunica chiunque cercasse d’imporre un voto palese piuttosto che segreto – Pitti propose la convocazione di un parlamento per creare una Balìa che traghettasse l’agognata riforma. A scanso di rischi, i primi di agosto il regime eseguì l’arresto di alcuni membri dell’opposizione e il giorno designato per la convocazione del parlamento, con la scusa di evitare disordini, fece circondare l’attuale piazza della Signoria dai soldati forniti da Astorre Manfredi di Faenza e da Francesco Sforza, assieme a molti cittadini filomedicei armati fino ai denti. Prevedibilmente, la mozione del governo passò e la Balìa che emerse dalla consultazione popolare ricevette i poteri necessari per esautorare le vecchie assemblee legislative mentre fu data l’autorità a un nuovo consiglio legislativo – i Cento –, i cui ranghi comprendevano non solo acclarati seguaci di Cosimo, ma anche cittadini di spicco che, se non proprio favorevoli al regime, non gli erano neppure ostili. Con un accorto uso della foglia di fico legale rappresentata dal parlamento, il Medici era riuscito a consolidare il potere proprio e della sua famiglia, al punto che papa Pio ii l’avrebbe definito «sovrano in tutto fuorché per il nome e le pompe».10 Mentre a Firenze si consumava una rivoluzione politica, in Italia altri avvenimenti andavano minacciando l’equilibrio venutosi a creare con la pace di Lodi. Per frenare le ambizioni di Alfonso d’Aragona, dopo molte titubanze Genova si era data in signoria al re di Francia Carlo vii, che nel maggio 1458 vi aveva installato come governatore Giovanni d’Angiò, figlio del pretendente al trono di Napoli, Renato. Questo sviluppo inizialmente impensierì Francesco Sforza, il quale ripetutamente aveva cercato d’evitare che i francesi s’installassero nella città ligure, che considerava rientrare nella propria sfera d’influenza. Tuttavia lo Sforza seppe pazientare, mentre il suo amico Cosimo de’ Medici lo esortava a adottare una politica fi-
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lofrancese, visto che si dovevano temere più le ambizioni di Alfonso che quelle di Carlo, e anche la maggioranza dei fiorentini aveva in odio l’Aragonese in virtù dei vecchi legami tra Firenze e la Napoli angioina (Cosimo riteneva anche poco lungimirante che lo Sforza avesse promesso sua figlia Ippolita al nipote e omonimo di Alfonso invece che a Giovanni d’Angiò «homo et signore humano et da bene»; alla luce di certi avvenimenti successivi, è il suggerimento del Medici ad apparire poco previdente).11 Vista la volatile situazione esistente in città, durata fino alla creazione della Balìa l’agosto successivo, Cosimo aveva tutte le ragioni per invocare la prudenza e i fatti presto gli diedero ragione: la spedizione militare organizzata da Alfonso contro Genova e appoggiata dalla fazione cittadina antifrancese (oltreché, in segreto, dallo Sforza) si dissolse non appena giunse notizia della morte del re aragonese, avvenuta il 27 giugno. Il decesso mise in moto una serie di eventi che avrebbero messo a dura prova l’assetto creato dalla pace di Lodi, nonché la tenuta della Lega Italica. Non avendo Alfonso discendenza legittima, l’Aragona, la Catalogna, la Sicilia e la Sardegna passarono automaticamente a suo fratello Juan. Diversa fu la sorte del regno di Napoli, che il defunto re aveva ricevuto per diritto di conquista e devoluto per lascito testamentario al figlio illegittimo Ferdinando, più noto con l’italianizzazione del suo nome catalano Ferrante. Per il nuovo re i guai cominciarono subito: il baronato regnicolo si dimostrò riottoso ad accettarlo come sovrano e papa Callisto iii, succeduto a Niccolò v nel 1455, dichiarò invalida la successione napoletana e avocò a sé il regno argomentando che Alfonso l’aveva tenuto come feudo ecclesiastico. Il pontefice era irato per le ingerenze e intrusioni aragonesi nei suoi stati, nonché per la mancanza d’entusiasmo di Alfonso per una crociata antiottomana. Fortunatamente per Ferrante, Callisto passò a miglior vita il 5 agosto successivo e il nuovo pontefice Pio ii (al secolo Enea Silvio Piccolomini) si mostrò assai più disponibile nei confronti del nuovo sovrano. L’atteggiamento del pontefice era motivato dalla simpatia personale che nutriva per Ferrante, dal desiderio di recuperare Benevento e Terracina, che Alfonso aveva strappato alla Chiesa, ma anche dalla speranza che il re potesse aderire alla crociata contro i turchi, eredità che Pio aveva raccolto dal suo predecessore. Oltretutto, il papa aveva una bella gatta da pelare dalla quale sperava che il re di Napoli potesse liberarlo. Il felino in questione rispondeva al nome di Jacopo Piccinino.
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Figlio di Niccolò, uno dei più celebri condottieri di Filippo Maria Visconti, il Piccinino si era dato a sua volta al mestiere delle armi, ma la sfrenata ambizione e gelosia lo avevano reso un individuo alquanto irrequieto. Suo padre era stato il capo dei bracceschi, gruppo di venturieri fondato dal celebre Braccio da Montone. Braccio era riuscito a diventare signore della natale Perugia e avrebbe trasmesso ai suoi seguaci il bruciante desiderio di crearsi un dominio territoriale. Condivideva con molti suoi accoliti il fatto d’essere un esule umbro e Niccolò Piccinino, oltre a tentare d’insignorirsi di Perugia, aveva passato la vita cercando di crearsi un proprio stato, venendo battuto da Francesco Sforza nella gara per la successione al ducato di Milano. Furibondo per i successi degli Sforza (diversi fratelli di Francesco si erano ritagliati le proprie realtà territoriali), Jacopo era spinto dalla loro medesima voglia di dominio, ma l’Italia della pace di Lodi offriva sempre meno possibilità in tal senso. Nonostante ciò, rimaneva ancora un certo spazio di manovra per un uomo spregiudicato come il Piccinino, pronto a sfruttare o persino creare crisi che potessero tornargli vantaggiose. Jacopo era in contatto con i dissidenti fiorentini, presenti anche nel reggimento mediceo e conosceva da vicino le mai sopite simpatie filofrancesi che attraversavano la penisola. Potenzialmente era la dinamite capace di far saltare l’assetto politico italiano, specie se certi potentati come Venezia, rifugio di molti condottieri bracceschi, e Alfonso il Magnanimo consideravano l’accordo del 1454 subìto più che accettato. Licenziato dai veneziani dopo la pace di Lodi, con la sua compagnia il Piccinino si era dato a taglieggiare Siena e, in collaborazione con Federico da Montefeltro, a guerreggiare contro Sigismondo Malatesta di Rimini. In entrambi i casi aveva ricevuto il sostegno più o meno palese di Alfonso d’Aragona, che non aveva abbandonato le sue mire nel Centro Italia ed era sempre pronto a far dondolare davanti a Jacopo la carota di un suo stato proprio. Come ebbe notizia della morte di Callisto iii, il Piccinino si spostò in Umbria, stavolta con il benestare occulto di Ferrante d’Aragona, occupando una serie di punti strategici, tra cui Assisi. Ferrante aveva permesso ciò per far pressione sul nuovo papa, ma il re, sapendo quanto labile fosse ancora la sua presa sul trono napoletano, decise convenirgli piuttosto l’accordarsi con il pontefice e Francesco Sforza; questi, in nome della sua politica d’equilibrio in Italia, vedeva con favore l’inse-
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diarsi a Napoli di un sovrano ai margini degli schemi dinastici europei, «nutrito et alevato cum italiani, che vole viver e gobernarse cum italiani et lassare in tuto el vivere e usanze catalanesche».12 Messo alle strette, Jacopo fu costretto ad abbandonare le sue recenti conquiste e frustrato anche nella speranza che Ferrante gli concedesse un feudo nel Napoletano. La goccia che fece traboccare il vaso fu la pace stipulata a sua insaputa e a suo danno – grazie soprattutto alle pressioni dello Sforza – tra il re, il Montefeltro e il Malatesta. Senza impiego, indebitato e privo di una base territoriale, il Piccinino si rivolse all’unica persona capace di soddisfare le sue ambizioni: Giovanni d’Angiò. Il governatore di Genova stava da tempo meditando di passare ai fatti per ciò che riguardava la pretesa della propria casata al trono di Napoli e l’adesione di Jacopo alla sua causa fu l’ultimo tassello che completò il suo piano. Francesco Sforza aveva esortato Ferrante a tenersi cari i suoi baroni, almeno finché non avesse consolidato la sua posizione, «perché se possono contentare gente assay cum una parte de effecti et una parte de bone speranze col tempo»;13 tuttavia, alla luce degli accadimenti, il consiglio del signore di Milano era poco realistico, in quanto una buona fetta della nobiltà napoletana era già in subbuglio e da lì a poco – nell’estate del 1459 – avrebbe scatenato la rivolta. Benché tallonato nella sua marcia verso sud dal signore di Pesaro Alessandro Sforza (fratello di Francesco) e da Federico da Montefeltro (che aveva da poco sposato la figlia di Alessandro, Battista), il Piccinino penetrò in Abruzzo il 22 luglio 1460, battendo decisamente a San Favriano (in provincia di Teramo) le forze dei suoi inseguitori, anche se Alessandro e Federico cercarono di far passare l’esito dello scontro per un pareggio.14 Due settimane prima Ferrante era stato sconfitto a Sarno (provincia di Salerno) dai baroni ribelli guidati da Giovanni d’Angiò, sbarcato l’ottobre precedente alle foci del Volturno con l’ausilio di una grossa flotta genovese – una disfatta disastrosa, tale da far temere per la corona di Ferrante: «lo stato è spaciato», avrebbe riferito con palese sconforto l’ambasciatore milanese, scampato alla debacle per il rotto della cuffia.15 Tale impressione parve avverarsi quando l’esercito del Piccinino si unì a quello angioino. Invero, Jacopo cercò inutilmente di convincere Giovanni a marciare su Napoli, l’Angiò invece optando per la conquista del regno prima di attaccare la capitale, senza comprendere che il tempo giocava a suo sfavore.
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La spedizione di Giovanni aveva allarmato non poco Francesco Sforza, che considerava un eventuale successo dell’angioino come una iattura. Era risaputo che a Firenze l’opposizione al regime mediceo era apertamente a favore dell’Angiò, in particolare il potente banco dei Pazzi foraggiando con denaro ed equipaggiamenti il Piccinino. In prospettiva, una vittoria di Giovanni avrebbe potuto significare la ricreazione dell’asse tra Firenze e Venezia; un’alleanza che avrebbe potuto includere anche Napoli, in mano angioina, la Francia, la Savoia e il Monferrato, a cui andavano aggiunti gli svizzeri per via delle loro pretese su Bellinzona – un vero e proprio incubo per lo Sforza, che si vedeva già circondato e con il suo stato in pericolo di smembramento. Pertanto Francesco doveva giocare una partita su più tavoli, pronto a gestire a suo vantaggio gli sviluppi della situazione, quando non dandole di proposito una girata a lui favorevole. Intanto era necessario salvare Ferrante, anche se significava mettere a nudo i limiti della Lega Italica. Appena Giovanni d’Angiò fece vela da Genova, Francesco Sforza si affrettò a scrivere al re, suggerendogli di appellarsi al pontefice e alla Lega, avendo pieno diritto di ricevere l’aiuto dei sottoscrittori l’alleanza, in quanto aggredito da una potenza ultramontana in combutta con i genovesi.16 Tuttavia, all’atto pratico solo Milano e Pio ii si schierarono apertamente dalla parte di Ferrante, mentre Firenze e Venezia optarono per la neutralità: Cosimo de’ Medici doveva stare attento a tenersi buoni i numerosi elementi filofrancesi in seno al reggimento, mentre la Serenissima, a detta dell’ambasciatore milanese a Napoli, non intendeva «impazarse de l’una de l’altra parte» (benché il diplomatico sospettasse che in qualche modo i veneziani in segreto appoggiassero gli insorti con la speranza di ottenere vantaggi territoriali nel regno).17 Nonostante le batoste, l’afflusso di denaro – fornito in gran parte da Cosimo de’ Medici, che da buon affarista teneva aperte tutte le opzioni, compresa quella di una vittoria aragonese – e di soldati sforzeschi permisero a Ferrante di resistere; nel frattempo Federico da Montefeltro si occupava di respingere le puntate del Piccinino e di Sigismondo Pandolfo Malatesta nei territori ecclesiastici. Tuttavia, nell’aiutare Ferrante, lo Sforza non perdeva di vista il proprio tornaconto, dal momento che le difficoltà del re costituivano un’occasione ottima per il signore di Milano. Perché Ferrante potesse vincere era necessario separare Genova dall’Angiò, privando così Giovanni del suo più importante canale di sus-
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sistenza. Per fare ciò, lo Sforza doveva prima neutralizzare i francesi, ma trovò un Carlo vii per nulla intenzionato a mollare la città ligure e nemmeno tanto velato nei suoi proponimenti di ostacolare Francesco, ritirando fuori la pretesa del duca di Orléans su Milano e cercando al contempo di organizzare una lega antimilanese in Italia. Dal canto loro, i veneziani interpellati risposero picche: in cambio dell’aiuto per papparsi Milano, Carlo offrì loro territori già in gran parte sotto il controllo della Serenissima, che oltretutto, è lecito dedurre, preferiva avere come vicino lo Sforza piuttosto che un principe francese. Al contrario, Francesco aveva avuto successo nel portare dalla sua il Delfino Luigi (futuro Luigi xi), da anni in rotta con il padre Carlo vii e ospite dell’arcinemico di Carlo, Filippo iii «il Buono» duca di Borgogna. Luigi e Francesco stipularono il trattato di Genappe (accordo di massima dell’agosto 1460), un patto di mutua assistenza in cambio della non-ingerenza sforzesca negli affari del ducato di Savoia (lo Sforza dovette fare salti mortali logici per provare che questo accordo non era in contrasto con la Lega Italica). Con un nemico praticamente dietro il trono, il re di Francia non era in grado di concentrarsi su Genova, a differenza dello Sforza che aveva da tempo inviato agenti a sobillare i genovesi contro i francesi. Non che ce ne fosse bisogno: le continue richieste di denaro e aiuti da parte di Giovanni d’Angiò avevano gravato sull’economia cittadina, creando un forte risentimento tra la popolazione. Già per l’inizio del 1461, lavorando in concerto con Ferrante d’Aragona, lo Sforza era riuscito a stringere accordi con i maggiorenti genovesi scontenti del dominio di Carlo vii. Adesso doveva solo aspettare. L’attesa fu breve. Il 9 marzo il popolo di Genova insorse, assediando la guarnigione francese che si era ritirata nella fortezza del Castelletto. Lo Sforza fu solerte nel mandare denari e artiglierie ossidionali ai rivoltosi, al contempo riuscendo a far sì che le onnipresenti fazioni politiche genovesi collaborassero in vista di un possibile e probabile attacco contro la città. In effetti, il re di Francia non stette a guardare e si attivò per radunare un esercito per riprendere Genova, non potendo permettersi di perdere la faccia assieme a un luogo strategicamente importante. Forte di 6000 uomini, il corpo di spedizione fu affidato a Renato d’Angiò, padre di Giovanni, che il 17 luglio subì una disastrosa disfatta sotto Sampierdarena: più di 1500 i morti e moltissimi prigionieri, secondo quanto riferito da Francesco Sforza al Delfino.18 Questi, comunque, aveva altro a cui
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pensare: al momento in cui ricevette la lettera di Francesco, Luigi era probabilmente già stato consacrato re a Reims, suo padre essendo passato a miglior vita il 22 luglio precedente. Lo Sforza aveva Genova in mano, ma il signore di Milano preferì aspettare e fare le cose, more solito, con tutti i crismi legali e senza inimicarsi il nuovo sovrano francese con un’azione di forza che sarebbe apparsa come uno schiaffo politico. Senza più l’appoggio genovese, Giovanni d’Angiò si ritrovò subito a mal partito. La sua campagna nel Meridione italiano si trascinò stancamente per il resto dell’anno mentre Ferrante, al contrario, acquistava forza. In soccorso del re di Napoli era arrivato il celebre comandante albanese Giorgio Castriota Scanderbeg, che così intendeva ripagare l’aiuto datogli dagli aragonesi nella lotta contro gli ottomani. Certo, anche Ferrante aveva di che preoccuparsi, visto che nell’agosto del 1461 Francesco Sforza cadde gravemente ammalato e l’infermità l’avrebbe accompagnato, tra alti e bassi, fino alla primavera successiva. La malattia di Francesco favorì lo scoppio di rivolte, specie nel piacentino, mentre anche tra i più fidati seguaci dello Sforza, nonché tra i famigliari, ci furono defezioni, i ratti fin troppo lesti ad abbandonare la nave che pareva affondare senza speranza. Probabilmente a causa delle difficoltà logistiche dovute alla stagione inclemente, il Piccinino si arenò in Abruzzo «più disfacto [dalla neve] che se avesse avuta una rocta».19 Pertanto a Jacopo fu impedito di sfruttare l’occasione favorevole, benché potesse contare sull’appoggio di molte comunità lombarde pronte a ribellarsi al suo apparire, nonché del duca di Ferrara Borso d’Este. Fortunosamente la pellaccia permise allo Sforza di vincere la malattia e di riprendere energicamente in mano le redini dello stato, spedendo altre risorse militari e denari a Ferrante. Intanto Giovanni d’Angiò stava ricevendo aiuto da Luigi xi, che divenuto re ci aveva messo meno di un nanosecondo per rimangiarsi l’accordo di Genappe. Il sovrano aveva rispolverato le rivendicazioni orleaniste sul ducato di Milano e preteso che lo Sforza abbandonasse Ferrante a favore dell’Angiò, oltre ad aiutare i francesi a riprendersi Genova. Tuttavia, Luigi giocò male le sue carte volendo imporre la sua volontà anche ai savoiardi, al re d’Aragona, al duca di Borgogna e persino agli inglesi, sostenendo le pretese di Enrico vi Plantageneto, sposato con Margherita d’Angiò (sorella di Giovanni) e alla macchia dopo essere stato sconfitto dal cugino Edoardo iv. In un colpo solo, Luigi si ritrovò contro mezza
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Europa e prese la saggia decisione di abbassare la cresta, tanto per iniziare lasciando che Giovanni se la sbrigasse da solo con Ferrante. L’angioino era sempre più in difficoltà: il suo alleato Sigismondo Pandolfo Malatesta era stato bloccato sul Tronto mentre cercava di raggiungere il Meridione e poi battuto dal Montefeltro sotto Mondolfo (provincia di Pesaro e Urbino), perdendo tutto il suo esercito e a stento riuscendo a fuggire via mare verso la Puglia. Oltretutto, grazie agli aiuti dello Sforza, Ferrante aveva riguadagnato terreno, soggiogando con la forza o con l’accordo un buon numero di baroni ribelli e adesso si preparava a chiudere la partita con Giovanni. Lo scontro decisivo tra i due rivali avvenne il 18 agosto 1462 sotto Troia (provincia di Foggia), l’Angiò ricevendo una batosta tale da affossare la sua causa per sempre. Nei mesi successivi, nonostante qualche piccola vittoria, Giovanni era rimasto quasi isolato dopo la defezione di Giovanni Antonio Orsini del Balzo, principe di Taranto e suo maggiore sostenitore nel regno. Quando, nell’estate del 1463, il Piccinino giunse a un accordo con Alessandro Sforza, i restanti nobili ribelli ritennero opportuno accordarsi con l’Aragonese, mentre l’Angiò, resosi conto che il gioco non valeva più la candela, riparò in Francia. Ferrante aveva infine trionfato, ma non per questo stravinto: numerose erano state le concessioni fatte dal sovrano ai nobili ribelli ed esistevano concreti timori che, alla prima occasione, gli irrequieti baroni potessero riprendere le armi per difendere le loro posizioni di potere. La morte dell’infido principe di Taranto nel novembre, e l’incameramento dei suoi beni da parte della corona aragonese, dette un po’ di respiro a Ferrante, che però aveva accettato assai di malavoglia i compromessi con i ribelli. Soprattutto aveva mal digerito il «troppo grasso» accordo con il Piccinino,20 a cui era stato elargito il titolo di viceré degli Abruzzi con uno stipendio di 90 000 ducati l’anno, più il pagamento degli arretrati, e un esteso territorio in Abruzzo e nel Molise. Francesco Sforza aveva aggiunto al già cospicuo piatto la mano di sua figlia Drusiana con una dote di 25 000 scudi e la restituzione dei feudi lombardi già di Niccolò Piccinino, valutati 65 000 ducati. Era un prezzo alto per tenere calmo il volubile Jacopo, ma Francesco e Ferrante avevano soprattutto bisogno di quiete per mettere a punto le prossime mosse. Lo Sforza aveva ancora gli occhi puntati su Genova, che dopo la sconfitta di Renato d’Angiò era finita in preda al caos politico, abilmente gesti-
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to a distanza da Milano. Francesco desiderava possedere la città, ma non al costo d’inimicarsi Luigi xi né di creare allarme tra gli altri membri della Lega Italica, che, tutto sommato, aveva retto bene al conflitto aragoneseangioino. D’altro canto, vista l’impossibilità di recuperare Genova con la forza e con la prospettiva di dover gestire una rivolta nobiliare (sfociata di lì a poco nella cosiddetta Guerra del bene pubblico) aizzata dal duca di Borgogna, al re di Francia decise essergli vantaggioso che la città finisse in mano allo Sforza, serbando per sé la sovranità nominale. Pertanto Luigi si accordò con Francesco per cedergli in feudo Genova e Savona, ancora occupata dai francesi, l’investitura ufficiale avvenendo a fine dicembre 1463 – l’opposizione genovese al trattato tacitata dalle bombarde sforzesche. Vedendo nella politica filofrancese dello Sforza potenziali vantaggi per Firenze, Cosimo sostenne la sinergia d’obiettivi tra Milano e la Francia, e suggerì a Francesco di accordarsi con Luigi per spartirsi il ducato di Savoia, chiedendo che in cambio di eventuali, ulteriori contributi fiorentini lo Sforza «in grandissimo secreto» si adoperasse per permettere a Firenze d’acquisire Lucca e «maxime Pietrasancta» in Versilia.21 Francesco la pensava altrimenti, giacché considerava le ambizioni di Cosimo un pericolo per la Lega Italica, inoltre preoccupato che, una volta morto il Medici, prevalesse a Firenze la fazione filoangioina e braccesca, il che poteva condurre alla rinascita dell’asse Firenze-Venezia e a un secondo tentativo angioino di riprendere il regno di Napoli. I nodi vennero al pettine nell’agosto del 1464 quando a due settimane di distanza morirono Cosimo de’ Medici e Pio ii. I successori dei due uomini non erano tipi da tranquillizzare i timori dello Sforza: Piero de’ Medici era un mezzo infermo, confinato per la maggior parte del tempo a letto dalla gotta e circondato da persone dalla fedeltà perlomeno dubbia; eletto papa il 30 agosto, fin dall’inizio Paolo ii si mostrò deciso a riaffermare con veemenza l’autorità legale, oltreché dottrinale, della Chiesa – il che voleva dire che per lui erano automaticamente nemici tutti coloro che s’immischiavano nelle faccende ecclesiastiche, spirituali come temporali. Il papa con Ferrante d’Aragona aveva in sospeso la questione di Benevento e Terracina; con Milano quella dei generosi indulti garantiti da Niccolò v e Pio ii a Francesco Sforza, che secondo il pontefice conducevano a illeciti prelievi sulle rendite ecclesiastiche, «le captive usanze essere corruptele et non si dovere mantegnire per niente»;22 con i veneziani, nonostante fosse loro
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concittadino, l’avergli impedito di diventare vescovo di Padova; e con Sigismondo Pandolfo Malatasta il fatto di essere Sigismondo Pandolfo Malatesta. Da solo il papato poteva far poco per imporre la propria volontà, la maggioranza dei governanti italiani infischiandosene delle possibili sanzioni spirituali in cui poteva incorrere se in opposizione alla Santa Sede. Ma c’era qualcuno che, benché al momento l’avesse in odio, all’occorrenza si poteva trasformare nel braccio del pontefice; e che lo Sforza e Ferrante d’Aragona si stavano già preparando a recidere. Una volta saldo sul trono, il re di Napoli non aveva perso tempo. Usando la forza e l’inganno saldò i conti con quei baroni che sospettava potessero creargli nuovi guai; ma rimase il grosso problema rappresentato da Jacopo Piccinino, arroccato negli Abruzzi e per nulla intenzionato ad acconsentire alle richieste di Ferrante di recarsi a Napoli. Ne aveva ben donde, visto che da tempo l’Aragonese e lo Sforza stavano complottando per distruggerlo, già nel maggio precedente Francesco avendo dato carta bianca al re per l’eliminazione del condottiere. Di fronte alla riottosità di Jacopo, in giugno lo Sforza fece una mossa a sorpresa, invitandolo a Milano per impalmare la promessa sposa Drusiana, offerta che mandò Ferrante su tutte le furie per il sospetto che Francesco stesse facendo il doppio gioco. Il 16 luglio 1464 Antonio da Trezzo comunicò allo Sforza l’esortazione del re a eliminare il Piccinino una volta arrivato in Lombardia: [Ferrante] prega ricorda e stringe la S.V. havere bona considerazione ad questo facto e provedere el bene e lo male che po seguire ritenendo decto amico, perché voi ve levati dinanzi el comune nemico vostro e suo, e li togliete li fioli e la compagnia a uno tratto in tale modo che non ce remara radice in Italia e non si nominara più Bracceschi.23
Ferrante contava di far leva sull’antica rivalità tra sforzeschi e bracceschi, evocando anche indirettamente il pericolo per la pace della penisola rappresentato da un cane sciolto come il Piccinino. Forse all’inizio Francesco Sforza può aver pensato che il matrimonio con sua figlia avrebbe condotto Jacopo nell’orbita milanese, ma vedendo l’accoglienza trionfale riservata al condottiere durante il suo viaggio verso nord e nella stessa Lombardia, deve aver concluso che tenersi appresso il Piccinino sarebbe stato come covare una serpe in seno. Infatti se Jacopo fosse riuscito a riorganizzare le file
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dei bracceschi – tra l’altro alcuni dei più importanti, come Bartolomeo Colleoni e Carlo da Montone, militavano con Venezia – poteva diventare, come sottolineò il Colleoni, «el magior inimico de quello Signore [Francesco Sforza] o de’ soy figlioli che possano havere».24 Anche a considerare iettatorio tale discorso, la fame territoriale del Piccinino lo aveva trasformato in una spada di Damocle penzolante sopra la stabilità politica dell’Italia. Comunque Jacopo si sentiva sicuro, il matrimonio con Drusiana Sforza dandogli come suocero l’uomo più potente d’Italia. Tuttavia, la storia personale di Francesco ne aveva più volte messo in evidenza quanto anteponesse il potere a tutto il resto, accompagnando tale atteggiamento con una totale mancanza di scrupoli. Facendo credere al Piccinino che gli guardava le spalle, nella primavera successiva lo convinse che non correva più pericolo nel recarsi a Napoli, mentre al contrario lo Sforza aveva passato i mesi precedenti a cospirare con il re. Pilatescamente, Francesco si chiamò fuori dall’avere una parte riconoscibile nella caduta del genero e, quando Jacopo fu preso e imprigionato dall’Aragonese nel giugno successivo, manifestò meraviglia e dolore. Addirittura, come giunse la notizia che il Piccinino era «accidentalmente» morto in carcere, fece vestire la corte milanese a lutto, cosa che indispettì non poco Ferrante (e molto di più il fatto che il corteo nuziale di Ippolita Sforza, promessa sposa di suo figlio Alfonso, duca di Calabria, fosse stato fermato a Siena alla notizia della morte di Jacopo).25 Nonostante le plateali manifestazioni di dolore sforzesco, pochi credettero alla sceneggiata «per tutta quanta l’Italia si diceva che il duca di Milano [Francesco Sforza] l’aveva mandato [il Piccinino] alla beccheria, e che il re di Napoli era stato il suo boia».26 Nell’ottica della ragion di stato, cotanta spietatezza era giustificata dall’obiettivo ultimo della sicurezza e l’eliminazione del braccesco più di spicco metteva, almeno al momento, Francesco e Ferrante al riparo da pericolosi sommovimenti politici. Tutto sommato, in questo senso lo Sforza e dall’Aragonese avevano esercitato al sommo la virtù della prudenza.
Duomo di Firenze, 26 aprile 1478. Nonostante errori e anacronismi, questa stampa anonima ottocentesca trasmette bene il caos successivo all’attentato ai danni di Lorenzo e Giuliano de’ Medici.
Giuliano de’ Medici. Nel ritratto postumo e idealizzato di Sandro Botticelli, il Bel Julio è diventato icona di un’età aurea.
Altro ritratto postumo di Giuliano de’ Medici, probabilmente ricavato dalla sua maschera mortuaria.
Lorenzo de’ Medici ritratto da Domenico Ghirlandaio. La mascella decisa del Magnifico è speculare all’ostinazione da lui dimostrata in politica estera e interna, che gli attirò le coltellate dei nemici.
L’attentato del 26 aprile 1478 effigiato nel recto e verso della medaglia di Bertoldo di Giovanni, efficace strumento di propaganda destinato al pubblico consumo. è pressoché l’unica rappresentazione del coro quattrocentesco del duomo fiorentino.
La malerba non muore mai. Nell’affresco di Melozzo da ForlÏ raffigurante il Platina (in ginocchio) nominato bibliotecario apostolico, papa Sisto IV e i suoi familiari occupano in modo invasivo la scena pittorica come facevano con quella italiana. Da sinistra: Giovanni Della Rovere, Girolamo Riario, Bartolomeo Platina, il cardinale Giuliano Della Rovere, il cardinale Pietro Riario, papa Sisto IV.
Federico da Montefeltro, duca di Urbino, qui raffigurato da Pedro Berruguete come uomo di cultura oltre che di guerra. Solo la tiara ducale e le insegne degli ordini della Giarrettiera e dell’Ermellino rivelano la sfrenata e spietata ambizione del Nomio.
Ferrante d’Aragona, re di Napoli, qui ritratto come Nicodemo nel Compianto del Cristo morto di Guido Mazzoni.
Brutale realtà. Anche se avvenuta un quarto di secolo dopo la congiura dei Pazzi, l’esecuzione di Antonio Rinaldeschi mostra in modo vivido la sorte di coloro che, colpevoli e innocenti, avevano preso parte alla congiura del 26 aprile 1478.
Leggiadra finzione: il Rinascimento come ci viene trasmesso. Il banchetto qui raffigurato nella Storia di Nastagio degli Onesti di Sandro Botticelli è immagine di quello imbandito a palazzo Medici, che nell’intenzione dei congiurati avrebbe dovuto fare da sfondo all’omicidio di Lorenzo e di Giuliano.
Miniatura di Cristofano De Pedis nel codice estense De sphaera. Dopo l’attentato contro i Medici, la guerra non fu scandita solo dalla violenza tra combattenti (in primo piano) ma anche da infiniti abbrugiamenti e saccheggi a danno delle popolazioni civili (piano arretrato).
Ingannevole amorevolezza. A un secolo di distanza Giorgio Vasari avrebbe cercato di mostrare la visita di Lorenzo a Ferrante d’Aragona come un incontro tra pari. In realtà , per salvarsi il Medici fu costretto a un’umiliante resa incondizionata.
Durature conseguenze. La casa del Veggia a Bastignano in rovina quasi mezzo secolo dopo la guerra del 1478-80. Sono sprazzi documentari che imprimono nella Storia coloro che altrimenti ne sarebbero esclusi.