Enzo Perriello Fiabe e favole in Basilicata quando di là sono passate Lavieri edizioni ISBN 978-88-96971-19-2 © 2013 Ipermedium Comunicazione e Servizi s.a.s. Copertina di Giuseppe Palumbo
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Enzo Perriello
L avieri
Una fiaba al giorno
In un ideale menù, in una dieta sostanziosa e vigorosa, qualsiasi saggio consiglierebbe una fiaba al giorno. Né di più, ma soprattutto, non di meno. La modica e giusta quantità per nutrire lo spirito e per sostenere la vita. E questo sin dalla tenerissima età, dove secondo alcuni temerari si può arrivare fino a una dose addirittura doppia, una dose per situazioni d’emergenza.
Il profumo delle fiabe Tutti siamo affamati di storie, affascinati dalle narrazioni, e si capisce; in fondo il narrare è connaturale all’uomo così come il respiro, il cibo o la necessità della protezione. È un fatto, un istinto primordiale che crea l’uomo come animale narrante. L’esperienza mostra continuamente che uomini e donne si compiacciono nel raccontare storie. Che i bambini chiedono storie prima di addormentarsi, che gli anziani amano ripercorrere narrativamente la propria o l’altrui vita, e che ogni impresa, lavorativa, famigliare, sociale chiede una storia, una narrazione. Va da sé che non ci possono essere storie senza che qualcuno le racconti. E che le storie chiedono ascoltatori. Uomini e donne di ogni tempo non solo narrano racconti, ma anche li creano, riconoscono come proprie le storie create e ne diventano responsabili.
Raccontare Il racconto agisce a livello d’adesione esistenziale. Le idee che sono offerte, proposte attraverso la modalità narrativa, portano con sé la possibilità di essere provate, spingono a prendere posizione intorno a quanto narrato, a quel dire che avvicina alle cose, all’altro.
Il raccontare o il prestare orecchio alle narrazioni fa uscire da se stessi. In fondo, il racconto è modalità privilegiata mediante la quale si stabilisce una relazione, un incontro. Nel racconto interagiscono più storie: quella narrata, quella del narratore, quella dell’ascoltatore. Storie che possono integrarsi o respingersi, parzialmente o integralmente, ma che non portano alla neutralità, perché il racconto coinvolge, sempre. Forte per questa dimensione antropologica, il narrare fiabe ha sempre avuto un grosso fascino, e le fiabe sono diventate terreno di sperimentazione, di esperienza, di confronto tra modalità comunicative alla ricerca di un’efficacia esistenziale. Sempre in bilico tra l’oralità e la scrittura. Raccontare è un’arte. L’arte, la tecnica non si può imparare solo sui libri; si acquisisce facendo, imitando i maestri. Martin Buber nel suo scritto sui Racconti Cassidici narra questa storia: Ad un rabbino, il cui nonno era stato discepolo del Baalshem, fu chiesto di raccontare una storia. Ed egli raccontò: «Mio nonno era storpio. Una volta gli chiesero di raccontare una storia del suo maestro. Allora raccontò come il santo Baalshem solesse saltellare e danzare mentre pregava. Mio nonno si alzò e raccontò, e il racconto lo trasportò tanto che ebbe bisogno di mostrare saltellando e danzando come facesse il maestro. Da quel momento guarì. Così vanno raccontate le storie».
Non esiste il mestiere di narratore. A chiunque è consentito narrare storie: ad alcune condizioni saranno efficaci. Chi narra “crede” nella sua storia, perché ciò che narra fa parte della sua esperienza. I significati si fanno presente al narratore con la loro carica di sentimenti, di razionalità, di futuro, d’esperienza. Nel narrare l’essere vibra nella sua totalità: la parola si va evocativa, creatrice, ciò che viene detto si realizza, non nella materialità del fatto, ma nei suoi significati. Il fatto diviene l’immagine con cui veicolare il significato dell’esperienza. 6
Il racconto avvicina Oggi le persone son meno disposte di un tempo, ad ascoltare discorsi che trascendono la propria esperienza o i propri interessi immediati. I ragionamenti o intimoriscono e vengono rifiutati o quando vengono accettati rischiano di essere inutili perché alla fine non si sa che farsene di idee, di convincimenti teorici che non muovono niente del mondo interiore. Il racconto agisce a un altro livello. Le idee vengono offerte, proposte: in fondo c’è la possibilità di provarle. Si è sollecitati a prendere posizione, a muoversi, a uscire da se stessi. Il racconto evoca l’esperienza dei fatti e nello stesso tempo propone il vissuto del narratore: chi racconta, dice qualcosa che è già parte della sua vita, che ha interagito con lui. Raccontare non è informare, non è descrivere, è piuttosto evocare immagini, comunicare sentimenti, trasmettere esperienze che divengono patrimonio di chi ascolta.
Seminare fiabe È in questo contesto che s’inserisce questa bella e preziosa collezione di fiabe antiche, restaurate e “riversate nella scrittura”, fatica e orgoglio di Enzo Perriello. Fiabe che superano i confini floridi, eppur angusti, della regionalità. La fiaba libera, le fiabe come diceva Italo Calvino «sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna», sono possibilità, sguardo aperto e serio sul mondo che nutre l’insopprimibile desiderio di narrazione che è in ognuno. In fondo la fiaba esercita sulla vita di ognuno un’influenza che non si esaurisce col tempo, ma che si fa silenziosa compagna sulla strada dell’intera vita. E poi la fiaba, che non censura nessun tema, porta con sé la magia dello stupore, tanto necessaria alla maturazione interiore di ognuno e alla qualità della vita. Ben venga, allora questo volume. Ben vengano le fatiche che stanno dietro a questa pubblicazione: sono semina gratuita e preziosa nel cuore di chi ascolta. Ci sono fiabe per rassicurarsi, fiabe per conoscersi, fiabe per conoscere gli altri e il mondo, per fidarsi, un catalogo di persone e sentimenti che 7
offrono all’ascoltatore stimoli per la crescita dell’immaginazione, per la vita. E, per favore, non spiegate le fiabe, non cercate “la morale della storia”, il triste e tragico spiegare e rispiegare di una matematica assurda del “questo significa quest’altro”. La narrazione efficace non mette in primo piano l’intenzione didattica, il racconto non è mai la spiegazione di un testo, e nessuno può e deve sostituirsi all’ascoltatore. C’è una storia riguardo a questo: «Un discepolo una volta si lamentava con il suo maestro. Ci racconti sempre delle storie ma non ci sveli mai il loro significato. E il maestro: cosa diresti se qualcuno ti offrisse un frutto e lo avesse masticato prima di dartelo?». Stefano Gorla
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Fiabe e favole in Basilicata
quando di lĂ sono passate
Lo Sposalizio della Volpe
Quando piove e c’è il sole, si sposa la volpe. Lo sanno tutti. Le volpi vivono in fondo ai boschi, dove la vegetazione è fitta e i rami più alti degli alberi si uniscono gli uni agli altri, dove il sole arriva a terra con pochi raggi, quelli che riescono a penetrare come lame fra le fessure del cielo scuro di foglie. Perché le volpi non vogliono essere viste, sono per loro natura riservate e diffidenti. E sono misteriose. Tutti sanno che le volpi nascondono molti misteri, ma nessuno è mai riuscito a sapere quanti e quali siano. Uno di questi, tempo fa, circolava di paese in paese, trapelato chissà come e chissà da dove, proprio come uno di quei raggi di sole che trafiggono il buio del bosco profondo. Ne parlavano i paesani riuniti in crocchi la sera davanti alle porte di casa, ne parlavano i venditori nei mercati portando la chiacchiera di piazza in piazza. Era il mistero del matrimonio delle volpi, connesso a quel mistero multiforme che riguarda la loro natura particolare. Si diceva che una volpe è capace di trasformarsi, in chiunque e in qualunque cosa, e che spesso assume le sembianze di una donna. Bella e affascinante si sposa con un uomo e vive fra gli uomini. Ma non si rivela mai, e nessuno sa quali siano le volpi che vivono fra noi. E neppure si sa perché lo facciano; forse perché, come diceva un’altra flebile voce che circolava in quello stesso tempo, le volpi non sono altro che uomini trasformati da un’antica maledizione in animali, e così qualcuna di loro ritorna al proprio mondo trasformandosi e sposandosi.
La voce però non diceva di più e perciò il mistero delle volpi, che ne racchiude tanti come in un incastro di scatole una dentro l’altra, resta impenetrabile, svelato solo per un pezzetto da quel raggio di sole penetrato chissà come. Ma le volpi, naturalmente, si sposano anche fra di loro. Quando piove e c’è il sole. Lo sanno tutti. Come sanno che è sconsigliabile guardarle, soprattutto durante lo sposalizio. Si arrabbierebbero molto, e allo sconsiderato che le avesse viste durante la cerimonia capiterebbe qualche sventura. Lo sanno tutti ma un bambino non seppe resistere alla curiosità e volle andare a guardarle. Perciò quel giorno quando venne a piovere che c’era il sole, uscì di casa e corse verso il bosco. S’inoltrò per un sentiero camminando veloce e si fermò solo quando raggiunse il fondo. Si nascose dietro un grosso tronco e rimase in attesa. La pioggia arrivava a terra insieme ai pochi raggi di sole, batteva sullo strato di foglie secche con un ritmo regolare e continuo. Il bambino si mise ad ascoltare quel suono, quella musica, e quasi non sentì il rumore che proveniva da dietro un largo cespuglio. Andò a sbirciare e vide le volpi convenute in una piccola radura. Così poté assistere allo sposalizio della volpe. Il suo cuore batteva forte, per l’emozione e per la paura di essere scoperto; tanto forte che le volpi lo sentirono. Si voltarono nella direzione dalla quale proveniva il battito e lo videro. Il bambino corse via, a perdifiato, corse e corse finché arrivò a casa. Trascorse il resto del giorno e la notte intera a pensare cosa avrebbero potuto fargli le volpi. Nel frattempo non aveva mai smesso di piovere. Il mattino dopo uscì che pioveva ancora, ma non c’era il sole, e trovò davanti alla porta di casa, posato subito lì sotto il gradino della soglia, un ciuffo di peli rossi, peli di volpe. Il bambino aveva sempre più paura. Raccolse il ciuffo e andò dalla nonna che abitava a mezza via fra il paese e il bosco. Le raccontò tutto e lei gli disse che c’era un solo modo per quietare l’ira delle volpi. «Torna a casa» gli suggerì la nonna, «prendi la tua cosa più preziosa, quella a cui sei più affezionato, e mettitela in tasca. Poi raccogli su una 12
mano quel ciuffo e disperdi al vento i peli rossi, da casa tua sino alla dimora delle volpi. Uno ogni dieci passi». «Devi sapere» aggiunse la nonna, «che le volpi dopo che si sono sposate vanno a vivere lontano, alla fine dell’arcobaleno. Una volta arrivato lì, abbassa lo sguardo e non alzarlo mai; lascia volare l’ultimo pelo rosso e posa in terra davanti alle volpi la tua cosa più preziosa. Mi raccomando non guardarle mai in viso. Quando scomparirà l’arcobaleno, non ci saranno più neanche loro. Se sarà sparito anche il tuo dono, allora vorrà dire che ti hanno perdonato e potrai tornare a casa». La nonna lo baciò in fronte e il bambino se ne andò a fare ciò che lei aveva detto. Intanto aveva smesso di piovere ed era comparso l’arcobaleno. Il bambino s’incamminò lasciando volare il primo pelo rosso. Portava in tasca l’anello di matrimonio di sua mamma, dieci fili di seta intrecciati, giacché i suoi genitori quando si sposarono non potevano permettersene uno d’oro. La mamma glielo aveva lasciato qualche mese addietro, prima di andarsene in cielo. La sua cosa più preziosa, che portò alle volpi. Fece ogni cosa nel modo in cui aveva detto sua nonna, così scomparvero l’arcobaleno, le volpi e l’anello della mamma. Segno che lo avevano perdonato. Ma noi non sapremo mai cosa fanno le volpi quando si sposano, poiché il bambino non lo raccontò mai ad alcuno1.
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Questa fiaba mi è stata raccontata da mia nonna, che si chiamava Maria Rosaria Ferrero. Quando ero ormai grande, in un bellissimo film che s’intitola Sogni, di uno dei registi più bravi della storia del cinema, il giapponese Akira Kurosawa, ho ritrovato quella stessa fiaba. Ho così appreso che lo sposalizio delle volpi, “quando piove e c’è il sole” è anche un’antichissima leggenda giapponese. Dovete sapere che mia nonna non sapeva leggere, e dunque non poteva aver letto quella fiaba. E non s’era mai mossa da Montalbano Ionico (Matera, Basilicata) e dintorni. Chi l’aveva raccontata a mia nonna, dove l’aveva sentita? È partita dal Giappone, dalla Basilicata o da dove?
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I quattro figli del re che si dovevano maritare
Di questa fiaba, come capita per tutte le fiabe, se ne conoscono diverse versioni. Io ho notizia di tre che si raccontavano in Sicilia, di una che circolava a Firenze, di un’altra nel livornese e di una versione napoletana. Ne esistono di simili anche in altri paesi. Le versioni hanno diversi titoli: “I re delle sette montagne d’oro”, “I tre figli obbedienti”, ma il più diffuso è “La bella del mondo”. Quando questa fiaba arrivò in Basilicata venne intitolata “La Bella Fiorita”. Non so perché. E non so neppure se arrivò già con questo titolo. Della stessa fiaba che circola in Basilicata esistono diverse versioni, la più famosa delle quali è quella che Italo Calvino ha inserito nella sua raccolta di fiabe italiane con il titolo “Le principesse maritate al primo che passa”. Tutte le versioni hanno lo stesso intreccio e in ognuna cambiano alcuni particolari, anche importanti. Qualche versione per esempio dice di tre figli e qualcun’altra di quattro; alcune che tre sono femmine e uno è maschio, altre il contrario. Lo sapete come accade, che di bocca in bocca la storia si trasforma e chissà qual è l’originale. Ma voi già sapete che quella che sto per raccontare è la versione più bella, perché è quella che hanno raccontato a me. Me la raccontò, non so quante volte, su mia insistente richiesta, un’anziana signora amica di famiglia, comare Maria, quand’ero un bambino. Potete essere certi che un tempo lontano ciò che mi accingo a raccontare è accaduto veramente.
Il re di un regno non tanto vasto ma ricco e prosperoso, fu ferito da un cinghiale durante una battuta di caccia. Le ferite purtroppo erano molto profonde e i medici di corte disperavano di potergli salvare la vita. Perciò egli chiamò a sé i suoi quattro figli, tre femmine e un maschio, e li abbracciò uno ad uno chiedendo di non cedere al pianto, giacché aveva vissuto bene e se ne andava contento. Poi si rivolse al figlio maschio, che avrebbe ereditato la corona, e con un filo di voce disse: «Figlio mio, so che sarai un buon re. A te affido anche le tue sorelle. Sono certo che faresti qualunque cosa per la loro felicità, ma riguardo a chi devono sposare, giura che farai quanto io ti dico». Il principe giurò e il re riprese a dire: «Quando sarà giunta l’età che prendano marito, falle affacciare al balcone e dalle in moglie al primo uomo che passa, che non sia già maritato né bandito. Non importa se sia egli un nobile o un contadino e neppure che sia un pezzente». Il figlio fu molto addolorato da quella insolita richiesta, la trovò ingiusta e crudele, ma ormai aveva giurato e mai avrebbe infranto un giuramento, tanto più a suo padre morente. Anche le tre principesse restarono oltremodo turbate e addolorate da quella disposizione del padre e non riuscivano a farsene una ragione. Né loro né il fratello capivano perché. Attribuirono la richiesta del padre al delirio della morte vicina e pur disperati sapevano che ormai non potevano cambiare le cose. Non restava loro che sperare nella fortuna, che al momento giusto sotto il balcone passasse un uomo, non importava tanto se ricco o povero, ma almeno bello, gentile e giovane. Trascorse appena un anno e venne il momento per la sorella maggiore di prendere marito. Così il giorno del suo compleanno, con a fianco il re suo fratello, si mise al balcone. Di lì a poco passò di sotto un uomo con i vestiti sporchi di erba e fango, le scarpe di pezza e una canna a mo’ di bastone che reggeva poggiata su una spalla. Camminava di buona lena quando il re lo chiamò. «Ehi tu, dico a te che te ne vai con passo tanto svelto! Puoi far la cortesia di salire su da noi un momento?». 46
“Mi ha rotto la testa compare gallo” raccontava la maestra Giuseppina
Non si sa se era una favola, una filastrocca, o piuttosto una semplice tiritera come ce ne sono tante, fatto sta che la vecchia maestra Giuseppina la ripeteva ogni sera, tutte le estati, allorché usciva di casa con la sedia e si metteva comoda, lì proprio di fianco all’uscio. Gran parte del vicinato sul finire del giorno si radunava intorno alla comare. Ciascuno se ne veniva con la sua seggiola di legno e paglia, anche i bambini con le loro seggioline alte appena una spanna, e mentre il sole salutava restavano ad ascoltare quel raccontino, sempre uguale. Perché ci tenevano tanto a udire sempre la stessa storiella, quella sorta di filastrocca senza neppure le rime? Forse perché era ormai diventato un rito, una consuetudine, che come tutte le cose che si ripetono sempre uguali rassicurava e confortava. O forse perché erano tutti curiosi di sapere se anche quella sera avrebbe intonato la tiritera della volpe e di compare gallo. O forse ancora, più semplicemente, perché era un piacere, per tutti, ritrovarsi lì col primo fresco dopo una giornata calda, tanto più che dopo la storiella della maestra Giuseppina, si mettevano a parlare di tante altre cose, raramente tutti insieme e quasi sempre a piccoli gruppi. Se poi qualcuno prendeva a narrare un fatto accaduto, una storia sentita, allora ritornavano tutti attenti e insieme seguivano il racconto.
Insomma, io non so di preciso perché tornavano ogni sera a sentire la stessa storia, ma so di certo che Giuseppina, ch’era stata la maestra di loro tutti, raccontava tanto bene, con tante belle parole, che era un piacere ascoltarla. Tanto più che condiva la storia con incisi che sembravano lezioni e a ognuno di loro pareva di essere tornato a scuola. Così tutte le sere d’estate, per molte estati, la maestra sedeva davanti all’uscio di casa e non aspettava nessuno per cominciare a dire di quel bel mattino d’estate quando, appena spuntata l’alba, la volpe s’aggirava nei paraggi del pollaio sperando di catturare una delle galline, nel caso la contadina avesse aperto il cancelletto del recinto per farle razzolare nel prato. Comincia bene la giornata la volpe oggi è fortunata giacché la bella contadina ha lasciato libera la gallina. Melodiava comare Giuseppina mentre arrivavano i ritardatari. Quindi attaccava con la prosa... Difatti la contadina quella mattina aveva fatto uscire dal recinto la sua gallina preferita, l’ovaiola più grassa e bella, che aveva deposto le uova chissà dove lì intorno e sperava di seguirla e ritrovarle. La volpe che spiava con gli occhi furbetti dal suo nascondiglio aveva già il gargarozzo che faceva su e giù al pensiero di mangiarsi quella succulenta gallina e, con un po’ di fortuna in più, anche le uova che aveva nascosto. Così pensò di attirare con uno stratagemma la contadina al recinto. Andò vicino alla rete e la sua presenza minacciosa spaventò le altre galline. Le pennute un po’ sciocchine non pensarono che lì dentro erano al sicuro e cominciarono a starnazzare a più non posso. La contadina allarmata smise di seguire la sua ovaiola preferita e corse a vedere perché mai le altre si agitavano tanto. La volpe, con la goccia che colava da un lato della bocca aperta, corse svelta a catturare la gallina che si stava infilando sotto un cespuglio spinoso di more. 88
Ma ahimé quella gran furbetta non aveva previsto che a saetta compare gallo con una mossa lesta sarebbe volato a beccarla sulla testa Perché voi sapete che le galline, anche se non volano bene, hanno pur sempre le ali e appartengono alla famiglia degli uccelli, perciò possono spiccare qualche breve volo. E ciò dicendo la maestra Giuseppina li guardava uno ad uno, con piglio affettuoso ma severo, proprio come quando li scrutava a scuola per cogliere sui loro visi la conferma che erano stati attenti e avevano capito la spiegazione. Naturalmente non considerava che avendo detto la stessa cosa tutte le sere da chissà quanto tempo, dovevano per forza saperlo anche i più distratti. Eppure quella pausa con lo sguardo che indagava si ripeteva ogni volta, e dopo aver fatto con gli occhi il giro veloce delle facce, riprendeva a raccontare. Così il gallo volò sulla rete di fil di ferro e di lì fin sulla testa di comare volpe beccandola più e più volte. «Ahi ahi, che male, compare mio! M’hai rotto la testa. Come farò adesso ad andarmene in giro con questo bernoccolo?» si lamentava piagnucolando la volpe. «Te lo sei voluto, comare mia. E adesso, perché non si veda il bozzo che t’è spuntato sulla testa, vai da mastro cappellaio e fatti fare un cappello». La volpe frustrata e dolorante così fece. Andò dal cappellaio e con voce lamentosa chiese: «Mastro cappellaio, fammi un cappello poiché m’ha rotto la testa compare gallo e devo nascondere questo bernoccolo». «Per fare il cappello ci vuole la lana; va’ dalla capra e fattela dare, così potrò farti il cappello» rispose mastro cappellaio. 89
La volpe sconfortata e dolorante così fece. Andò dalla capra e con voce implorante chiese: «Comare capretta, dammi un po’ di lana che devo portare al cappellaio che mi deve fare un cappello perché m’ha rotto la testa compare gallo e devo nascondere il bernoccolo». «In cambio tu mi devi portare del sale, va’ dallo speziere e fattelo dare, poi io ti darò la lana» rispose comare capra. La volpe abbattuta e dolorante così fece. Andò dallo speziere e con voce stentata chiese: «Signor speziere, dammi del sale che devo portare alla capra che deve darmi un po’ di lana che devo portare al cappellaio che mi deve fare un cappello perché m’ha rotto la testa compare gallo e devo nascondere questo bernoccolo». «In cambio tu mi devi portare delle erbe per gli infusi che vendo, va’ dall’erbivendolo e fattele dare, poi io ti darò il sale» rispose lo speziere. La volpe sfiduciata e dolorante così fece. Andò dall’erbivendolo e con voce tremante chiese: «Signore erbivendolo, dammi delle erbe che devo portare allo speziere che mi deve dare il sale che devo portare alla capra che deve darmi un po’ di lana che devo portare al cappellaio che mi deve fare un cappello perché m’ha rotto la testa compare gallo e devo nascondere questo bernoccolo». «In cambio tu mi devi portare dell’acqua per innaffiare le piantine che coltivo nell’orto, va’ dalla fontana e fattela dare, poi io ti darò le erbe» rispose lo speziere. La volpe stanca e dolorante così fece. Andò dalla fontana e con voce mortificata chiese: «Comare fontana, dammi dell’acqua che devo portare all’erbivendolo che deve darmi delle erbe che devo portare allo speziere che mi deve dare il sale che devo portare alla capra che deve darmi un po’ di lana che devo portare al cappellaio che mi deve fare un cappello perché m’ha rotto la testa compare gallo e devo nascondere questo bernoccolo». «Io l’acqua te la do ma dove la metto? Va’ dal vasaio e fatti dare una brocca, poi io te la riempirò di acqua» rispose la fontana. La volpe sfinita e dolorante così fece. 90
Andò dal vasaio e con voce biascicata chiese: «Mastro vasaio, dammi una brocca che devo portare alla fontana che me la deve riempire d’acqua che devo portare all’erbivendolo che deve darmi delle erbe che devo portare allo speziere che mi deve dare il sale che devo portare alla capra che deve darmi un po’ di lana che devo portare al cappellaio che mi deve fare un cappello perché m’ha rotto la testa compare gallo e devo nascondere questo bernoccolo». «Io la brocca te la do ma devi portarmi della creta che mi serve per fare i vasi. Va’ dal fiume e fattela dare, poi io ti darò la brocca» rispose il vasaio. La volpe scoraggiata e dolorante così fece. Andò dal fiume e con voce fievole chiese: «Compare fiume, dammi della creta che devo portare al vasaio che deve darmi una brocca che devo portare alla fontana che me la deve riempire d’acqua che devo portare all’erbivendolo che deve darmi delle erbe che devo portare allo speziere che mi deve dare il sale che devo portare alla capra che deve darmi un po’ di lana che devo portare al cappellaio che mi deve fare un cappello perché m’ha rotto la testa compare gallo e devo nascondere questo bernoccolo». «Io la creta te la do, prendine quanta riesci a portarne con le due zampe» gorgogliò il fiume. «Ma come, non vuoi niente in cambio?» chiese stupita la volpe. «Cosa puoi mai darmi comare volpe? Non mi serve niente, perché io non sto mai fermo ed è già tanta la roba che mi porto appresso; non ho proprio voglia di fare più fatica» rispose allegramente il fiume. Così la volpe prese la creta che portò al vasaio che le dette una brocca che portò alla fontana che gliela riempì d’acqua che portò all’erbivendolo che le dette delle erbe che portò allo speziere che le dette il sale che portò alla capra che le dette un po’ di lana che portò al cappellaio che le fece un cappello per nascondere quel bernoccolo che compare gallo le aveva fatto quando le aveva rotto la testa. Ma in tutto quel tempo il bernoccolo s’era sgonfiato e la volpe non aveva più bisogno del cappello per nasconderlo così se ne andò con il cappello e tornò al pollaio. «Compare gallo!» chiamò a voce alta e non più dolorante. 91
Il gallo s’avvicinò alla rete e chiese: «Che vuoi, comare, sei ancora in cerca di guai?». «No, compare mio... anzi, sono venuto a regalarti questo cappello, tanto a me non serve più poiché il bernoccolo che tu mi avevi fatto si è sgonfiato», rispose melliflua la volpe. Il gallo allora agitò le ali e spiccò il volo sin sul filo della rete e di lì a terra. Prese il cappello e se lo mise sulla testa. «Come ti sta bene, compare gallo!», lo blandì con finto entusiasmo la volpe. «Dovresti fare un bel giro e farti ammirare da tutti». Il gallo impettito e a passi misurati zampettò verso il villaggio, orgoglioso del cappello e dell’aspetto pomposo e fiero che esso gli donava. Come il gallo si fu allontanato la volpe cominciò a scavare la terra sotto la rete del pollaio, decisa a rifarsi del dolore subìto catturando una grassa gallina. Ma il gallo, che proprio scemo non era, aveva capito le sue intenzioni e il fine che aveva quell’inaspettato regalo, perciò girò intorno a un cespuglio profumato di ginepro e tornò indietro. Sorprese la volpe che scavava il passaggio e saltata di nuovo la rete le piombò addosso beccandola ripetutamente sulla testa. Così alla sventurata spuntò un altro bernoccolo, più grosso del primo. «Ahi ahi, che male, compare mio! M’hai rotto ancora la testa. Ridammi il cappello che devo nascondere questo nuovo bernoccolo», si lamentò piagnucolando la volpe. «E no, comare mia, me lo hai regalato e me lo tengo. L’hai detto tu che mi sta bene! Vai da mastro cappellaio e fatti fare un altro cappello». La volpe frustrata e dolorante così fece. Andò dal cappellaio e con voce lamentosa chiese: «Mastro cappellaio fammi un altro cappello poiché mi ha ancora rotto la testa compare gallo e devo nascondere questo nuovo bernoccolo». «Per fare il cappello ci vuole dell’altra lana; va’ dalla capra e fattela dare, così potrò farti il cappello» rispose mastro cappellaio. La volpe sconfortata e dolorante così fece. Andò dalla capra e con voce implorante chiese: «Comare capretta dammi ancora un po’ di lana che devo portare al cappellaio che mi deve 92
fare un altro cappello perché m’ha rotto di nuovo la testa compare gallo e devo...». A questo punto, invariabilmente, la maestra Giuseppina sbadigliava, ogni volta proprio dopo la parola “devo”. Subito dopo s’alzava, prendeva la sua seggiola, augurava la buona notte a tutti e rientrava nella sua casetta chiudendo la porta. Uno ad uno anche i vicini se ne tornavano alle loro case con le sedie in mano. A volte capitava che qualcuno restasse pochi minuti ancora per finire un discorso o per rispondere a qualche domanda, ma nel giro di poco tempo la strada diventava deserta e silenziosa. Finché una sera, d’estate naturalmente, nell’ora che il sole cominciava a salutare ed era già scomparso dietro i tetti delle case più alte, i vicini arrivarono come al solito portandosi le sedie ma la maestra Giuseppina non era lì seduta al suo solito posto, proprio di fianco all’uscio di casa sua. Si guardarono l’un l’altro, i piccoli increduli, i grandi temendo di conoscere la ragione della sua assenza. Restarono lì immobili, per pochi secondi che però sembrarono non passare mai, indecisi sul da farsi, aspettando che qualcuno facesse qualcosa. Fu la maestra Filomena, che proprio quell’estate era andata in pensione, a muoversi e ad entrare nella casa di Giuseppina. Tutti restarono lì fuori con il fiato sospeso, i piccoli mentre si chiedevano che cosa stesse capitando, i grandi in attesa della notizia. La maestra Giuseppina era morta. Così la trovò maestra Filomena, nel suo letto vestita di tutto punto, con un’espressione dolce e serena sul volto. Maestra Filomena uscì e non pronunciò parola, ma tutti ebbero la conferma di quel che già sapevano. Anche i piccoli a quel punto intuirono la triste verità. Tutti seguirono maestra Filomena che andò verso casa sua, posò la sua sedia proprio lì di fianco all’uscio e cominciò a raccontare: Era un bel mattino d’estate quando, appena spuntata l’alba, la volpe s’aggirava nei paraggi del pollaio sperando di catturare una delle galline, 93
casomai la contadina avesse aperto il cancelletto del recinto per farle razzolare nel prato. Alla spicciolata tutti si misero a sedere sulle proprie seggiole, intorno a maestra Filomena che continuò a raccontare melodiando: Comincia bene la giornata la volpe oggi è fortunata giacchÊ la bella contadina ha lasciato libera la gallina.
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Indice
Una fiaba al giorno
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di Stefano Gorla
La fiaba delle fiabe
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di Enzo Perriello
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Lo Sposalizio della Volpe . . . . . . Cicoriella . . . . . . . . . . Angelina la figlia più piccola - Parte prima . . Angelina la figlia più piccola - Parte seconda . . Il fico generoso . . . . . . . . . I quattro figli del re che si dovevano maritare . Il Monacicchio . . . . . . . . . Il principe e la rana - Parte prima . . . . . Il principe e la rana - Parte seconda . . . . “Mi ha rotto la testa compare gallo” raccontava la maestra Giuseppina . . . La principessa e il calzolaio .
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25 . . 29 . . 35 . . 45 . . 53 . . 59 . . 77 . . 83 . . 91
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Ovvero il Cavallo Verde, la Bella del mondo e altre prove .
Crapapelata
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I tre prìncipi e l’acqua della vita . . . . . . 137 Il pastore e Marzo . . . . . . . . . . 151 Il mortaio d’oro. Ovvero Quel che vale di più . . 157 La ricotta di Caterina . . . . . . . . . 169 Lo Stupore del Mondo . . . . . . . . . 175 La foresta del non ritorno . . . . . . . . 179 C’era una volta un corvo che raccontava storie . . . 191 Il giardino di mastro Martino . . . . . . . 195
Una delle storie più belle
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