Stefano Gallerani - Albacete

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Stefano Gallerani

Albacete


Albacete, dall’arabo «La Pianura», è un luogo della Mancha. Su questo piano infinito, provincia dell’insania di Chisciotte, si dipartono da secoli le strade della letteratura moderna. I quattordici racconti che compongono il libro escono dall’idea disabitata del Romanzo – di cui il modello cervantino è, a sua volta, assoluto e negazione –, tracciano un camminamento dentro il doppio e la follia. Ora un melanconico Quijote, ora una fanciulla nutrita di troppe, malintese letture, ora un capitano di vascello su mari tropicali, tutti i protagonisti hanno un filo che li collega, una forma narrativa, ovvero un’immagine del tempo: costoro, come in una corrispondenza tra fantasmi, sono scrittori di lettere, resoconti, note, diari e biografie. Sempre in bilico tra la confessione e il soliloquio, via via che il senso del mondo si sgretola, vengono funestati da un sosia perverso o dalla sua latenza, in un fluire incessante e circolare delle personalità, dove i figli allignano nel campo psichico dei genitori, e i fratelli prendono il posto dei fratelli. Letteratura e realtà appaiono, qui, due rive dello stesso fiume. Nell’enigma, nell’oltremondo in cui restano recisi, personaggi e accadimenti – lo dice il narratore – sono «interni con figure»: certi emblemi, le nature morte, certi archetipi narrativi (talora solo un accordo di fantascienza) chiudono con una tradizione del racconto, il soggetto sfuma in un’altra luce, «veramente in

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collana arno 14


EXCEPTIONAL CIRCUMSTA BELOW MINIMUM SIZE Stefano Gallerani Albacete Lavieri editore / ISBN 978-88-96971-11-6

Copyright © 2012 Ipermedium comunicazione e servizi s.a.s.

Arno n.14 Collana diretta da Domenico Pinto

Lavieri edizioni via IV Novembre, 19 - 81020 - S. Angelo in Formis (CE) via Canala, 55 - 85050 - Villa d’Agri (PZ) www.lavieri.it / info@lavieri.it


Stefano Gallerani

Albacete

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Albacete



Primo

Poco più che adolescente non trovai di meglio, per costringere mio padre a lasciarmi andar via da quella piccola città, che convincerlo della mia vocazione al sacerdozio. Sul momento, questa risoluzione ebbe l’unico effetto di scatenare il suo disappunto: pareva volesse strapparmi dall’anima un segreto. A me!, che quell’anima volevo (o dicevo di volere) votare a uno scopo ben maggiore che non fossero gli angusti confini del nostro paesino. Ma niente, lui intendeva ugualmente strappare quel germoglio maligno. A sua discolpa, un residuo di obiettività mi impone di precisare alcuni aspetti della mia indole filiale: certe volte riuscivo davvero a essere orribilmente meschino, il che sarebbe stato, però, veramente abietto se solo l’abiezione della crudeltà, come d’altronde la sporadica magnificenza della bontà, non fossero stranamente prive di peso. Non vere, finte, irreali. Fatto sta che per giorni non lo vidi più, ma lo sentivo girare e rigirare nella sua camera, meditando a lungo dentro di sé lo scandalo di quel figlio in seminario. Temetti di essere stato un poco avventato e finì che mi stancai presto di quell’inquietudine: mi ero accorto, du-


rante le ore che passavo a origliare alla sua porta, che nella mia vita si era fatto un gran vuoto. Tutti i sentimenti che prima l’affollavano si erano dissolti. Cominciai a giocare, da principio a sere alterne, poi senza sosta, dal tramonto all’alba, fino a ciondolare per quel sonno che, una volta coricato, non mi ristorava che a fatica. Il gioco mi distruggeva la salute, e mi odiavo per questo, ma allo stesso tempo non potevo non apprezzare la mia arte alla scacchiera, le finte e gli attacchi, eleganti e carichi dell’imprevedibilità del mio estro. La ruota della mia vita sembrava aver trovato il perno intorno al quale girare ed ebbi momenti di autentica felicità. Ero talmente compreso nel ruolo di giocatore che per tutte quelle ore sopportavo anche quanto per me era solitamente insopportabile, ovvero il lambiccato e cencioso gergo mancego di Cide. Attraverso la fitta e soffocante pesantezza di quel linguaggio, traspariva uno spirito grossolanamente borghese (lo stesso che, rivelandosi a tratti, parlava una società volgare e materialista). Ma a quanto pare ero l’unico a nutrire dubbi sui fuochi d’artificio freddi di Cide, sulle pirotecnie verbali di una mente intelligentemente dotata di intelligenza, sulle piroette di un pensiero retorico e morto, incapace di produrre un’idea affatto vitale e, peraltro, completamente disinteressato al “vero” pensiero. Insomma, odiavo Cide perché era il mio maestro e io il migliore dei suoi allievi. Nulla di strano, allora, se in quell’angustia provinciale mi rifugiai tra sessantaquattro caselle di due colori. Che giocassi con minuscoli simulacri lignei. Che passassi ore al tavolo, osservando il mondo allargarsi intorno a me. Poi venne una notte in cui mi accorsi sul serio che il mio letto era vuoto. Voci sussurravano dietro ai portoncini della corte. Imposte socchiuse venivano spinte di colpo. 10


Della luna, scomparsa ogni traccia di colore. Non restavano, nell’ombra, che i legni inariditi dal sole. Mi irrigidii al pensiero di quella desolazione, ma la mia giovinezza impedì a simili pensieri di mettere a lungo radice in un sangue sempre in fermento. Non avevo la sensazione del tempo che passava… (forse il tempo è soltanto un’illusione dei sensi e noi, vivendo, non facciamo altro che ripetere ciò che è già successo in un’altra misura del mondo o riscoprire ciò che è stabilito definitivamente, nell’eternità). Pian piano abbandonai il tavolo da gioco, sempre più di frequente trasportato da una volontà nemica che inscriveva la mia figura in una dimensione dove tutto diventava vano e astratto. Mi creai persino la convinzione che non ero io a decidere – del mio destino di giocatore come di quello di seminarista – ma che un altro viveva in me; un altro che era me, sebbene del tutto separato dalla mia volontà; un altro che si era insinuato nel mio sangue ed era rinato per mezzo mio: grazie a me recuperato alla vita del corpo per qualche nefanda congiura dell’inferno. Il sovrapporsi delle due immagini annullava la prima impressione di comicità, dando un risultato infinitamente tetro di maschera assurda: orribile imitazione di vita che ci sottrae l’aspetto familiare quando cominciamo a subirne il valore umano. E lo stesso poteva dirsi dell’idea che coltivavo della grande metropoli rispetto alla provincia. Ebbi l’intima certezza, così profonda e radicata all’epoca in cui leggevo montagne di romanzi metafisici e vedevo chilometri di film d’avventure coloniali allenandomi – come mi sarebbe tornato utile davanti ai piccoli riquadri bianchi e neri – al calcolo delle probabilità: ciò che fornisce immediatamente ricco combustibile alle fantasticherie ansiose… mi venne, insomma, il convincimento che non avrei potuto rimanere nella piccola città per ridurmi a vedere solo caprai e processioni 11


religiose tre volte l’anno. D’accordo, non sarei diventato un sacerdote né un soldato né uno studioso, ma avrei scoperto che il fondo della mia anima era triste e inquieto. Mi pareva che la mia vita fosse stata solo un perenne viaggio nell’astrazione e che neppure in quel momento, in cui tante cose mi si paravano dinnanzi per la prima volta con quella forza, decidendo di andarmene da casa fossi approdato sulle rive del reale: che in nessun modo, cioè, riuscissi a aderirvi. In seguito si accentuò, in me, l’idea di vivere in un mondo astratto (il resto, tutto il resto, era un dormiveglia informe, popolato di sogni senza senso). Ogni tanto, dall’acqua morta della mia noia esalava una bolla iridescente che durava un attimo, intensa come un fulmine (e però non volli mai il sangue). Giorni e notti si succedevano in una contraddittoria altalena di luci e di ombre. Non c’era cosa, tranne una, di cui vedendola potessi dire: «è mia, sono nato per essa!», ma nemmeno quell’una poteva esplicarsi, e quand’anche, non sarebbe servita a niente e a nessuno. Naturale, dunque, che dopo poco immaginai di essere fuori dal paese, con nessun bagaglio e meno soldi in tasca, frastornato e disorientato perché gli avvenimenti erano stati assai più rapidi delle mie speranze, dei miei segreti pensieri. Alla fine dell’anno quello scenario fisso cominciò a girare su se stesso. Il tempo s’avvitava e del mondo non si intravedeva quasi nulla, ma provvisoriamente si istituì per la domenica un rito simbolico: commemorazione del paese familiare scomparso, della sua modestia e del suo splendore sostituiti dall’estraneità minacciosa della grande città, i cui sinistri personaggi, da molti anni, ci si ingannava 12


a imitare perché parevano eleganti. Fu così che pesanti porte mi si chiusero davanti e mi immaginai di nuovo nel suo seno, spaesato ed evanescente quel tanto che bastava perché la vita collettiva mi assorbisse. Divenni infingardo, sia pure studiosissimo, attento anche quando si sarebbe detto che la mia mente divagava. Ripresi a giocare, meno forsennatamente di prima ma ripresi a giocare. Dopo le mosse d’apertura, caute avvisaglie della battaglia che si sarebbe scatenata di lì a non molto, il mio corpo si trasformava in un asciutto fascio di muscoli, una macchina perfetta, lo strumento divino di un terreno schermidore. Gli avversari non mi bastavano, ma nemmeno mi mancavano. E non è neppure del tutto esatto dire, come feci in più di un’occasione per cavarmi d’impaccio con mia madre, che non potevo tirarmi indietro, che erano gli altri a cercarmi. Solo gli altri. Anch’io avevo talvolta da dimostrare qualcosa. Qualcosa che io stesso non avrei saputo riferire. Tutto franava e si disfaceva in quella Spagna di sogni e di antiche glorie. E io non ero che un’ombra nera che portava la sua disperazione su e giù per i vicoli di una città che ingoiava i morti e subito li dimenticava, perché come ogni città del mondo aveva mille altre cose da fare. Tu dimentichi che esiste la donna, finii per ripetermi, la più splendida fra le creature. Roventi pensieri sconvolsero la mia mente. Le giornate, tra una partita e l’altra, erano vuote. Fino a quando, una sera, poco prima della campana di mezzanotte, guardando la corte desolata e pensando a mio padre, a come dovesse passare tristemente la sua vita, ergastolano in una prigione, fui costretto a sguainare la spada, sommerso da un’onda di energia che dormiva in qualche misterioso angolo, uno dei tanti che formano quel mistero più vasto che siamo noi stessi… (ma conosco troppo bene questa malattia dell’immagina13


zione per non sapere che le sue aggressioni non vanno contrastate).

Rileggendo questi appunti di diario ho misurato come il tempo sembrasse ristagnare senza termine in un meccanico, torbido ingigantimento del malessere. Oggi, che i passi di mia madre risuonano circondati di vuoto nei grandi saloni silenziosi, oggi spendo un mucchio di tempo, quasi tutto del molto che ho a disposizione, nello studio di mio padre, a leggere i libri della sua biblioteca e a riorganizzare gli scarabocchi insensati di Cide. Ora, la biblioteca mi si adatta perfettamente, arida e ferma come il mio spirito, e tutta la vita non mi si presenta che come un perenne viaggio nell’astrazione. Neppure il definitivo insediamento a casa m’ha lasciato approdare su quelle famose rive del reale. Dopo avermi allontanato per anni dal pensiero di questa vita, il destino mi ha ricondotto un’ultima volta alla mia infanzia: dove non avevo più avuto voglia di tornare e quanto mi provocava un senso di fastidio pari almeno al compiacimento amaro che mi dà il non aver avuto figli, il solo sapere che il mio nome finirà con me…

Ieri mattina ho trovato casualmente, dentro un cassetto, un fascio di lettere, lettere d’amore di… lettere d’amore, e basta. Lì per lì sono stato preso dal furore, poi la coscienza ha avuto il sopravvento. Ho firmato le lettere e le ho bruciate.

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Indice

Primo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7 Secondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13 Terzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19 Quarto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 25 Quinto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31 Sesto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37 Settimo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43 Ottavo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49 Nono . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 59 Decimo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67 Undicesimo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75 Dodicesimo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 81 Tredicesimo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 87 Quattordicesimo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93


Lavieri

Nella stessa collana 1. Arno Schmidt, Dalla vita di un fauno 2. Marco Palasciano, Prove tecniche di romanzo storico 3. Maurizio Rossi, Mare Padanum 4. Walter Kempowski, Tadellöser & Wolff. Un romanzo borghese 5. Arno Schmidt, Brand’s Haide 6. Giovanni Cossu, Turritani 7. Gherardo Bortolotti, Tecniche di basso livello 8. Arno Schmidt, Specchi neri 9. Antonio Pizzuto, Sinfonia ( 1927 ) 10. Ulrike Draesner, viaggio obliquo (poesie 1995-2009 ) 11. Marco Ceriani, Memoriré 12. Hans Henny Jahnn, 13 storie inospitali 13. Enzo Di Mauro, Il tempo che non venne



una luce nuova». Ravvolta da un mistero esemplare, la sua voce, limpida quasi incisa al microsolco, dopo essersi sdoppiata, torna a distruggere l’eufonia e, con essa, ogni principio di realtà. Come un Grande Vetro duchampiano, dal «cimitero delle livree e delle uniformi», da questo fondo segreto emerge, disorchestrato, l’inconscio letterario di un’epoca. D.P.

Stefano Gallerani è nato il 4 ottobre del 1975 a Roma, dove vive. Collabora con Alias, supplemento letterario de «il manifesto», con le riviste «Il Caffè Illustrato» e «L’Illuminista». Altri contributi sono apparsi su «Alfabeta2», su «Il Giannone», «Allegoria» e «Reportage». Il suo primo racconto è uscito sulla rivista «Sud».


Per orientarsi bene – a dar retta a chi se ne intende – occorono diligenza, memoria, tenacia e inclinazione allo studio. Queste parole mi atterriscono. Io sono solo col mio bastimento. Le tenebre si diffondono veloci, con rapidità tropicale un grappolo di stelle spunta sopra la terra in ombra mentre ancora mi attardo, la mano posata sul parapetto, come sulla spalla di un compagno fidato. Non sono un esempio di moralità, ma anche l’individuo più corrotto ha delle remore nelle sue azioni perverse. È vero, si sa di uomini rimasti in piedi metà della notte – tanto ai tropici che in zone temperate – a raccontare storie, ma io vi ho pur inframmezzato pause che, se non le avessi trovate interessanti, mai avrei potuto scrivere.

ISBN 978-88-96971-11-6

€ 14,00 (i.i.)

isbn 978-88-96971-11-6

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