Hans Henny Jahnn
13 storie inospitali
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Apparse presso Rowohlt nel 1954, le 13 storie inospitali chiudono il cerchio delle opere narrative di Hans Henny Jahnn. Questi torsi di prosa ritagliati da Perrudja (1929) e dallo sterminato corpo di Fiume senza rive (1949-61) affidano alle carte una costellazione minima dei temi e delle ossessioni dell’autore. Baedeker di Atlantide, canzoniere ultimo e, stante la sua natura testamentaria, maschera funebre dello stesso Jahnn, le Storie rappresentano l’ideale viatico per un continente inabissato. Al discrimine tra sogno e mito, i racconti sono governati dalla follia e dal doppio, dall’eros e dalla morte, dall’amore fra consimili e consanguinei: un soffio tragico attraversa perennemente la natura, questa macchina fatale. Le invarianti del potere e della guerra di ogni tempo, l’urlio del mondo, risplendono in tutta la loro terribilità, così come la resistenza e lo scacco perpetuo nei confronti della Zivilisation, ovvero del «cannibalismo, travestito da ordine civile, della ratio» (F. Masini). Il manierismo magico di Jahnn – campo in cui si trovano combinate le forze scatenanti dell’Espressionismo – gemma tredici “leggende spietate” dove l’elemento fantastico e perturbante reca lo stigma di una narrazione arcaica e intemporale, preluterana. Ancora oggi le sue pagine sono sempre più numerose dei suoi lettori. Ma il costruttore d’organi, questo grande eretico e solitario delle lettere tedesche rimane, con Döblin e Musil, tra i fondatori dell’epos moderno. (D.P.)
collana arno 11
Hans Henny Jahnn
13 storie inospitali A cura di Domenico Pinto Traduzione di Elisa Perotti Postfazione di Andrea Raos Con un saggio di Ferruccio Masini
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Hans Henny Jahnn 13 storie inospitali Lavieri editore / ISBN 978-88-89312-59-9 A cura di Domenico Pinto Traduzione di Elisa Perotti Postfazione di Andrea Raos Copyright © 2010 Ipermedium comunicazione e servizi s.a.s. Con un saggio di Ferruccio Masini Arno n.11 Collana diretta da Domenico Pinto
Titolo originale dell’opera: 13 nicht geheure Geschichten © 1974 Hoffmann und Campe Verlag, Hamburg, Germany. I racconti Ragna e Nils, La storia dello schiavo, Il re sassanide, La storia dei due gemelli, Un fanciullo piange e I mangiatori di marmellata sono tratti da Perrudja , pubblicato per la prima volta da Gustav Kiepenheuer Verlag, Berlino 1929. L’orologiaio, Il coltivatore, Kebad Kenya, Mov, Un signore sceglie il suo servo, Il tuffatore e Cavalli rubati sono tratti dalla trilogia Fluss ohne U fer. Le prime due parti (Das Holzschiff e Die Niederschrift des Gustav Anias Horn nachdem er 49 Jahre alt geworden war) apparvero inizialmente presso Willi Weismann Verlag (1949-50), la terza (Epilog) da Europäischer Verlagsanstalt (1961).
Lavieri edizioni via IV Novembre, 19 - 81020 - S. Angelo in Formis (CE) via Canala, 55 - 85050 - Villa d’Agri (PZ) —— www.lavieri.it / info@lavieri.it
Sommario
13 storie inospitali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7 1. Ragna e Nils . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9 2. La storia dello schiavo . . . . . . . . . . . . . . . 17 3. L’orologiaio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31 4. Il re sassanide . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35 5. Il coltivatore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51 6. La storia dei due gemelli . . . . . . . . . . . . . . 57 7. Un fanciullo piange . . . . . . . . . . . . . . . . 63 8. Kebad Kenya . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75 9. I mangiatori di marmellata . . . . . . . . . . . . . 85 10. Mov . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 117 11. Un signore sceglie il suo servo . . . . . . . . . . 123 12. Il tuffatore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 141 13. Cavalli rubati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 167
Postfazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 177 di Andrea Raos
Perrudja . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 179 di Ferruccio Masini
13 storie inospitali
12. Il tuffatore
Approdavano alla rada grandi navi cariche di stranieri che avevano pagato perché gli fossero mostrati una terra magnifica e un clima magnifico, nonché questa o quella ambiguità. Gli uomini sapevano trovare le loro vie segrete, e per gli occhi delle donne e delle ragazze, senza rinunciare all’onorabilità, c’era qualche bell’esemplare di carne maschile. C’erano sempre dei ragazzi sul molo di Santa Catalina. Portavano le valigie, vendevano fichi o mandorle, mendicavano o se ne stavano semplicemente lì a catturare sguardi. Alcuni sedevano nudi, solo un telo ai fianchi. Erano sempre pronti a saltare in acqua. A tale scopo gli regalavano sigarette e monetine. Gliele davano quando riemergevano dall’acqua. Poteva poi capitare di vederli di nuovo seduti sulla banchina o sul reticolato di un parapetto nudi e bagnati, la pelle lucida e imperlata di gocce d’acqua, il telo ai fianchi allentato, quasi trasparente. Erano belli. Si differenziavano l’uno dall’altro; d’altra parte, però, la differenza non era forte. Le loro sembianze si avvicinavano quasi come le età. A volte qualcuno gettava delle monete in mare; i nuotatori si immergevano e le portavano in superficie. Quando riemergevano, tenevano le monete per lo più serrate tra le labbra. Stringevano le labbra con singolare piacere; non si servivano dei denti. L’immersione non era l’apice della loro bravura. Senza dubbio alcuni di essi, coloro che stavano sul molo esterno, avevano portato alla perfezione assoluta l’arte di nuotare nelle acque chiare e profonde dell’oceano, giù nel fondale, accanto alle pareti di acciaio dei transatlantici. Nelle profondità sembravano bestie inquietanti. Rammentavano le seppie giganti. Ma a Santa Catalina la massima bravura consisteva nel correre le acque come un delfino. I nuotatori remavano nelle immediate vicinanze di traghetti e piccoli piroscafi a vapore, si immergevano sotto la chiglia delle imbarcazioni, per poi riapparire subito a sinistra o a destra. Si arrischiavano vicino alle
eliche che giravano vorticose e davano spettacolo fingendo di fermarle con la mano. Tutto ciò era molto eccitante. Nessuno pensava che era stata la povertà a creare queste pericolose abilità, e che le monetine raccolte da quegli uomini significavano pane. Due o tre di loro avevano i capelli blu. E la pelle folta come il manto di un animale. Nera. Ma non come quella di un negro. Il viso colmo del dolore e del disprezzo di tutte le razze umane oppresse. Eppure proporzionato come la cavità dell’ombelico in una statua greca. Sedevano per lo più sulle pietre incandescenti della banchina. Vedevo uomini pallidi dargli delle pacche sulle cosce col palmo della mano. Vedevo le donne guardar fisso il telo. Mi sedetti sulla banchina e mi feci un amico. Dissi a uno dei nuotatori: «Perché ti butti in acqua quando qualcuno perde una monetina?» Non rispose, si limitò a guardarmi sprezzante. Poi si gettò in acqua, riemerse, aveva una monetina tra le labbra. «Perché tu non ne hai», mi rispose dopo essersi seduto di nuovo sul muro rovente della banchina. Senza proferire parola gli porsi una banconota da mezza sterlina. «Questo», dissi, «è perché tu non abbia a disprezzarmi». Anziché gioire, il viso si fece triste. Il labbro inferiore si abbandonò. «Dove andiamo?» chiese. Scossi il capo. «Parleremo un po’ insieme. E forse sarà una bella chiacchierata». Tacque. Ero inquietante ai suoi occhi. Trasse a sé la banconota, fissò il testo stampato per una mezz’ora. (Non sapeva leggere, ma sapeva che era un biglietto di valore). Lo osservai. Notai una peculiarità che non avevo mai visto in nessuno prima di lui. I capezzoli erano come di ferro, ricchi di spigoli, tanto che avresti creduto di ferirti toccandoli. Aveva le orecchie piccole, quasi tonde, la pelle nera e rossastra, solo su un braccio c’era un pezzettino di pelle chiara, un anello intarsiato di bianco. – Che animale, che animale superbo! – pensai. Come molti dei nuotatori era più robusto che magro. Aveva mani grandi, rozze, ma non callose, posate sugli alberi delle braccia come monconi di rami fiabeschi. Non pativa la fame. Raccoglieva le monete di maggior valore col canto di lode delle sembianze ereditate da madre e padre, sembianze correlate dalla perfezione interna di polmoni, reni, viscere, vene e cuore. Non ho 144
mai saputo come fosse il cervello. Se non avesse avuto un tratto stanco e addolorato sulla bocca, si sarebbe potuto pensare che gli fosse risparmiato il tormento dei pensieri. Dopo alcuni giorni dava già per scontato che avrei trascorso le mie ore alla banchina. Aveva un posto fisso. Era impossibile non trovarlo. Gli arrotolavo le sigarette. Le prendeva con mani umide e salate. Non ricordo che ci fossimo mai scambiati parole dure. Ci limitavamo ad argomenti di carattere molto generale. Rimanevamo per lo più in silenzio. Lo guardavo. Egli non mi guardava. Di tanto in tanto si immergeva. Talvolta mi chiedeva di buttare in acqua una moneta. Sceglievo monete dal valore sempre maggiore. E così lo mantenevo senza che si vergognasse. Si tuffava nelle profondità per portare su ciò che gli apparteneva. Diventò riservato con gli stranieri che arrivavano a bordo delle navi albergo. Lasciava di buon grado il magro guadagno agli altri nuotatori. Se fossi stato attento, avrei potuto notare sin dal primo giorno che non si immergeva volentieri. Era un delfino, doveva raggiungere di continuo e in fretta la superficie dell’acqua. Giungemmo al punto di concordare il valore della moneta per cui si immergeva tutti i giorni. Strano a dirsi, ma non sono mai venuto a conoscenza di neppure un minuscolo dettaglio della sfera privata di questo nuotatore. Non seppi mai come e dove abitava, se avesse genitori o parenti, se andasse a ballare ogni tanto, se avesse un’amante o un amico. Non lo vidi mai fare i propri bisogni. Non l’ho mai visto con dei vestiti. Quando la giornata alla banchina giungeva al termine, scompariva. Per comparire quando ricominciava. E il nome che mi disse era un nome falso. «Augustus». Quale donna dalla formazione umanistica poteva avergli suggerito la follia di farsi chiamare così? D’altra parte non era necessario che conoscessi il suo vero nome. Non lo chiamavo mai, non lo salutavo mai con le parole. Una volta sola avrei voluto sapere di più su di lui! Quando morì. Lo vidi morire. Non esalare il suo ultimo respiro. Accadde in modo diverso. Ero come una pianta che viene esposta al sole tutti i giorni. Il mio posto era accanto all’ormeggio dei motoscafi e dei vaporetti inviati dai transatlantici. Era il suo posto che egli condivideva con me. E nonostante il traffico intenso e il rumore che proveniva dal porto, era un luogo appartato. Poteva succedere che delle casse ci ostacolassero la visuale. 145
Venivamo raggiunti quasi sempre da un puzzo intenso. Capitò che mi tirarono addosso dei frutti marci. In altre occasioni un adolescente volle dividere con me le conchiglie perché sperava di trarne un tornaconto. Una volta un vegliardo mi sputò sul piede dal parapetto su cui si era arrampicato. E dallo stesso parapetto un bambino si svuotò la vescica. Ma furono avvenimenti sporadici. Le settimane erano estremamente uniformi. Acquisii l’abilità di seccare al sole senza sogni né pensieri. Mi nutrivo delle poche parole d’avanzo del nuotatore accovacciato accanto a me. Era l’unico cibo per la mia anima. Io nutrivo il suo corpo splendido. Non solo con le monete sonanti. I giorni sono lunghi. Il sole è caldo. Ci sono la fame e la sete. Ovunque il profumo e la puzza dei frutti che maturavano o stavano già marcendo. Ne portavo un po’ insieme a pane e vino. Prendeva solo il pane e il vino. Giunsi alla conclusione che a piacergli di più era la carne. Quella di capra dura. Minestra salata in cui nuotava la carne, disgustosa e dalla consistenza del cuoio. Scoprii un fornaio che faceva dei vol-au-vent la cui pasta sapeva di olive ed era farcita di code d’aragosta e petto di pollo. Il tuffatore mangiava di gusto questi vol-au-vent, e anch’io li mangiavo. La sera, quando ero solo, mi chiedevo a che cosa dovesse mirare il mio vacuo cameratismo, che cosa mi aspettassi, come si sarebbe concluso. Non c’era nulla da esaminare, nulla da svelare. Osservavo un bell’animale, giorno dopo giorno. Se avessi avuto dei cattivi pensieri mi sarei vergognato davanti a lui. Non ero alla ricerca di occasioni a buon mercato. Ma per lo meno mi aspettavo ciò che mi era stato destinato. Non volli tornare. Però tutto ciò che riuscii a ricavare da tale proposito fu di arrivare due o tre ore in ritardo il giorno successivo, dopo aver girovagato per strada senza alcun profitto. Mi esercitai in questa intenzione, perseverando nel mio ritardo sterile. Una volta capitai in una chiesa. Dalle mura annerite dell’interno si protendevano figure barocche in oro sbiadito. Pigiati e compressi come una massa umana, si riversavano giù da un arco angeli grassi, putti, amorini di un tempo. Percepivo quella carne dorata come una minaccia spaventosa. Polpacci di bambino, guance paffute, posteriori intagliati, braccia deformi, ombelichi trapanati, mani semiparalizzate, ali e teli ai fianchi irrigiditisi a mezzo del movimento. Odoravo il vapore dolciastro dell’incenso, un’aria che sapeva di bruciato come di polvere incendiata, un’umidità 146
soffocante, come se i cadaveri stessero respirando sotto le mattonelle. E rimasi lì parecchie ore. Vidi le candele consumarsi. Vidi i più poveri tra i poveri perdere il loro dolore. Vidi le malattie addensatesi nel petto, nello stomaco e nelle membra cadenti arginarsi per un istante. Ebbi l’impressione che parte dell’oro consunto si posasse sulle labbra degli oranti. Vidi un fiume oscuro e profondo sotto di me separarmi da ogni consolazione e redenzione. Avvertii la dannazione aderirmi come un abito. Mi salì agli occhi una lacrima. Ma non avevo rimorsi. Avevo l’orgoglio di un angelo caduto. Dissacrato e orgoglioso. Senza preghiere nel cervello. Mi presentavo con delle accuse. C’era un dio da qualche parte, avvolto in un mantello ampio; sul mento gli cresceva una lunga, vecchia barba. Aveva mani ossute e occhi miopi. Non era lì per me. Uscii così come ero entrato, non purificato. Andai alla banchina. Mangiammo i vol-au-vent, bevemmo il vino. E i miei pensieri si volatilizzarono, come si volatilizzano i pensieri di fronte ai grandi dolori. E il tempo passava e non cambiava nulla. L’evento doveva venire da me, non fui io ad andargli incontro. Accadde che ad Augustus venne voglia di dare sfoggio della sua abilità di fronte a molte persone. Vinse la pigrizia che lo rivestiva come un rampicante. Salì a bordo di un pontone su cui avevano preso posto in tanti. Si sedette sui tiranti della griglia di ferro che circondava la piattaforma della nave. Curvò la schiena, afferrò uno dei tiranti con la mano possente. Rivolse lo sguardo verso di me, sprezzante, annoiato, il labbro inferiore abbandonato, come se fosse stanco di tutti i piaceri, di quelli già goduti e di quelli futuri. E mi resi conto che, nonostante gli incontri quotidiani, era un perfetto sconosciuto per me. La sua esistenza e le sue pulsioni mi erano ignote. La nave si avvicinò scivolando sull’acqua. L’elica gorgogliava. Verde intenso, frammisto a bolle bianche, il liquido girava vorticosamente spingendosi oltre l’involucro piombato della baia del porto. Sul parapetto gocciolarono alcune monete. Augustus si gettò in mare di schiena; nuotò a delfino. Riemerse, sputò l’acqua, scomparve di nuovo sotto la chiglia piatta. La nave scivolò via. Guadagnò una distanza notevole dal muro della banchina. Gli occhi degli stranieri cozzavano contro la superficie dell’acqua. Andavano in cerca del punto in cui lo schiavo negro sarebbe riemerso. 147
Il cuore cominciò a battermi all’impazzata. Dopo pochi minuti persi ogni speranza. Mi calò sugli occhi un filtro nero. Dissi tra me e me che non potevo svenire. Il pontone si spinse verso il mare aperto. Non si capiva che cosa si proponessero di fare i passeggeri infervorati. Forse erano già tornati tranquilli e si sentivano ingannati. Guardai se per caso stesse arrivando una barca. Feci scivolare la schiena lentamente lungo i pioli di una scala della banchina. Sciolsi la gomena titubante, remavo fiacco. I miei occhi erano alla ricerca. All’improvviso videro il suo viso galleggiare dondolando tra le onde quiete. Remai fino a quel punto. Feci cenno ai tuffatori che sedevano alla banchina di nuotare verso di me e aiutarmi. Non uno si mosse. Vidi la testa morta. Afferrai quei ciuffi duri e tentai di tirare il corpo in barca. Invano. Vidi con orrore che l’acqua attorno al corpo senza vita si stava colorando. Rosso pallido. Gli legai una gomena intorno al capo e mi annodai l’estremità libera intorno al ventre. Poi ricominciai a remare. Via dal punto in cui era successo. Un minuto prima avevo ancora sperato che potesse essere vivo. Non speravo più. La corrente che muoveva la barca fece emergere il cadavere. Invece della pelle scura della pancia individuai dei brandelli sparsi rosa pallido e grigi. Guardai e non guardai. Continuai a remare, sapevo solo che era morto. Remai a lungo, finché non prese forma dentro di me una risoluzione. Quella morte era affar mio. Non potevo scappare. Stavo per spingermi in alto mare. Non era ciò che volevo. Ma guadagnavo tempo. Mi ripetevo che quella morte era affar mio. Che quel cadavere era il mio cadavere. Nulla dell’uomo in vita mi era appartenuto, ad appartenermi erano i suoi resti. Smisi di remare. Mi sporsi dalla barca. Cullai quel corpo finché non raggiunse la superficie. Volevo vedere la ferita. Una nebbia fredda avvolse nel ghiaccio il mio cervello. Gli occhi privi di lacrime videro il ventre sfondato e lacerato. L’elica della nave doveva aver affondato le pale nella carne tenera. Affioravano le viscere. Ma la cosa più tremenda era il bacino fracassato. Lasciai che il cadavere scivolasse via da me un’altra volta, così che la gomena tornò ad essere il nostro unico legame. Remai più velocemente possibile verso terra per accelerare il corso degli eventi, saldo nei miei propositi. Per alcuni minuti avvertii il peso insostenibile della mia solitudine. Non avevo pensieri se non questo, questo senti148
mento lamentoso e annichilente di essere solo e isolato, senza amore, senza speranza, senza fiducia. Mi salvai pensando che forse la colpa di quella morte ricadeva su di me. Le mie stolte visite alla banchina avevano viziato un po’ quel corpo superbo, ingrassandolo, indebolendolo per il difficile lavoro delle braccia. In ogni caso, sicuramente senza cattive intenzioni, ma causando un qualche effetto, gli avevo impedito di esercitarsi meglio nel far fronte ai pericoli. Come avrebbe potuto sopraffarlo l’elica di un piroscafo se fosse stato nel pieno possesso del suo vigore (quando lo avevo conosciuto aveva i muscoli straordinariamente robusti e sodi allo stesso tempo: forse che adesso erano un po’ più molli, e i nervi meno saldi avevano esitato per una frazione di tempo irrisoria)? Come era potuto succedere? Bastava per una spiegazione che a quel corpo sano si fosse aggiunto del grasso e che alcuni muscoli si fossero ridotti? Giunsi a un punto del porto dove avevano costruito un piano di scorrimento inclinato, in granito, per poter tirare le barche a riva. I panconi rivestiti di ferro entrano in acqua. Su questo scalo di costruzione si sono insediati alghe e molluschi. La struttura è vuota. Le piante marine emanano un odore pungente di bromo e liquame. I piedi scivolavano sulle alghe poltigliose e flosce. Solo i cocci delle conchiglie schiacciate offrivano loro un sostegno. Tirai su la barca per metà, l’altra metà la lasciai galleggiare in acqua. Trascinai il cadavere, che giaceva di schiena come un impiccato, sul piano inclinato, all’asciutto. Il telo ai fianchi era sparito. Si vedeva l’orrenda mutilazione. Mi voltai. Mi rivolsi ad alcuni uomini che si erano avvicinati lentamente. Li pregai di informare un funzionario di polizia. Non volevo abbandonare il cadavere. Non mi risposero. Osservavano il mutilato. Pronunciarono l’atrocità, dissero che il morto aveva smesso di essere un uomo. Aspettavo tenendo in mano il capo della gomena con cui avevo sollevato il cadavere. Il sole ardeva. Gli uomini aumentavano. Dei bambini che correvano lì vicino lanciarono strane grida. Alcune donne vennero allontanate. Stavo per soccombere all’irresolutezza, alla vergogna e alla tristezza. Mi tenevo in piedi solo perché non volevo abbandonare il cadavere. Era ciò che mi ero prefissato. Quella morte era affar mio. Ecco perché ero là, vergognoso, triste, estraneo a me stesso, un nemico di tutti gli uomini. 149
Coloro che erano lì attorno spiegarono al funzionario di polizia tutto ciò che sapevano e non sapevano. E presto egli sapeva più di tutti messi insieme. Mi chiese solo: «E ora?» La domanda mi stupì. Mi aspettavo infatti che avrebbe cominciato a dare ordini a destra e a manca, che avrebbe addirittura tentato di separarmi dal cadavere – e mi ero armato per opporre resistenza ai suoi ordini. Per questo risposi esitante: «All’ospedale –». Dovevo guadagnare tempo, arrivare in un altro ambiente. Una volta che il mio cervello si fosse abituato allo spavento, avrei potuto mettere in ordine più facilmente ciò che era da mettere in ordine. In quel momento tenevo in serbo delle bugie più o meno appropriate per distogliere il funzionario da qualsiasi provvedimento che avrebbe potuto prendere. Ero già pentito della mia affermazione. La completai: «– Non all’ospedale inglese». Era nelle vicinanze. Si sarebbe impiegato troppo poco tempo per arrivare là. Ma egli chiese ancora: «Lei ha del denaro?» Annuii. Infilai la mano in tasca. Tirai fuori una banconota e la porsi al funzionario. Non la prese. «Ne ha dell’altro?», chiese. Annuii. Si allontanò. La folla tracciava un cerchio intorno a me e al morto. Mantenevano una certa distanza, di rispetto, di ripugnanza, di sconcerto, da «io non voglio essere coinvolto». L’istinto suggeriva loro che stava succedendo qualcosa di sconveniente, qualcosa di riprovevole che non potevano impedire perché ne era promotore uno straniero dai pensieri confusi e dalle usanze impure. Si ricordarono del loro orgoglio. Erano spagnoli (la maggioranza, e gli altri volevano esserlo). I loro antenati avevano praticamente sterminato i Guanci. Erano stati come la peste. E la peste era stata con loro. Ma questo tuffatore o nuotatore era meno di un guancio dagli occhi verdi. Un mezzo indiano, mezzo negro, una specie di schiavo, un intero groviglio di schiavi in cui era stato pressato un pezzo di pelle bianca. Il funzionario di polizia andava innanzi a una «tartana», un carro a due ruote trainato da un mulo con un tettuccio rotondo di lino. Si era 150
impossessata di lui un’alterigia di cui non individuai la causa. (Non individuiamo mai la causa dell’alterigia di coloro che la legge manda contro di noi). Con voce penetrante mi ordinò di deporre il cadavere sul carro. Esitai. Egli fece indietreggiare di qualche passo i curiosi. Pensai di adagiare il morto su una panca e di sedermi sull’altra. Forse il funzionario di polizia avrebbe ritenuto suo dovere farmi compagnia. Così presi il corpo, lo sollevai tenendolo tra le braccia e lo portai sul carro. «Salire», mi intimò il funzionario di polizia. Mi obbligò a prendere posto di fronte al cadavere. Ordinò al cocchiere di spronare l’animale; egli seguì il veicolo. Mi sporsi dal tettuccio. «Non all’ospedale inglese», ripetei. Quando il carro sobbalzava sulle asperità, la bocca del mio amico muto vomitava un po’ di acqua e catarro. Quel non so che di sprezzante che gli aveva sfiorato il viso in vita aveva ceduto il posto a un’espressione angosciata. Solo le braccia possenti e il petto magnifico sembravano immutati. La strada che prendemmo era in salita. A tratti fummo accompagnati dallo sguardo delle persone. I piedi di Augustus sporgevano dal carretto. Il funzionario di polizia sollevò il capo verso di me con fare confidenziale. Io chinai il mio verso di lui con fare confidenziale. Vidi le sue mani appoggiarsi al bordo del carro, cosa che gli permise di avvicinare il viso al mio senza perdere l’equilibrio o inciampare. «Lei aveva una banconota pronta per me», disse. Stranamente lo capii subito, nonostante lo strepitio delle ruote. Tirai fuori la banconota e gliela porsi senza dare nell’occhio. «L’ospedale del Vecchio si trova su un’altura che domina la città», disse, «in un castagneto. Vedrà, dovrà sistemare la sua faccenda da solo». Gridò al guardiano di muli: «Non disonorare i tuoi genitori e il tuo santo». L’altro era ancora più superbo. Rispose: «Non ho mai portato in giro nessuno del genere: un matto e un morto senza vestiti; ma la mia anima non verrà compromessa perché si sa adattare. Non priverò il vecchio professore della lordura. Ci si può fidare di me». «Il signore paga», disse il funzionario. Scomparve all’improvviso. Scesi e avanzai di fianco al carretto. Ci lasciammo la città alle spalle. Il sentiero 151
continuava in salita. Si snodava in curve. I campi arati con cura si alternavano a piantagioni di palme e fichi. In lontananza un boschetto di begli allori. Dalla strada esalava una polvere calda. Giungemmo a un parco con dei castagni. Una grande baracca ricoperta di lastre di ferro zincate – quello era l’ospedale. O di meno, un improbabile reparto medico. Come avevo posto il cadavere sul carro, così avrei voluto farlo scendere. Ma non fu possibile. Si presentarono due suore con una barella. Il frammento di viso lasciato libero dall’abito era dolce e leggiadro; le mani virili e spietate. Con una risolutezza brutale afferrarono il morto e lo gettarono sulla barella. Ancor prima che avessi potuto obiettare, avevano sollevato e portato in casa il lettuccio. Volevo seguirle ma il guardiano di muli chiedeva la sua ricompensa. Persi minuti preziosi. Feci i conti con l’uomo in tutta fretta. Poi entrai nella casa. Una volta dentro, una terza suora mi sbarrò la strada. «Cosa vuole?» chiese aspra e sprezzante. Persi immediatamente il controllo. La fissai in volto. Era irriconoscibile. Una maschera dagli occhi vivi, giudicanti. «Sto vedendo il suo viso intero?» chiesi a mia volta, in preda all’odio e alla paura. Non si mosse, neanche un battito di ciglia. «Cosa vuole?» ripeté. Tacqui alcuni istanti, mi ricomposi. «Vorrei vedere il signor professore – il signor Vecchio – o come si chiama – ho capito così – ». Si allontanò in fretta, quasi volando. Dopo un po’ fu di ritorno. «Qual è la sua richiesta?» un’altra domanda anziché una risposta. «L’ho già detto», risposi, «voglio parlare col signor professore». «Non è fattibile se lei non mi confida la sua richiesta», disse. «La morte di un uomo non è un motivo sufficiente?» gridai. «Riferisco», disse e scomparve un’altra volta. Ritornò e mi comunicò: «Questo non è orario di visita». «Non lascerò che mi buttiate fuori», ribattei accaldato, «ho portato qui un morto, occorrerà ascoltarmi». «Si può sapere che cosa vuole?», disse un uomo che mi ritrovai di fronte all’improvviso. «Com’è arrivato qui? Cosa ha lei a che fare con il cadavere?» 152
Capii subito che colui che aveva parlato era il Vecchio. Vidi i suoi occhi verdi. Furono la prima cosa che vidi. E solo dopo la barba enorme e incolta che era risalita fin sotto gli occhi. Mi resi conto solo in un secondo momento che su quel viso c’erano anche alcune macchie di pelle pallida. La barba era più rossa che bianca. Una fiamma imponente che divampava verso il basso. La fronte era una lastra di cera senza vita; i capelli fini erano pettinati come una parrucca (chi lo sa, forse era proprio una parrucca), con la scriminatura imperlata di grasso. – Ero perduto, lo sentivo, se non avessi avuto subito una buona idea, perché non sapevo proprio più che cosa pensare e chi avevo davanti. Quella parola, «Vecchio», non era sufficiente. Il groviglio della barba mi confondeva ulteriormente. Dissi tra me e me: «Non ha mento; nasconde il suo essere ridicolo». Ma all’improvviso vidi che era alto, robusto, di grande forza fisica; avrebbe potuto ammazzarmi a mani nude. Era un gigante; cosa che avevo ignorato al primo impatto; come se in quell’istante fosse cresciuto di una testa. Mi sfuggiva del tutto come avessi potuto tralasciare l’entità delle sue dimensioni. Nella mia perplessità cercai di nuovo gli occhi verdi che, me ne accorsi per la prima volta ora, rilucevano alti sopra di me come pietre affilate. Brillavano di un’avidità di sapere inquietante, forse anche maligna. Ma contemporaneamente, o appena dopo il luccichio vetroso, si spensero o si chiusero dal disgusto e dalla stanchezza. Guardavo senza pudore quel viso trasparente. «Cosa ha lei a che fare con il cadavere?» chiese un’altra volta. «Lei è il signor professore?» chiesi tremando di fronte alla parete del suo corpo possente. «In ogni caso indosso la divisa da medico, come può vedere», replicò, «il camice di fustagno sbiadito coi bottoni lucidati in nichel». Infilò il pollice della mano destra in un’asola per spingere in avanti l’occhio del bottone, affinché mi guardasse ardente. Il bottone saltò in aria e cadde sul pavimento. «Disordine», disse, «tutto passa». Ero completamente annichilito. Dissi il mio nome. «Bene», disse, «abbia la cortesia di espormi la sua richiesta. Ma che non mi venga a raccontare, l’avverto, di avere qualcosa a che fare col morto. Non crederò a niente di insolito. Per lo meno, se proprio ...... 153
Postfazione di Andrea Raos
Gli scrittori davvero grandi sono quelli che sanno rallentare. Fermare il ritmo, dilatare il respiro, aprire dentro la frase spazi e pulsazioni inattese. Creano uno spazio sospeso che argina la morte. Si può rallentare per concisione e per sottrazione, come Pedro Páramo. Oppure – scelta solo in apparenza più ovvia – per dilatazione, come il Fiume senza rive* di Hans Henny Jahnn da cui alcuni di questi racconti sono tratti. È in senso quasi letterale che Jahnn – scrittore dunque tra i più grandi – crea spazi sospesi ad arginare la morte. Temi ricorrenti di questi racconti sono la scomparsa della persona amata e i mille modi per evitarla, rallentarla, congelarla in un attimo senza tempo. Preludono o scorrono interni alla visionaria riattivazione nella già citata opera maggiore, Fiume senza rive, di quella matrice essenziale del pensiero occidentale che è il rifiuto della morte: il mito di Gilgamesh. Esplicitato il mito in chiave omosessuale, Jahnn ne fa la lotta titanica di un uomo per amare il proprio compagno anche oltre la morte. E qui il rallentare diventa punto essenziale: su centinaia di pagine, il protagonista di Fiume senza rive descrive l’agonia, la morte del compagno, e soprattutto il successivo processo di imbalsamazione al quale sottopone il corpo e – nei minimi dettagli – la costruzione del feretro destinato ad accoglierlo. Feretro che poi, negli anni successivi, custodirà in casa “travestito” da cassapanca. In un’interminabile, sconvolgente seduta di ipnosi narrativa, Jahnn raggiunge uno dei suoi vertici artistici e concettuali: la creazione perfettamente laica di uno spazio perfettamente sacro. Uno spazio cioè finalizzato alla sospensione del tempo e delle contingenze e simultaneamente rivolto al qui e ora, all’umanissimo bisogno di far toccare terra al dolore perché se ne scarichi e diffonda la potenza tragica. Di professione, Jahnn era costruttore e restauratore di organi da chiesa; e prima dell’avvento del nazismo e della sua conseguente fuga dalla Ger-
mania, aveva fondato una sorta di “comune” libertaria ante litteram. Poi la fuga, appunto, insieme al compagno: l’isolamento assoluto, il distacco dai confini fisici e soprattutto mentali dell’Europa. L’utopica sospensione di tempo e spazio che la sua opera prefigura – sospensione, come si vede, tutt’altro che indifferente alle tensioni della Storia –, come anche la cattedrale di parole che la difende nel mondo, hanno radici davvero profonde. Così, immagine incastonata nella fusione di mito e autobiografia che è Fiume senza rive, il protagonista di Il tuffatore seppellisce il suo amore contro uno sfondo narrativo che pecca forse per esotismo – ma che comunque pone con forza, e non è poco per gli anni in cui fu scritto, il tema centrale dell’uscita dalle eterne coordinate eurocentriche; così l’orrore della violenza e della sopraffazione è indagato in chiave miticostorica in Il re sassanide; così il tema del doppio, della ricerca di sé (del sé più perfetto) nell’altro, è riflesso nell’intricato gioco di specchi erotici della Storia dei due gemelli. Jahnn scrive complesso, stratificato, asimmetrico, crudamente sensuale e sempre delicatissimo, trasognato, risolutamente non cattolico nel suo non scindere mai mente e corpo – l’interrelazione è sottile: il corpo è sì la sede delle più spericolate sperimentazioni escatologiche, ma queste sono sistematicamente disinnescate da uno “spirito” che, a sua volta, non è altro che un sogno di carne e sangue. Non so quanto sia noto Jahnn in Germania – non molto, sospetto; so invece per certo che i precedenti, sporadici tentativi di renderlo noto in Italia sono tutti caduti nel vuoto.1 Ma non è un caso. La scrittura di Jahnn è una potenza volontariamente staccatasi dal consorzio europeo e umano, ossessivamente creata su uno sfondo d’esilio. Ricorda l’esistenza di mondi lontani e non avvicinabili se non a prezzo di un completo tagliare i ponti con qualunque origine. È un viaggio al termine del quale si muore, come tutti, ma per l’unico motivo che solo una volta morti si può tornare al mondo. È forza d’amore, estranea.
H.H. Jahnn, La nave di legno, trad. di F. Saba Sardi, Rizzoli 1966 [2a ed. Archinto 1994]; Medea, trad. e introd. a cura di L. Monti, Aletheia 2000; La notte di piombo, trad. a fronte di A. Bonacci, Jacques e i suoi quaderni 2001.
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Perrudja
di Ferruccio Masini
Il paesaggio nordico di Perrudja (1929) (il romanzo, al pari del dramma Povertà, ricchezza, uomini e bestie [Armut, Reichtum, Mensch und Tier] e, in parte, del Diario di Gustav Anias Horn [Niederschrift des Gustav Anias Horn] è ambientato in Norvegia) è un frammento cosmico di preistoria: i suoi deserti altopiani, le sue cime di granito, la «tormentante luce plumbea» dei suoi interminati spazi, il respiro gelido dei fiordi e gl’improvvisi sibili e lamenti che risuonano dalle penombre animali e demoniache dell’«inferno autunnale», allorché gli spiriti e i troll, “dall’inaudibile riso del loro volto di roccia”,1 sembrano riscuotersi nei loro antri, sono gli elementi di uno scenario nella cui “profondità” da antica saga scandinava si colloca, non a caso, la storia moderna del suo protagonista, «der zerrüttete Peter»,2 «Pietro lo sconvolto», Perrudja. Gli “elementi” sono la grande anima cosmica di questo libro, percorso dai gemiti misteriosi dei pinastri, quando si annuncia la bufera, e dalla timida ebbrezza del maggio che sembra giungere da un tempo immemorabile «con i suoi miliardi di rosse, dure, piccole increspate foglie di betulla, con una volta celeste colma di soli bianchi, con larve di scarabei, con innumerevoli animali, con un mondo nuovo che ha dimenticato il morire».3 La stessa modanatura architettonica di questa prosa, con i suoi “staccati”, i suoi stenogrammi fantastici, le sue prodigiose ellissi, con le sue sequenze asindetiche di sostantivi e infiniti sostantivati, con i suoi coaguli di aggettivi che ricordano talora la tavolozza cromatica di un Nolde o di un Munch, sembra aprirsi di volta in volta ad un continuo flusso e riflusso di percezioni estatiche e di monologhi interiori, sollevandosi nella compatta valanga delle iterazioni scompositive e delle epifore, con il respiro ritmico di una scabra paratassi bloccata all’improvviso dal dilagare formicolante e sensuale delle sinestesie e delle immagini verbali.4 1
H.H. Jahnn, Perrudja, Frankfurt am Main s. d. [1958], p. 45. Cfr. nota di Jahnn alla 2a ed. del Perrudja, pp. 7-8. 3 Perrudja, p. 36. 4 Confrontando lo stile narrativo del Perrudja con l’Ulysses joyciano e di Die drei Sprünge des 2
L’adolescenza di Perrudja – nato dall’unione di un troll con un essere umano – la sua solitudine catafratta e selvaggia, i primi turbamenti della carne per la vaccara Lina, che si farà invece possedere dal servo Hjalmar, la rivalità con il proprietario terriero Thorstein Hoyer fidanzato della contadina Signe, uccidendo il quale Perrudja si conquisterà l’amore della donna, le nozze con questa, subito infrante per quella «viltà del cuore» che gli ha impedito di confessarle il proprio delitto – tutti questi motivi rappresentano indubbiamente, nella complessa organatura fonologico-narrativa del romanzo, il massiccio centrale. All’oscurarsi, nella parte successiva, dell’orizzonte mitico, nella doppia valenza rituale-sacrificale e nichilisticamente dissolvente del destino di Perrudja e dei suoi momenti di trapasso, subentrano i fantastici domini di una «colonia mondiale» retta da giovani, da uomini forti e pietosi, che nel vagheggiamento del suo fondatore, Perrudja, ormai unito con un vincolo di consanguineità omoerotica a Hein, fratello di Signe, dovrebbe costituire l’unica risposta, resagli possibile dalla favolosa ricchezza di cui è entrato misteriosamente in possesso, alla civiltà industriale e all’incubo delle sue spinte distruttive. Il romanzo resta, in certo modo, incompiuto, in quanto avrebbe dovuto, nelle intenzioni del suo autore, sviluppare alcune situazioni e figure (Signe e Hein), nonché il tema utopico vero e proprio, in un’opera successiva dal titolo uguale o simile.5 Gli avvenimenti politici del ’33 in Germania e soprattutto «lo sviluppo della moderna scienza della natura» – la bomba atomica – hanno troncato definitivamente la speranza di una “guerra contro la guerra”, quale Wang-lun di A. Döblin, uno dei più autorevoli interpreti di Jahnn definisce quello di quest’ultimo «stile dell’ebbra interiorità», in cui si compenetrano associazioni sensuali e intellettuali (W. Muschg, Von Trakl zu Brecht, München 1961, pp. 299 sgg.). Il modulo stilistico dello Jahnn di Perrudja, al quale possono essere avvicinati i modi della «absolute Prosa» propri di un Benn o di un K. Einstein, sottintende, come nel primo Döblin, il netto rifiuto della psicologia (cfr. A. Döblin, Aufsätze zur Literatur, a cura di W. Muschg, Olten e Freiburg im Breisgau 1963, p. 16). Contro l’accusa di Formlosigkeit in Jahnn cfr. W. Emrich, Das Problem der Form in H. H. Jahnns Dichtungen, in Polemik Streitschriften, Pressefehden und kritische Essays um Prinzipien, Methoden und Massstäbe der Literaturkritik, Frankfurt am Main e Bonn 1968, pp. 181-95. 5 Sulle ragioni della mancata prosecuzione del romanzo si veda, oltre alla citata nota prefatoria di Jahnn, la lettera a W. Muschg del 1° maggio 1933. In quello stesso anno Jahnn dichiarerà a quest’ultimo che intende portare a compimento la stesura di Perrudja II, già avviata per un buon terzo, entro la fine del ’34 (cfr. W. Muschg, Gespräche mit H. H. Jahnn, Frankfurt am Main 1967). Il progetto non venne mai realizzato. Nel ’32 erano apparsi in traduzione francese con il titolo Mission remplie (Episode) nella «Revue d’Allemagne» (6. VI, 59), e nel ’64 in «Text + Kritik» (2/3) frammenti della II parte del romanzo. Il materiale inedito del Nachlass, appartenente al Perrudja II, è stato recentemente pubblicato da R. Burmeister per i tipi di Hoffmann und Campe di Amburgo. 182
si era venuta preannunciando nei progetti di Perrudja, presidente dell’assemblea mondiale di uno sterminato Holdingkonzern. L’asse del romanzo, tuttavia, ci sembra graviti in maniera sufficientemente autonoma sul motivo della giovinezza mitica di Perrudja, sul paradigma, cioè, di una Bildung del «non-eroe» destinata a realizzarsi nella Zwillingsbrüderschaft o Blutsbrüderschaft ideale tra quest’ultimo e Hein, alla quale potremmo avvicinare il vincolo che lega, anche oltre la morte, Gustav Anias Horn a Alfred Tutein nel Diario,6 sulla base di un modulo mitico-arcaico indubbiamente presente a Jahnn, quello mesopotamico della amicizia di Gilgamesh per Enkidu, e l’altro, egizio, dell’unione Iside-Osiride.7 È nella figura archetipa dei “fratelli” e dell’Eros virile, su cui s’innesta il mitologema arcaico dello stesso Perrudja, il «fanciullo orfano» studiato da Kerényi,8 che possiamo ritrovare l’architrave della costruzione epico-narrativa del romanzo, concepito come il tentativo, sia pure problematico e contraddittorio, di ribaltare il processo meccanico-desacralizzante della Zivilisation, con la sua conseguente nevrosi d’angoscia (il freudiano «Unbehagen in der Kultur») nell’universo mitico-religioso e di cogliere nell’elementare, nella riduzione ad una «semplice legge», plasticamente espressa dall’idolo neolitico della fecondità, il germe di una palingenesi. L’«invisibile poesia» del «respiro» dei rilkiani Sonetti a Orfeo [Sonetten an Orpheus]9 diventa così, in Jahnn, cifra d’ebbrezza biotica nelle viscere del mondo: «Il mondo era piccolo come una piccola nave grigia. Le stelle erano trascorse. Un velo avvolgeva il mondo. Affinché nessun grido potesse penetrare fino ad esso. Affinché lui, Perrudja, potesse dimenticare. Respirare, respirare. Respirare. Non faceva altro che respirare».10 6 La Niederschrift des Gustav Anias Horn nachdem er 49 Jahre alt geworden war (2 voll., München 1949-50; ora Frankfurt am Main 1959-61) è la seconda parte della trilogia Fluss ohne Ufer, la cui prima parte, intitolata Das Holzschiff, apparve per la prima volta nel 1949, la terza, a cura di W. Muschg, nel 1961 con il titolo Epilog (Frankfurt am Main). 7 Cfr. L. Secci, Il mito di Medea nella tragedia di H. H. Jahnn, in «Sudi germanici», n. s., vol. V, 1967, n. 2, pp. 233 sgg. e H. Wolffheim, H. H. Jahnn, der Tragiker der Schöpfung, Frankfurt am Main s. d., pp. 24 sgg. e 32 sgg. Una nuova stesura del saggio di L. Secci è in Il mito greco nel teatro tedesco espressionista, Roma 1969. 8 K. Kerényi, Origine e fondazione nella mitologia, in C.G. Jung e K. Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, trad. it. di A. Brelich, Torino 1948, pp. 50 sgg. 9 R.M. Rilke, Sonetten an Orpheus, II, 1, in Werke in drei Bänden, a cura di B. Allemann, Frankfurt am Main 1969, I, p. 507. 10 Perrudja, p. 560.
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«Ich verstand von der Philosophie nur Archaisches»11 – afferma Jahnn – e senza dubbio proprio l’ermetica fissità delle divinità chthonie – dalle metopi del tempio di Selinunte alle cariatidi cretesi, alle immagini effigiate dagli artisti mesopotamici o egizi – e non la chiara modulazione intellettuale del dio delfico sembra costituire la nota più profonda di quella oscura totalità primordiale nella quale rifluiscono i motivi occultamente sacrali e tragicodemoniaci dello Jahnn tardoespressionista di Perrudja. Tutta la dimensione mitica di Jahnn s’impernia sulla ambiguità strutturale della sacralità arcaica, la quale appunto, come risulta dallo stesso significato delle parole sacer e ἃγιοςάξεσθαι, esprime l’ambivalenza della “consacrazione” e del divieto, della venerazione e del religioso timore e tremore dinanzi al mysterium tremendum. Giocando sulla rigorosa separazione di etica e sacralità Jahnn compie, sotto la maschera del mito, le sue trasgressioni contro i codici etico-sociali della civiltà, le istituzioni fabbricate dalla ragione illuministico-borghese, e le provocazioni “innaturali”, le visioni di mostruosa crudeltà e di assoluto orrore dello Jahnn drammaturgo rispondono esattamente al proposito di opporre allo spazio storico uno spazio cosmico-erotico in cui le stesse figure dell’incesto, dello stupro, dell’assassinio, della sodomia, dell’omosessualità si caricano di una pregnanza rituale, di una virtualità magica,12 tendono cioè a risarcire quell’altro «incesto», quell’altro «stupro contro le cose»13 perpetrato dall’homo sapiens. L’organo centrale, il medium totemico di questa regressione o catabasi nelle profondità del mito matriarcale-chthonio (il rapporto dello scrittore di Amburgo con Bachofen, da un lato, e con Klages, dall’altro, è assai indicativo in questo senso) è costituito dal “corpo”. Jahnn denuncia la scissione operata in particolar modo dal cristianesimo (Hernán Cortés è chiamato «orante macellaio»14) – ma potremmo parlare, con Nietzsche, della intera tradizione platonico-cristiana – all’interno dell’essere individuale, 11
H.H. Jahnn, Eine Auswahl aus seinem Werke, a cura di W. Muschg, Olten e Freiburg im Breisgau 1959, p. 549. 12 Nei suoi Tagebücher Musil sottolineava l’ambivalenza del sentimento amoroso tra fratelli, che può rimandare sia alla perversione che al mito, e acutamente avvertiva come alla radice di questa ambiguità ci fosse l’accordo artistico stabilito tra due elementi così radicalmente diversi come quello «arcaico» e quello «schizofrenico». (R. Musil, Tagebücher, Aphorismen Essays und Reden, Hamburg 1955, p. 355). 13 G. Benn, Ithaka, in Gesammelte Werke in vier Bänden, a cura di D. Wellershoff, Wiesbaden 1958-61, II, p. 298. 14 Perrudja, p. 561. Ma si veda l’intero passo. 184
«portatore dell’esistenza», tra cadavere e anima, tra sangue e spirito, tra una parte impura e animale, perciò malvagia, e un’altra spirituale, degna d’immortalità. Al privilegio di un’anima «apocrifa», «celebrata nelle cattedrali e in mostruosi pensieri di resurrezione»,15 Jahnn oppone il circolo mitico di un’onniavvolgente unità animica-corporea, alla quale è possibile pervenire solo se si valicano a ritroso i millenni, sprofondando nella Grecia preomerica e, al di là di questa, nelle antichissime civiltà sumerico-babilonesi (l’epopea di Gilgamesh). È il corpo, come plesso simpatetico di omologie anthropo-cosmiche, l’axis mundi da cui si dipartono i modi di una partecipazione estatica e orgiastica a questa totalità concepita come ritmica vicissitudine di vita-morte, come ripetizione sacra del Geschehen mitico, in cui la fine si salda al principio in un perpetuo ricominciamento. Ed è l’abisso di questa circolarità, che non può essere mai distrutta né ricreata né minimamente alterata nella pulsazione immutabile del suo divenire, il fondo tellurico sul quale si protende, con i suoi avvertimenti precoscienti, i suoi insondabili presagi, le sue oscure fascinazioni, quell’«Eros cosmogonico» che – come dirà Klages – «celebra le sue orgie nello spirare delle burrasche primaverili, dinanzi al firmamento disseminato di stelle, nel croscio della grandine, nel muggito della risacca marina, nei lampeggiamenti del “primo amore”, ma anche nell’abbraccio del destino, che stritola chi lo subisce».16 La «sfera del presessuale vissuto come pansessuale» – di cui parla giustamente Mittner a proposito del Perrudja 17 – è da intendersi proprio in senso klagesiano, come quello strato profondo dell’Eros18 che accoglie in sé l’ebbrezza del cominciamento al pari di quella della distruzione e che trova la sua visibilizzazione, ma anche la sua trascendenza, nel corpo, questo «canone di ciò che è naturale», questo «geroglifico fatto di fantasmi» – come dirà Benn –. Il significato cosmico-tellurico del “corpo” lo ritroviamo appunto in 15
H.H. Jahnn, Der Dichter und die religiöse Lage der Gegenwart, cit. da H. Schirmbeck, Die Formel und die Sinnlichkeit, München 1964, pp. 213-14. 16 L. Klages, Vom kosmogonischen Eros, Jena 1930, p. 55. 17 L. Mittner, Storia della letteratura tedesca dal realismo alla sperimentazione, 2 voll., Torino 1971, II, p. 1283. 18 Siamo ben lontani dall’Eros platonico, cui erroneamente rimanda E. Lohner a proposito dell’Erlebnis erotico che trascenderebbe, secondo Jahnn, il senso di beatitudine del possesso corporale per attingere uno stato «sacro» a partire dal quale si dovrebbe giungere nell’immediata prossimità del divino; cfr. E. Lohner, Hans Henny Jahnn, in Deutsche Literatur im 20. Jahrhundert, 2 voll., a cura di O. Mann e W. Rothe, Bern e München 1967, II, p. 321. 185
una pagina di quel Benn che per tanti riguardi è vicino alle concezioni mistiche di Jahnn: «[…] nella personalità [lo spirito] resta per sempre legato col corpo, uniti per sempre col corpo nella sua storia per formare l’essere – sempre ci imbattiamo nel corpo, nella sua enigmatica funzione, nel soma che porta i misteri; di antichità originaria, straniera, non trasparente, totalmente rivolto alle origini, carico di un patrimonio ereditario di tempi ed eventi misteriosi e inesplicabili, eternamente sicuro nello spazio, nient’altro che esperienza del fondamento eterno e regolatore eternamente naturale della norma».19 Attraverso il nesso magico-totemico del corpo si dischiude l’ambito caratteristico della visione sacrale-primitiva dove piante, animali, uomini, demoni e dèi non appaiono come esistenze distinte e saldamente individuate, ma risultano coinvolti nel gioco di un’incessante metamorfosi, che fa trapassare occultamente nell’uno le forme dell’altro (σύμπνοια πάντα). «Particolarmente nei miti delle religioni arcaiche – nota Cassirer – la raffigurazione teriomorfa precede quella antropomorfa, come è stato riscontrato a proposito della religione egizia nella mitologia degli Arcadi e anche negli stessi Veda».20 Su questo determinato aspetto dell’interscambiabilità magica, che rinvia ad una segreta rigenerazione di linfe vitali, si appoggiano i grandi miti epifanici di Jahnn. La puledra Shabdez di Perrudja – come la cavalla Ilok di Horn o la Falada di Manao in Povertà, ricchezza, uomini e bestie – può benissimo ricordare la Demetra dalla testa equina, con tutte le implicazioni relative sul piano dell’Eros. Allorché Perrudja accarezza «con grande amicizia» il muso della sua cavalla, si sprofonda nel mistero sensibile della physis, in una sorta di identità anthropocosmica espressa in cifra teriomorfa; nell’abisso cioè di quella «vielgestaltige Mutter»,21 da cui proviene il piacere e lo spasimo, l’ebbrezza e la morte. Si legge nel romanzo: «Amatemi, amatemi, trovatemi bello come io vi trovo belli. Benché separante sia stata tra noi l’inimicizia delle speci. Esse erano divise da migliaia d’istinti e di sensi volti in direzioni diverse, dalla formazione del loro corpo. Leggi. Ma Perrudja cercava di gettare un ponte sopra i cupi abissi del sangue. Noi siamo cresciuti ed eravamo una volta come 19
G. Benn, La costruzione della personalità, in Saggi, trad. it. a cura di L. Zagari, Milano 1963, pp. 49-50. Ma si veda anche ibid., pp. 34-35 (Intorno alla natura della poesia). 20 E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, 4 voll., trad. it. di E. Arnaud, Firenze 1961-66, II, p. 273. 21 Perrudja, p. 58. 186
seme ed uovo».22 L’amore di Perrudja per la sua puledra, con cui si ripristina il mito di un’originaria innocenza, di una estatica simbiosi magico-organica trasfigurata nella immagine del centauro («Quando un uomo prende una puledra essa genera? Centauri»),23 più che rinviarci alla goldene Zeit di Novalis o alla fiabesca convivenza animale negli idilli pittorici di Marc, adombra il ritorno al «seme», un ritorno che dal punto di vista del pensiero arcaico ha una sua tipica struttura fondativa. In questo senso la puledra è né più né meno, per Jahnn, che un «mitologema dell’origine» (Kerényi), in quanto il mondo come totalità “parla” a Perrudja proprio a partire da questa ἀρχή κατ᾿ἐξοχήν e in questo principio rifluiscono tutte le cose come ad un centro «intorno a quale e partendo dal quale tutto il nostro essere e tutta la nostra esistenza si organizzano».24 Si potrebbe anche dire che nel mitologema del cavallo si esprime quella totalità infrasoggettiva del Selbst in cui l’io, unitamente alla sua regione inconscia, è ricompreso (per questo Jung parla del Selbst come «personalità sopraordinata»25); nel simbolo teriomorfo, infatti, si ha una proiezione del Selbst, o meglio della sua parte inconscia che non può pervenire alla coscienza se non indirettamente. Individuare all’interno della dimensione mitico-arcaica, fondamentale nell’opera giovanile di Jahnn fino a Perrudja, questa serie di correlazioni magico-semantiche rinvianti alla struttura del mito delle origini implica certamente una collocazione del mondo artistico jahnniano in quel vasto contesto storico-culturale che dal Nietzsche dionisiaco della Nascita della tragedia [Geburt der Tragödie] e dello Zarathustra si estende fino all’Espressionismo vitalista di un Benn (Itaca [Ithaka]), di un G. Kaiser (Il corallo [Die Koralle]), dei prenazisti Bronnen e Johst e affonda le sue radici nella polemica irrazionalista delle «Lebensphilosophien», nel ricupero del primitivo contro i feticci di un “mondo senza immagini”, nella resurrezione, non priva di inflessioni reazionarie, del mito, da W. Otto a K. Jaspers, da Kerényi a M. Eliade. Indubbiamente, nella posizione di Jahnn, si riproduce la stretta connessione tra la Kulturkritik dei primi decenni del Novecento e l’irrazionalismo, vale a dire, la rivendicazione, più o meno esplicita, di un modello di civiltà
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Perrudja, p. 57. Ibid., p. 44. 24 K. Kerényi, op. cit., p. 23. 25 C.G. Jung, Per la psicologia dell’archetipo del fanciullo, in op. cit., p. 229. 23
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precapitalista, agrario-feudale, che per non lasciarsi integrare nell’egemonia dell’“economico” rifiuta i passaggi storico-razionali di uno sviluppo globalizzante della società capitalistico-borghese, richiamandosi, da un lato, al veicolo mitico della creatività individuale come falsa alternativa al mondo capitalistico di produzione, dall’altro, alla antitesi tra un uso mistificato, in senso ideologico, della ragione e una fuga à rebours, sia dato o no a questa il nome di utopia. Ciononostante la figura di Jahnn è essenzialmente quella di un Einzelgänger, di un solitario, che allo sfaldamento neoromantico della Jahrhundertwende preferisce il monumentale barocco e anche l’angoscia del barocco di fronte all’annientamento,26 così come antepone al pathos l’astrazione o la stilizzazione mitica, alla «Sympathie mit dem Tode» la ripetizione rituale che piega il divenire al ritmo e alla volontà del “ritorno”. «Il mio compito interiore sembra essere stato da sempre quello di tradurre le estrinsecazioni della mia esistenza nell’astratto, non già nel patetico».27 E tuttavia l’arte di Jahnn «cresce sul campo dell’Eros». Trasferito dal dominio delle emozioni cosmiche e delle percezioni primordiali, del sapere “antepredicativo”, in quello delle astrazioni, il principio dell’Eros acquista uno spessore non meramente mitico. Diventa cioè la rivolta contro la norma28 e gli «steccati della morale», la risposta dell’artista «messaggero del principio creativo» al Maschinenmensch e al Kulturmensch, protagonista di una Kolonialgeschichte in cui si esprime la vocazione alla violenza tipica di una società repressiva, dissumulata sotto l’ipocrisia di una morale classista, la sistematica sopraffazione dell’uomo occidentale sul non-civilizzato, sul primitivo. La ragione strumentale e la razionalità tecnologica, di cui parleranno Horkheimer e Marcuse, rivelano tutta la loro segreta contestura di violenza e di predominio, allorché si fa chiara nei meandri della coscienza borghese quella “via all’interiorità” che sia pure attraverso i meandri dell’orrore mitico, del furor eroticus e dell’orgia cultuale tende a identificare la pura creatività – in cui sta l’innalzamento e il potenziamento della vita – con la rottura di
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Nota Jochen Vogt che la tendenza di Jahnn alla tematica della morte e della putrefazione, le descrizioni dei riti di mummificazione e di seppellimento ecc. rimandano al mondo concettuale e immaginoso del barocco, come pure ad un consapevole collegamento alle mitologie e ai miti dell’antico oriente. J. Vogt, Struktur und Kontinuum. Über Zeit, Erinnerung und Identität in H. H. Jahnns Romantrilogie «Fluss ohne Ufer», München 1970, p. 12. 27 H. H. Jahnn, Über den Anlass, und andere Essays, Frankfurt am Main 1964, p. 9. 28 Aufgabe des Dichters in dieser Zeit, ibid., p. 95. 188
ogni convenzione, dal puritanesimo piccolo-borghese al cannibalismo, travestito da ordine civile, della ratio. Il tentativo di Jahnn mira a ricostruire nell’identità arcaica, fisiologica, ateleologica di materia e forma, la base di una reintegrazione umana che passi, per così dire, attraverso la integrazione con le origini, con la totalità cosmico-simpatetica, e quindi non si sottragga alla possibilità di evocare forme «che deviano nel tragico»,29 poiché la stessa oscura scaturigine dell’evento creativo è proiettata negli albori dell’evento mitico e anche nell’antico orrore dei suoi conflitti abissali. L’individuazione dell’evento mitico-epifanico come forma del mistero della vita e perciò come guisa di quell’elementare flusso di Erlebnisse affioranti nella forma della creatività artistica (lo Schöpfungsprinzip) si collega, in Jahnn, al ricupero dell’homo religiosus affondato in un’antichità precristiana o addirittura anticristiana, nella quale soltanto è possibile l’integrazione tragica di soggetto-oggetto, il dischiudersi di una prospettiva utopica che opponga paradossalmente alla consapevolezza atroce della morte e della dissoluzione corporale l’innocenza del giovane che vive come se si sapesse immortale, alla realtà razionale della morte la sua “irrealtà” mitica. Si direbbe che Jahnn abbia cercato di superare il dualismo freudiano di Eros e Thanatos (seconda Trieblehre) sciogliendone la conflittualità in una convergenza non metapsicologica, come avviene in Freud, bensì mitica, per cui la “discesa nella morte”, consistente per quest’ultimo nell’aspirazione della sostanza vivente alla quiete assoluta dell’inorganico, si trasforma nell’assolutizzazione estetica della tendenza autoconservatrice dell’Io, espressa come sublimazione plastico-monumentale e “armonicale”. Si giunge così alla riscoperta dell’homo religiosus sotto la maschera del primitivo e quindi al tentativo di reagire, mercé il ricorso al paradigma “armonicale” del “lambdoma”30 – che mescola insieme matematica pitagorica e teologia apofatico-nichilista – a quella Enthumanisierung del mito per la quale, nella trascrizione moderna degli antichi cicli tragici (l’“Orestia” per esempio), si ha il capovolgimento, in una sorta di “fuga nel vuoto”, della prospettiva classico29
Ibidem. Il lambdoma è un diagramma con il quale, nel sistema armonicale elaborato da Albert von Thimus nell’Ottocento e da Hans Kayser (al quale si rifanno le ricerche dello stesso Jahnn dopo il ’29) si vuol rappresentare con il punto o/o, posto al di fuori del diagramma stesso, il principio originario che agisce senza agire (= il Tao) in tutti i valori numerici, vale a dire si esprime come universale legge della natura organica ed inorganica, nonché dello stesso mondo artistico. Cfr. R. Wagner, Versuch über den geistesgeschichtlichen und weltanschaulichen Hintergrund der Werke H. H. Jahnns, in «Text + Kritik», 2/3, novembre 1970.
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umanista (Goethe), dove la catarsi apollinea del mito rendeva possibile la coincidenza di un doppio divenire, quella del dio nell’uomo e dell’uomo nel dio.31 Un tentativo, questo di Jahnn, troppo nebuloso e troppo compromesso dalle suggestioni irrazionaliste, per non essere destinato al fallimento. Quella “via all’interiorità”, con cui lo scrittore di Amburgo cerca di ridestare l’entelechia mitica della gioia e del possesso cosmico, porta ancora una volta alla “disumanizzazione”, cioè al riconoscimento che l’uomo, non senza, forse, una sua leverkühniana «voluttà infernale», si trova in balia, al pari delle cose e degli animali, di una forza oscuramente avversa che lo dilania e progressivamente lo distrugge. Si è voluto riconoscere a Jahnn il merito di aver individuato la genesi del nichilismo.32 Esemplare, in questo senso, sarebbe lo sgretolarsi del rapporto amoroso che lega Perrudja a Signe Skaerdal ad opera di quel «secondo Io esangue», di quell’automutilazione etica nel cui sottile rovello si annebbia la certezza di un’appartenenza carnale dell’uno all’altra, profonda più di qualsiasi ragione. Dall’aver smarrito il senso di quella voce “tellurica” che si leva dal “cupo antro di diamante dei visceri”,33 nasce quella condanna alla separazione che va ben oltre l’allontanamento di Signe da Perrudja, giacché è la separazione stessa dalla vita. È l’inizio di quel disgusto, di quella «nuova passione fatta di tedio» in cui precipita Perrudja come un cadavere che «sorride mentre si va disfacendo» e che verrà infine divorato dal mare al termine del suo lento inabissarsi.34 Anche se Jahnn sembra darci in questa vicenda una versione del nichilismo intaccante la tradizione cristiana e umanistica, concepito come ipostasi di sistemi di valori in permanente conflitto reciproco e quindi come dissoluzione relativista, non si può dire, tuttavia, che la sua prospettiva abbia una consistenza d’analisi tale da collocarla su una linea più avanzata rispetto, poniamo, alla nietzscheana diagnosi critica del nichilismo. Lo Jahnn poeta delle primavere nordiche e delle torbide mescolanze umanoferine, della «crudele fraternità»,35 cerca vanamente nel mito un antidoto alla «catastrofe razionale» e resta pur sempre legato a quella cifra della profondità, 31
O. Seidlin, Von Goethe zu Thomas Mann, Göttingen 1963, p. 213. W. Emrich, Vorwort a J. Meyer, Verzeichnis der Schriften von und über H. H. Jahnn, Neuwied a. R. e Berlin 1967, p. 14. Per una bibliografia jahnniana si veda, oltre a questo repertorio, anche C. Hill, The Drama of German Expressionism. A German-English Bibliography, Chapel Hill 1960 e J. Meyer, Jahnnkritiker, in «Text + Kritik», 2/3 1964, pp. 38-45. 33 Perrudja, p. 392. 34 Ibid., pp. 404-5. 35 H. H. Jahnn, Eine Auswahl aus seinem Werke, p. 571. 32
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della «Tiefe» (la «Urwelt der Mütter») che sotto l’involucro del complesso prelogico, e quindi del ricupero di una «vitale Not» necessaria per reintegrare l’uomo nelle sue tensioni creative, finisce per darci, ancora una volta, una metafora neopagana del nichilismo. Le teoriche “armonicali” di Jahnn, in cui lo sfondo abissale del sacro cerca una sua noetica trasfigurazione e in cui le fluttuazioni orgiastiche dell’elemento tra Eros e Thanatos tendono ad una stabilità di visione religiosa, permangono estranee a quel fondamentale processo regressivo nella cui totalità – come bene dirà Bloch a proposito della «libido acherontica» di Jung – sono fatalmente coinvolti il bene e il male, il cielo e l’inferno e in cui la regressione non è soltanto «metodo» ma anche «contenuto».36 Sono le «dimensioni di diamante» della creazione, concepita irrazionalisticamente come potenza onnifondante, a rendere vano il gesto con cui il pacifista antirazzista e umanitario Jahnn vorrebbe benedire «foreste e animali»: il mitologema inghiotte nel suo geroglifico l’aspirazione etica di chi dice di aver scelto il partito dei deboli e dei vinti e lo condanna a ripetere la rassegnata epigrafe di un mondo ingiusto: «Le cose sono quel che sono».37
Nota al testo Il saggio di Ferruccio Masini è originariamente apparso in: Il romanzo tedesco del Novecento, a cura di G. Baioni, G. Bevilacqua, C. Cases e C. Magris; Einaudi 1973; pp. 205-216. Si ringraziano Costanza e Sabina Masini per averne consentito la ripresa nel presente volume.
36 E. Bloch, Aus der Begriffsgeschichte der (doppelsinnig) «Unbewussten», in Philosophische Auf sätze, Frankfurt am Main 1969, p. 113-114. 37 Niederschrift, II, p. 726.
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Nella stessa collana
Arno Schmidt, Dalla vita di un fauno Marco Palasciano, Prove tecniche di romanzo storico Maurizio Rossi, Mare Padanum Walter Kempowski, Tadellöser & Wolff. Un romanzo borghese Arno Schmidt, Brand’s Haide Giovanni Cossu, Turritani Gherardo Bortolotti, Tecniche di basso livello Arno Schmidt, Specchi neri Antonio Pizzuto, Sinfonia ( 1927 ) Ulrike Draesner, viaggio obliquo Marco Ceriani, Memoriré
Hans Henny Jahnn (1894-1959) è stato uno dei maestri segreti della prosa del Novecento. Le sue vaste architetture narrative terminano nel delta di Fiume senza rive * (1949-61). In italiano sono apparsi: La nave di legno (Rizzoli 1966; Archinto 1994), Medea (Aletheia 2000), La notte di piombo ( Jacques e i suoi quaderni 2001).
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«Non c’è nessun nesso», disse Ajax von Uchri, «la morale è un elemento decorativo. Vengono uccise migliaia di persone tutti i giorni, sulle strade, nelle miniere, nelle fabbriche, miserabili che muoiono di fame o vanno in rovina; periscono a centinaia di migliaia perché è giunta la loro ora. Chi riflette sulle disgrazie trae conclusioni errate. Il corso degli eventi segue leggi spietate ma non ha una morale. Le religioni e le nazioni che sono state complici di milioni di assassinii declinano secoli dopo, e non perché subiscano vendetta per i loro crimini. I vendicatori sono altri, a loro volta già da annoverare tra i criminali. L’uomo ha solo un’anima presuntuosa; al posto di una vera esistenza ha una ragione che si lascia violentare – che sembra essere destinata solo all’abuso – non a correggere la creazione in virtù della misericordia».
ISBN 978-88-89312-59-9
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